#laicizzazione
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istanbulperitaliani · 2 years ago
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Monumento alla Repubblica di Piazza Taksim
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Il monumento alla Repubblica presente a Piazza Taksim é opera dello scultore italiano Pietro Canonica. Venne inaugurato l’8 agosto del 1928.
Il monumento, uno dei siti politicamente più importanti di Istanbul, é il luogo dove si svolgono le principali commemorazioni relative alle festività nazionali. 
Il monumento é altro circa 12 metri. Sul primo lato, quello rivolto verso İstiklal Caddesi, vediamo il primo Presidente della Repubblica turca Mustafa Kemal Atatürk con i suoi compagni vestiti in abiti occidentali. Rappresenta la nuova Turchia, moderna, con i suoi leader politici proiettati verso il futuro. Nel gruppo scultoreo sulla destra compare anche İsmet Ínönü, il successore di Atatürk, che alla conferenza di Losanna era stato il negoziatore per conto della delegazione turca. 
Sul secondo lato é invece raffigurato Atatürk in abiti militari e celebra la battaglia del Sakariya, il prodromo della guerra d’indipendenza turca. Evento importantissimo per la Storia della Repubblica di Turchia. 
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Sui laterali del monumento, Pietro Canonica ha voluto inserire due medaglioni bronzei. In uno c’é una donna coperta da un velo. Nel secondo la donna é senza il velo. Praticamente viene simboleggiata l’emancipazione della donna voluta dal nuovo corso di laicizzazione dello stato promosso da Atatürk. 
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Ultima nota interessante, se siete a Roma potete andare a visitare il Museo di Pietro Canonica. Lo scultore italiano in Turchia non ha solo realizzato il monumento alla Repubblica di Piazza Taksim. Infatti sono opere sue 2 monumenti ad Atatürk che si trovano a İzmir e ad Ankara. Nel museo sono presenti i bozzetti preparatori del monumento alla Repubblica. Come questo in foto:
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italiaefriends · 4 months ago
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"Stereotipi che fanno giudizio" di Riccardo Rescio
Così è, se vi pare ……… Cesare Beccaria realizzò una completa laicizzazione del diritto penale che, sulla base della sua costruzione concettuale, doveva occuparsi di reati e non di peccati. Allo stesso modo il giudice non doveva più essere concepito come un uomo ispirato, ma come il tutore di un dato ordinamento giuridico. Al “Dei delitti e delle pene” del Beccaria abbiamo da un po’ di tempo più…
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gregor-samsung · 3 years ago
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“ Fu stabilito che andassi alla scuola pubblica; diversi giorni furono occupati con la preparazione di nuovi vestiti e fu acquistata una cartella di lucida pelle. Hacer faceva vassoi e vassoi di lokma, un dolce pesante e sciropposo, perché trentacinque anni fa era usanza che i nuovi alunni della scuola portassero dolci per gli altri scolari. Fui accompagnato a scuola, tronfio di importanza e di orgoglio, da mio padre. Fummo accolti all'ingresso dallo hoca, un maestro che si mostrava molto severo, o almeno così mi sembrò. In ogni caso mi dette una pacca sulla testa con sufficiente gentilezza, e le mie prime impressioni furono in qualche modo mitigate. Portava una grande barba nera accompagnata da un vestito nero e un sarik posato sulla testa. Lo seguimmo all'interno della scuola, che consisteva in un'unica aula. Non c'erano né cattedra, né sedie, né libri, insomma niente che facesse pensare a normali attività scolastiche. Trenta o quaranta ragazzi erano seduti a gambe incrociate su dei cuscini posati sul pavimento. Anche lo hoca si sedette sul pavimento, ma su un cuscino più grande e separato dai ragazzi. Murat, che lanciò uno sguardo acre allo hoca, portò dentro i vassoi di lokma e lo hoca sbirciò il contenuto dei vassoi, poi prese qualche lokma tra le dita e se lo sparò in bocca. Masticò estasiato, gli occhi sollevati al cielo, quindi ordinò a Murat di posare i vassoi sul pavimento mentre vi disponeva attorno i ragazzi. Mi fu detto di salutare mio padre e di baciargli la mano, cosa che feci sentendomi un po’ a disagio perché non mi piaceva lo hoca e non lo pensavo disposto a spingere più innanzi la sua familiarità. Mi fu assegnato un posto sul pavimento con gli altri e assistetti sconsolato alla partenza di mio padre e di Murat. Fui comunque richiamato presto all'attenzione da un rapido colpetto sulla testa del lungo bastone dello hoca. Quel bastone era lungo circa tre metri, il che permetteva al maestro di castigare qualsiasi ragazzo senza muoversi dal suo cuscino. Di quel giorno non riesco a ricordare neppure una lezione, e sono incline a pensare che non ve ne siano state, salvo occasionali letture dal Corano. Ricordo meglio il mio maligno piacere di quando il bastone dello hoca scendeva sulla testa di un qualche alunno sfortunato. Scendeva di frequente anche sulla mia e, per quanto velocemente cercassi di scansarlo, lo hoca era sempre più svelto di me. Altri ragazzi disobbedienti venivano posti nei vari angoli della stanza e fatti stare in piedi su una gamba sola e con le mani sollevate in aria. Sembravano estremamente buffi, ma cercavo di non dare sfogo alla mia voglia di ridere per paura che lo hoca mi ordinasse di rimanere in piedi nella stessa posizione. Era solito premettere ad ogni suo rimprovero l'invocazione Padişahım Çok Yaşa (lunga vita al mio sultano) e noi dovevamo ripeterla dopo di lui. Quella sera mio padre mi interrogò minuziosamente sulla scuola, dimostrando così di aver sofferto tutto il giorno del dubbio