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"Questo odore marino: l'inebriante poesia di Giorgio Caproni". Recensione di Alessandria today
Un viaggio tra memoria e sensazioni attraverso i versi evocativi di Giorgio Caproni.
Un viaggio tra memoria e sensazioni attraverso i versi evocativi di Giorgio Caproni. Recensione: Il profumo della memoria “Questo odore marino” di Giorgio Caproni è una poesia che si dispiega come una sinfonia di ricordi e sensazioni. Attraverso immagini olfattive e visive, il poeta cattura l’essenza di un momento intimo, un frammento di vita che si collega indissolubilmente all’odore del…
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Il tocco del silenzio
La pioggia cadeva lenta, come se il cielo stesso stesse piangendo in silenzio. Il suono delle gocce che colpivano i tetti delle case era un ritmo costante, ipnotico, e il profumo della terra bagnata riempiva l’aria con la sua essenza cruda e primitiva. Mi trovavo davanti al vecchio palazzo sulla collina, avvolta nel mio cappotto, mentre osservavo le finestre illuminate che scintillavano…
#Amore e mistero racconti brevi#Legami tra anime e destino#Racconti d’amore misteriosi#Racconti emozionanti e poetici#Storie romantiche per giovani donne
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House of the Dragon 2 Episodio 1: A Son For A Son recensione ed analisi
Dopo quasi due anni dal suo debutto la serie spin-off prequel di “Game of Thrones” House of the Dragon è finalmente tornata con la sua seconda stagione. L’attesa è assolutamente valsa la pena. Tante cose sono cambiate rispetto alla prima stagione ma il livello tecnico della serie HBO è soltanto aumentato.
la regia di Alan Taylor, dietro la macchina da presa del primo episodio della nuova stagione della serie, ha saputo cogliere le micro espressioni dei personaggi ed il loro dolore. Si sofferte tanto nel primo capitolo, il dolore di Rhaenyra dal lato dei neri ed il trambusto generale da quello dei verdi. La guerra interna alla famiglia del drago sta per entrare ufficialmente nel vivo perché dopo questo episodio sarà impossibile tornare indietro.
Allo stesso modo per voi sarà improponibile staccarvi dalla schermo. Nonostante tutto non mancano differenze importanti con il romanzo di Martin, cambiamenti che causeranno diverse complicazioni nella relazione tra i personaggi.
Nulla è più come prima!
Se avete atteso House of the Dragon 2 con la speranza di ritrovare i vostri amati personaggi esattamente come li avete lasciati due anni fa, resterete delusi. In House of the Dragon 2 nulla è come lo abbiamo lasciato. Non solo ora Aegon siede comodamente sul trono di spade e si dimostra decisamente impreparato al ruolo di re, ma Rhanerya sta vivendo il momento più doloroso della sua vita: ha perso Lucaerys e non si darà pace finché non troverà una prova concreta della perdita del suo piccolo.
Queste sono soltanto due delle prime situazioni che saltano subito all’occhio dello spettatore ma tutti i personaggi sono cambiati. La morte di Viserys ha diviso la sua famiglia marcatamente in due, scagliando la scintilla della guerra. Tutti i personaggi sono leggermente diversi da come li avevamo lasciati, c’è chi è più fragile e chi in cerca di vendetta, ma tutti sono mutati e non sempre per il meglio.
Il grandissimo cambiamento di House of the Dragon riguarda in primo luogo la siglia. Nel 2022 la sigla rappresentava chiaramente il titolo del romanzo da cui la serie è tratta: Fuoco e Sangue. Infatti vedevamo un liquido cremisi, ed era chiaramente sangue, scorrere tra i vari sigilli. Tale liquido rappresentava i legami di parentela tra i vari membri della famiglia Targaryen. La sequenza partiva dal sigillo di Aegon il conquistatore per poi procede verso quello delle sue due sorelle-mogli, Visenya e Rhaenys, fino ad arriva a Rhaenyra, l’erede designata da Viserys.
Nel 2024 tutto cambia: al posto del sangue che scorre tra i sigilli ecco un arrazzo che man mano crea illustrazioni mediante i ricami e ripercorre le vicende che già conosciamo ma con toni se vogliamo ancora più poetici. Man mano che la sigla si svolge nuovi ricami si aggiungono fino ad arrivare alla contrapposizione tra Team Black e Team Green rappresenta da Rhaenyra sul trono di Roccia del drago e Aegon sul Trono di spade. Un cambio di sigla interessante che farà desiderare a tutti i fan della serie di possedere un quadro con le magnifiche illustrazioni dei minuti iniziali di ogni episodio ( chi vi scrive sarà fuori dal coro ma preferivo la sigla della scorsa stagione). A restare costante è però l’iconica colona sonora di GOT, davvero insostituibile.
Poetico e se vogliamo persino nostalgico è l’inizio del primo episodio di House of the Dragon 2. Come molti avevano spifferato, tra cui anche gli sceneggiatori della serie, House of the Dragon 2 apre il suo sipario al freddo ed al gelo. Ci troviamo subito al Nord, meglio ancora all’estremo Nord dato che Jace e Lord Cregan Stark sono letteralmente sulla barriera.
Il giovane Lord di Grande Inverno interpretato da Tom Taylor non ha bisogno di presentazioni: è fin da subito immediatamente riconoscibile anche solo grazie alla spada, Ghiaccio, che porta legata alla schiena. Cregan ha scelto di portare Jace, futuro erede al trono di spade, sulla barriera perché desidera che colui che sarà prima o poi re possa percepire con i suoi occhi la minaccia degli Estranei. Ovviamente questo inizio di stagione strizza inevitabilmente l’occhio ai bei tempi di GOT ed a tutte le emozioni che il pubblico ha provato, e prova ancora, vedendo semplicemente lo stemma degli Stark.
Sappiamo che Jace si è recato al Nord in groppa al suo drago per ottenere la conferma della fedeltà da parte del leader degli Stark, conferma che non tarda ad arrivare dato che Lord Cregan Stark ci tiene a precisare che gli uomini del Nord sono persone d’onore e non sono soliti ad infrangere un giuramento. Già da questa breve scena possiamo vedere che la serie tv ha scelto di modificare alcune cose rispetto al romanzo di Martin: non vediamo il tempo che Jace ha trascorso al Nord, periodo nel quale è diventato amico stretto di Cregan, né assistiamo alla richiesta del sovrano del Nord. Cregan, nel romanzo, giura fedeltà a Rhaenyra ma in cambio richiede un matrimonio tra la sua primogenita e il primogenito maschio che in futuro avrà Jace. Ovviamente questi dettagli potrebbero essere aggiunti in un secondo momento, nel caso in cui Jace tornasse al Nord, ma forse non avverrà in questa stagione visto che stando a quanto detto da fonti attendibili questa sarà l’unica apparizione del lord di Grande Inverno per questa stagione.
Data la breve introduzione non assistiamo nemmeno al primo incontro ta Jace e Lady Jeyne Arryn, la Lady della Valle. Anche se come avviene nel romanzo, la sovrana della Valle giura fedeltà a Rhaenyra in cambio di un drago a protezione della sua dimora. Siamo certi che vedremo il personaggio nei prossimi episodi dello show, soltanto che non lo vedremo interagire con Jace ma molto più probabilmente con Rhaena.
Team Black vs Team Green
Nelle varie promo di House of the Dragon 2 la serie ha scelto di puntare tutto sulla contrapposizione tra i due schieramenti: quello nero capitanato da Rhaneryra e quello verde presieduto da Aegon. La serie tv prosegue questa tendenza presentandoci le due fazioni mediante una continua contrapposizione di scene, molte delle quali sono state montate a specchio.
Il dolore graffiante ed assordante di Rhaneyra è il grande protagonista del primo capitolo. La regina dei neri non si da pace: finché non avrà una prova concreta della perdita del suo secondogenito continuerà a sperare ed a cercalo. Questa speranza e questo dolore le impediscono di fare qualsiasi altra cosa. Non presta attenzione alla guerra imminente, alla ricerca di alleati ed alla sua posizione; è talmente trafitta dal dolore da non riuscire nemmeno a tornare a casa. Non abbiamo mai visto una Rhaenyra così sconvolta e sopraffatta dai sentimenti, d’altronde però questa sua nuova versione è il frutto di tutto ciò che ha represso nella prima stagione della serie.
Deamon, dall’altra parte, vorrebbe agire subito. Il principe interpretato da Matt Smith vorrebbe conquistare subito Approdo del Re assieme a Rhaenys ed ai loro draghi ma sa benissimo che prima di fare una mossa simile occorre l’approvazione della Regina. Chi scrive non crede davvero che Daemon fosse convinto di riuscire a conquistare la città così facilmente e soprattuto senza un piano ben costruito. Il personaggio di Matt Smith in questa seconda stagione è assetato di vendetta. Non accetta in nessun modo quello che è successo e non desidera cedere terreno ai nemici. Daemon non è un personaggio diplomatico ma un ottimo cavaliere di drago ed un soldato dotato.
