#narrativa su sensi di colpa
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pier-carlo-universe · 6 days ago
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“Io ti salverò” di Simona Fruzzetti: un thriller psicologico tra segreti e ossessioni. Recensione di Alessandria today
Un romanzo avvincente che scava nei traumi del passato e nella ricerca di verità inconfessabili, ambientato nella suggestiva cornice dei boschi del Maine.
Un romanzo avvincente che scava nei traumi del passato e nella ricerca di verità inconfessabili, ambientato nella suggestiva cornice dei boschi del Maine. Un viaggio nel passato per svelare la verità “Io ti salverò” di Simona Fruzzetti è un thriller psicologico che si apre con la misteriosa scomparsa di Emily Evans, una bambina di soli otto anni, a Spring Lake nel 1995. Ventitré anni dopo,…
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colachampagne3 · 1 year ago
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Ho pensato ai finali delle orufrey per molto tempo e avevo pensato a un finale pieno di vendetta per Prima di partire per un lungo viaggio perché di solito tolgo lo spirito vendicativo di Qifrey per concentrarmi su altri suoi aspetti che vengono nascosti dal suo passato, ad esempio mi piace molto come si comporta da figlio nella fase ribelle (o più nella fase "quanto è cringe mio papà") con Beldaruit eccetera.
Nel primo finale che avevo in mente per Prima di partire per un lungo viaggio, Qifrey convinceva Olruggio a portarlo all'interno della cupola e strappava via il suo occhio dai suoi abitanti senza pensare nemmeno alle conseguenze delle sue azioni (doveva mettere da parte il senso di colpa verso Beldaruit morto, ad esempio, e mettere in secondo piano i sentimenti di Olruggio e non pensare che i mostri intorno alla cupola ci sono ancora, ci sono degli attacchi anche all'interno della cupola e persone innocenti possono morire senza quell'occhio), perché volevo una storia per dire "una nazione non si può basare sul sacrificio sul sacrificio di qualcuno, anche se questo qualcuno è soltanto una persona". Non è giusto che qualcuno abbia tolto l'occhio a Qifrey e penso che avrei voluto inquadrare la scelta di Qifrey di riprendersi quello che era suo non in modo egoistico quanto per pura e semplice giustizia, con Olruggio al suo fianco e tanti sensi di colpa per entrambi, ma anche una qualche giustizia.
Non ho optato per questo finale perché volevo qualcosa di più soffice che mi permettesse di mettere al primo posto i sentimenti di entrambi. Ho dovuto fare i salti mortali per reinquadrare la narrativa nella mia testa. Non è difficile mettere al primo posto il rapporto tra Olruggio e Qifrey o tra Qifrey e Beldaruit, anzi, mi piace mostrare il loro lato tenero, soprattutto quello di Qifrey, mi sono messa a lavoro appena ho preso la decisione e ho cercato di smussare il suo spirito vendicativo per sostituirlo con il suo attaccamento per Beldaruit prima e per Olruggio poi, ho raccontato un po' della vita di Olruggio come persona che viveva dentro la cupola per dare un po' più di contesto per quello che erano almeno i bambini normali (o chi in quella cupola è arrivato più tardi) ma visto che sto scrivendo una orufrey ho cercato di tagliare corto e quindi ho ottenuto quel primo capitolo striminzito.
Speriamo le cose vadano bene adesso che sto scrivendo l'ultima parte della storia.
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cinquecolonnemagazine · 2 years ago
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URU di Fabio Carbone
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Una creatura misteriosa turba il sonno di Paolo. Si tratta di un essere presente in molte culture contadine, inquietante e dalle unghie ricurve. È un essere reale o la fantasia di Paolo. In URU di Fabio Carbone, l’autore ci svela una serie di misteri  Folklore salentino URU di Fabio Carbone edito da Fernandel editore è una storia accattivante sui nostri timori, che intreccia la vita del protagonista alla tradizione popolare. Presente e passato avvolgono l’esistenza di Paolo in un contrasto sempre più evidente tra due mondi, quello della morente società contadina, e quello cinico in cui viviamo. Sullo sfondo di un Salento fatto di campagne abbandonate e invase dai rifiuti, incombe una strana morte, forse un omicidio, sul quale indaga la polizia, ma senza esito.  La vita di Paolo è scandita da una presenza misteriosa, una creatura del folklore popolare che turba le sue notti con un angosciante ticchettio delle unghie sul pavimento per annunciare la sua presenza. Poi l’incontro sconcertante. Una notte Paolo si sente soffocare e, nella penombra della camera, gli sembra di vedere un’enorme bestia acquattata sul suo petto che lo scruta. L’incontro dura pochi istanti. La creatura balza via lasciando Paolo in preda all’angoscia e allo sgomento. E’ stata un’allucinazione? E’ una creatura vera come dicono i contadini?   Fabio Carbone è nato nel 1986 e vive a Guagnano, in provincia di Lecce. Laureato in giornalismo, è un analista di contenuti radiotelevisivi. Tra il 2016 e il 2020 ha diretto la casa editrice Ofelia, da lui fondata, curando la pubblicazione di testi di narrativa di autori italiani, esordienti e non. Uru è il suo primo romanzo. URU di Fabio Carbone Abbiamo avuto il piacere di scambiare qualche battuta con l’autore che in questa bella intervista ci svela l’origine dell’uru, ci racconta qualcosa in più sulla trama del suo romanzo e ci parla di scrittura.  La creatura misteriosa del suo romanzo è un personaggio del folklore salentino. Ci può raccontare come è nata l’idea di tormentare con questo spiritello il suo protagonista? I racconti sull'uru, che assume innumerevoli denominazioni diverse da paese a paese, sono molto presenti nella nostra tradizione popolare. Mi ha sempre incuriosito molto sentirne parlare non solo dagli anziani, ma anche da persone più giovani che riferivano dei loro incontri notturni con questa creatura. Mi affascinava, in particolare, la commistione tra realtà e fantasia che caratterizzava questi resoconti che spesso venivano riportati come fatti veri. Da lì è nata l'idea di calare questo elemento fantastico, legato al passato, in un contesto contemporaneo. Questo gioco letterario mi ha portato a ridefinire un po' l'aspetto e la natura dell'uru rispetto alla tradizione salentina, in cui questa creatura si presenta per lo più come un folletto dispettoso. Nel mio romanzo, pur mantenendo molte caratteristiche in comune con l'uru delle credenze popolari, su tutte la capacità di provocare paralisi del sonno e incubi, questa creatura assume dei tratti zoomorfi e ha un profondo legame con le sue “vittime”, rappresentando l'incarnazione delle loro inquietudini, dei loro timori e sensi di colpa. In URU c’è anche spazio per un omicidio. Possiamo considerare il suo romanzo un giallo a tutti gli effetti? Direi di no. Nel romanzo c'è un omicidio con relativa indagine da parte di un commissario, ma questo non è l'elemento centrale della trama, che è invece il percorso psicologico che il protagonista Paolo compie per mezzo dell'uru e che conduce il lettore a riannodare i fili del passato irrisolto del ragazzo. Scrivendo URU, non mi sono posto in un orizzonte di genere e farei fatica a dargli un'etichetta precisa in tal senso. Sicuramente ci sono elementi di fantastico e new weird, di noir più che di giallo e, per alcuni tratti, di grottesco. Spero di aver mescolato bene questi ingredienti. Con la sua storia lei ha deciso di raccontare due mondi in contrapposizione. Incuriosiamo un po’ in nostri lettori? Di che mondi si parla? Sullo sfondo della storia, sotterraneo e simbolico, si svolge un conflitto tra una società contadina, arcaica e morente, e la contemporanea società basata sul terziario avanzato, che ritiene di aver definitivamente superato e cancellato la cultura e le credenze del mondo che l'ha preceduta. La comparsa nella storia dell'uru, che è espressione delle credenze di quel mondo arcaico, rappresenta un cortocircuito che rimette in discussione le presunte certezze della contemporaneità, costringendola a fare i conti con un passato che si pensava archiviato e che si ripresenta invece come profondamente insoluto. Questo conflitto si riflette tanto sulle vicende personali del protagonista, quanto sulle vite degli altri personaggi, ingranaggi di un mondo che sembra essersi inceppato in un sistema economico che favorisce il cinismo e l'isolamento sociale. Lei è un giornalista e URU è il suo primo romanzo. Secondo lei l’abitudine alla scrittura giornalistica atrofizza un po’ l’impeto creativo necessario ai romanzi? Tutt'altro. Attualmente lavoro come analista di contenuti radiotelevisivi, ma all'università ho studiato scritture giornalistiche e ho avuto in passato qualche breve esperienza nella carta stampata. Il rapporto tra giornalismo e letteratura è da sempre molto stretto e proficuo, gli esempi di grandi giornalisti-scrittori (e viceversa) sarebbero innumerevoli. Credo piuttosto che dominare i diversi generi giornalistici, dall'articolo di cronaca al reportage, costituisca una ricchezza di strumenti che consentono a uno scrittore di essere maggiormente versatile e creativo. Certo, per stimolare la fantasia è comunque necessario che la pratica della scrittura sia accompagnata dalla lettura e da altre esperienze estetiche. Tirando le somme, le è piaciuta l’esperienza di scrittore di romanzi? Pensa di riprovarci con un nuovo libro? Per me è un'esperienza nuova e, almeno per il momento, molto piacevole. È la prima volta che mi trovo a condividere con un pubblico così ampio quello che scrivo e, dal confronto che ne sta scaturendo, spero di raccogliere spunti utili a perfezionare la mia scrittura. Finora la risposta dei lettori è stata positiva, non è mancato qualche appunto che mi ha stimolato a riflettere su alcune mie scelte stilistiche. Cerco sempre di accogliere le critiche quando sono ragionate e costruttive. Per il futuro, sicuramente mi piacerebbe proporre qualcosa di nuovo ma non ho fretta, mi prenderò il tempo che sarà necessario. Read the full article
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falloperlasignoragrassa · 6 years ago
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Nicola Laferocia - “La gioia”
Non sarò mai una giornalista culturale né una critica letteraria perché ho l’impressione che le cose mi interessino sempre troppo nel microlivello impenetrabile che ha la forma delle ossessioni. Tipo qualche mese fa che ho contattato uno dei direttori di Minima & Moralia per sottoporgli una mia idea su un’unica pagina dell’ultimo libro di Walter Siti. Sono perennemente dentro l���economia della pagina, mai del testo. Perimetro troppo largo, campo da gioco a perdita d’occhio, ipotesi che difficilmente reggono. mi interessa lo stile e il linguaggio quando si tratta di narrazione, e i compromessi con la verità e la retorica quando si tratta di non fiction narrativa. e questo è quanto. Di “La ferocia” di N. Lagioia credo sia piuttosto scontato dire che è un’opera magna, che hanno cercato di appioppargli il munificente riconoscimento di primo esemplare di GRI (Grande Romanzo Italiano) e che ha vinto lo Strega a man bassa 4 anni fa. O che è ambientato tra Bari e Taranto, o che alcune atmosfere sono da incubo. O che l’etologia, che si intensifica nelle apparizioni sconnesse soprattutto verso la fine del libro in pagine con un breve testo incastonato al centro, è in realtà un modo per far dire al libro che oltre Clara, oltre Michele, oltre i Salvemini c’è tutto un ecosistema, dalle fogne alle vie aeree, che è testimone dello scempio del paesaggio naturale, in una bislacca dicotomia natura-cultura (cultura come tecnica, apportata dal padre di famiglia, palazzinaro rampante e spericolato, work-addicted e pieno di sensi di colpa: il tipico padre italiano quando il lavoro c’è). O che la fisionomia di Clara ha un portato di femminile arcaico, donna mistero matrioska che pagina dopo pagina dispiega strati di carne e psiche impensabili all’inizio, quando la si inquadra insanguinata e nuda di notte a bordo strada, poco prima di morire. No, non dirò né metterò a frutto niente di tutto ciò, io ho un solo punto fisso riguardo a questo libro: un certo tipo di determinismo e un certo tipo di inquadratura che vanno di pari passo.