più atroce. Gliela descrissi, e notai l'occhiata che scambiò con la mamma. La nonna era enormemente indignata che quell’hoca ignorante avesse osato picchiare suo nipote. «Ahmet aveva ragione — dichiarò mio padre con fermezza —. Dev'essere mandato alla scuola francese a Gedik Paşa». Così terminò il mio primo e ultimo giorno di scuola pubblica, mentre Inci si lamentava per i vassoi di lokma, che evidentemente considerava fin troppo buoni per essere mangiati dallo hoca e dai suoi alunni. Si presero accordi con il preside della scuola francese, si ordinò per me una elegante uniforme grigia e si inserirono abbecedari e quaderni nella cartella di pelle. Nel settembre del 1914, un mese prima del mio sesto compleanno, cominciai di nuovo la scuola. La scuola francese era totalmente diversa da quella pubblica. Prima di tutto sembrava avere abbondanza di insegnanti e molte aule. Imparai a dire Bonjour, m’sieu’ o Bonjour, mam’selle a seconda del caso e a contare fino a dieci in francese. A scuola feci molti nuovi amici. La maggioranza degli scolari era turca, proveniente dallo stesso strato sociale dal quale provenivo io, ma c'era anche qualche francese e qualche armeno. Presto imparai ad andare a scuola da solo e per strada mi trovavo con gli amici. Ci inchinavamo l'uno all'altro e dicevamo in modo affettato Bonjour, mon ami. Comment allez-vous?, perché questo era il modo di scimmiottare i più grandi e di parlare francese in pubblico, cosa per noi elegantissima e da adulti. “
Irfan Orga, Una famiglia turca, postfazione di Ateş Orga, traduzione di Luca Merlini, Passigli Editori (collana Passigli Narrativa), Firenze, 2007; pp. 58-60.
[ Edizione originale: Portrait of a Turkish Family, Victor Gollancz Ltd., London 1950 ]
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corallorosso · 4 years ago
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Michele Serra: «Sì, la satira manca di rispetto, ma l’oltranzismo di Charlie Hebdo serve?» intervista di di Stefano Miliani (...) A proposito delle vignette di Charlie Hebdo su Maometto dopo la decapitazione dell’insegnante francese un ascoltatore, al programma “Prima pagina” di Radio3, ha garbatamente sostenuto che occorre pensarci prima di deridere una religione perché si manca di rispetto a milioni di persone. Cosa ne pensi? -"È oggettivamente vero: si manca di rispetto a milioni di persone. Non solamente la satira, molti linguaggi (anche la retorica politica, specie quella nazionalista) sono del resto potenziali portatori di offesa. Il problema è che l’offesa produce, nell’Islam radicale, una reazione omicida. Anche io mi offendo quotidianamente per pratiche e parole altrui, eccome se mi offendo. Ma non mi sognerei mai di uccidere qualcuno perché pronuncia parole che mi disturbano o mi ripugnano. La mia opinione è che questa differenza, abnorme, di reazione all’offesa, non può essere affrontata limitandosi a ribadire un principio, quello della tolleranza, che è al tempo stesso sacrosanto e astratto. Miliardi di umani, specie quelli meno istruiti e meno sereni (spesso coincide con: meno benestanti) non sanno che farsene, della tolleranza. La tolleranza è un valore tutto nostro, e per giunta molto recente. Mi domando se il modo migliore per difenderlo sia l’oltranzismo di Charlie, che espone al martirio persone inermi e aizza il sadismo omicida dei jihadisti. Se tu hai di fronte un idiota fanatico, ripetergli “sei un idiota fanatico” non serve a difendere la tua ragione e anzi arma il suo torto." In una democrazia la satira deve avere un limite oltre il quale non deve andare? -"È un limite che esiste per il semplice fatto che la libertà in purezza non esiste. È infantile pensarlo. Ma quel limite (che esiste) non è decretabile da nessuna legge e da nessuna regola, fortunatamente. È un limite empirico, un limite “sul campo”, che si sperimenta giorno per giorno. Il valore della satira è che lavora sempre sul confine dei linguaggi “comodi” e codificati, cerca di scardinarli e di crearne dei nuovi. Ma in questo percorso incoccia, inevitabilmente, nel rischio che qualcuno si incazzi. “Chi si incazza è perduto” fu il motto di Sergio Staino per Tango (l’inserto satirico dell’Unità che precedette “Cuore” e uscì dal 1986 al 1988, ndr), io aggiungo che è perduto anche chi pretende che nessuno si incazzi. In certi autori satirici con i quali ho lavorato c’era una presunzione di immunità che non condividevo. “Tanto è satira”, dicevano, “e nessuno ha il diritto di dirci niente”. Ma non funziona così. La satira, se fatta con passione e con arte, comporta dei rischi. Espone alla rappresaglia: la querela, l’insulto risentito. Certo nessuno, ai tempi di Tango e Cuore, poteva mai immaginare che tra quei rischi ci fosse anche il martirio, come è capitato a quelli di Charlie, al mio amico Wolinski (meraviglioso spirito libero) e a tutti gli altri." Nei confronti dell’islam il rischio dell’autocensura, per timore o per cautela, esiste? -"Certo che esiste. Finire sgozzati da un idiota convinto che andrà nel Paradiso di Allah non è una prospettiva attraente. Si deve dare atto alla Cristianità che, da un paio di secoli, ha rinunciato al carcere, al rogo, alla persecuzione degli infedeli. Magari aiutata dai Lumi e dalla laicizzazione della società. L’Islam no, e questo è un problema enorme soprattutto per l’Islam. O lo risolve, o rischia di diventare agli occhi del mondo, ingiustamente, l’incarnazione stessa dell’intolleranza, dell’arcaicità violenta. È un problema simile a quello che la sinistra dovette affrontare ai tempi del terrorismo rosso: o si mette ordine nell’album di famiglia, o si corre il rischio di farsi sopraffare dalla propria minoranza criminale, che usurpa qualcosa di tuo per farne una bandiera di morte."