Risponderebbe al fuoco con molto più fuoco, ma non sempre è l’idea migliore. I verdi ancora non sanno chi si sono messi contro. Daemon non ha troppi peli sulla lingua ed ha un codice morale tutto suo, ma è un personaggio leale o almeno così sembra. In questi primo episodi di House of the Dragon 2 è accecato dalla vendetta ed agisce in base ad essa.
In merito all’episodio di Blood and Cheese è necessario un approfondimento più dettagliato che troverete più avanti.
Grazie alla tecnica delle sequenze montate a specchio lo show ci presenta i verdi decisamente meno addolorati, all’inizio, ma comunque molto turbati per ciò che Aemond ha compiuto alla fine della stagione precedente. Con la morte di Luke la guerra è diventata inevitabile e benché Alicent non voglia accettarlo entro il secondo episodio se ne farà una ragione.
La Regina madre la vedrete per la prima volta agire per il suo interesse personale, comportarsi come davvero vuole anche se ciò che farà sarà in violazione a tutti i codici morali che si è sempre autoimposta. Per una volta Alicent agirà spinta dal suo desiderio e non da quello del padre o della sua casata. Peccato che forse queste nuove emozioni la spingeranno ad abbassare la guardia proprio quando i verdi sono più vulnerabili e non la porteranno a sviluppare un istinto materno di protezione ed empatia verso i suoi figli. La grande novità per Alicent riguarda proprio la relazione con Ser Criston Cole, una storia che nei romanzi non è mai stata resa canonica ma solo rumoreggiata da una delle fonti. La ship per chi vi scrive la sua introduzione è totalmente superflua, c’era o non c’era non avrebbe fatto differenza è sembrato quasi fosse inserita solo per poter avere delle scene di sesso negli episodi ( opinione totalmente personale quindi per cortesia si evitino gli insulti nei commenti), ma è palese che l’intento con il quale è stata costruita verte solo in favore del fandom ( una fandom di cui sinceramente ignoravo l’esistenza per quanto riguarda questa ship).
Aegon è inequivocabilmente non idoneo a portare la corona. Non è stato preparato al ruolo di re e al tempo stesso non sembra intenzionato a voler imparare. È stato messo sul trono contro la sua volontà ed ora agirà seguendo solo il suo istinto e mosso dal desiderio di vendetta. Siamo certi che il personaggio avrà modo di mostrarsi in tutte le sue sfumature.
Da elogiare è la regia di Alan Taylor che, in un solo capitolo ci dimostra che il livello tecnico dello show si è alzato. Mediante primi piani sui personaggi comprendiamo a pieno le loro emozioni, come se fossimo immersi letteralmente nella storia. Il primo episodio non è ricco d’azione ma anche dove le sequenze più movimentate sono presenti Taylor non si lascia trovare impreparato. Alcune inquadrature sono davvero mozzafiato.
Blood and Cheese
Il primo episodio di House of the Dragon 2 è intitolato “A son for a son” (Un figlio per un figlio) ed ha quindi come colonna portante un episodio chiave del romanzo. Quello che i fan di Martin hanno soprannominato Blood and Cheese. Peccato che la storia nel romanzo sia parecchio diversa rispetto a quella riproposta nella serie tv. Ed i cambiamenti apportati nello show modificano non di poco le relazioni tra i personaggi.
Se nella serie tv l’episodio di Blood and Cheese nasce come un’idea di vendetta di Daemon in favore di Rhaenyra, è lui a chiedere informazioni a Mysaria, già presente a Roccia del drago, ed è sempre lui ad intrufolarsi nella città per assoldare i sicari; nel romanzo non è cosi. Deamon, già ad Harrenhal, fa recapitare un corvo a Roccia del Drago diretto alla moglie. Nella lettera Dameon scrive “un figlio per un figlio” ed ecco spiegato il titolo dell’episodio, ed aggiunge “Luke sarà vendicato”. Daemon non si reca direttamente ad Approdo del Re ma fa fare tutto ad un intermediario (è stata Mysaria ad ingaggiarli) di cui si fida ciecamente.
L’ordine di Daemon nel testo di Martin è quello di eliminare il primogenito di Helaena e non Aemond, come invece avviene nella serie tv. Nello show questo cambiamento ha senso perché è Aemond il responsabile della scomparsa di Luke e tutto ciò ci dimostra ancora una vota che la guerra della serie vede contrapposte Alicent e Rhaenyra, dato che “un figlio per un figlio” farebbe propio riferimento a questo dualismo. Viceversa nei romanzi lo scontro è tra Rhaenyra e Aegon, uno scontro tra fratelli.
Se nella serie tv viene lasciato il dubbio sulle vere indicazioni di Daemon in merito all’episodio. Il principe consorte ordina ai due di uccidere Aemond ma non sappiamo cosa potrebbe aver detto fuori schermo e la serie lascia il tutto volutamente in dubbio. Diversamente, nel romanzo le indicazioni sono chiarissime: i due sicari sanno che la regina Helaena prima di mandare a letto i suoi tre piccoli, perché nel testo ha 2 i gemelli e Maelor (un piccolo di 2 anni), fa visita alla madre con i bambini. Così Blood and Cheese si dirigono negli appartamenti di Alicent, la legano ed attendono l’arrivo della regina per poi chiederle a quale figlio desidera rinunciare. La giovane sceglie il piccolo Maelor perché avendo due anni riteneva che forse non fosse in grado di capire oppure non voleva rinunciare all’erede. Peccato che Blood and Cheese prendono proprio Jaeherys, il primogenito.
Nella serie tv Blood and Cheese non conoscono molto bene la pianta della Fortezza Rossa, infatti anche se cercano Aemond, e non lo trovano perché non è a palazzo, si dirigono casualmente da Helaena (l’interpretazione di Phia Saban incredibile) che, non avendo nella serie il terzo figlio ed essendo i due gemelli identici, deve indicare loro quale dei due è il maschio. Lei sceglie subito Jaeherys, forse proprio per vendicarsi di Aegon o forse perché desidera proteggere la sua piccola. Non lo sappiamo. Alicent non è presente in quel momento perché il tutto non avviene nei sui appartamenti e lei è occupata con Cole ( nota a margine ci tengo a dire che la scena dove Haelena entra nelle stanze della madre e vede i due hanno letteralmente troncato la drammaticità di ciò che era avvenuto poco prima creando un effetto soap opera, sinceramente evitabile come situazione). Ciò che avviene con Blood and Cheese nel romanzo segna per sempre Helaena, dato che non sarà più se stessa e si lascerà completante andare al dolore, tanto che non riuscirà più ad accudire Maelor, che verrà assegnato alla cure di Alicent.
Altra differenza all’interno della serie tv è che Daemon ha agito alle spalle di Rhaenyra e questo avrà enormi conseguenze nella loro relazione. Gli sceneggiatori hanno scelto di mostrare un Daemon ancora più vendicativo ed impulsivo del solito, beh non che ci si possa aspettare altro da lui.
In conclusione questo primo capitolo conferma tutte le cose positive della prima stagione e migliora la serie sotto il profilo tecnico esaltando la bravura del cast, peccato che pecchi leggermente nell’adattamento di un momento chiave del romanzo provocando così ripercussioni a catena che non vediamo l’ora di scoprire assieme a voi.
Conclusioni
In conclusione il primo capitolo di House of the Dragon 2 ha rispettato quasi tutte le aspettative: qualità tecnica in pieno stile HBO, personaggi tridimensionali che evolvono da una stagione all'altra e regia minuziosa. Peccato solo per l'adattamento di Blood and Cheese poteva essere fatto meglio.
👍🏻
I personaggi sono cambiati ed tutti si mostrano come il frutti dei loro traumi
La regia è a livelli cinematografici
La fotografia è luminosa, scordatevi il buio di alcuni episodi della precedente stagione
Il cast è pazzesco
👎🏻
sono presenti diverse differenze rispetto al romanzo di Martin, in punti davvero molto cruciali
La nuova ship c’era o non c’era non fa differenza
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AGRONOMIST
presenta
TUTTI PAZZI
primo singolo
tratto dal primo disco solista in uscita a fine anno
(Orangle / The Orchard / Sony)
GUARDA IL VIDEO
youtube
Il video
Il video del brano è girato interamente sul territorio lucano con persone reali, differenti, anche neuro divergenti, senza comparse o attori professionisti.
Musiche, testo e concept di Vincenzo Lofrano - Agronomist
Video di Walter Molfese
Il brano
Tutti pazzi è il primo singolo estratto dal mio primo disco solista.
Un brano inclusivo per i generi musicali e per gli esseri umani che celebra.
Una matrice hip hop che danza su ritmi energici post punk e garage rock. Un testo che ho fatto fatica a scrivere e che mi fa piangere ogni volta che lo risento, perché scava nel profondo e dice la verità. Ho fatto forse un buon lavoro.
“I normali non li voglio più… quelli sani pigliateli tu. Tutti pazzi, tutti pazzi, gli amici miei so tutti pazzi.“
Cosa è la normalità, cosa è la pazzia? Chi sta dentro i binari del giusto e del regolare e chi li travalica, sta ai margini, non rientra in categorie prestabilite, è considerato dalla società quasi un reietto, disadattato, emarginato.