Gli oggetti e le situazioni, nella prosa di Lagioia, hanno una preminenza a mio parere grande. Quando si sta per svolgere l’azione (e quando la costruzione sintattica si fa più serrata e abbonda di punti fermi per dare l’idea di stacchi di camera netti), il punto di vista da cui la scena stessa diparte è un primissimo piano di un oggetto a cui, solo in un secondo momento, appare accanto una fattezza umana (una gamba, un braccio, una mente) che l’azionano, che la manipolano, che ci hanno a che fare (in senso quasi heideggeriano). e questo è per quello che riguarda l’inquadratura prescelta. Ma non solo. La presenza umana che dà loro una destinazione d’uso è quasi sempre presentata nella forma passiva del verbo, in modo che sembri che l’oggetto fosse là da tempi immemori, anticamente posto nel mondo (quasi ribaltamento natura-cultura) e che l’umano sia sopraggiunto solo in un secondo momento. I due piani, ontologico-letterario e estetico-rappresentazionale, si coniugano in questa scrittura difficile per certi versi, mai cristallina, che non si lascia prendere sottogamba né leggiucchiare né prendere poco sul serio né scambiata per docile compagna di serate passate sul divano. La concentrazione richiesta dalla mano di Lagioia è da affinare, il cielo lo benedica. Non so se è il GRI, se è un GRI, ma la fatica viene ripagata da una storia scritta benissimo, lineare nello scomporsi delle parti da principio, e poi sempre più zibaldone di punti di vista diversi, dal topo di fogna che attacca la gatta del protagonista, fino a quella galassia di uomini che ruotano attorno allo scempio del corpo della protagonista.
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jaysreviews · 8 years ago
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AvX: la recensione 6 Conclusione: Conseguenze e Marvel NOW! I fumetti sono uno dei pochi luoghi in cui è possibile pianificare quello che succederà. Questo permette di creare coesione, di far si che le storie non mostrino incongruenze. La Marvel ha pianificato anni e anni di storie, da Vendicatori Divisi ad oggi. AvX è stato l'evento che doveva traghettare gli eroi in Marvel NOW e i cinque episodi di "Conseguenze" servono proprio a questo, analizzando il destino di Scott "Ciclope" Summers, ora condannato per i suoi crimini alla reclusione in un carcere privato di massima sicurezza che sembra non avere in simpatia lui ed i mutanti in generale. Inoltre seguiamo Hope Summers alla ricerca di Cable, ripresosi dagli eventi di X-Sanction, e del senso della sua vita ora che ha svolto il suo ruolo di messia; c'è Wolverine diviso tra il desiderio di sistemare le cose e la voglia di affettare Summers, Iron Man raggiunto da una crisi mistica riguardo tecnologia e fede, Capitan America che raccoglie i cocci di un mondo diviso e il fato del resto dei Cinque della Fenice fra sensi di colpa e impotenza. La storia scritta da Keron Gillen riesce in molti modi a far capire quanto folle fosse AvX, di come gli eventi accadessero guidati più dalla foga che dal cervello, e delinea il nuovo quadro del mondo con Scott pronto a diventare tanto un simbolo per la rivoluzione di sopravvivenza mutante quanto un martire se necessario. Mi è piaciuto questo epilogo. Certo, sapendo già quello che accade dopo, si perde la sorpresa, tutto suona già programmato. E mi dispiace perché riesci a trovare le piccole incongruenze con le storie successive, non dovute a Gillen ma al fatto che, per quanto programmati e gestiti da autori in sinergia, tutto può scappare di mano. A seguire c'è Marvel NOW Point One, uno speciale che mostra gli eventi o protagonisti su cui la Casa delle Idee puntava come Nova, Peter Quill e i Guardiani della Galassia, Loki e gli Young Avengers, Ant-Man prima di entrare nella Fondazione Futuro oppure l'incontro tra Forge e Cable che prelude alla nuova X-Force. Il tutto inserito nella cornice narrativa di un interrogatorio tra Nick Fury jr, l'agente Coulson e un misterioso uomo che dice di venire dal futuro. Tanti autori coinvolti per questa anteprima di Marvel NOW che, col senno di poi, aveva tantissime indicazioni sul futuro, più di quante ci si aspettasse! E con questo si chiude la lettura di AvX, folle saga/crossover. Mi prendo una Marvel-pausa e passo a qualcosa di più profondo e elevato. Kimota!
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pangeanews · 4 years ago
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L’uomo vuole conoscere il male. In difesa di Franca Leosini, politicamente scorretta con stile, il narratore onnisciente ottocentesco che ci eravamo dimenticati
“Se dici qualcosa che non offende nessuno, non hai detto niente”, affermava Oscar Wilde. E anche Franca Leosini, storica conduttrice di Storie maledette, stimata al punto di poter vantare una schiera di fan eponimi, I Leosiners, negli ultimi tempi non è immune da critiche.
Le accuse più frequenti? Per Aldo Grasso sul Corriere, il caso criminoso risulta sovrastato dall’eloquio dell’intervistatrice, pure un po’ morbosa nelle faccende di sesso. Già tempo fa Gianluca Neri su RollingStone le attribuì scarsa empatia e strumentalizzazione del dolore. Più voci l’hanno accusata di non essere femminista nel modo oggi ritenuto giusto: Eretica di Abbatto i muri, Lady V su Linkiesta, ma anche, più di recente, Simonetta Sciandivasci su Il Foglio. Tutte affermazioni invero corrette. Non resterebbe che da aggiungere l’ormai abusato “ma ha anche dei difetti”.
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Storie maledette, una delle prime trasmissioni di cronaca nera, nata nel 1994, è un format a basso costo, sobrio, elegante, oggettivo, in cui Franca Leosini intervista i protagonisti delle inchieste giudiziarie all’interno del carcere, solo dopo che si sono conclusi i tre gradi di giudizio e al termine di un meticoloso studio delle carte processuali. La giornalista non azzarda ipotesi, non si improvvisa detective, non costruisce plastici, non chiede a parenti disperati cosa provano a cadavere caldo, non arruola improbabili vicini di casa in cerca di notorietà. Eppure per alcuni questo non basta a risparmiarle l’etichetta di sciacalla. Forse perché, oggi più che mai, una compagine di militanti della morale vorrebbe abbattere statue, censurare libri e film, cambiare nome persino a cibi e bevande, con lo scopo di rimuovere – cosa ben diversa dallo sconfiggere – il male dal mondo? Risponderei loro proprio con uno dei più celebri motti leosiniani: “L’ha rimosso? Allora glielo ricordo io”.
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L’essere umano vuol conoscere il male, e domandarsi quanto di quel male ha anche dentro sé. Vuole spiare la morte dall’alto e di sbieco, prima di trovarsela davanti, e per questo la cronaca nera richiama da sempre grande pubblico: non a caso era censurata ai tempi del fascismo, quando bisognava credere che andasse sempre tutto bene. Ma che cos’ha la Leosini più degli altri? Proprio quel che Aldo Grasso le imputa come difetto: è una grande narratrice. Franca Leosini è il narratore onnisciente ottocentesco che abbiamo lasciato sui banchi di scuola, ormai sconsigliato da quasi tutte le scuole di scrittura ma da lei riportato a nuova vita, con tanto di linguaggio barocco e desueto, ma reso attuale dall’ironia. E cos’è il celebre faldone ad anelli scritto a mano, sempre presente tra le sue mani, se non l’evoluzione del manzoniano “scartafaccio” ritrovato? Da bravo narratore onnisciente, Franca parte da un’impostazione oggettiva, o come dicono quelli bravi, eterodiegetica, ma nel corso della narrazione non può fare a meno di rendersi palese e di affondare nell’animo dell’intervistato con la propria, inconfondibile voce.
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Nel corso del dialogo la Leosini entra in comunicazione con l’intervistato, lo rassicura, lo ascolta, lo analizza, scava nel suo animo, se necessario si dissocia o si contrappone, sempre con educazione e misura. Poi, all’improvviso, gli affondi, quelli ironici e dissacranti, in cui la Leosini riunisce gli opposti, mescola alto e basso, tragedia e commedia, aulico e triviale, moderno e antico, e il “ditino birichino” di Rudy Guede, la “storiella scopereccia” di Francesco Rocca, la “sentimentalmente genuflessa” Sabrina Misseri vanno a costituire tutto l’aforismario che l’ha resa celebre.
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Da qui, l’accusa di scarsa empatia. Ci sono vittime, parenti di vittime, condannati all’ergastolo, come si permette la Leosini di anteporre a tutto questo il compiacimento della narrazione, di far appassionare e a tratti pure sorridere lo spettatore? E si vede dallo sguardo che si diverte! Alla fine, quel che non le si perdona, è risparmiarci – al contrario di molti suoi empatici colleghi – occhi umettati di lacrime e voce incrinata da trattenuta commozione, come forse direbbe lei stessa. E meno male! In un mondo che vende ormai empatia al chilo, come tranci di pesce al mercato – come se soffrire per un dolore altrui non fosse un fatto raro e rivoluzionario – e che pretende pure di insegnarti come e quanto devi piangere e per chi devi piangere prima, se per gli italiani, gli stranieri o gli elefanti – ben venga chi si limita a raccontare con abilità e passione una storia. Così, assodato che nemmeno la Leosini sta realmente soffrendo, anche lo spettatore può finalmente salire sulle montagne russe emotive del programma senza sensi di colpa e abbandonarsi a un puro godimento catartico.
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Perché Storie maledette è forse uno dei pochi esempi di bell’eloquio, narrativa e teatralità in televisione, e non solo in una tradizione classica, perché se ora infastidisce qualcuno, forse vuol proprio dire che non è privo di elementi innovativi. Anzi, è come se il politicamente corretto avesse fatto il giro, tanto da rendere il linguaggio d’altri tempi della Leosini il più adatto per dire l’indicibile. E non con la rozzezza di certo politicamente scorretto, che pure inizia a stancare, tipico di Feltri e dei suoi epigoni, bensì con grazia sottile. Non a caso, i condannati non mostrano mai fastidio per le parole della Leosini, anzi. Non solo hanno tutti accettato l’intervista – per espiare, per gridare la propria innocenza, per narcisismo, per bisogno di esprimersi, questo non ci è dato sapere e non importa – ma tutti o quasi dialogano piacevolmente e di buon grado. Non si accorgono di certi motteggi? Forse abitano abissi ben più profondi, in cui una battuta è prezzo più che equo da pagare, per un momento di normalità.