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anticattocomunismo · 3 years ago
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Abusi sessuali, la laicizzazione è il problema non la soluzione
Abusi sessuali, la laicizzazione è il problema non la soluzione
Quello degli abusi sessuali è un grave problema per la Chiesa, ma non basta chiedere perdono: si deve capire perché è successo, ma con i criteri della Chiesa, non quelli del mondo. Invece si sta andando nella direzione opposta, promuovendo quella secolarizzazione che è proprio la causa del collasso della morale. (more…)
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alfredomedici · 3 years ago
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PAGINA 78
Anche quella domenica Arturo decise di andare al camposanto.
Scelse di entrare da un ingresso laterale, un po' nascosto dagli alberi, belli come lo sono gli alberi nei cimiteri, per arrivare subito alla cappellina dove riposavano i genitori.
Inaspettatamente intravide sull'uscio dell'ingresso Enrico.
Capì immediatamente che il delinquente, per evidenti necessità psicopatologiche, era li ad attenderlo.
《Uè d'ttò, t'agghjie v'nut a truà p'cchè mo st'c ammalament.
Me dà na cos d sold p'cchè a rrobb cost ass'jie e ije agghjia zucà!!!(ooh dottore, ti son venuto a cercare perchè adesso sto male. Mi devi dare un tanto di soldi perché la roba costa assai ed io devo tirare!!!) 》.
《Enrì io non ti do niente. Se stai in astinenza da coca vai al SERT o al pronto soccorso, ti fai ricoverare e forse puoi riprovare a smetterla con la polverina 》.
《Tu n' n'hajie capit nu cazz, dottò! Tu me da nu sac de sold p'cchè t stjie facenn ad Angiolett. (Tu non hai capito un cazzo, dottore! Tu mi devi dare un sacco di soldi perchè ti stai facendo Angioletta)》.
《È il tuo delirio paranoico, cazzo Enri!! Smettila con quella merda e vedrai le cose in maniera diversa》.
《Dottore》provò a parlare in italiano Enrico per sentirsi ferocemente adeguato all'italiano di Arturo 《tu non hai capito che Angela me l'ha confermato: mi ha detto che sta col dottore ed è cuntent e aspett i cart che l'adda spusà》.
A quel punto Arturo comprese che "il dottore" di cui aveva parlato la donna era l'ex-prete in fase di laicizzazione.
《Enrì! U duttor che d'cev Angela è nu prevt che s'è spugghjiet p' ess!!! N' so ije! U vujie capi?(Enrico! Il dottore di cui parlava Angela è un prete che si è tolto la tonaca per lei! Lo vuoi capire?》urlò Arturo, stavolta in dialetto nella speranza che gli arrivasse chiaro e forte l'equivoco nel quale era caduto.
《Dottò sti strunz'te raccontale a quella brava femmina dell'avvocatessa Ines che hai tradito assai. E nu trad'tor è semp nu merd trad'tor!! Ije a l'avvuc'te c'haggjie ditt che t fazz for...(E un traditore è sempre una merda di traditore!! Io all'avvocata l'ho detto che ti faccio fuori...) 》e mentre parlava velocemente e in maniera concitata Enrico tirò fuori una 7.65 che fece volteggiare sulla faccia di Arturo.
《Mo p'cchè n' f'jie u psicocazz?
Annanz o firr tu n' sì nint!!!! (Adesso perchè non fai lo psicoterapeuta? Davanti alla pistola non sei niente!!!!) 》urlò Enrico, approfittando del luogo deserto nel quale si trovava quella maledetta entrata secondaria del cimitero.
Arturo non mosse un muscolo ma ad Enrico non importò nulla.
Esplose due colpi.
Arturo stupito si portò la mano al fianco destro accasciandosi.
Enrico si avvicinò all'ex suo dottore e prese dalla tasca interna un piccolo portafogli con dentro banconote per duecentomila lire.
Arturo,incredulo, non sentiva dolore. Sentiva la mano sinistra scivolosa e bagnata mentre osservava la bella giacca grigio perla farsi rossa.