“Fluidi nei sessi”, con lavori con nomi inventati, non troppo attaccati ai danari, ma molto fissati con i legami, precari, come gran parte della mia generazione, che si sente sempre fuori posto. Artisti, senza un posto di lavoro fisso, che forse non hanno trovato un posto nel mondo o che non hanno concepito ancora un figlio.
Forse senza un conto in banca rigoglioso o con non abbastanza followers, a differenza di molti rapper o celebrità. O forse bullizzati o dimenticati, perdenti. Tutto ciò può portare a sentirsi diversi, sbagliati, “pazzi”. Questo brano celebra proprio la ricchezza della varietà e tratta anche il tema della salute mentale e non per ultimo l’amicizia che unisce nella diversità, l’inclusività. Un’ analisi di ciò che vedo intorno a me e un’autoanalisi di ciò che vedo dentro di me.
La straordinaria bellezza della diversità, la non perfezione e la stranezza, come valori aggiunti, sia nella vita, che nell’arte, dove spesso si rimane appiattiti, schiacciati da etichette imposte dalle playlist, dai trend, dalle case discografiche, dai social, dai numeri, dalla società in generale, fino a non esprimersi più, fino a smettere di esprimersi e creare, per paura di essere fuori.
Libertà di essere sbagliati, diversi e bellissimi così. “Reietti, outsider, sottovalutati, ma altrimenti saremmo scontati. Decine, centinaia di nulla, che insieme hanno un valore straordinario.”
Estetica identitaria e unica che non si rifà a cliché esistenti, ma crea nuovi paradigmi, sonori, di linguaggio ed estetica.
Una Basilicata bucolica e quasi utopistica, ma anche futuribile e sicuramente alternativa, dove si può ricreare, ripartire, facendo perno sulla propria unicità, sulla propria lingua e molteplicità di dialetti, su una fauna differente con diversi usi, gerghi, stile e suoni.
I Boschi, i paesini, la piazza, i volti reali di ogni età, sesso, estrazione, persone reali con la loro “pazzia”, che li rende unici, preziosi e poetici.
Biografia
Agronomist: polistrumentista, producer, rapper, cantante, essere senza età. Emergente e emergenza, più artista che uomo. Sta forgiando un alternative hip hop con una forte contaminazione e commistione di generi. Non ha mai creduto nelle regole e nei dettami, quando tutti ci credevano. Non ho una scena di riferimento, solo la mia visione da esprimere.
Nato in Lucania, è fondatore della band Smania Uagliuns, gruppo di hip hop sperimentale, che si è distinto negli anni per originalità e innovazione ricevendo molte lodi dalla stampa.
Il suo primo singolo da solista è stato “WOW” (2020), prodotto dai Gumma Vybz. Dopo i freestyle della serie “Hit Mania Enz”, alcuni featuring e varie collaborazioni, a febbraio 2021 ha pubblicato il secondo singolo “Hype Blog”, prodotto dal londinese HLMNSRA. Nel 2023 ha collaborato con un altro producer, Zero Portrait, per il brano “Instagram” e all’inizio del 2024 ha pubblicato “BERLIN (Travel Freestyle)”.
Attualmente al lavoro sul suo primo progetto solista che sarà totalmente scritto, arrangiato, prodotto e cantato da me, in fase di finalizzazione.
Ogni aggettivazione o descrizione di generi e stili sarebbe fuorviante e sminuente.
Sarà ciò che nessun altro fa, con un’identità e una verità scioccanti sonicamente e liricamente parlando.
Il suo vero nome è Vincenzo Lofrano e, oltre a essere un musicista, è un dottore in traduzione letteraria e tecnico-scientifica.
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Stazione di Moretta, Stazione di Porto Empedocle, Stazione di Randazzo, Stazione della ferrovia delle Arance: Motta Sant Anastasia
ESERCIZI POETICI: LA STAZIONE ABBANDONATA
Se guardo la mia vita la vedo come una stazione ferroviaria abbandonata. Piano piano le persone che amavo, come i treni lenti che passavano, sono diminuite fino a scomparire; i viaggiatori, le persone che conoscevo e che erano studenti svogliati, impiegati annoiati, parenti apprensivi, lavoratori sempre stanchi, donne che osservavo affacciate dal finestrino mentre scomparivano nei miei sogni, sono ormai scomparsi, con i loro legami e i ricordi in cui li custodivo. Ricordi che erano come quelle valigie di cartone in cui i miei conterranei si portavano la loro terra per non morire. I binari della vita su cui sfrecciavano, arroganti e presuntuosi, sogni ed amori sono ormai arrugginiti, vuoti e abbandonati. L’erba dell’oblio cresce ovunque cancellando storia e presenze. La memoria, come la stazione dimenticata, diventa un insieme di polverose stanze abbandonate dove tutto quello che si era, ormai non ha più senso o utilità. Resta immacolata ed eterna intorno ad quest’inevitabile abbandono, la natura, con i suoi filari di prolifera vite ed i suoi campi ricchi dell’operoso ronzio degli insetti e il fruscio dell’erba selvatica che ad ogni stagione si rinnova. Noi uomini, ci poniamo sempre al centro dell’universo, ci pensiamo il senso del tempo, ma in fondo siamo una marginale fortunata casualità che qui, nel rovinare della vecchia stazione, è solo una testarda e fragile solitudine, l’ombra di una presenza che la natura sta lentamente e senza alcun dramma, divorando.
POETIC EXERCISES: THE ABANDONED STATION - If I look at my life I see it as an abandoned railway station. Day after day the people I loved, like the slow trains that passed, decreased until they disappeared; the travelers, the people I knew and who were lazy students, bored employees, apprehensive relatives, always tired workers, women I observed looking out the window while they disappeared in my dreams, have now disappeared, with their ties and the memories in which I kept them. You remember they were like those cardboard suitcases in which we sicilian brought our land so as not to die. The rails of life on which arrogant and presumptuous dreams and loves darted are now rusty, empty and abandoned. The grass of oblivion grows everywhere, erasing history and presences. Memory, like the forgotten station, becomes a set of dusty abandoned rooms where everything tis not longer makes sense or use. Nature remains immaculate and eternal around this inevitable abandonment, with its rows of proliferating vines and its fields rich in the buzzing buzz of insects and the rustling of wild grass that is renewed every season. We men, we always place ourselves at the center of the universe, we think about the sense of time, but in the end we are a marginal lucky chance that here, in ruining the old station, is only a stubborn and fragile solitude, the shadow of a presence that nature is slowly and without any drama, devouring.
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Arthur Rimbaud, il poeta che superò se stesso fino ad annientarsi
Anzi tutto, il fuoco. Ovunque. Un incendio. “Il poeta è veramente ladro di fuoco”, scrive Arthur Rimbaud, è il 15 maggio 1871, all’amico Paul Demeny. Proprio a lui, neanche un mese dopo, il 10 giugno, chiederà di verificare nel fuoco i versi che gli ha consegnato, “bruci, lo voglio… bruci tutti i versi che fui abbastanza stupido da darle”. L’opera va raffinata nel fuoco: da Virgilio a Kafka, transitando per Rimbaud, ignifugo alla vecchiaia, è lì l’ogiva dell’enigma. Il creatore vuole infuocare la creazione: gli sopravvivrà? Le ustioni della Stagione all’inferno, le braci, i bagliori e le comete delle Illuminazioni: Rimbaud, un incendio, incenerisce la grammatica per forgiare l’inaudito (“l’opera non risponde a una tipologia fissa né trova riscontri nei modelli letterari del tempo” è scritto di Une saison en enfer; opera “quasi senza retorica e senza legami” di “un poeta del tutto indipendente” sono le Illuminations secondo Jules Laforgue). Un certo disinteresse verso la fama, la sfiducia nei posteri, una insicura violenza, la violazione di ogni gineceo letterario, l’insoddisfazione, sono caratteri poetici distintivi di Rimbaud. Egli guarda alla letteratura – anche alla propria – e vede stagioni aride, campi bruciati, estasi disseccate. Rimbaud è l’estate, lo sfinimento, lo sfogo della fenice. “Non godette di fama durante la sua attività letteraria… perché si disinteressava del suo lavoro, avendo più volte superato o rinnegato alcune fasi del proprio percorso”; “L’insoddisfazione è al cuore del lavoro poetico di Rimbaud, e forse della sua stessa vita. Nasce dalla difficoltà di raggiungere obbiettivi troppo esigenti, ma anche dai continui mutamenti di questi ultimi. Essa è conseguenza di un costante bisogno di superarsi, e di misurarsi con le proprie forze”, scrive Olivier Bivort, professore di Letteratura francese a “Ca’ Foscari”, che ha curato l’edizione delle Opere di Rimbaud appena edita da Marsilio (la traduzione è di Ornella Tajani). Continua ad avere una urgenza primordiale, Rimbaud, tocca la cruna della fame, queste Opere sono una torcia per torchiare le resistenze della nostra anima (“Sul pendio della scarpata gli angeli fanno roteare le vesti di lana fra i pascoli d’acciaio e di smeraldo”). D’altronde, il fuoco non chiede, accade – e non condivide la biliosa distanza tra alba e tramonto, lega le cose, frantumandole. Il formato di questa edizione è perfetto, la dedizione accuratissima: potete stiparlo nella giacca e andare alla conquista del mondo, per perdervi e ritrovarti, chissà dove. (d.b.)