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E qui veniamo alle accuse di sessismo, o almeno di inadeguatezza all’attuale femminismo. È innegabile che il linguaggio new-retrò della Leosini si addentri anche nella descrizione dei rapporti di genere. Franca ci parla di “mariti farabutti e fedifraghi” e di “angeliche spose”, di “gentiluomini” e di “femme fatale”, di donne con “il radar per trovare uomini nullafacenti”, ma parla anche di transessualità, affermando che “è una condizione e non una perversione”, rassicura Sonia Bracciale che “anche noi donne siamo legittimate a legarci a uomini più giovani”, dice a Sabrina Misseri che è una “babbalona” ma poi la invita con dolcezza materna a una maggiore autostima sul suo aspetto fisico, perché “nessuno ha mai detto di una ragazza che belle ossa”, dice a Cosima che “suo marito non dà l’idea di un acuto pensatore”, poi la loda per la sua “modernità insospettata”, parla di “minigonne sfacciate” ma poi disprezza le chiacchiere di paese “funeste come coliche”. In realtà chi non si limita a frasi estrapolate, ma guarda puntate intere e più puntate, troverà nel suo linguaggio, pur sopra le righe, un mondo complesso e affatto manicheo. Eppure c’è chi, come Lorenzo Tosa, trasforma con un triplo salto carpiato la saggia frase della Leosini “nel fallimento di un matrimonio le responsabilità quasi sempre si hanno in due” nella del tutto personale interpretazione “se il marito la picchiava, qualcosa deve aver fatto”. Credo basti questo per capire a quali livelli di censura del linguaggio si vorrebbe arrivare.
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Non a caso la Leosini usa spesso, con arte, il luogo comune, per poi ribaltarlo più volte. È solita infatti trattare casi che avvengono in provincia, dove l’odierno linguaggio mediatico, disinfettato di Amuchina e asterischi, non è ancora arrivato, e dove più che altrove l’essere uomo o donna, bello o brutto, intelligente o stupido fa una certa differenza, nel bene e nel male, e può anche concorrere a determinare gli eventi. Il suo terreno narrativo preferito è il delitto della gente comune, persone che sembrano attraversate dal male quasi per caso e poi da quello stesso male abbandonate, come se fosse rimasto in loro giusto il tempo di quella singola azione orribile, in una vita altrimenti comune se non banale. Il crimine che matura dal basso, dalle pulsioni più intime, dalla gelosia, dalla passione, di cui la Leosini non ci nega i dettagli sessuali, cosa che le porta accuse di morbosità. E che bello invece – in una televisione spesso giovanilistica, specie per quanto riguarda la parte femminile – trovare una signora di oltre settant’anni che non ha paura di parlare di sesso, né s’impone di farlo in modo asettico, ma con la curiosità per il proibito e al tempo stesso la sfacciataggine di chi ha l’età per non doversi più censurare, se mai l’ha fatto. D’altra parte, come Franca stessa ama ricordarci, “la vita inizia e finisce a letto”, e spesso anche il delitto.
Viviana Viviani
Editing di Luisa Baron
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roscioschouhart · 5 years ago
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Una delle sorprese più interessanti di questo secondo anno di vita di Nintendo Switch è l’arrivo dei due titoli originali della serie Metro, ideati dalla mente dello scrittore e giornalista russo Dmitrij Gluchovskij.
Metro Redux altro non è che una riedizione, graficamente aggiornata e completa di tutti i suoi DLC, di Metro 2033 e Metro Last Light. I due titoli uscirono su PC e console, rispettivamente, nel 2010 e nel 2013 centrando pareri più che positivi dalla critica specializzata e, cosa più importante, dai videogiocatori stessi.
Non nascondiamo di essere fan della serie (il nostro Roscio su tutti, che giocò entrambi i titoli sia su PC, nelle sue versioni light e Redux, che su PS4) e dei romanzi di Dmitrij Gluchovskij. Detto ciò, garantiamo, come sempre, imparzialità nel valutare la versione di gioco Nintendo Switch.
Il merito e l’idea di portare l’universo di Metro nel grande mondo dei videogiochi fu dei ragazzi di 4A Games, ex dipendenti di GSC Game World (che qualcuno ricorderà sicuramente per aver rilasciato il primo e grande capolavoro S.T.A.L.K.E.R.: Shadow of Chernobyl) che, collaborando giorno dopo giorno proprio con lo scrittore russo Dmitrij Gluchovskij, decisero di creare un videogioco ispirato proprio a quella serie di romanzi russi assai fortunati. 4A Games inserì nel progetto tutto quello che il guru di GSC Game World gli aveva insegnato così, mixato alla grandissima vena realizzativa e narrativa del buon Dmitrij, nel 2010 arrivò sul mercato videoludico uno sparatutto in prima persona come non se ne vedeva da tempo.
Seguito spirituale della serie S.T.A.L.K.E.R., Metro 2033 segue, pagina dopo pagina, la linea narrativa del romanzo di Gluchovskij e vede una Mosca completamente distrutta da un evento apocalittico. Alcuni superstiti hanno ben pensato di rifugiarsi nell’enorme linea metropolitana della capitale russa, una delle più profonde (vanta ben 216 stazioni) e dal grande impatto artistico del mondo intero. Vestiremo i panni di Artyom, un ragazzo russo nato prima dell’apocalisse ma vissuto sempre all’interno del sottosuolo, che dovrà affrontare i pericoli della metro per tentare di avvisare il consiglio della nuova Mosca riunitosi a Polis, la più grande stazione sotterranea: Artyom avrà a che fare con una misteriosa entità, i Tetri, e si troverà, incredibilmente solo tra l’oscurità, a salvare quello che ne rimane della popolazione russa.
Metro Last Light è il seguito diretto di Metro 2033 e uscì su PC e console subito dopo, a distanza di 3 anni, il grande successo riscosso dal primo e indimenticabile titolo. A differenza di Metro 2033, Last Light non segue le vicende narrate nel secondo libro di Gluchovskij (Metro 2034) ma, grazie al lavoro svolto proprio dallo scrittore russo, si avvalora di una linea narrativa completamente originale che fa da filone alle vicende del primo gioco. In questo caso è, ancora una volta, la brama di potere dell’uomo a mettere i bastoni tra le ruote ad una già difficile vita sotterranea. Ambientato un anno dopo i fatti del primo gioco, le città-stazioni della Metro sono alle prese con una lotta per il potere assoluto e una guerra civile rischia di annientare definitivamente l’umanità dalla faccia della terra. Vestiremo i panni del nostro amato eroe, Artyom, alle prese, questa volta, con i sensi di colpa. Artyom combatterà duramente contro se stesso al fine di far luce sui tragici eventi che faticosamente si era lasciato alle spalle.
L’intero pacchetto è forte di un gameplay avvolgente, in grado di catturare il giocatore grazie alla sua incredibile forza narrativa. Gli scontri a fuoco sono realizzati ad hoc e l’azione di gioco garantisce un’importante, decisa e costante botta di adrenalina, dai primi agli ultimi minuti di gioco. I due capitoli non disdegnano alcune fasi stealth e da survivor game (caratteristica principale dell’ultimo capitolo della serie, Metro Exodus).
https://www.nplayer.it/wp-content/uploads/2020/03/2020022800592401-A0895D9D2808EF54ABDACEF12ACA5BA2.mp4
Metro Redux ci offre ben due stili di gioco: Sopravvivenza e Spartano. Per quanto riguarda il primo stile, la quantità di munizioni e filtri per la maschera anti-gas sarà assai ridotta, le meccaniche di combattimento e di furtività saranno intransigenti, molto severe. Questa è la modalità originale del primo Metro. Mentre lo stile Spartano è quello introdotto con Metro Last Light, ovvero per giocatori che prediligono un’azione frenetica e più action. Qui, filtri e munizioni saranno abbondanti. A bilanciare il tutto c’è la modalità Ranger, che disattiva l’intera interfaccia di gioco e lascia il giocatore in balia delle sue sensazioni. Dovrete contare ogni proiettile che sparerete per non rimanere mai senza, anche perché i proiettili (di grado militare) sono la valuta dell’intero mondo di gioco.
L’azione è, ben volentieri, messa in “pausa” da sequenze video giocabili e ogni vicenda è raccontata dalla voce fuori campo di Artyom durante i caricamenti (non particolarmente lunghi, anzi).
Troverete una metropolitana in continuo movimento, mai statica, ogni stazione avrà il suo mercato (dove potenziare le armi e acquistare consumabili come coltelli da lancio o granate) o piazza centrale, piena zeppa di gente. Ogni persona è intenta a passare la propria vita nel miglior modo possibile; potrete tranquillamente sostare ad un tavolo per ascoltare i racconti di un vecchio ranger, ad esempio, intento a narrare le sue passate vicende da S.T.A.L.K.E.R., esatto, come abbiamo già detto, molti spunti e particolari presenti in Metro sono stati “presi in prestito” dalla fantastica serie di GSC Game World.
Capiterà, più di una volta, che vi ritroverete letteralmente a tastare l’oscurità. Il bilanciamento tra luce e buio è impeccabile, anzi, a dirla tutta, il più realistico mai visto prima (l’effetto sarà proprio come se, a casa vostra, decidete di camminare di notte, con le luci spente). Le lunghe gallerie buie potranno mandare i vostri nervi in pappa. Vi consigliamo, infatti, di apportare una certa illuminazione specifica nella vostra stanza (o dovunque deciderete di giocare) così che non ci siano riflessi sul vostro schermo. Comunque, in vostro soccorso ci sarà l’equipaggiamento di Artyom, visore notturno su tutti, a patto che riuscirete a trovarlo.
E’ proprio questo bilanciamento tra luce e oscurità che mostra il suo perfetto stile grafico. Ombre, riflessi, illuminazione, effetti atmosferici, sono tutti riprodotti egregiamente dalla console Nintendo. Il port del gioco è stato affidato ad un team interno dell’azienda ucraina-maltese e sempre supervisionato dagli stessi. Il lavoro è ottimo, eccezionale. In modalità TV il titolo ha una risoluzione che si avvicina di molto agli standard 1080p mentre in portatile è di 720p. I frames sono fissi a 30 e credeteci, sono davvero granitici in entrambe le modalità di gioco.
Ma la cosa assai incredibile sta ne fatto che Metro Redux in versione fisica (i due giochi più tutti i DLC) è stato inserito tutto dentro ad un’esclusiva cartuccia da 16 GB, non occorrerà scaricare neanche un mega in più. Cioè, due giochi di questa portata, con una qualità grafica elevatissima, all’interno di una cartuccia da 16 GB senza scaricare pacchetti dati o aggiornamenti di GB extra? Complimenti davvero.