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cristianesimocattolico · 3 years ago
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Per la festa di san Giovanni Maria Vianney (il Curato d’Ars) vi offriamo un ottimo articolo a firma di don Aldo Rossi, pubblicato qualche anno fa su “La Tradizione Cattolica” (n.71), dal titolo: “Il Santo Curato d’Ars: modello di tutti i sacerdoti”.
Giovedì 4 agosto 1859 vola verso il Cielo colui che doveva diventare l’esempio per tutti i sacerdoti: san Giovanni Maria Battista Vianney, detto più comunemente il santo Curato d’Ars. Il Papa san Pio X lo beatifica nel 1904, Pio XI lo canonizza nel 1925 e lo proclama patrono di tutti i parroci del mondo nel 1929. Il Papa Giovanni XXIII nel centenario (1959) con la lettera enciclica Sacerdotii Nostri Primordia lo ripropone come modello di tutti i pastori. Giovanni Paolo II lo dichiara «modello senza pari» e  quest’anno il 19 giugno (festa del Sacro Cuore) Benedetto XVI nel 150° anniversario indice l’Anno Sacerdotale durante il quale lo proclamerà “Patrono di tutti i sacerdoti del mondo”. Provvidenzialmente la nostra Santa Madre Chiesa ci ha posto davanti agli occhi la figura di questo santo al momento della più grande crisi sacerdotale che abbia conosciuto la storia.
Al tempo di san Pio X in Italia i sacerdoti erano quasi 69.000 su una popolazione di circa 33 milioni. Al tempo di Benedetto XVI i sacerdoti sono quasi 33.000 su una popolazione che supera i 57 milioni. La “densità” del clero si è più che dimezzata ed è inferiore a quella dei dentisti, psicologi e  commercialisti(1). Il problema purtroppo non è solo nella “quantità” ma soprattutto nella “qualità”, cioè nella “formazione” che ricevono i seminaristi nei “nuovi seminari” per diventare sacerdoti. In questa società che si è progressivamente secolarizzata, in crisi di “valori”, “l’uomo di Dio”, ovvero il sacerdote, ha perso il suo carattere sacro diventando sempre più “l’uomo dell’uomo” ovvero un semplice assistente sociale. Al tempo del nostro santo, la Rivoluzione Francese eliminava i preti o li trasformava in preti “giurati” o secolarizzati, che avevano spesso sulla bocca parole di “cittadino, di civismo, di costituzione, e non mancavano critiche ai predecessori” (2).
La nostra società figlia della stessa Rivoluzione Francese, con la complicità del nuovo “aggiornamento” della Chiesa, in modo più subdolo e più efficace ottiene gli stessi risultati: eliminazione del sacerdote (in particolare mi riferisco alle migliaia di sacerdoti che hanno abbandonato il loro sacerdozio), o secolarizzazione dello stesso, sia nell’abito che nel modo di pensare e agire, avendo sulla bocca in particolare parole come “solidarietà”, “pace”  “fratellanza” “aiuto dei poveri”, “fame nel mondo”, “il problema dell’inquinamento”, …e come molti sanno, il disprezzo dei predecessori e del passato della Chiesa non manca. Tutto questo è avvenuto soprattutto dopo il Concilio Vaticano II che non a caso da uno dei suoi padri, il Cardinale Suenens, è stato chiamato «il 1789 nella Chiesa». Cercando di leggere il piano della Provvidenza possiamo dire che la Santa Chiesa propone il Santo Curato d’Ars oltre che come modello per la santità sacerdotale anche come un “anti-virus” di questa peste della secolarizzazione o laicizzazione del sacerdote da cui dipende direttamente anche quella della società. Come diceva il Papa san Pio X, che considerava il nostro Santo come il suo compagno (socius meus): «Per far regnare Gesù Cristo nel mondo nessuna cosa è così necessaria come la santità del clero…». Quindi alla luce della teologia cattolica guardiamo cosa devono fare i sacerdoti per imitare il Santo Curato ed essere quel “sale della terra” per guarire questa società dalla “peste” della laicizzazione o secolarizzazione ricordando che «chiunque vuol essere amico di questo mondo, si fa nemico di Dio» (Gc 4,4). In particolare vedremo con l’aiuto di mons. Trochu, che ha scritto la più bella biografia del santo, chi è il sacerdote, quali devono essere le sue caratteristiche principali, il mezzo principale per riprodurle in lui stesso e… il segreto per riuscire.
CHI È IL SACERDOTE?