Domanda preliminare. Mi riassuma in cosa consiste la ‘novità’ di questa edizione delle Opere di Rimbaud, e la necessità di una ritraduzione.
L’ultima edizione italiana delle opere risale al 1992, ed è esaurita (tra l’altro non era del tutto originale: si trattava della traduzione/adattamento delle opere complete per la “Bibliothèque de la Pléiade” francese, a cura di Antoine Adam, risalente al 1972). Le edizioni delle opere “complete” (nessuna, tranne la ‘Pléiade’ Einaudi è realmente completa) disponibili nel catalogo italiano sono ancora più datate: Margoni (Feltrinelli) è del 1963, Bona (Einaudi) del 1973, Grange Fiori (Mondadori) del 1975, Bellezza (Garzanti) del 1983… Passati quaranta anni e più, non solo è cambiata la struttura dell’opera, ma anche le prospettive critiche che la animano. Diamo oggi al lettore italiano la possibilità di leggere tutte le poesie di Rimbaud (compresi i versi latini, i pastiches o i versi «osceni», una parte importante della corrispondenza, ma anche gli ultimi testi scoperti recentemente (Il sogno di Bismarck, la lettera a Andrieu), per la prima volta presentati in Italia. Rispetto ai commenti delle edizioni precedenti, generalmente fondati su due edizioni francesi di riferimento (quella di Suzanne Bernard del 1960, quella di Adam del 1972), il nostro lavoro prende in conto gli ultimi sviluppi critici, particolarmente vivi dagli anni Novanta in poi, ma senza imporre una griglia interpretativa preconcetta: abbiamo cercato di dare strumenti di lettura atti a favorire la comprensione dei testi, proponendo una lettura articolata di ogni componimento, confrontando i testi nell’ambito dell’opera complessiva e evitando forzature ermeneutiche di tipo biografica/simbolica/psicanalitica ecc. Il testo rimane sempre al centro del nostro commento. La nostra edizione fornisce anche tutte le garanzie filologiche legate a un’opera rimasta quasi interamente manoscritta: il testo di ogni componimento è stato verificato sui manoscritti e una breve (ma completa) descrizione di tutte le versioni esistenti, corredata dall’indicazione dei facsimile disponibili, è posta a capo di ogni commento. Infine, abbiamo scelto di strutturare l’opera seguendo un criterio cronologico, onde evitare forzature nell’aggregare i componimenti secondo immaginarie “raccolte” mai previste dall’autore, come si è verificato in alcune edizioni francesi recenti. Per quante numerose, le traduzioni italiane esistenti sono fortemente legate al periodo storico al quale appartengono, e risentono di un’impostazione linguistica propria del linguaggio poetico italiano (e non solo della versificazione, qualora le poesie vengono adattate alle forme metriche italiane): abbiamo voluto dare voce a Rimbaud in italiano, conservando i tratti formali che ne costituiscono l’originalità in francese (senza piegarli all’uso comune italiano): laddove Rimbaud risultasse prosaico, tecnico o addirittura volgare, laddove la sua sintassi risultasse ellittica o al limite della grammaticalità, ci è sembrato giusto che il lettore italiano né cogliesse la singolarità. Il risultato è un Rimbaud rinfrescato, le cui innovazioni appaiono chiaramente nella traduzione (vedi la Nota alla traduzione di Ornella Tajani).
Nella sua introduzione sottolinea l’“orfanità primordiale”, l’eterna rincorsa nel gorgo della vita, “l’insoddisfazione… al cuore del lavoro poetico di Rimbaud”. Pare che Rimbaud scriva annientando. Qual è il carattere prioritario dell’opera di Rimbaud e quale la poesia che, a rileggerla, la ha entusiasmata, con rinnovata forza?
Non mi pare ci sia un “carattere primordiale” nell’opera di R: è così diversificata, così rapida nel ricostruirsi mesi dopo mesi… Ho voluto insistere sul fatto che è portata da una forza singolare per cui il poeta tende costantemente a superare se stesso e a distinguersi dai modelli del suo tempo (si potrebbe riassumere con la formula della lettera del “Veggente”: “la poésie sera en avant”); d’altro canto, questo sforzo immane cozza contro l’insoddisfazione e il sentimento del fallimento, proprio a chi non si arrende mai, non si accontenta mai: ne risulta una poesia in tensione, sempre in procinto di disfarsi, di annientarsi (tranne nei primi versi, forse, quando il ragazzo si esalta ancora davanti alle sue creazioni). È la via seria della letteratura, quella, dell’ostacolo e del rifiuto del proprio compiacimento; impresa non sopportabile a lungo, di cui, forse, l’esaurimento. Per quanto mi riguarda (ma non ha evidentemente nessuna importanza dal punto di vista critico), mi meraviglio sempre leggendo i versi del 1872.
La poesia di Rimbaud, l’insurrezione parigina del marzo 1871: quanto nell’opera del poeta influisce l’utopia, la ‘politica’, il desiderio di una società nuova, da raccontare con una poesia ‘altra’?
Di carattere ribelle e indipendente, R ha trovato negli ideali della Comune una possibile risposta al proprio desiderio (o impulso) di cambiamento sociale e umano: ricordiamo il contesto familiare e provinciale in cui è cresciuto, cattolico e borghese, oggetto di un suo rigetto permanente. Che poi la possibilità di una poesia “nuova” si sia sviluppata in un clima di grande mutamento politico, è in gran parte vero (vedi le lettere del veggente, datate proprio maggio 1871), ma non ne farei una diretta conseguenza: egli non si è dato alla letteratura militante, e la sua azione si fonda soprattutto su un rifiuto dell’ordine (di qualsiasi ordine), e su aspirazioni idealistiche di armonia universale. Non è un filosofo, non è un ideologo, non è un sociologo: è un poeta assoluto (l’aggettivo è di Verlaine) che sogna di toccare le corde essenziali del desiderio, e di sperimentare in prima persona tutte le vie d’accesso alla perfezione, compresa quella rivoluzionaria.
Mi colpisce sempre un aspetto: i poeti che hanno fondato la lirica del proprio e dei tempi a venire, non hanno pubblicato, o sono stati indifferenti alla fama. Penso a Friedrich Hölderlin, a Emily Dickinson, a Rimbaud, che chiede all’amico Paul Demeny di ardere i versi che gli ha donato. Sembra la Storia neghi la voce al poeta. Quanto è stato importante Verlaine perché di Rimbaud restasse memoria?
Non è azzardato affermare che, senza Verlaine, la nostra conoscenza dell’opera di Rimbaud sarebbe molto limitata. Non solo perché Verlaine conservava numerosi componimenti di Rimbaud, sia autografi sia copiati, ma perché egli si adoperò per salvaguardare la memoria dell’amico, raccogliendo testi sparsi, e curandone le prime edizioni: le Illuminations nel 1886, le Poésies complètes nel 1895. Basti pensare che la poesia più celebre di Rimbaud, Le Bateau ivre, ci è giunta solo grazie a una copia fatta da Verlaine nel 1871; basti ricordare che l’autore dei Poètes maudits era stato il depositario del manoscritto delle Illuminations, o che la Saison en enfer fu ristampata nel 1886 proprio grazie alla copia che Rimbaud, nel 1873, gli aveva dedicata. Ma Verlaine fu anche il primo “critico” di Rimbaud, contribuendo non poco a fissare l’immagine del genio adolescente che imperversa tutt’ora. Malgrado i diverbi e i colpi di rivoltella, il ricordo degli anni passati assieme e l’impareggiabile qualità degli scritti di Rimbaud hanno spinto Verlaine a difenderne e a promuoverne l’opera, intervenendo a più riprese nella stampa per correggere errori, denunziare falsi o pubblicare versi appena riscoperti.
Comincia l’introduzione citando Papini che esalta Rimbaud: d’altronde Soffici, nel 1911, scrive la biografia del poeta francese. Che ruolo ha avuto Rimbaud nella poesia italiana, che pure non ha avuto ‘un Rimbaud’?