L’intero viaggio è impreziosito da una colonna sonora azzeccatissima realizzata dala duo Alexey Omelchuk e Geogogiy Beloglazov, così come lo score audio, impareggiabile. Inoltre i dialoghi sono tutti ben doppiati in italiano (da provare in russo per un’immersione ancora più totale).
https://www.nplayer.it/wp-content/uploads/2020/03/2020030223505700-3A05990A5AFE65AE3E86545E137A0129.mp4
Metro Redux è un videogioco che va vissuto, non giocato, e il suo gameplay immersivo non ci metterà tanto a farvelo capire, da un momento all’altro vi ritroverete a bere vodka e a pulire la vostra “bastarda” immaginaria. Ma non preoccupatevi, vorrà dire che il titolo vi avrà colpito come pochi.
Sinceramente ancora non riusciamo a capire come abbiamo fatto i ragazzi di 4A Games a portare il mondo creato da Dmitrij Gluchovskij su Nintendo Switch. A questo punto, attendiamo anche l’ottimo Metro Exodus.
Metro Redux è disponibile su Nintendo Switch dal 28 febbraio 2020, sia in versione fisica (ad un prezzo di € 50.98) che digitale. Per quanto riguarda la versione digitale, ogni singolo gioco (in versione Redux) sarà acquistabile per € 24.99 l’uno e occuperà 6.2 GB il primo (ma scherziamo?) e 7.6 GB il secondo.
Il gioco è compatibile con il Cloud dei dati di salvataggio, con il Pro Controller, con il Rumble HD e con il sistema dei motion control. Localizzazione completa in italiano (testi e audio).
Pro:
Uno dei porting più completi ed impressionanti
Universo creato da Dmitrij Gluchovskij, impareggiabile
2 titoli d’immensa portata su una cartuccia da 16 GB
Prestazioni ottime sia in portatile che in TV
Ottimi combattimenti a fuoco
Azione e narrazione
Rumble HD e motion control
Contro:
La fitta oscurità potrebbe creare qualche problema
Link utili:
Pagina Metro 2033 Redux su Nintendo.it
Pagina Metro Last Light Redux su Nintendo.it
Pagina gioco su DeepSilver.com
Curiosità:
Il seguente brano, The Market, è stato realizzato da Alexey Omelchuk e Geogogiy Beloglazov (conosciuto come Anthesteria), i due compositori hanno preso spunto dal riff di chitarra “0305030” del brano Psycho dei Muse.
youtube
Metro Redux – Recensione Una delle sorprese più interessanti di questo secondo anno di vita di Nintendo Switch è l’arrivo dei due titoli originali della serie…
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nuoveggdb-blog · 5 years ago
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Scarpe Golden Goose Saldi Lazzaro suo stregone finanziario 13
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ggdbforsalecheap-blog · 5 years ago
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saleshoesggdb-blog · 5 years ago
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tmnotizie · 7 years ago
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MACERATA – Un’altra giornata densa di appuntamenti venerdì 4 maggio alla festa del libro Macerata Racconta giunta all’ottava edizione e organizzata dall’associazione ConTESTO con il Comune e l’Università di Macerata.  Appuntamento clou della giornata l’inaugurazione, alle 16.30, nei locali dell’ex Upim, della Fiera dell’editoria Marche Libri, giunta alla settima edizione, che ha come protagonista l’eccellenza della produzione editoriale che si realizza nelle Marche.
Unica nel suo genere nel territorio marchigiano, Marche Libri si conferma uno spazio in cui trovare le migliori produzioni editoriali dell’intera regione e non solo, visto che al suo interno saranno ospitati anche alcuni editori provenienti da altre regioni italiane.
Marche Libri rappresenta un appuntamento importante per la cultura e l’imprenditoria editoriale che presenta in questa nuova edizione 47 case editrici le quali torneranno a esporre nello spazio dell’Ex Upim in corso Matteotti, sia direttamente con propri stand che rappresentate dalla libreria del festival gestita dall’associazione Libri in città.  Le case editrici che daranno vita alla Fiera Marche Libri sono:
Affinità Elettive | Altreconomia | Andrea Livi Editore | Aras Edizioni | Arpeggio Libero | Biblohaus | Bravi | Cattedrale | Claudio Ciabochi Editore | Controvento Editrice | Cromo Edizioni | Donzelli Editore | Editoria Studi Superiori | Edizioni Artemisia | EUM – Edizioni Università Macerata | EV | Fara Editore Giaconi Editore | Giometti & Antonello | I Luoghi Della Scrittura | Il Lavoro Editoriale | Ilari Editore | Infinito Edizioni | Ippocampo Edizioni | Italic Pequod | Lavieri Edizioni | Le Mezzelane | Ledra | Librati Edizioni | Libri d’aMare | Linfa Eintertainment | Lirici greci | Metauro Edizioni | Montag | Progetti Sonori | Quodlibet | Raffaello Editrice | Rivista Argo | Roi Edizioni  Rrose Sélavy | Simple Edizioni | Taschen Logos | UT | Ventura Edizioni | Vydia Editore | Zefiro Edizioni.
Tra gli altri appuntamenti alle 11.30 nell’aula Shakespeare del Polo didattico Tucci a palazzo Ugolini, in collaborazione con il Dipartimento di Studi umanistici UniMc la presentazione del libro Gramsci Una nuova biografia di Angelo D’Orsi alla che verrà introdotto da Carla Carotenuto e Michela Meschini. A ottant’anni dalla morte capire la vita e la vicenda intellettuale di Antonio Gramsci può ancora servire  per capire il mondo in cui viviamo, o per provare a rimetterlo in discussione
Angelo D’Orsi insegna Storia delle dottrine politiche nella facoltà di Scienze politiche   dell’Università di Torino. Si è occupato di militarismo e pacifismo, di nazionalismo e di fascismo. Spesso ospite di Agorà (Raitre) e ideatore del FestivalStoria è uno dei massimi esperti di Antonio Gramsci. Una nuova biografia di Antonio Gramsci è attenta soprattutto agli aspetti intellettuali e politici della complessa personalità di Gramsci, ma non trascura l’universo affettivo in cui si colloca la breve esistenza di questo personaggio.
Il libro, diviso in quattro parti, ciascuna corrispondente a un ben preciso periodo della vita di Gramsci, si snoda secondo una narrazione lineare ma che mostra di volta in volta le riprese che Gramsci farà in epoche successive di spunti che lancia nei diversi periodi. Il libro è rivolto tanto agli studiosi quanto a coloro che di Gramsci sanno a malapena il nome, in un tentativo di farlo conoscere agli uni e farlo rimeditare dagli altri, nella convinzione da cui l’autore è animato che Gramsci sia oggi terribilmente inattuale (in quanto lontanissimo dai modelli dominanti dell’agire dei politici ma anche di quello degli intellettuali), ma nel contempo drammaticamente necessario.
Nel pomeriggio di Macerata racconta, alle 16.30, al Museo della scuola ci sarà l’incontro, valido come formazione per insegnanti, educatori e genitori, “Viaggio nella letteratura contemporanea per bambini” con Nadia Terranova, giovane autrice italiana dotata di grande talento che ha esordito nel romanzo nel 2015 con “Gli anni al contrario” – Einaudi – , definito da Roberto Saviano uno dei libri migliori del 2015 e vincitore di numerosi premi tra i quali Bagutta Opera Prima, Brancati e Fiesole. Prima di allora si era dedicata con successo alla scrittura di libri per ragazzi. Collabora con diverse riviste ed è tradotta in Francia, Spagna, Messico, Polonia e Lituania.
Gli anni al contrario di Aurora e Giovanni passano attraverso sentimenti e passioni, eventi umani potenti e delicati sullo sfondo di anni belli e terribili come gli anni Settanta, vissuti però a Messina, dove è difficile essere e sentirsi protagonisti. Di Lei Elena Stancanelli dice:” Nadia Terranova scrive un romanzo capace di nascondere, sotto una prosa leggera, un’anima robusta, una precisa idea del mondo. (…) Per fortuna che ci sono romanzi come Gli anni al contrario che ci fanno sentire meno soli”.
Alle 17 nell’aula 11 dell’Università di Macerata, introdotto da Maurizio Verdenelli e Matteo Zallocco verrà presentato il libro “Pamela Dall’omicidio al “lupo” Traini: i fatti di Macerata che hanno sconvolto l’Italia” con Giuseppe Bommarito, Gianluca Ginella, Marco Ribechi e Giovanni De Franceschi.  Alle 17.30 alla Biblioteca Mozzi Borgetti , introdotto da Valerio Calzolaio, ci sarà Corrado Dottori con il suo La musica Vuota (Italic Pequod)
Edoardo Alessi, consulente finanziario di successo in crisi di identità, ritrova sette scatoloni pieni di diari, fotografie e lettere, conservati nella casa di montagna dei nonni paterni. I suoi scritti di gioventù si mescolano con le memorie del padre adolescente e rivoluzionario a formare una strana commistione di storie mai raccontate, sensi di colpa e recriminazioni. Il racconto di una storia familiare complessa. L’assenza dei genitori, militanti di estrema sinistra negli anni di piombo, tormenta Edoardo spingendolo a ricostruire il proprio passato e quello di un padre poco conosciuto, a cui lo lega una passione sfrenata per la musica rock.
Un album in particolare, “Exile On Main Street” dei Rolling Stones ritorna in maniera circolare a scandire i momenti salienti del romanzo, potentissimo catalizzatore in grado di innescare una continuità culturale e politica tra due mondi. Perché Edoardo, dopo un’adolescenza da militante nei movimenti studenteschi, spesa tra contestazione nei centri sociali, feste e concerti rock, è diventato ciò che non avrebbe mai voluto essere, un private banker? Tra viaggi in California, Marocco e Messico, tra affetti del presente (il vecchio amore mai dimenticato Maria e l’attuale bellissima compagna Raffaella, l’amico di infanzia Ceska) e di un passato che a volte incombe (il padre morto, la madre latitante, i nonni che lo hanno cresciuto e infine Joe, suo zio), “La Musica Vuota” è una sorta di memoir di un’intera generazione a cavallo e in bilico tra due secoli.
Protagonista dell’appuntamento alle 18 alla Galleria degli Antichi forni, introdotto da Renata Morresi, sarà invece Marco Benedettelli con il suo Chi brucia. Nel Mediterraneo sulle tracce degli harraga (Vydia editore).  Marco Benedettelli ha collaborato come giornalista freelance con Avvenire, Il manifesto, Sole24ore.it, D di Repubblica, Popoli e Missione, Vita no profit, Il Corriere della Sera e vari quotidiani locali, specializzandosi nel genere del reportage da zone di crisi. È tra i fondatori e coordinatori di Argo, rivista ventennale di letteratura. Ha scritto su Nazione Indiana ed è stato parte del collettivo 48ore.com (oggi off-line). Ha pubblicato la raccolta di racconti La regina non è blu (Gwynplaine edizioni, 2012).