«Un uomo – dice il Santo – che sta al posto di Dio, un uomo che è rivestito di tutti i poteri di Dio… Provate ad andare a confessarvi dalla santa Vergine o da un angelo: vi potranno assolvere? No. Vi daranno il Corpo e il Sangue di Nostro Signore? No. La santa Vergine non può far discendere il suo divin Figlio nell’Ostia. Se anche foste di fronte a duecento angeli, nessuno di loro potrebbe assolvere i vostri peccati. Un semplice prete, invece, può farlo; egli può dirvi: “Va in pace ti perdono”. Oh! Il prete è veramente qualcosa di straordinario!… Dopo Dio il prete è tutto!» (3). «Oh, – afferma un giorno – come è grande il sacerdote! Il sacerdote non si comprenderà bene che nel Cielo… Se egli comprendesse qui che cos’è, ne morrebbe non di spavento, ma di amore» (4). San Tommaso d’Aquino c’insegna che la dignità dell’Ordine Sacro supera quella degli stessi Angeli. Di tutto questo il Curato d’Ars era ben consapevole. Fin dall’istante della sua ordinazione considerò se stesso come un calice, destinato unicamente ad un ministero divino… e non di assistenza sociale, o comunque “umano”, come potevano essere i preti giurati della rivoluzione francese da cui, fin da giovane con la sua famiglia, prese le distanze abbandonando la propria parrocchia per seguire un prete “refrattario”(5) che segnò profondamente la sua vita. Se la famiglia avesse seguito il prete “giurato” non solo il nostro Santo non avrebbe avuto la sublime considerazione del suo sacerdozio, ma probabilmente non sarebbe neppure divenuto sacerdote come molti giovani di oggi vedendo un sacerdozio che ha perso la sua sacralità e la sua identità. Non se ne conosce più la sublime grandezza e l’inestimabile beneficio. San Giovanni Vianney conosceva e viveva la grandezza del suo sacerdozio e sapeva bene che senza un vero sacerdote la società crollerebbe. Questo i nemici della Chiesa non lo ignorano. «Lasciate – dice il Santo – una parrocchia per vent’anni senza prete e la gente finirà per adorare le bestie. Quando si vuole nuocere alla religione, si comincia attaccando il prete, perché laddove non c’è più il prete, non c’è più sacrificio eucaristico e laddove non c’è più sacrificio, non c’è più religione» (6). Che cosa bisogna dire oggi, quando lo stesso sacrificio della Messa è stato ridotto ad una cena?…
L’UOMO DI DIO
«Ho visto Dio in un uomo» affermò un pellegrino vedendo il parroco di Ars dire ad un cappellano: «come vorrei perdermi e non trovarmi che in Dio». La prima caratteristica del sacerdote è quella di cercare continuamente questa unione con Dio e il Sommo Sacerdote Gesù Cristo, in modo che si possa dire con san Paolo: «Non sono più io che vivo ma è il Cristo che vive in me”». Per questo il vero ministro di Dio, come san Giovanni Maria Vianney, è prima di tutto un uomo di fede. Molti preti che l’hanno conosciuto da vicino hanno detto: «Don Vianney era l’immagine vivente della vita soprannaturale e la perfezione che indicava agli altri era la regola costante della sua condotta. La fede fu il movente di tutte le sue azioni e di tutta la vita e formò di lui l’esemplare di ogni virtù e la copia più perfetta del divino modello. Averlo conosciuto può considerarsi una grazia particolare di Dio»(7).
È ammirevole come il Nostro, in mezzo alle più grandi occupazioni e alle persone che lo importunavano, manteneva sempre questa vita interiore con Dio e la completa padronanza di sé. Dice il canonico Gardette: «Era tanto il suo abbandono al beneplacito divino che, anche in mezzo all’azione così varia e così faticosa del suo ministero, rimaneva sempre raccolto, come quando compiva i suoi esercizi di pietà, e si sarebbe detto che non aveva da fare che l’azione del momento. Era sempre guidato dalla sollecitudine dello zelo e non dall’attività della natura e bastava osservarlo per convincersi che in nessuna ora della giornata mai era turbata la libertà di spirito, la dolcezza di carattere, il riflesso della pace interiore» (8). Tutta la sua vita ruotava attorno a Dio come il suo centro, in ogni momento, in pulpito, in confessionale, o fra le diverse occupazioni del suo ministero, elevava il suo cuore a Dio, «essendosi fatta l’abitudine di uscir da Dio per l’azione, quando ciò fosse strettamente necessario, e di rientrare in Dio colla preghiera, appena gli fosse possibile»”(9).
Ai preti di oggi, che sono molto presi dal ministero il nostro modello direbbe, come consigliò un giorno a don Dufour: «Al presente non ho molto tempo per fare la mia preghiera regolarmente, e per questo, fin dal principio della mia giornata, mi sforzo di unirmi intimamente a Nostro Signore ed opero col pensiero di questa unione». Per questo, come racconta il suo biografo, «in ogni istante della giornata il suo pensiero considerava qualche azione della vita di Nostro Signore e dei Santi, con una spiccata preferenza per i misteri dolorosi, che lo aiutavano a seguire il Redentore nelle diverse stazioni, fino al Calvario; per questo aveva dato incarico alla buona Caterina Lassagne (una perpetua) di segnare le stazioni ai margini del suo breviario, e pensava con gli occhi bagnati di lacrime di compassione, alle diverse scene della Passione» (10). «La sua vita – afferma mons. Trochu – era la realizzazione integrale di questo pensiero profondo, nato dalla sua riflessione: “La fede è parlare a Dio come si parlerebbe ad un uomo”» (11).
Il nostro Santo, nonostante il grande lavoro, metteva sempre al primo posto Dio e la preghiera. La vita contemplativa – come insegna la Chiesa e in particolare san Tommaso d’Aquino – precede la vita attiva e l’una non esclude l’altra. Ma la prima ha la precedenza perché è la più perfetta e la più necessaria (12). Non ci si può nascondere dietro il molto lavoro o lo zelo delle anime. La prima anima da santificare è la propria e solo se santifichiamo noi stessi e siamo uniti a Dio possiamo anche santificare gli altri. La vita del Curato d’Ars afferma pienamente questa verità che non è altro la messa in pratica delle parole di Nostro Signore: «Io sono la vigna, e voi i tralci. Colui che rimane in me e io in lui, porta abbondanti frutti, perché senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,5).