Forse si potrebbe riconoscere in Campana un Rimbaud italiano, anche se, a parer mio, non ha molto senso ricercare equivalenti nazionali nel campo dell’arte. Ciononostante, c’è stato molto presto un interesse per Rimbaud (e per i cosiddetti poeti simbolisti francesi) in Italia: si pensi all’azione di Vittorio Pica, già a metà degli anni 1880: è a Pica, ad esempio, che si deve il primo commento a Voyelles! Ma è una voce isolata: la polemica antidecadente che si manifesta in Italia ha dalla sua parte importanti critici come Arturo Graf, che condanna ad esempio la “vacuità” della poesia francese. Due mi sembrano i principali motivi che spiegano il manifestarsi tardivo di una modernità poetica pari a quella francese in Italia: da una parte, il fatto che la poesia italiana sia stata molto più a lungo di quella francese ligia ai dettami normativi: solo con d’Annunzio e Pascoli si vedono i segnali di una certa autonomia formale. D’altra parte, la volontà di costituire una letteratura nazionale e civilmente responsabile dopo il Risorgimento ha probabilmente frenato in Italia la costituzione di una poesia fortemente individualistica come quella francese. Sicché la ricezione italiana “positiva” dell’opera di Rimbaud risulta assai tardiva: è frutto delle avanguardie storiche e in particolare degli scrittori fiorentini operanti nella “Voce” e in “Lacerba” alla vigilia della prima guerra mondiale. Aggiungiamo che, dal punto di vista critico poi, l’impronta di Croce (ostile al simbolismo e all’idea di poesia “pura”) ostacolerà in Italia la pratica di una tale poesia.
“Io è un Altro”; “sfasamento di tutti i sensi”: come dobbiamo intendere le ‘regole’ poetiche di Rimbaud? L’interpretazione ha dato esiti disparati: dalla lettura di un Bonnefoy a quella di Patti Smith a quella dei ‘maledetti’ della domenica. Intendo: la leggenda di Rimbaud, a tratti, ha vampirizzato Rimbaud.
Le affermazioni di R sulla poesia in generale e sulla sua in particolare vanno esaminate nel contesto in cui vengono fatte, e non utilizzate à tort et à travers come formule passe-partout: il nostro ha il dono e il piacere della formula, è evidente, ma il suo è un itinerario così stringente e così mutevole che esse hanno un significato limitato e si riferiscono a principi le cui applicazioni vanno verificate puntualmente nei testi: non si può ignorare, ad esempio, che il programma delle “lettere del veggente” sia interamente prospettico, o che i giudizi espressi in “Alchimie du verbe” siano, invece, tutti rivolti a una situazione passata. Nel 2013, è stato organizzato a Venezia un convegno proprio su quell’argomento (Rimbaud poéticien, Classiques Garnier, 2015). Quanto all’impatto della “leggenda”, penso sia inevitabile: dura da decenni (vedi l’indispensabile libro di Etiemble: Le Mythe de Rimbaud, già nel 1954!) e non accenna a diminuire: la nostra è un’epoca di icone, di “influencer” ma, per fortuna, Patti Smith non è Chiara Ferragni!
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Il profumo del ricordo di Umberto Saba. Un viaggio poetico nel tempo attraverso i profumi, le memorie e le radici di una vita passata. Recensione di Alessandria today
Umberto Saba, con la sua lirica "Il profumo del ricordo", ci offre un’intensa immersione nella memoria, una celebrazione delle radici e delle esperienze che hanno plasmato l’anima dell’uomo.
Umberto Saba, con la sua lirica “Il profumo del ricordo”, ci offre un’intensa immersione nella memoria, una celebrazione delle radici e delle esperienze che hanno plasmato l’anima dell’uomo. Questa poesia è un inno alle piccole cose, ai dettagli di un tempo semplice ma ricco, in grado di trasportare il lettore in un viaggio emozionale tra passato e presente. La trama del ricordo La poesia si…
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Il padiglione Vaticano alla Biennale è una Via Crucis di architetti di fama (o affamati)… ma il sacro dov’è? Ovvero: discorsi con Fabio Mariani contro l’edilizia-vaso da notte
Fabio Mariani è un architetto anomalo, lo sa chi legge questo foglio telematico. Spesso, per farmi capire la struttura di un edificio, cita un poeta, una poesia. Non è un gioco che alimenta nuvole. La poesia è, sostanzialmente, ‘forma’ – come forma è l’architettura. Io amo, quando posso, vedere le città dall’alto: la forma urbanistica dell’urbe rispecchia la mente tentacolare di chi la abita. Mariani, invece, per qualità professionale, si sofferma sulla singola parola, perfino sulla sillaba e sulla raffinata esemplarità della lettera. Dell’edificio, scorge il particolare più sonoro, risonante. Da tempo, con Mariani coltiviamo l’idea di scrivere un libro che sancisca i legami tra atto poetico e gesto d’architetto. Non so se lo faremo. So che non conosco altri architetti che al loro ‘committente’ – di solito, un solido imprenditore con ingenti somme di denaro e il cuore simile al Sahara – scrivano lettere – tra l’altro, straordinariamente ‘tecniche’ – come questa: “La casa cos’è allora, uno scoglio sul quale si infrange la tempesta della vita o una serie di scogli ben posizionati che divengano un approdo sicuro?… Prevedere, predisporre, per un futuro troppo lontano, di solito non produce mai l’effetto voluto, si ottengono solo compromessi nel presente… Creare un luogo nel quale trovare ristoro, nel quale riporre i nostri ricordi rendendoli disponibili ai nostri cari nel momento del bisogno. Un rifugio che ci accolga proprio quando la vita fuori sgretola le nostre certezze e ci troviamo in mare aperto senza essercene accorti”. Prima di costruire – o ri-costruire – Mariani cerca il cuore sacro dell’abitato: il luogo, in fondo, che lo rende degno di stare eretto, tolto il quale s’infrange in un inverno di polvere. Così, un giorno, Mariani mi invita a vedere il padiglione Vaticano alla Biennale di Architettura, Venezia. Va lui. Io riesco a vederla in tivù. Del sacro non scorgo un bagliore – Dio, forse, da architetto s’è fatto designer. Da qui, allora, dal pulpito della mia ignoranza, comincia il nostro dialogo.
Biennale Architettura Venezia. Partirei dal padiglione Vaticano. Come le sono parse le ‘cappelle’ in mezzo alla natura? Insomma, anche gli eremiti hanno bisogno di queste strutture architettoniche, le ‘celle’, più simili a un albero che a una casa, per ritirarsi nel cuore di Dio. Che rapporto c’è tra architettura ‘sacra’ e natura?
Direi che l’aderenza al tema free space (spazio libero) voluto dalle due curatrici Yvonne Farrel e Shelley McNamara nel caso della scelta del luogo, un bosco sull’isola di San Giorgio, mai aperto al pubblico prima, quindi mai free space, è totale. Questo è anche il pensiero del presidente della biennale Paolo Barata che parla di “…qualità dello spazio libero e gratuito”. È probabilmente per questo che i sontuosi inviti della Santa Sede all’inaugurazione, in realtà non servono davanti ai cancelli del parco. Tutti i presenti sono liberi di entrare, compresi tre ragazzi australiani che mi affiancano nella coda chiedendomi: do you need an invitation? (c’è bisogno di un invito?). Gli rispondo rivolgendo lo sguardo al cielo: “pregate e forse le porte del paradiso…”. Detto fatto! Le porte si aprono, tutti dentro con o senza salvacondotto! Purtroppo la visita non si è svolta nelle condizioni migliori per potere giudicare le dieci più una, cappelle sparse per il parco che avrebbero avuto bisogno di un peregrinare solitario nella natura, di soste in silenzioso raccoglimento, così come aveva ricordato nella conferenza stampa il Cardinale Ravasi. Invece ci ritroviamo accalcati in processione lungo un lungo viale, martoriati dall’aria torrida e umida di una anticipata giornata estiva che innesca un processo spontaneo di termoregolazione del corpo inviso ai protocolli dei vernissage di tutto l’universo civilizzato: una copiosa sudorazione, impossibile da contenere anche ai più esperti di tecniche di rilassamento e concentrazione!
Arrivati al parco non riusciamo a sparpagliarci, le cappelle si trasformano in fermate di una sorta di Via Crucis architettonica. La folla è varia: prelati, politici, militari, diplomatici, architetti, artisti, curiosi. Noto anche graziose ragazze dell’est in posa davanti alle cappelle per soddisfare le richieste dei fidanzati improvvisati novelli fotografi La Chapelle. Surreale? Felliniano? No fellinesco direbbe qualcuno. Impossibile in tali condizioni dare un giudizio su un padiglione che si ispira al cimitero progettato da Gunnar Asplud e in particolare alla prima cappella realizzata al suo interno nel 1920 ‘la cappella nel bosco’, una struttura semplice poetica con un’unica decorazione,: la statua ‘dell’angelo della morte’ che ‘accoglie’ i visitatori.
Il padiglione\cappella che ospita i disegni originali di Asplud, tutto rivestito in legno è realizzato con ottima maestria artigianale. Lo cito perché penso sarebbe piaciuto a John Ruskin (in mostra a palazzo Ducale fino al 10 giugno) così vicino a Venezia e alle sue pietre. Alcune cappelle paiono più degli ex voto a scala architettonica, all’uso dei loro ideatori (di fama o affamati), che dei luoghi poetici, capaci di farci sentire il “battito del cuore di Dio”, per seguire la traccia della sua domanda.