Harraga. È il termine arabo che indica i migranti che bruciano i propri documenti d’identità per attraversare illegalmente la frontiera e tentare una via d’ingresso in Europa. Marco Benedettelli, testimone attento e sensibile, ne ha seguito nel 2011, anno infiammato dalla Primavera araba, gli spostamenti, le speranze, le paure, in un lungo itinerario che lo ha condotto nelle zone nevralgiche del fenomeno migratorio tuttora in atto nel Mediterraneo e in particolare in Italia, terra di approdo e di transito per quelli che cercano una nuova vita in fuga da povertà, guerre, dittature. Dalla Tunisia a Lampedusa, dalla Libia a Ventimiglia, da Malta a Roma e fino alla problematica realtà dell’Hotel House di Porto Recanati nelle Marche, Chi brucia è un diario di viaggio coinvolgente e appassionato in cui la verità scottante del reportage s’intreccia a brani di felice invenzione narrativa.
Franco Lorenzoni, invece, maestro elementare a Giove, in Umbria sarà alle 18.30 al Teatro della Filarmonica  con il suo Orfeo, la ninfa Siringa e le percussioni pazze dei Coribanti (Rrose Sèlavy) in compagnia di Lucia Tancredi. Lorenzoni ha fondato e coordina dal 1980 ad Amelia la Casa-laboratorio di Cenci, un centro di sperimentazione educativa che ricerca intorno a temi ecologici, scientifici, interculturali e di inclusione. Per questa attività ha ricevuto nel 2011, insieme a Roberta Passoni, il Premio Lo Straniero.  C’è un bambino straordinario, Orfeo, che non piange appena nato ma si mette a cantare in modo così dolce da incantare gli uccelli che volano lì intorno.
C’è la ninfa Siringa, che si trasforma in canne mosse dal vento per sfuggire a Pan, il dio dei boschi innamorato di lei, che costruirà con quelle canne il primo flauto per ricordare il suo amore. C’è un gruppo di ragazzi scatenati, chiamati Coribanti, che battendo bastoni, pietre e metalli, coprono il pianto del piccolo Zeus e gli salvano la vita.All’origine della musica c’è una relazione intima e totale con la natura e gli spiriti che la abitano. Paura, amore, solitudine, struggente nostalgia e ricerca di armonia trovano nel canto e nel suono il loro primo linguaggio e, forse, la loro origine remota.
A conclusione della ricchissima giornata di Macerata Racconta, alle 19.30 alla galleria degli Antichi forni, torna Valerio Calzolaio con Enonoir: La camera chiusa.
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fondazioneterradotranto · 7 years ago
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Libri| Se no
di Martino Pellegrino
Da professore di economia a romanziere il passo è lungo. Ma Antonio Elia l’ha tentato – e con successo, senza salti mortali.
Il romanzo fresco di stampa presso l’editrice L’Erudita, Se No, lo mostra chiaramente.
Narra la vicenda di due cinquantenni che scoprono di essere fratelli sui generis: Luigi, figlio di Salvatore e di Maria, in tenerissima età è stato adottato da Luisa, mentre la madre naturale si è risposata con un vedovo che ha un figlio, Tommaso, di cui lei diventa la seconda madre.
La scoperta scombussola la vita dei due, tanto che dovranno passare due anni di percorso, condiviso nell’implacabile analisi, perché si arrivi alla catarsi.
Il romanzo percorre con una serie di flashback la loro vita, professionalmente eccellente, dirigente d’azienda Luigi, professore universitario Tommaso; ma il campo affettivo è pressoché fallimentare, per l’uno come per l’altro.
La traiettoria geografica è indicata nel titolo, che con un felice acronimo indica il Nord-Ovest e il Sud-Est, vale a dire Torino-Milano dove accade gran parte della vicenda e il Salento, da cui erano stati costretti ad emigrare i genitori di Luigi e che torna continuamente alla ribalta non solo per i rimandi memoriali ma perché lì si dipanerà la matassa che pareva irrimediabilmente arruffata.
Detta così sommariamente, la trama non rende giustizia della natura del romanzo, né per il contenuto né per la forma narrativa.
Infatti il professor Elia riesce a iniettare dosi consistenti di economia che il romanziere Elia fonde con la sociologia del Meridione e la fenomenologia delle relazioni interpersonali.
Il Sud si arricchisce progressivamente di differenti valenze, da quella culinaria a quella folcloristica, da quella storica a quella mitica. Per un lettore che vive altrove non pare vero che nel Salento sia nata e perduri tanta ricchezza nell’arte, nei miti immortalati da filosofi e poeti e passati per vie sotterranee nelle saghe popolari nonché nel vissuto delle persone, capaci di affrontare le tragedie con ammirevole dignità e consapevolezza.
I percorsi affettivi dei due fratelli sono per varie ragioni accidentati, e occorre il coraggio dell’analisi, dell’introspezione, del confronto anche impietoso per far emergere contraddizioni, responsabilità, condizionamenti, limiti, a condizione che l’amore della verità non deroghi mai al rispetto, anzi alla misericordia per l’altro.
Chi leggerà il romanzo con l’occhio attento all’economia e alla sociologia si troverà costantemente indirizzato al versante affettivo dei due comprimari, ma patirà pure i sensi di colpa delle loro madri protrattisi per decenni per trovare solo in extremis la possibilità del riscatto; inoltre conoscerà le vicende travagliate e non sempre con esito felice di vari altri personaggi che a vario titolo diventano parte tutt’altro che accessoria del racconto.
Analogamente chi sarà mosso più da interessi psicologici e relazionali scoprirà di leggere con non minore attenzione la tematica dell’economia, del lavoro, dell’emigrazione.
Per la forma narrativa basti dire che l’autore sa passare con accorta disinvoltura dal presente al passato, dalla cronaca al mito, dalla narrazione al saggio, grazie all’alternanza tra flashback e tuffo nell’attualità; lo stile che nulla concede all’ovvietà e alla banalità sa essere gradevole per l’uso di metafore, per l’abbondanza delle citazioni, per la godibile descrizione di un piatto tipico del salentino a cui può seguire la dotta e originale descrizione del pavimento museale nel duomo di Otranto.
A palati fini, a lettori nostalgici del Sud o interessati a visitarlo, ma anche a occasionali acquirenti del romanzo, viene offerta l’opportunità di passare ore arricchenti in compagnia di queste trecentotrenta pagine.
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viaggiatricepigra · 7 years ago
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Esce Oggi: La Moglie Imperfetta, di B.A.Paris
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Autrice: B.A.Paris Titolo Originale: The Breakdown Editore: Casa Editrice Nord Traduzione: Olivia Crosio Pagine: 400 Prezzo: 16,90 € Ebook: 9,99 €
Dopo La coppia perfetta, il nuovo thriller di un’autrice tradotta in 35 paesi A chi puoi credere, se non puoi fidarti neanche di te stessa?
A chiunque ogni tanto capita di non ricordare dove siano le chiavi di casa o dove ha parcheggiato la macchina, o magari di dimenticare un appuntamento con un’amica. Chiunque non farebbe caso a simili sciocchezze. Per Cass Anderson, invece, è diverso. Ogni minimo deragliamento della memoria potrebbe essere un sintomo preciso: demenza precoce, la malattia che ha colpito la madre diversi anni prima. Ecco perché, adesso, Cass sta vivendo un incubo. Una sera di pioggia, tornando a casa, ha superato un’auto ferma sul ciglio della strada. All’interno c’era una donna, ma lei non si è fermata ad aiutarla. Poi la mattina seguente ha scoperto dai telegiornali che quella donna è stata assassinata. Esattamente dove lei l’aveva incrociata. E, subito, ai sensi di colpa si aggiunge l’angoscia di aver visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Come spiegare le telefonate mute che ha cominciato a ricevere proprio da quella mattina, se non come una velata minaccia? E perché anche quando è in casa ha così spesso la sensazione di essere osservata? Cass è terrorizzata perché non ricorda nessun dettaglio significativo riguardo quella sera. Purtroppo, però, da qualche giorno non si ricorda nemmeno come funziona la lavatrice, se ha preso o no le sue pillole, se uno dei coltelli in cucina avesse una strana macchia sulla lama, come di sangue… L’unico che potrebbe aiutarla a non impazzire e a capire cosa stia succedendo è suo marito, Matthew, che però le appare ogni giorno più distante e distaccato, quasi fosse il primo a essere certo che non ci sia niente da fare, che la malattia sta prendendo il sopravvento. E anche Cass ormai se ne sta convincendo. Un pomeriggio, però, proprio nel garage di casa fa una scoperta che cambia tutto… Autrice B.A. Paris è nata e cresciuta in Inghilterra, ma si è trasferita in Francia per lavorare in una grande banca d'investimento. A un certo punto della sua vita, però, ha deciso di cambiare e di dedicarsi all'insegnamento e alla narrativa. Quindi ha fondato una scuola di lingue e ha iniziato la stesura della Coppia perfetta, il suo romanzo d’esordio, che è stato tradotto in 35 Paesi ed è diventato un caso editoriale da milioni di copie vendute. Vive a Parigi col marito e le cinque figlie. from Blogger http://ift.tt/2yfKMfS via IFTTT
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pangeanews · 5 years ago
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“Mentre tutto cade”. Andrea Caterini e Andrea Di Consoli raccontano una poesia italiana contemporanea. Simoncelli, il poeta che scrive tutte le parole che non è riuscito a dire a chi era in vita
Forse hai ragione ancora una volta. È come dici tu: siamo al riparo dagli inverni in questa casa dove vola appena la polvere dei libri e ogni cosa è in ordine come hai sempre desiderato. Allora perché, ti chiedo, perché per tutta la notte e perfino nel sogno sembrava che nella camera fosse entrata la tormenta di neve che raccontava mia madre rabbrividendo ancora per quelle bianche strade assiderate, gli amici introvabili, gli stenti? Perché un vento di tormenta mi gelava tra le coperte poco prima dell’alba?