LA CONQUISTA DELLE ANIME
San Giovanni Maria Vianney fin dalla giovinezza, quando si trovava ancora con i suoi genitori, diceva alla sua piissima madre: «Se io fossi prete, vorrei guadagnare molte anime!». Il sindaco di Ars – racconta sempre mons. Trochu – gli aveva domandato un giorno di dicembre quanti grossi peccatori aveva convertito durante l’anno. «Più di settecento», rispose con un sorriso dove si nascondeva una fierezza soprannaturale. Il numero delle conversioni è incalcolabile. Si parla di 20.000 visitatori ad Ars nel 1827, nove anni dopo il suo arrivo, e di 80.000 o 100.000 l’anno che precede la sua morte. Nel Nostro non solo c’era il desiderio del bene delle anime, ma aveva nel sangue un vero “istinto della conquista”. «Il suo programma (all’inizio del suo ministero) – afferma il biografo – era stato meditato ai piedi del Tabernacolo, ed era quello di un pastore zelante per la salvezza del suo gregge: prendere contatto con la popolazione al più presto possibile ed assicurarsi la cooperazione delle famiglie migliori; perfezionare i buoni, richiamare gli indifferenti e convertire i peccatori; ma soprattutto pregare Dio, dal quale vengono con abbondanza tutti i doni, e santificare se stesso, per riuscire a santificare gli altri; infine, fare penitenza per i peccatori colpevoli. Prima di iniziare il suo lavoro si sentiva debole ed insufficiente, ma aveva con sé fin d’allora la forza misteriosa della grazia, e quella umiltà che Dio sceglie per abbattere le potenze dell’orgoglio: “Un santo prete compie grandi cose con mezzi apparentemente insufficienti.”(13). Da “buon soldato di Cristo” nel silenzio della notte si reca in chiesa per pregare il  Signore che usi misericordia per il suo popolo e Pastore. “Mio Dio – esclamava il santo Curato – datemi la conversione della mia parrocchia. Io acconsento a soffrire tutto ciò che vorrete, per tutto il tempo della mia vita!… Anche i dolori più atroci per cento anni, purché il mio popolo si converta”»(14). E le sue lacrime cadevano sul pavimento. Al sorgere del sole il pastore era ancora là…Tutte le volte che le opere di ministero non gli imponevano di uscire, il “buon soldato” lo si trovava non nella casa, ma in chiesa. Vi furono dei giorni in cui usciva solo dopo l’Angelus della sera. Un giorno un signore attraversa il bosco non lontano dalla parrocchia e sorprende don Vianney inginocchiato. Il giovane curato, che non si era accorto di lui, ripeteva a calde lacrime: «Mio Dio, convertite la mia parrocchia». Il pio contadino, non osando interrompere la preghiera, si allontana con tutta la precauzione.
Le mortificazioni del Curato d’Ars sono diventate celebri. Mortificazioni da ammirare più che da praticare. Si dava la disciplina fino al sangue, mangiava e dormiva pochissimo, soffriva il freddo e soprattutto approfittava di ogni cosa, anche delle più piccole e indifferenti, per tormentare il suo povero corpo, o “il vecchio Adamo”, al dire del Santo. L’assiduità al confessionale (confessava fino a 18 ore al giorno!) – afferma mons. Trochu – «colle pene di cui era causa, gli sarebbe bastata per raggiungere un alto grado di perfezione; ma era così avido di penitenza che tutto gli sembrava di poco conto e cercava le mortificazioni così come un altro va in cerca dei piaceri»(15). Uno specialistadella penitenza, un Padre della Grande Certosa, afferma: «Confessiamo noi solitari, eremiti, monaci, penitenti di ogni regola, non osiamo seguire il Curato d’Ars altrimenti che con lo sguardo della nostra simpatica e cordiale ammirazione: non siamo degni di baciare le orme dei suoi piedi o la polvere delle sue scarpe»(16). Il buon Curato, come il Sommo Sacerdote, era cosciente che la sua missione era quella di salvare le anime soprattutto con la preghiera e con il sacrificio. Come afferma il Trochu: «Non cerca nuove vie di risurrezione morale, ma semplicemente applicherà gli antichi rimedi nelle forme tradizionali». E questo non si può dire non valga anche per il sacerdote del terzo millennio. La città di Ars in pochi anni, nonostante l’indifferenza, la perdita della fede e il grande disordine che aveva procurato la Rivoluzione, fu trasformata in un “santuario”.