Penso una risposta all’ultima parte del quesito: ‘che rapporto c’è tra architettura sacra e natura?’. Torna alla mente la frase di Adolf Loss, ricordata dal curatore della mostra Francesco Dal Co: “se in un bosco troviamo un tumulo, lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto qualcuno. Questa è architettura”. Le dieci più una cappelle hanno lo stesso potere simbolico-evocativo?
Anche nelle case esiste, immagino, il ‘cuore sacro’. Come lo immagina l’architetto, e dove?
Nella casa piccola e accogliente, culla dell’intimità, il cuore sacro è spesso rappresentato da minuscoli altari domestici: un comodino, una mensola con sopra appoggiate le fotografie dei nostri cari, vivi e morti, immagini e simboli sacri, oggetti della memoria, ex voto. Nella casa veramente abitata dalla famiglia, il cuore sacro è rappresentato spesso dal tavolo da pranzo, l’altare sul quale si celebra il rito della vita quotidiana. Oggi che non si mangia più nelle case e anche la televisione non è più il sostituto del vecchio focolare, il cuore sacro è quello che abita dentro di noi, perché sempre più spesso la nostra casa, coincide con il nostro corpo, che decoriamo come un tempo facevamo con le facciate degli edifici, ‘la pelle’ delle nostre dimore, i nostri templi domestici. Non essendo più capaci di crearci universi con l’immaginazione, ci immergiamo nella realtà di un mondo virtuale. Ci trasfiguriamo in un Avatar. Lo smartphone che teniamo in mano come un talismano, diventa il nostro Cuore Sacro… o il vaso di Pandora?
Tornerei a ragionare sulla dimensione sacra dell’abitare. Cosa significa, come si segnala?
Questa domanda apre universi di risposte possibili. Voglio continuare a rispondere con pensieri di personalità operanti nel primo Novecento, nate in Boemia (ho un debole per questa terra). In questo caso con una figura poliedrica come Karl Krauss che dice: “Adolf Loos e io, lui letteralmente, io linguisticamente, non abbiamo fatto e mostrato nient’altro che fra un’urna e un vaso da notte c’è una differenza e che proprio in questa differenza la civiltà ha il suo spazio…”.
Noi uomini del nuovo millennio siamo civilizzati allora? Tutto è partito da molto lontano e suppongo abbia a che far con quello che Oliver Sacks chiama “Il fiume della coscienza”. Se la casa fosse solo un riparo, necessario per difendere le nostre membra dalla natura ostile, allora non si capisce perché da tempi immemorabili l’uomo abbia sentito il bisogno di decorare le caverne, raccontando le proprie esperienze di vita e di morte. Nel libro L’empatia degli spazi, H. F. Mallgrave (scusate le continue citazioni al rapporto tra architettura e neuroscienze) a un certo punto descrive la costruzione di un Mbari Nigeriano, una casa molto elaborata dedicata ad una divinità. “Come esseri umani siamo speciali: ogni generazione impara questa lezione. Fare qualcosa di speciale, che si tratti dell’allestimento di un Mbari o del rituale di apertura di una bottiglia di vino in un ristorante attinge agli istinti giocosi di elaborazione competenza e maestria… A tal proposito Ellen Dissanayake nella sua discussione generale sulle arti ha fornito una spiegazione dello scopo dell’architettura: ‘nella sua forma più specificamente artistica essa si occupa di definire e abbellire la realtà della quotidianità ordinaria in modo che diventi straordinaria’”; eterna aggiungo io.
L’architetto argentino Emilio Ambasz, nel 1976, per una cooperativa di viticoltori messicani, disegna, all’interno del torrido vigneto, “una piccola cappella scavata nel suolo a cielo aperto che ospita una croce piantata a terra a livello dell’acqua. Una poesia, fatta architettura”. L’architettura-urna, cerca disperatamente di darci appigli mentre siamo trascinarti dalla corrente del fiume del tempo, un linguaggio poetico. Infatti Borges ci salva ricordandoci che il fiume alla fine siamo noi. L’edilizia-vaso da notte, risolve le sole funzioni pratiche o corporali, non ci basta per abitare il mondo. Abbiamo bisogno del sacro per sentirci esseri umani, per tornare al tema del padiglione della Santa Sede, abbiamo bisogno di celebrare i morti per sentirci vivi. Ce lo ricordano ancora una volta i poeti: Foscolo, che ci ammonisce, “una civiltà che non rispetta i morti non merita di sopravvivere”; Ungaretti con il grido sdegnato dei versi di della poesia Non gridate più:
Cessate di uccidere i morti Non gridate più, non gridate Se li volete ancora udire Se sperate di non perire
Hanno l’impercettibile sussurro, Non fanno più rumore Del crescere dell’erba, Lieta dove non passa l’uomo
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“Un fiore è molto più difficile da capire dell’Amleto”: Gianluca Barbera dialoga con Enrico Macioci, lo Stephen King italiano
Enrico Macioci è un narratore puro. Non solo: i suoi personaggi sono talmente reali da poterli toccare. E le storie ben strutturate. I dialoghi brillanti. Non si ammanta di proclami e non vanta legami di sangue con autori blasonati. Nessuna spocchia. Una modestia consapevole. Una capacità di ragionare poggiata su una rara onestà. Il suo modello è sempre stato King e per certi versi gli somiglia. Basta leggere poche pagine del suo ultimo romanzo, Lettere d’amore allo yeti (2017), per rendersene conto. Ma nessuno spirito imitativo. La voce è sua e di nessun altro. Si tratta piuttosto di affinità elettive con il re dell’horror. Una ricchezza, dunque, nel nostro asfittico panorama nazionale. A me pare che L’ultimo piolo (contenuto nella raccolta A volte ritornano) sia il racconto di King che più ricorda la scrittura e le atmosfere di Macioci. Tra l’altro, uno tra i più belli dell’autore americano. Ma anche It, romanzo infinito. Eppure gli autori che lo hanno formato sono stati altri, come scoprirete. Non aggiungo altro. Il resto lo ascolterete dalla sua viva voce. O dai suoi libri. Meglio se da entrambi.
Enrico, parliamo di te e di King. Conoscendoti, mi sembra il punto più naturale da dove cominciare. Quando è nato il vostro amore e quanto è stato totalizzante? È stato lui a farti diventare scrittore?
Lessi King la prima volta nel marzo del 1991, a sedici anni, in maniera del tutto casuale. Mia madre era socia di Euroclub, quel mese non ordinò libri ed Euroclub le spedì Misery. Un pomeriggio di pioggia, incuriosito dalla copertina truce, lo presi in mano, mi stesi sul letto e lo aprii; quando lo richiusi era ora di cena. Fu un colpo di fulmine, una delle singolarità che ti cambiano letteralmente la vita. L’impatto si ripercosse nelle viscere più che nel cervello, fu più emotivo che razionale – siamo noi, dopo, a razionalizzare la magia dell’innamoramento, a cercare di spiegarcene i motivi. Tuttavia non devo a Stephen King la mia vena, che si manifestò da bambino tramite una manciata di poesie e, in seguito, una marea di racconti. I libri che alimentarono la fiamma narrativa furono quelli di Verne, Stevenson, Salgari, Burnett, Dumas, Poe. E poi non facevo che rileggere quell’insondabile capolavoro di Pinocchio, e più lo rileggevo più mi piaceva, e più mi piaceva più ero felice che un semplice blocco di carta riuscisse ad agire su di me con tale forza.
Anche se non è stato King a farti innamorare della scrittura, a lui devi molto. Ho già accennato a quanto abbia influito sulla tua scrittura, ma vorrei che fossi tu a parlarmene.
Dai 14 ai 27 anni smisi sia di leggere sia di scrivere, a causa di un rifiuto violento e profondo, che covavo già da tempo. Ho detto che scoprii King a 16 anni. Dunque per oltre dieci anni, dai 16 ai 27, se si eccettuano le antologie scolastiche, qualche romanzo assegnato coi compiti estivi e poi i manuali di giurisprudenza, ho letto solo King. È un fatto abbastanza sconcertante e quasi gigantesco, per uno che poi è divenuto scrittore. Credo d’essermi azzoppato da solo, ma naturalmente non saprò mai chi sarei adesso se durante quel lungo periodo – il periodo della formazione – avessi continuato a leggere e a scrivere. Ciò che so è che King ha forgiato il mio immaginario (il quale già di suo tendeva verso il mistero e il soprannaturale) e che mi ha suggerito un certo modo di costruire le scene, svolgere i dialoghi, tenere il ritmo. Penso soprattutto al ritmo, alla maniera di inserire un pensiero in una scena o una scena in un pensiero. King però, al netto delle differenze di talento, è in sostanza un narratore puro. Lui lascia parlare i personaggi e le azioni, lascia scorrere la storia come la pellicola di un film. Io sono un poeta fallito che prova a raccontare.
E tra gli autori italiani viventi?
Nessun autore italiano vivente mi ha influenzato (e nessuno morto, aggiungo). Ci sono però due figure che costituiscono per me dei punti di riferimento, non tanto per il modo di scrivere bensì per la visione del mondo e dell’uomo che manifestano nella loro opera. Sono Antonio Moresco e il poeta e filosofo Marco Guzzi. Poi ci sono parecchi colleghi, più anziani o coetanei, che stimo. Fra quelli più anziani di me cito Giulio Mozzi, un maestro della forma breve. Fra i coetanei dovrei citarne vari, ma mi astengo per paura di dimenticarne qualcuno.