Stefano Simoncelli
da Giocavo all’ala, Pequod, 2004
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Ho scoperto la poesia di Stefano Simoncelli ormai più di un decennio fa, leggendone qualche componimento su «Nuovi Argomenti». Da allora non ho mai smesso di seguirlo in tutti i suoi libri. Ma l’esperienza poetica di Simoncelli parte da lontano, dagli anni Settanta, lui, appena un ragazzo, con un paio di amici, Ferruccio Benzoni e Walter Valeri, mette su una rivista di poesia, «Sul Porto». In quelle pagine i tre ragazzi di Cesenatico avevano chiamato a convegno tra i maggiori poeti contemporanei della generazione precedente: Franco Fortini, Attilio Bertolucci, Pier Paolo Pasolini e soprattutto Vittorio Sereni. Ma a loro non avevano chiesto un semplice intervento ma un patto di fedeltà e d’amicizia. Perché è così che volevano vivere la poesia, come qualcosa che, pure essendo profondamente intimo, si affermava come valore civile, nel senso che la poesia era la chiave non solo per scoprirsi come esseri umani ma quella cosa in grado di costruire una civiltà. Se dovessi giudicare il lavoro di Simoncelli direi che per tutta la vita ha riscritto sempre la stessa poesia; e non si pensi a un difetto, perché in quelle varianti ha trovato anche le sfumature della propria sensibilità. Simoncelli è poeta che ha raccontato la concretezza dei morti che abitano la propria vita: la madre, il padre, sua moglie. Lo ha fatto però come vivendo l’esperienza di un’avventura – un’avventura amorosa. Si prenda questo sonetto libero e imperfetto di una raccolta, Giocavo all’ala, che è forse una delle sue prove migliori. Qui sono concentrati tutti i soggetti della poesia di Simoncelli. Concentrati dentro le pareti di una casa che sembra proteggere dalla tormenta. Ma è il «forse» posto a principio che mette in dubbio il meccanismo di protezione, quell’ordine che è solo apparente. Quella casa è sì lo spazio in cui si vogliono proteggere i soggetti che si rivivono nella memoria provando così a dare un ordine anche al proprio dolore, eppure è il cambio di tono, da dubitativo a interrogativo, a spiegare tutto. Ed è una spiegazione che mette a nudo una fragilità; e, prima ancora di metterla a nudo, evidenzia l’impossibilità stessa di un ordine, perché la tormenta non è fuori da quelle mura, ma la si vive dentro di sé. Ecco, ciò che mi ha sempre commosso nella poesia di Simoncelli, è esattamente questo senso di solitudine senza scampo, questa atmosfera desolata (che molto spesso ha come sfondo i sobborghi della provincia romagnola che da sempre abita) alla quale è impossibile sottrarsi. Una desolazione e una solitudine in cui però Simoncelli presta ai morti la propria voce facendoli tornare in vita, o lasciandoli lì, in quell’altrove in cui sono ma incapaci di abbandonarlo del tutto, incapaci del gesto ultimo di un addio. È come se Simoncelli vivesse, nella sua poesia, due vite, come camminasse continuamente su una soglia, in uno spazio d’ombra o di luce soffusa in cui le ferite non possono essere eluse ma si è costretti ad attraversarle, ad abitarle, a farne il contenuto stesso della vita: «Quest’ombra che m’attraversava la faccia» diceva in un’altra lirica di Giocavo all’ala «quasi un’inguaribile ferita d’amore/ quante volte in segreto hai tentato/ di medicarla, anima mia,/ con il sospetto dell’irreparabile».
Andrea Caterini
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La poesia di Simoncelli avviene tutta in un luogo concreto che però è anzitutto una condizione psicologica, emotiva, caratteriale. Questo luogo è la “provincia”. Parlare di “provincia” può significare tutto e niente, ed è un concetto socio-geografico ineffettuale, impossibile da mettere a fuoco. Eppure sopravvive, al luogo concreto, una condizione esistenziale pienamente, interamente “provinciale”, che non significa affatto stare distanti dal “centro” – quale “centro”, onestamente, a questo punto della storia? – ma in un paesaggio (interiore) dimesso, laterale, in una vicinanza ai fantasmi, alle nostalgie, alle cose perdute, alle ambientazioni desolate, ai rammarichi, alle serate tristi, silenziose, piene di persone sparite che di colpo vengono a bussare alla testa. Quando lessi per la prima volta le poesie di Simoncellli – che ebbi modo di conoscere personalmente qualche anno fa durante una presentazione a Frascati, ai Castelli Romani – io pensai immediatamente a un film: La prima notte di quiete di Valerio Zurlini. La sua poesia mi parve ambientata negli stessi paesaggi di quel film meraviglioso, che celebrava le atmosfere umbratili e livide di certi lungomare autunnali, e certe storie che girano male, perché fino alla fine ci si convince che non è ancora finita, che le cose si possono ancora fare impunemente. L’altra luogo in cui avviene la poesia di Simoncelli è, a mio parere, nella condizione del “fallimento” – e ovviamente non do nessuna connotazione borghese o piccolo-borghese a questa parola. Il “fallimento” è, anche in questo caso, una condizione psicologica, un modo di vedere la vita, uno sguardo che sempre si posa sulle cose che si sono perse, che non sono avvenute, che hanno preso una piega storta, che sono finite male, inceppate. Simoncelli è un poeta che scrive tutte le parole che non è riuscito a dire a chi era in vita, e poi è andato via, magari di colpo. E dunque è una poesia di rimorsi, di rimpianti, di nostalgie, di sensi di colpa – di nodi in gola, di struggimenti improvvisi. Non so perché, ma immagino sempre questo poeta – quando penso a lui – in una casa che affaccia su un mare autunnale piena di libri e di vecchie lettere, e che scrive di notte, magari davanti a un bicchiere di vino, sigaretta in bocca, e di colpo pensa a chi non c’è più, e sente come insostenibile quest’assenza – le tempie che pulsano. Simoncelli prova sentimenti forti, dirompenti, ed ecco perché la sua poesia non può che essere onesta – perché onesti sono, anzitutto, i suoi sentimenti. La poesia di Simoncelli deve molto al magistero di poeti quali Vittorio Sereni e Luciano Erba. Ma credo che il dire piano, diretto, narrativo, confessionale gli derivi più da quest’ultimo, benché una certa “musica” più raffinata e ricercata gli derivi dal primo. È una poesia narrativa, fraterna, che racconta storie tristi e ricordi struggenti. Credo che avrebbe passato delle belle serate con Carver, se lo avesse conosciuto. O forse no, forse mi sto sbagliando. Forse avrebbe preferito poeti meno “brutali”, benché anch’essi narrativi e fraterni, come Lowell e Frost. Ma a quest’altezza mi accorgo che anche io sono entrato in un gioco tutto di fantasmi e di presenze lontane, e che mi sono perso anche io in pensieri un po’ astrusi e incongrui, proprio come se stessi scrivendo in una casa isolata davanti a un mare autunnale e notturno.
Andrea Di Consoli 
*In copertina: Stefano Simoncelli in un ritratto fotografico di Sandra e Urbano Fotografi
**“Mentre tutto cade” ha raccontato una poesia di:
Beppe Salvia
Valerio Magrelli
Salvatore Toma
Antonella Anedda
Dario Bellezza
Giovanni Raboni
Giuseppe Conte
Patrizia Cavalli
Milo De Angelis
L'articolo “Mentre tutto cade”. Andrea Caterini e Andrea Di Consoli raccontano una poesia italiana contemporanea. Simoncelli, il poeta che scrive tutte le parole che non è riuscito a dire a chi era in vita proviene da Pangea.
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pangeanews · 6 years ago
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“Un fiore è molto più difficile da capire dell’Amleto”: Gianluca Barbera dialoga con Enrico Macioci, lo Stephen King italiano
Enrico Macioci è un narratore puro. Non solo: i suoi personaggi sono talmente reali da poterli toccare. E le storie ben strutturate. I dialoghi brillanti. Non si ammanta di proclami e non vanta legami di sangue con autori blasonati. Nessuna spocchia. Una modestia consapevole. Una capacità di ragionare poggiata su una rara onestà. Il suo modello è sempre stato King e per certi versi gli somiglia. Basta leggere poche pagine del suo ultimo romanzo, Lettere d’amore allo yeti (2017), per rendersene conto. Ma nessuno spirito imitativo. La voce è sua e di nessun altro. Si tratta piuttosto di affinità elettive con il re dell’horror. Una ricchezza, dunque, nel nostro asfittico panorama nazionale. A me pare che L’ultimo piolo (contenuto nella raccolta A volte ritornano) sia il racconto di King che più ricorda la scrittura e le atmosfere di Macioci. Tra l’altro, uno tra i più belli dell’autore americano. Ma anche It, romanzo infinito. Eppure gli autori che lo hanno formato sono stati altri, come scoprirete. Non aggiungo altro. Il resto lo ascolterete dalla sua viva voce. O dai suoi libri. Meglio se da entrambi.
Enrico, parliamo di te e di King. Conoscendoti, mi sembra il punto più naturale da dove cominciare. Quando è nato il vostro amore e quanto è stato totalizzante? È stato lui a farti diventare scrittore?
Lessi King la prima volta nel marzo del 1991, a sedici anni, in maniera del tutto casuale. Mia madre era socia di Euroclub, quel mese non ordinò libri ed Euroclub le spedì Misery. Un pomeriggio di pioggia, incuriosito dalla copertina truce, lo presi in mano, mi stesi sul letto e lo aprii; quando lo richiusi era ora di cena. Fu un colpo di fulmine, una delle singolarità che ti cambiano letteralmente la vita. L’impatto si ripercosse nelle viscere più che nel cervello, fu più emotivo che razionale – siamo noi, dopo, a razionalizzare la magia dell’innamoramento, a cercare di spiegarcene i motivi. Tuttavia non devo a Stephen King la mia vena, che si manifestò da bambino tramite una manciata di poesie e, in seguito, una marea di racconti. I libri che alimentarono la fiamma narrativa furono quelli di Verne, Stevenson, Salgari, Burnett, Dumas, Poe. E poi non facevo che rileggere quell’insondabile capolavoro di Pinocchio, e più lo rileggevo più mi piaceva, e più mi piaceva più ero felice che un semplice blocco di carta riuscisse ad agire su di me con tale forza.
Anche se non è stato King a farti innamorare della scrittura, a lui devi molto. Ho già accennato a quanto abbia influito sulla tua scrittura, ma vorrei che fossi tu a parlarmene.
Dai 14 ai 27 anni smisi sia di leggere sia di scrivere, a causa di un rifiuto violento e profondo, che covavo già da tempo. Ho detto che scoprii King a 16 anni. Dunque per oltre dieci anni, dai 16 ai 27, se si eccettuano le antologie scolastiche, qualche romanzo assegnato coi compiti estivi e poi i manuali di giurisprudenza, ho letto solo King. È un fatto abbastanza sconcertante e quasi gigantesco, per uno che poi è divenuto scrittore. Credo d’essermi azzoppato da solo, ma naturalmente non saprò mai chi sarei adesso se durante quel lungo periodo – il periodo della formazione – avessi continuato a leggere e a scrivere. Ciò che so è che King ha forgiato il mio immaginario (il quale già di suo tendeva verso il mistero e il soprannaturale) e che mi ha suggerito un certo modo di costruire le scene, svolgere i dialoghi, tenere il ritmo. Penso soprattutto al ritmo, alla maniera di inserire un pensiero in una scena o una scena in un pensiero. King però, al netto delle differenze di talento, è in sostanza un narratore puro. Lui lascia parlare i personaggi e le azioni, lascia scorrere la storia come la pellicola di un film. Io sono un poeta fallito che prova a raccontare.
E tra gli autori italiani viventi?