LA SANTA MESSA
Il mezzo essenziale e necessario del sacerdote per unirsi a Dio e conquistare le anime è il Santo Sacrificio della Messa. Infatti il sacerdote, in persona Christi, rinnova lo stesso sacrificio di Nostro Signore per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. È in questo momento soprattutto che “l’uomo di Dio” è unito in maniera straordinaria e celeste al suo Signore che “assume” la persona  stessa del sacerdote per rinnovare il suo Sacrificio. Per il sacerdote la Messa è tutto: è stato ordinato per questo. «Ogni pontefice è destinato a offrire doni e vittime» (Eb 8,3). Il santo Curato d’Ars da vero sacerdote dice: «Io non vorrei essere parroco, ma sono contento di essere prete per poter celebrare la Messa»(17). Molti dicevano che era così assorto in Dio che sembrava un angelo quando celebrava e che si commuoveva fino alle lacrime. L’unione con Dio che aveva durante la giornata si realizzava e si irrobustiva soprattutto durante la santa Messa che è considerato l’atto supremo di contemplazione della Chiesa. «Noi siamo così terreni – dice il santo – che la nostra fede ci indica le cose soprannaturali lontane 300 leghe di distanza, come se Dio fosse al di là dei mari. Se avessimo una fede viva lo vedremmo certamente nell’Eucarestia. Ci sono dei preti che lo contemplano ogni giorno, celebrando la Messa»(18). Allo stesso modo è durante il divino Sacrificio che alimentava il suo desiderio della salvezza delle anime e dei poveri peccatori per strapparli dai lacci del demonio e dalla voragine dell’inferno. «Durante la santa Messa dice il Santo – quando si prega il Signore, che è sull’altare, per i poveri peccatori, Egli dà ad essi raggi di luce, perché scoprano le proprie miserie e si convertano». Si univa veramente alla Vittima dell’altare che lo aiutava ad esercitare una pazienza eroica: «Quanto è bene – diceva – che un prete si offra a Dio ogni mattina in sacrificio». Possiamo affermare che per il santo Curato d’Ars, come per Padre Pio, la Messa era «come il sole che dà luce e forza durante la giornata».
Per sottolineare l’importanza che dava al santo Sacrificio è sufficiente considerare la sua preparazione e il suo ringraziamento, che purtroppo oggi non sono più di “moda”. «Secondo l’avviso del suo confessore – racconta mons. Trochu – tutto ciò che aveva fatto dalla sua levata fino a quel momento (della Messa) poteva essere considerato un’eccellente preparazione», ma egli voleva ancora alcuni minuti per meglio raccogliersi prima della celebrazione. Rimaneva immobile inginocchiato sul pavimento del coro, colle mani giunte e gli occhi fissi al Tabernacolo, e non vi era nulla che fosse capace di distrarlo in quegli istanti di intimità con Dio»(19). Per il ringraziamento don Vianney si recava davanti all’altare in cotta e stola. Racconta il suo biografo: «Vi furono dei pellegrini che non temettero di avvicinarlo anche in questi momenti per scrutarlo con curiosa attenzione, e di scambiare riflessioni sul suo conto; ma egli rimaneva sempre impassibile e sembrava non accorgersi di nulla che succedesse, tanto era assorto in Dio. Non aveva detto egli stesso in uno dei suoi catechismi: “Quando si è fatta la Comunione l’anima si immerge nel balsamo dell’amor di Dio, come l’ape fra i fiori”?».
Il suo amore per la Messa e la liturgia in generale lo si nota anche dal fatto che voleva paramenti e vasi sacri ricchissimi e preziosi: avrebbe voluto un calice d’oro massiccio perché «il più bello che aveva non gli sembrava ancora degno di contenere il Sangue di Gesù Cristo». Se pensiamo a quello che vediamo oggi nelle nostre chiese (sia fuori sia dentro), che cosa direbbe colui che è l’esempio di tutti i sacerdoti?… Purtroppo non solo si è impoverito tutto ciò che fa parte della bellezza esteriore, ma anche – ed è infinitamente più grave – lo stesso rito della santa Messa, che non esprime più la bellezza della fede cattolica, ma anzi «si allontana in modo impressionante sia nel suo insieme come nei particolari dalla teologia cattolica della Santa Messa» (20). L’esempio per tutti i sacerdoti ci invita con la Chiesa a fare della Messa il centro della nostra vita e considerarla il più grande beneficio. «Tutte le buone opere insieme non equivalgono al santo sacrificio della Messa: esse, infatti sono opere degli uomini, mentre la messa è opera di Dio. Il martirio è nulla in suo confronto: è l’uomo che sacrifica a Dio la sua vita, ma la Messa è Dio che sacrifica all’uomo il suo Corpo e il suo Sangue».