Che tipo di scrittore sei diventato e cosa diventerai?
Sono diventato un narratore, io che ero partito come poeta. In realtà cominciai a scrivere i primi racconti circa un anno dopo le prime poesie, ma nella mia prosa la poesia finisce sempre per infilarsi. È come l’aria, da qualche pertugio filtra. E col termine poesia non mi riferisco a un elemento positivo, anzi. I residui poetici spesso m’impediscono di attingere all’immediatezza che voglio raggiungere narrando, opacizzano le mie storie, le velano di superfluo. Mi sento una specie di anfibio, letterariamente parlando, e la faccenda mi innervosisce. È difficile del resto sbarazzarti di una cosa incistata così a fondo, e forse nemmeno conviene. Se non puoi operare, ti adatti a sopravvivere. Ciascuno di noi deve sostenere la propria lotta dinanzi alla pagina; e ciascuno di noi, anche il più abile e tenace, soccomberà. Non scrivo poesie da molti anni, eppure la poesia viene a galla nella mia prosa, tipo le bollicine dentro un bicchiere di Coca Cola. Allora ciò che faccio è cercare di trasformare questa escrescenza, questa invadenza, in ricchezza; ma non sempre ci riesco.
Quanto conta l’incipit in un libro e quanto il finale? Quanto la lingua e quanto la storia?
L’incipit è decisivo. Se funziona bene equivale a un incantesimo. Un lettore rapito da un bell’incipit difficilmente abbandonerà il libro, anche se dovesse in seguito deluderlo. Penso a L’informazione, di Martin Amis. Un romanzo di livello, certo, ma per lunghi tratti noioso; tuttavia non ho mai pensato di mollarlo a causa del suo incipit strabiliante – una pagina e mezza che sfiora l’eternità. Il finale invece conta meno. Se il libro è buono, solo un finale davvero catastrofico può rovinarlo. Per quanto mi riguarda, non ricordo molti finali degni di lode. Fa eccezione l’ultima magnifica frase de Il grande Gatsby. Chiude non solo il romanzo ma un intero mondo. È come una grata che scende sulla luce verde del faro di East Egg. Possiamo ancora vederla pulsare, di là dalle sbarre, ma non possiamo più raggiungerla. Sul vecchio problema della lingua e della storia… Io penso che la storia venga prima, e che la lingua debba adattarsi alla storia, la quale all’inizio può essere anche solo un’immagine, una suggestione, un dubbio, un’ombra. Dei libri basati sulla lingua – se è lecito distinguere in maniera così netta, e sappiamo che non lo è ma qui ci tocca abbreviare – me ne faccio poco. Un tempo mi affascinavano, adesso mi sembrano una posa; nel migliore dei casi geniale, ma pur sempre una posa. D’altronde se una storia funziona non può, sottolineo, non può essere scritta male; sarà invece scritta nell’unica maniera giusta.
Se non sbaglio hai cominciato da un libro verità sul terremoto dell’Aquila (Terremoto, 2010). Puoi parlarcene?
Si tratta di una raccolta di dieci racconti. Li scrissi di getto nel giugno del 2009, due mesi dopo il sisma che ha raso al suolo la mia città. Ricordo che man mano che scrivevo mi sentivo meglio. Venivo da otto settimane di rimbambimento. Non facevo che guardare e riguardare alla tv ciò che era accaduto, tentando di incamerare il concetto che sì, era accaduto proprio a me, e che sì, quella era proprio la mia città. Scrivere Terremoto fu terapeutico, e al tempo stesso mi causò parecchi sensi di colpa. Ma gli scrittori bene o male convivono col senso di colpa, giusto? In fondo sanno di essere delle sanguisughe. Passano buona parte della loro vita a succhiare la realtà e a risputarla sulla pagina.
Poi La dissoluzione familiare (2012), opera monstre, e un romanzo di formazione molto bello (Breve storia del talento, 2015) con al centro il gioco del calcio. Quanto conta il calcio nella tua vita?
Giocavo bene, ma ho iniziato a capirlo tardi. Fu il padre di una mia amica, ex calciatore di serie C, a intuire che c’era del buono nei miei piedi. M’incoraggiò e vidi che la palla non cadeva, che andava pressappoco dove volevo io, che mi ascoltava. Suppongo tuttavia che il mio talento non fosse così spiccato. Anzi, ne sono certo. Gioco ancora, non ho mai smesso. Mi rilassa. Mi libera da me stesso. E mi diverte. Non esiste un goal uguale a un altro, né mai esisterà. Il calcio è incredibilmente semplice e incredibilmente creativo, proprio come i romanzieri che amo di più.
E poi è venuto Lettere d’amore allo yeti. Libro bello e inquietante, che s’inabissa nel soprannaturale e i cui modelli, oltre a King, sembrano essere Pinocchio e L’isola del tesoro. Puoi parlarcene, cominciando da come è nata l’idea?
L’idea nacque osservando mio figlio, che allora aveva tre anni e mezzo, parlare con uno sconosciuto dalla statura imponente. Li separava una rete alta un metro e mezzo, mio figlio teneva le minuscole dita agganciate alla rete e il minuscolo naso premuto contro la rete e trillava minuscole confidenze allo sconosciuto, e io realizzai in un attimo l’eterea fragilità della vita. Il resto venne di conseguenza, ma il romanzo è nato lì.
Progetti futuri? Stai scrivendo qualcosa?
Sto lavorando a parecchie cose diverse. Ho dedicato tutto il 2017 alla stesura di un romanzo piuttosto lungo e complesso, che ora si trova in stand by. Quest’anno ho ripreso in mano un tomone che scrissi addirittura nel 2011/2012. Non che non fosse finito, ma sentivo di doverci lavorare ancora, e ho tenuto in serbo la faccenda in un angolo della memoria. Leggere Lonesome Dove di Larry McMurtry, l’autunno scorso, oltre che emozionarmi ed entusiasmarmi, mi ha fatto comprendere in che modo ripigliare il vecchio mostro. Il guaio è che il mostro non accenna a dichiararsi vinto, né a smettere di crescere. Allora, per concedermi una tregua, da un po’ l’ho lasciato di nuovo a maturare, e ho ripescato un racconto lungo (o romanzo breve) buttato giù fra il marzo e l’agosto del 2016 (scrivo davvero troppo). Credo e spero di aggiustarlo definitivamente entro l’estate. Si tratta di una storia secca e feroce, molto meno impegnativa a livello di mole e di gestione rispetto alle due di cui sopra. Adesso sembra che mi piaccia, ma so che arriverà un momento in cui non mi piacerà più. Succede sempre così, ma sospetto di essere in ottima compagnia. Infine mi solletica l’idea di un saggio che unisca i miei due autori prediletti – uno poeta, uno romanziere. In questa intervista vengono citati entrambi, ma poiché non sono nemmeno sicuro che l’idea si traduca prima o dopo in azione, preferisco mantenere il riserbo e non aggiungere altro.
Domanda classica: preferisci leggere o scrivere?
Quando leggi e scrivi per anni e anni con una certa costanza, l’una cosa si nutre dell’altra. Per me leggere significa fare benzina, e scrivere consumarla. Mentre però posso trascorrere dei periodi – non troppo lunghi – senza scrivere, non posso mai rimanere senza leggere. Non basta; oltre al libro o ai libri che sto leggendo, devo avere una discreta scorta pronta all’uso. Inoltre, scrivere è sempre faticoso, mentre leggere lo è assai meno.
Oltre alla lettura e alla scrittura, quali altre passioni hai?
Il calcio e lo sport in genere; e la montagna. Invece mi accorgo di trascurare l’amicizia, che in altri periodi è stata pressoché tutto, per me. L’amicizia è la più pura, la più immacolata, la più limpida delle passioni.
E la famiglia?
Ho una moglie e due figli che amo. Nietzsche diceva: aut liberi aut libri, ma io non sono Nietzsche… E poi è falso, almeno per quanto mi riguarda, che la famiglia ti ostacola nella scrittura. Riducendo il tempo che hai a disposizione ti costringe a sfruttarlo meglio, a concentrarti di più. Inoltre ti spalanca una gamma di emozioni e sentimenti nuovi, problematici da immaginare in astratto. E infine, il mio primo figlio è nato nel settembre 2009, e ho pubblicato il mio primo libro nel marzo del 2010.
Come ti guadagni da vivere, posto che difficilmente ci si mantiene scrivendo romanzi?
Ho la fortuna di essere il figlio unico di una famiglia abbastanza benestante, e di avere una moglie con un impiego fisso. Ho fatto parecchie supplenze di italiano e storia negli istituti tecnici, ma non potendo contare su un gran punteggio debbo spostarmi di continuo al nord da Salerno (dove vivo), per cui da un po’ di tempo dirado le trasferte. Arrotondo grazie a corsi, articoli, piccole iniziative culturali, ripetizioni. Coltivo un paio di progetti, ma per scaramanzia preferisco non parlarne.