Nessun autore italiano vivente mi ha influenzato (e nessuno morto, aggiungo). Ci sono però due figure che costituiscono per me dei punti di riferimento, non tanto per il modo di scrivere bensì per la visione del mondo e dell’uomo che manifestano nella loro opera. Sono Antonio Moresco e il poeta e filosofo Marco Guzzi. Poi ci sono parecchi colleghi, più anziani o coetanei, che stimo. Fra quelli più anziani di me cito Giulio Mozzi, un maestro della forma breve. Fra i coetanei dovrei citarne vari, ma mi astengo per paura di dimenticarne qualcuno.
Che tipo di scrittore sei diventato e cosa diventerai?
Sono diventato un narratore, io che ero partito come poeta. In realtà cominciai a scrivere i primi racconti circa un anno dopo le prime poesie, ma nella mia prosa la poesia finisce sempre per infilarsi. È come l’aria, da qualche pertugio filtra. E col termine poesia non mi riferisco a un elemento positivo, anzi. I residui poetici spesso m’impediscono di attingere all’immediatezza che voglio raggiungere narrando, opacizzano le mie storie, le velano di superfluo. Mi sento una specie di anfibio, letterariamente parlando, e la faccenda mi innervosisce. È difficile del resto sbarazzarti di una cosa incistata così a fondo, e forse nemmeno conviene. Se non puoi operare, ti adatti a sopravvivere. Ciascuno di noi deve sostenere la propria lotta dinanzi alla pagina; e ciascuno di noi, anche il più abile e tenace, soccomberà. Non scrivo poesie da molti anni, eppure la poesia viene a galla nella mia prosa, tipo le bollicine dentro un bicchiere di Coca Cola. Allora ciò che faccio è cercare di trasformare questa escrescenza, questa invadenza, in ricchezza; ma non sempre ci riesco.
Quanto conta l’incipit in un libro e quanto il finale? Quanto la lingua e quanto la storia?
L’incipit è decisivo. Se funziona bene equivale a un incantesimo. Un lettore rapito da un bell’incipit difficilmente abbandonerà il libro, anche se dovesse in seguito deluderlo. Penso a L��informazione, di Martin Amis. Un romanzo di livello, certo, ma per lunghi tratti noioso; tuttavia non ho mai pensato di mollarlo a causa del suo incipit strabiliante – una pagina e mezza che sfiora l’eternità. Il finale invece conta meno. Se il libro è buono, solo un finale davvero catastrofico può rovinarlo. Per quanto mi riguarda, non ricordo molti finali degni di lode. Fa eccezione l’ultima magnifica frase de Il grande Gatsby. Chiude non solo il romanzo ma un intero mondo. È come una grata che scende sulla luce verde del faro di East Egg. Possiamo ancora vederla pulsare, di là dalle sbarre, ma non possiamo più raggiungerla. Sul vecchio problema della lingua e della storia… Io penso che la storia venga prima, e che la lingua debba adattarsi alla storia, la quale all’inizio può essere anche solo un’immagine, una suggestione, un dubbio, un’ombra. Dei libri basati sulla lingua – se è lecito distinguere in maniera così netta, e sappiamo che non lo è ma qui ci tocca abbreviare – me ne faccio poco. Un tempo mi affascinavano, adesso mi sembrano una posa; nel migliore dei casi geniale, ma pur sempre una posa. D’altronde se una storia funziona non può, sottolineo, non può essere scritta male; sarà invece scritta nell’unica maniera giusta.
Se non sbaglio hai cominciato da un libro verità sul terremoto dell’Aquila (Terremoto, 2010). Puoi parlarcene?
Si tratta di una raccolta di dieci racconti. Li scrissi di getto nel giugno del 2009, due mesi dopo il sisma che ha raso al suolo la mia città. Ricordo che man mano che scrivevo mi sentivo meglio. Venivo da otto settimane di rimbambimento. Non facevo che guardare e riguardare alla tv ciò che era accaduto, tentando di incamerare il concetto che sì, era accaduto proprio a me, e che sì, quella era proprio la mia città. Scrivere Terremoto fu terapeutico, e al tempo stesso mi causò parecchi sensi di colpa. Ma gli scrittori bene o male convivono col senso di colpa, giusto? In fondo sanno di essere delle sanguisughe. Passano buona parte della loro vita a succhiare la realtà e a risputarla sulla pagina.
Poi La dissoluzione familiare (2012), opera monstre, e un romanzo di formazione molto bello (Breve storia del talento, 2015) con al centro il gioco del calcio. Quanto conta il calcio nella tua vita?
Giocavo bene, ma ho iniziato a capirlo tardi. Fu il padre di una mia amica, ex calciatore di serie C, a intuire che c’era del buono nei miei piedi. M’incoraggiò e vidi che la palla non cadeva, che andava pressappoco dove volevo io, che mi ascoltava. Suppongo tuttavia che il mio talento non fosse così spiccato. Anzi, ne sono certo. Gioco ancora, non ho mai smesso. Mi rilassa. Mi libera da me stesso. E mi diverte. Non esiste un goal uguale a un altro, né mai esisterà. Il calcio è incredibilmente semplice e incredibilmente creativo, proprio come i romanzieri che amo di più.
E poi è venuto Lettere d’amore allo yeti. Libro bello e inquietante, che s’inabissa nel soprannaturale e i cui modelli, oltre a King, sembrano essere Pinocchio e L’isola del tesoro. Puoi parlarcene, cominciando da come è nata l’idea?
L’idea nacque osservando mio figlio, che allora aveva tre anni e mezzo, parlare con uno sconosciuto dalla statura imponente. Li separava una rete alta un metro e mezzo, mio figlio teneva le minuscole dita agganciate alla rete e il minuscolo naso premuto contro la rete e trillava minuscole confidenze allo sconosciuto, e io realizzai in un attimo l’eterea fragilità della vita. Il resto venne di conseguenza, ma il romanzo è nato lì.
Progetti futuri? Stai scrivendo qualcosa?
Sto lavorando a parecchie cose diverse. Ho dedicato tutto il 2017 alla stesura di un romanzo piuttosto lungo e complesso, che ora si trova in stand by. Quest’anno ho ripreso in mano un tomone che scrissi addirittura nel 2011/2012. Non che non fosse finito, ma sentivo di doverci lavorare ancora, e ho tenuto in serbo la faccenda in un angolo della memoria. Leggere Lonesome Dove di Larry McMurtry, l’autunno scorso, oltre che emozionarmi ed entusiasmarmi, mi ha fatto comprendere in che modo ripigliare il vecchio mostro. Il guaio è che il mostro non accenna a dichiararsi vinto, né a smettere di crescere. Allora, per concedermi una tregua, da un po’ l’ho lasciato di nuovo a maturare, e ho ripescato un racconto lungo (o romanzo breve) buttato giù fra il marzo e l’agosto del 2016 (scrivo davvero troppo). Credo e spero di aggiustarlo definitivamente entro l’estate. Si tratta di una storia secca e feroce, molto meno impegnativa a livello di mole e di gestione rispetto alle due di cui sopra. Adesso sembra che mi piaccia, ma so che arriverà un momento in cui non mi piacerà più. Succede sempre così, ma sospetto di essere in ottima compagnia. Infine mi solletica l’idea di un saggio che unisca i miei due autori prediletti – uno poeta, uno romanziere. In questa intervista vengono citati entrambi, ma poiché non sono nemmeno sicuro che l’idea si traduca prima o dopo in azione, preferisco mantenere il riserbo e non aggiungere altro.
Domanda classica: preferisci leggere o scrivere?
Quando leggi e scrivi per anni e anni con una certa costanza, l’una cosa si nutre dell’altra. Per me leggere significa fare benzina, e scrivere consumarla. Mentre però posso trascorrere dei periodi – non troppo lunghi – senza scrivere, non posso mai rimanere senza leggere. Non basta; oltre al libro o ai libri che sto leggendo, devo avere una discreta scorta pronta all’uso. Inoltre, scrivere è sempre faticoso, mentre leggere lo è assai meno.
Oltre alla lettura e alla scrittura, quali altre passioni hai?
Il calcio e lo sport in genere; e la montagna. Invece mi accorgo di trascurare l’amicizia, che in altri periodi è stata pressoché tutto, per me. L’amicizia è la più pura, la più immacolata, la più limpida delle passioni.
E la famiglia?
Ho una moglie e due figli che amo. Nietzsche diceva: aut liberi aut libri, ma io non sono Nietzsche… E poi è falso, almeno per quanto mi riguarda, che la famiglia ti ostacola nella scrittura. Riducendo il tempo che hai a disposizione ti costringe a sfruttarlo meglio, a concentrarti di più. Inoltre ti spalanca una gamma di emozioni e sentimenti nuovi, problematici da immaginare in astratto. E infine, il mio primo figlio è nato nel settembre 2009, e ho pubblicato il mio primo libro nel marzo del 2010.
Come ti guadagni da vivere, posto che difficilmente ci si mantiene scrivendo romanzi?
Ho la fortuna di essere il figlio unico di una famiglia abbastanza benestante, e di avere una moglie con un impiego fisso. Ho fatto parecchie supplenze di italiano e storia negli istituti tecnici, ma non potendo contare su un gran punteggio debbo spostarmi di continuo al nord da Salerno (dove vivo), per cui da un po’ di tempo dirado le trasferte. Arrotondo grazie a corsi, articoli, piccole iniziative culturali, ripetizioni. Coltivo un paio di progetti, ma per scaramanzia preferisco non parlarne.
Che tipo di persona sei? Pirata, onesto, irriverente, rispettoso, serio, scanzonato, pragmatico, con la testa tra le nuvole, idealista, disilluso?
Direi con la testa fra le nuvole, onesto, idealista. E individualista.
E Dio? Che rapporto hai col trascendente?
Dio è una ricerca continua. Non posso definirlo, non posso nemmeno afferrarne un concetto, perché Dio non consiste in una risposta bensì in una domanda. L’uomo è quello strano animale che irrompe nel creato e domanda: perché? Il fatto che possediamo la coscienza – uno spaventoso buco senza fondo dentro un miserabile, mortale, patetico corpicino – rappresenta uno scandalo così sbalorditivo… Credo di credere, con molta approssimazione, che Dio abbia a che fare con la coscienza, che Dio potrebbe essere la coscienza della coscienza, una sorta di ur-coscienza, e cioè un sapere che fuoriesce dal cortocircuito del Logos, che non s’impiglia nella rete della Caduta.
E con la letteratura? Capisci meglio il mondo o la letteratura? O sono un unicum?
Capisco molto meglio la letteratura, benché non sia certo un Auerbach. Il mondo è infinitamente più arduo da capire. È impossibile capire il mondo. Se uno pensa sul serio al mondo, o peggio ancora all’universo, o agli universi, diventa pazzo. Se uno si mette a fissare con intensità e concentrazione un cielo stellato per venti minuti di fila… be’, eccolo bello e pronto per la camicia di forza. Un fiore è molto più difficile da capire dell’Amleto. L’Amleto si riallaccia a ciò che dicevo prima. L’uomo è quell’essere cui non basta esserci, e allora s’imbarca nelle imprese più strane pur di comprendere perché c’è. L’Amleto può prestarsi a mille diverse interpretazioni, una rosa non accetta nessuna interpretazione. Una rosa è, punto e basta.