Che tipo di persona sei? Pirata, onesto, irriverente, rispettoso, serio, scanzonato, pragmatico, con la testa tra le nuvole, idealista, disilluso?
Direi con la testa fra le nuvole, onesto, idealista. E individualista.
E Dio? Che rapporto hai col trascendente?
Dio è una ricerca continua. Non posso definirlo, non posso nemmeno afferrarne un concetto, perché Dio non consiste in una risposta bensì in una domanda. L’uomo è quello strano animale che irrompe nel creato e domanda: perché? Il fatto che possediamo la coscienza – uno spaventoso buco senza fondo dentro un miserabile, mortale, patetico corpicino – rappresenta uno scandalo così sbalorditivo… Credo di credere, con molta approssimazione, che Dio abbia a che fare con la coscienza, che Dio potrebbe essere la coscienza della coscienza, una sorta di ur-coscienza, e cioè un sapere che fuoriesce dal cortocircuito del Logos, che non s’impiglia nella rete della Caduta.
E con la letteratura? Capisci meglio il mondo o la letteratura? O sono un unicum?
Capisco molto meglio la letteratura, benché non sia certo un Auerbach. Il mondo è infinitamente più arduo da capire. È impossibile capire il mondo. Se uno pensa sul serio al mondo, o peggio ancora all’universo, o agli universi, diventa pazzo. Se uno si mette a fissare con intensità e concentrazione un cielo stellato per venti minuti di fila… be’, eccolo bello e pronto per la camicia di forza. Un fiore è molto più difficile da capire dell’Amleto. L’Amleto si riallaccia a ciò che dicevo prima. L’uomo è quell’essere cui non basta esserci, e allora s’imbarca nelle imprese più strane pur di comprendere perché c’è. L’Amleto può prestarsi a mille diverse interpretazioni, una rosa non accetta nessuna interpretazione. Una rosa è, punto e basta.
Che cosa è per te letteratura e cosa non lo è?
Dopo Rimbaud, e dopo il suo silenzio, mi verrebbe da dire che niente sia più letteratura… Ma se vogliamo provare a rispondere, e soprattutto se non vogliamo cominciare uno sproloquio che durerebbe perlomeno un centinaio di pagine, potremmo affermare che la letteratura è una materia variegata frutto di un’attività intellettiva, e che sostanzialmente è buona o cattiva (Wilde docet). Esiste un sacco di cattiva letteratura, parecchia letteratura buona, poca grande letteratura e ancor meno grandissima letteratura. Ma questa piramide di meriti e demeriti si ripropone in qualunque altro ambito, dalla musica all’arte culinaria allo sport.
I tuoi cinque libri capitali e i tuoi cinque film…
Difficilissimo, anzi impossibile! Ti dico cinque libri, ma domani uno di loro potrebbe essere sostituito da un altro, o due di loro, o perfino tre… Adesso, i primi cinque che mi vengono in mente sono It, Una stagione all’inferno, I demoni, Moby Dick e Lonesome Dove (ex aequo con La Storia). I film invece: Il mio nome è nessuno, Le ali della libertà, Mystic River, Will Hunting, genio ribelle e Un tranquillo week end di paura. Ho gusti cinematografici piuttosto dozzinali. Ci sono un sacco di film leggeri che rivedo all’infinito. Harry ti presento Sally lo so a memoria. E adoro Predator e tutto il filone fanta/horror. Un film troppo impegnativo tendo a scansarlo, perché nel cinema cerco altro. Mentre guardo un film non voglio pensare troppo, infatti i film di Kubrick, Bergman o Lynch, tanto per capirci, mi fanno addormentare dopo circa trentasei secondi.
Il mio nome è nessuno. Anch’io sono un appassionato di quel film. Un bilancio sulla tua attività di scrittore? Cose da salvare e cose da cancellare…
Salvo solo la mia unica raccolta di poesie, L’abete nel cerchio, uscita con Saya editore nell’ottobre scorso. Vi ho radunato settanta delle centinaia e centinaia di liriche che scrissi oramai tanto tempo fa. Lì dentro c’è molto di me, ma increspato dagli anni come un vento lieve increspa la superficie dell’acqua. Il resto evito di rileggerlo, pur continuando a ringraziare tutti coloro che hanno creduto in me e che mi hanno permesso di pubblicare.
Sei uno scrittore sicuro dei propri mezzi o è il contrario?
Sono abbastanza sicuro dei miei mezzi da osare quest’avventura oscena che è scrivere libri e pretendere di pubblicarli; e sono abbastanza consapevole dei miei limiti da desiderare di sprofondare all’inferno.
Quando scrivi un romanzo che cosa ti prefiggi? Quali risultati, quali obiettivi, rispetto all’arte e al pubblico? Che cosa significa per te scrivere un romanzo?
Su dieci buone idee che mi vengono, di media solo una si tramuta in romanzo. Per cominciare a sobbarcarmi l’immensa fatica di scrivere un romanzo mi occorre uno slancio di fede. È come gettarsi in mare senza vedere l’altra sponda; occorre sperare che ci sia, e che si sia in grado di raggiungerla; e occorre accettare il rischio di andare giù… Rispetto al pubblico non mi prefiggo risultati, anche perché lo ritengo inutile. Ho sempre pensato di scrivere roba parecchio accessibile e parecchio godibile, invece finora sono rimasto un autore di nicchia. Ma sarebbe bellissimo che mi leggessero tante persone! Sarebbe incredibilmente gratificante, immagino; ed è forse la cosa che desidero di più, scrivendo. Rispetto all’arte mi prefiggo quel genere di obiettivi folli – realizzare un Grande Romanzo!, affermare Verità Nuove! – che si rivelano utili per mettersi all’opera. Il fatto che tali obiettivi vengano sistematicamente disattesi fa parte del gioco (crudele): così la prossima volta avrai un motivo per tentare e fallire di nuovo, no?
La cosa che ti ha fatto più soffrire nella vita e quella che ti ha dato maggiore gioia?
Quando morì mio nonno materno – avevo 12 anni – provai un dolore immenso, perché gli volevo bene e perché scoprii che la morte esiste davvero, che arriva, ti ghermisce e ti porta via. Non credevo potesse accadere, e forse una parte di me continua a non crederci. La gioia più grande non la colloco in un momento ma in una fascia, ancorché distinta: le estati fino ai dieci, undici anni. Non ho mai più provato, dopo di allora, quel senso di libertà, spensieratezza, precisione, acutezza, agilità, freschezza, spontaneità, gratuità, gratitudine e immortalità.
La montagna per te è importante mentre non ami il mare. Perché? Ti è piaciuto Otto montagne di Cognetti?
Amo la montagna – e meno il mare – perché sono nato e cresciuto in una città di montagna, L’Aquila, e perché i miei genitori mi portavano sempre in vacanza alle Dolomiti. La montagna è anzitutto uno stato mentale: salire verso una cima equivale a meditare col corpo (in realtà ogni forma di meditazione avviene tramite il corpo, ma salendo in cima una montagna lo si avverte con la rotonda esattezza di un ingranaggio). Man mano che procedi, che fatichi, che ti innalzi, la tua mente si purifica e raggiunge l’essenziale. Niente cazzate lassù: la montagna è l’osso della vita. Le otto montagne mi è piaciuto. Credo abbia influito il mio interesse verso un certo tipo di ambientazione, ma secondo me Cognetti ha fatto un bel lavoro di misura, che poi è il suo pezzo forte: ha detto tutto senza dire mai troppo.
Un’ultima domanda canonica. Come vorresti essere ricordato, come uomo e come scrittore?
Non so se voglio essere ricordato come scrittore, perché quando vieni ricordato vieni fatalmente incasellato, e io odio essere incasellato. Mi piacerebbe però che i miei libri resistessero al passare del tempo. È probabile che non accadrà, ma io ce la metto tutta. Come uomo, mi piacerebbe che di me si parlasse poco, e solo da parte dei pochi che davvero mi hanno conosciuto, mi conoscono e mi conosceranno.
Abbiamo finito. È stato un piacere parlare con Macioci. Uno scrittore con il senso della misura e una consapevolezza di pregi e limiti quasi unica nel mondo editoriale. Senza fronzoli e con le idee chiare e una scrittura cristallina, dotata di ritmo. Ma anche accessoriata sul piano psicologico. Un erede di King? Ai lettori la sentenza. Dopotutto perché non cullarci ogni tanto nell’idea che la letteratura non abbia confini? Alcuni tra i migliori western non sono stati forse realizzati da registi italiani? Sono gli stessi americani a riconoscerlo. E di certo Macioci tra gli autori italiani è quello che più si avvicina al grande scrittore del Maine. King sarebbe d’accordo con me, ne sono certo. Vero, Stephen?
Gianluca Barbera
L'articolo “Un fiore è molto più difficile da capire dell’Amleto”: Gianluca Barbera dialoga con Enrico Macioci, lo Stephen King italiano proviene da Pangea.
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