Che cosa è per te letteratura e cosa non lo è?
Dopo Rimbaud, e dopo il suo silenzio, mi verrebbe da dire che niente sia più letteratura… Ma se vogliamo provare a rispondere, e soprattutto se non vogliamo cominciare uno sproloquio che durerebbe perlomeno un centinaio di pagine, potremmo affermare che la letteratura è una materia variegata frutto di un’attività intellettiva, e che sostanzialmente è buona o cattiva (Wilde docet). Esiste un sacco di cattiva letteratura, parecchia letteratura buona, poca grande letteratura e ancor meno grandissima letteratura. Ma questa piramide di meriti e demeriti si ripropone in qualunque altro ambito, dalla musica all’arte culinaria allo sport.
I tuoi cinque libri capitali e i tuoi cinque film…
Difficilissimo, anzi impossibile! Ti dico cinque libri, ma domani uno di loro potrebbe essere sostituito da un altro, o due di loro, o perfino tre… Adesso, i primi cinque che mi vengono in mente sono It, Una stagione all’inferno, I demoni, Moby Dick e Lonesome Dove (ex aequo con La Storia). I film invece: Il mio nome è nessuno, Le ali della libertà, Mystic River, Will Hunting, genio ribelle e Un tranquillo week end di paura. Ho gusti cinematografici piuttosto dozzinali. Ci sono un sacco di film leggeri che rivedo all’infinito. Harry ti presento Sally lo so a memoria. E adoro Predator e tutto il filone fanta/horror. Un film troppo impegnativo tendo a scansarlo, perché nel cinema cerco altro. Mentre guardo un film non voglio pensare troppo, infatti i film di Kubrick, Bergman o Lynch, tanto per capirci, mi fanno addormentare dopo circa trentasei secondi.
Il mio nome è nessuno. Anch’io sono un appassionato di quel film. Un bilancio sulla tua attività di scrittore? Cose da salvare e cose da cancellare…
Salvo solo la mia unica raccolta di poesie, L’abete nel cerchio, uscita con Saya editore nell’ottobre scorso. Vi ho radunato settanta delle centinaia e centinaia di liriche che scrissi oramai tanto tempo fa. Lì dentro c’è molto di me, ma increspato dagli anni come un vento lieve increspa la superficie dell’acqua. Il resto evito di rileggerlo, pur continuando a ringraziare tutti coloro che hanno creduto in me e che mi hanno permesso di pubblicare.
Sei uno scrittore sicuro dei propri mezzi o è il contrario?
Sono abbastanza sicuro dei miei mezzi da osare quest’avventura oscena che è scrivere libri e pretendere di pubblicarli; e sono abbastanza consapevole dei miei limiti da desiderare di sprofondare all’inferno.
Quando scrivi un romanzo che cosa ti prefiggi? Quali risultati, quali obiettivi, rispetto all’arte e al pubblico? Che cosa significa per te scrivere un romanzo?
Su dieci buone idee che mi vengono, di media solo una si tramuta in romanzo. Per cominciare a sobbarcarmi l’immensa fatica di scrivere un romanzo mi occorre uno slancio di fede. È come gettarsi in mare senza vedere l’altra sponda; occorre sperare che ci sia, e che si sia in grado di raggiungerla; e occorre accettare il rischio di andare giù… Rispetto al pubblico non mi prefiggo risultati, anche perché lo ritengo inutile. Ho sempre pensato di scrivere roba parecchio accessibile e parecchio godibile, invece finora sono rimasto un autore di nicchia. Ma sarebbe bellissimo che mi leggessero tante persone! Sarebbe incredibilmente gratificante, immagino; ed è forse la cosa che desidero di più, scrivendo. Rispetto all’arte mi prefiggo quel genere di obiettivi folli – realizzare un Grande Romanzo!, affermare Verità Nuove! – che si rivelano utili per mettersi all’opera. Il fatto che tali obiettivi vengano sistematicamente disattesi fa parte del gioco (crudele): così la prossima volta avrai un motivo per tentare e fallire di nuovo, no?
La cosa che ti ha fatto più soffrire nella vita e quella che ti ha dato maggiore gioia?
Quando morì mio nonno materno – avevo 12 anni – provai un dolore immenso, perché gli volevo bene e perché scoprii che la morte esiste davvero, che arriva, ti ghermisce e ti porta via. Non credevo potesse accadere, e forse una parte di me continua a non crederci. La gioia più grande non la colloco in un momento ma in una fascia, ancorché distinta: le estati fino ai dieci, undici anni. Non ho mai più provato, dopo di allora, quel senso di libertà, spensieratezza, precisione, acutezza, agilità, freschezza, spontaneità, gratuità, gratitudine e immortalità.
La montagna per te è importante mentre non ami il mare. Perché? Ti è piaciuto Otto montagne di Cognetti?
Amo la montagna – e meno il mare – perché sono nato e cresciuto in una città di montagna, L’Aquila, e perché i miei genitori mi portavano sempre in vacanza alle Dolomiti. La montagna è anzitutto uno stato mentale: salire verso una cima equivale a meditare col corpo (in realtà ogni forma di meditazione avviene tramite il corpo, ma salendo in cima una montagna lo si avverte con la rotonda esattezza di un ingranaggio). Man mano che procedi, che fatichi, che ti innalzi, la tua mente si purifica e raggiunge l’essenziale. Niente cazzate lassù: la montagna è l’osso della vita. Le otto montagne mi è piaciuto. Credo abbia influito il mio interesse verso un certo tipo di ambientazione, ma secondo me Cognetti ha fatto un bel lavoro di misura, che poi è il suo pezzo forte: ha detto tutto senza dire mai troppo.
Un’ultima domanda canonica. Come vorresti essere ricordato, come uomo e come scrittore?
Non so se voglio essere ricordato come scrittore, perché quando vieni ricordato vieni fatalmente incasellato, e io odio essere incasellato. Mi piacerebbe però che i miei libri resistessero al passare del tempo. È probabile che non accadrà, ma io ce la metto tutta. Come uomo, mi piacerebbe che di me si parlasse poco, e solo da parte dei pochi che davvero mi hanno conosciuto, mi conoscono e mi conosceranno.
Abbiamo finito. È stato un piacere parlare con Macioci. Uno scrittore con il senso della misura e una consapevolezza di pregi e limiti quasi unica nel mondo editoriale. Senza fronzoli e con le idee chiare e una scrittura cristallina, dotata di ritmo. Ma anche accessoriata sul piano psicologico. Un erede di King? Ai lettori la sentenza. Dopotutto perché non cullarci ogni tanto nell’idea che la letteratura non abbia confini? Alcuni tra i migliori western non sono stati forse realizzati da registi italiani? Sono gli stessi americani a riconoscerlo. E di certo Macioci tra gli autori italiani è quello che più si avvicina al grande scrittore del Maine. King sarebbe d’accordo con me, ne sono certo. Vero, Stephen?
Gianluca Barbera
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fondazioneterradotranto · 8 years ago
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Un commento alla “Sartoria delle zie” di Chiara Briganti
di Vanni Greco
Hanno un grande fascino, Chiara, le tue parole.
Lo faccio con molto rispetto, ma mi è venuto di darti del tu in modo naturale. Forse perché ci hai accompagnato amabilmente nella sartoria dei tuoi ricordi con la grazia e leggerezza della persona cara, di famiglia, che racconta prendendosi cura di chi ascolta, di chi legge, mettendolo a suo agio. Senza alcuna vanità, ma con una sincerità che, prima di lasciarsi irreggimentare dalla ragione, attinge alla fonte vitale dell’anima. Virtù rara.
Il tuo breve racconto, dalle immagini limpide e vivaci che catturano e coinvolgono, ha richiamato alla mia memoria una confidenza, dall’identica ambientazione, che nella mia prima adolescenza venne non da una bambina attratta da quel mondo femminile, colorato ed elettrizzato dall’abito nuovo che prendeva forma, nel quale le fantasie della ragazza cominciavano a far capolino. Fu invece la confidenza di un maschietto mio coetaneo che, anche lui nella casa-sartoria delle zie, non appena giungeva l’eco di voci femminili in movimento, dal giardino sul retro guadagnava in segreto l’accesso alla camera da letto matrimoniale destinata alla prova delle vesti davanti allo specchio grande dell’armadio e, nascosto sotto il lettone, trattenendo quasi il respiro, dall’oscurità di quella ricercata prigione lanciava i suoi occhi su viste chiare e luminose, d’un bianco spesso maestoso sul quale talvolta inattese chiome nere contrastavano tanto ribalde da arrestare il cuore. Occhi che si lanciavano alla conquista di sinuosi e morbidi panorami di valli, colline, montagne ora separate da gole strette ed anguste, ora adagiate su ampi ed aperti scenari. Che magnifici spettacoli! Che viaggi emozionanti!
Non ricordo che il mio amico m’abbia mai parlato di «’nfilare l’imbastire» comandato dalle zie, ma solo di rari, complici rimbrotti per quell’inguaribile passione del nipote per il gioco del nascondino. Che peccato non avere più zie così preziose per la nostra …educazione sentimentale. Colpa della diaspora delle famiglie ormai troppo tese a rincorrere, isolate, lontane lusinghe che illudono la felicità dell’una di poter fare a meno della felicità dell’altra famiglia.
Anch’io cominciavo in quegli anni a guardare con grande interesse alla forma racconto che, non certo nella sua proposizione scolastica poco stimolante, mi arrivava più diretta per via di quelle voci suadenti che, preferibilmente a casa dei nonni, cullandomi, mi affascinavano nelle fredde sere d’inverno davanti al camino acceso o nelle afose sere d’estate fuori dall’uscio, ssittati annanzi casa, anelando un soffio di tramontana.
Da più grandicello, mi sono anche interrogato sui racconti del mio amico chiedendomi se non fossero il frutto della fervida fantasia di un adolescente, cui le prime esuberanze ormonali fornivano la spinta narrativa decisiva. Un dubbio però che, a conti fatti, non ha mai minimamente intaccato la seduzione di quelle narrazioni, in cui la verità assumeva un ruolo del tutto marginale. Sarà perché, come acutamente ci fai notare, Chiara, «avevo bisogno di veder assecondato il mio orizzonte d’attesa». Splendida illuminazione di cui ti sono profondamente grato.
Fai molto bene a riconoscere nell’atto generoso di parlare per qualcuno le forme dell’amore. Sommessamente mi pemetto di aggiungere che un atto d’amore di pari grandezza può essere lo smettere di parlare, che non richiede di smettere d’amare, e che diventa saper ascoltare, proprio come fai tu che dimostri di frequentarlo con altrettanta intimità. Ascoltare che, lungi dal confinarci in uno stato inoperoso, esalta la più nobile capacità di sentire, di mobilitare tutti i nostri sensi, di celebrare un sentimento che al suo apice si trasforma in assoluto atto devoto di adorazione che, nell’«ascoltare sempre», tratteggia il sublime traguardo dell’amare per sempre. Per sempre.
Grazie ancora per averci parlato.
  La sartoria delle zie
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