LA LOTTA COL DEMONIO
Il nuovo sacerdote secolarizzato, illanguidendo o perdendo la fede, non solo perde il senso e la necessità dell’unione con Dio e i suoi angeli, ma anche la realtà della lotta con il demonio. «Siate sobri e vigilate, perché il vostro avversario, il diavolo, vi gira attorno come un leone ruggente, cercando chi divorare», ci insegna il primo Papa (1 Pt 5,8). Per molti sacerdoti le realtà del demonio e dell’inferno o non esistono più o non bisogna dar loro importanza. Tutti si salvano, tranne forse alcuni casi eccezionali. Anche il messaggio della Madonna a Fatima del 1917, riconosciuto dalla Chiesa, sembra non abbia avuto successo. In questo clima di pacifismo sembra si sia voluti fare la “pace” anche con il demonio e per conseguenza si è perso progressivamente quello spirito di lotta che ha caratterizzato la Chiesa “militante” per duemila anni. Perché dal Papa Leone XIII è stata introdotta alla fine della messa la preghiera a san Michele Arcangelo, Principe delle milizie celesti, per poi toglierla con la nuova messa? Il santo Curato e altri santi sacerdoti come Padre Pio hanno dovuto lottare contro il demonio anche fisicamente. Per circa trentacinque anni, dal 1824 al 1858, fu in preda alle ossessioni esterne del Maligno. Ma «le lotte di don Vianney col demonio – ci dice Caterina Lasagne – contribuirono a rendere la sua carità più viva e più disinteressata»(21). D’improvviso in mezzo al più profondo silenzio della notte si udivano rumori contro la porta, mentre forti grida risuonavano nel cortile. Satana giunse fino a bruciare il suo letto. All’inizio, certo, c’era un po’ di paura nei confronti del “Grappino” – soprannome dato dal Santo – ma poi prese l’abitudine di queste persecuzioni infernali. Si affidava a Dio, faceva il segno della Croce rivolgendo qualche parola di disprezzo. «Se il maligno non mi lascia in pace – diceva – è buon segno… la pesca del giorno seguente sarà senza dubbio eccellente… Il “Grappino” è una gran bestia: mi dice lui quando verranno i grandi peccatori: è in collera, tanto meglio!»(22). In effetti il giorno dopo c’era sempre qualche grande peccatore che si convertiva al suo confessionale.
Il 23 gennaio 1840, sempre nel tribunale della confessione, avvenne qualcosa di eccezionale. Una donna che non aveva dato nessun segno di possessione diabolica incominciò a parlare con voce stridula e forte tanto che i presenti potevano ascoltare tutto quello avveniva tra il santo Curato e la penitente: «Leva la tua mano ed assolvimi… – disse la donna. Tu quis es? (chi sei tu?) – domandò il Santo. Magister Caput (cioè il capo), rispose il demonio. Poi continuando la sua risposta in francese, aggiunse: “Ah, rospo nero, quanto mi fai soffrire! Ci sono dei rospi neri che mi fanno soffrire meno di te…Ti avrò! Non sei ancora morto… Senza quella… (e qui una volgarità ripugnante indicava la Santissima Vergine) che è lassù noi ti avremmo; ma Ella ti protegge con questo grande dragone (San Michele) che è alla porta della tua chiesa… Dimmi, perché ti alzi così presto al mattino? Perchè predichi in un modo così semplice? Perché non predichi in un modo più elevato come nelle città?…»(23). A noi, in rapporto alle cose dette prima, di trarre le debite conclusioni e di vedere il sacerdote come il ministro della chiesa “militante” che lotta contro il demonio e contro il peccato e non solo contro la fame nel mondo, la droga, l’inquinamento, ecc…
IL SEGRETO DELLA RIUSCITA
Il “successo” sacerdotale ed in particolare pastorale ha un segreto: la sua devozione alla Santa Vergine, Madre del Sacerdozio. «Tutti i santi l’hanno amata la Madonna – dice mons. Trochu – ma pochi hanno potuto superare san Giovanni Maria Vianney». Lo stesso demonio, come abbiamo visto, afferma la grande protezione di Maria nei confronti del santo. Questa devozione inizia all’età di quattro anni, quando sua mamma gli dona in regalo una statuetta della Vergine Maria. A settanta anni di distanza ricorderà questa statua dicendo: «Quanto l’amavo!… Non potevo separarmene né giorno né notte, e non avrei neppure potuto dormire tranquillo, se non l’avessi avuta vicino a me nel mio lettino… La Santa Vergine raccolse la mia prima affezione; l’ho amata ancora prima di conoscerla»(24). Il suo amore della Madonna lo esprimeva con la recita assidua della corona del Rosario, che distribuiva a tutti. «Come era commovente – scrive don Raymond – vedere questi uomini dai capelli bianchi che da tempo avevano disertato la chiesa, trascurata la preghiera e la devozione alla Santa Vergine, tenere fieramente il Rosario in mano e recitarlo con fervore! Nessuno di loro poté resistere alle ingiunzioni del Santo Sacerdote, che comandava a tutti di portare con sé un Rosario e di recitarlo. Invano gli obbiettavano che non ne conoscevano più l’uso, e che, dopo tutto, si sapeva leggere… “Amico mio”,  rispondeva il Curato, “un buon cristiano è sempre munito della sua corona; io non la lascio mai. Compratene una ed io le applicherò le indulgenze delle quali avete così grande bisogno, per supplire a una troppo debole penitenza”. Nella maggior parte dei casi agli uomini regalava una corona e tutti l’accettavano come un prezioso ricordo»(25). Eppure oggi diversi rettori e professori di seminario non consigliano più questa preghiera, che per il Magistero della Chiesa (a seguito anche delle apparizioni della Madonna di Lourdes e Fatima) è fondamentale.
Ma ciò che veramente ha contribuito a trasformare gli abitanti di Ars è stata la consacrazione solenne di tutti i parrocchiani a Maria Immacolata “Concepita senza peccato”, domenica 1° maggio 1836. Durante la cerimonia depone la lista dei suoi parrocchiani nel cuore in argento dorato, regalato da una signora di Ars, all’entrata della cappella della Santa Vergine. A questo evento il santo sacerdote dava una importanza particolare. Infatti mise vicino alla cappella della Madonna un quadro, che ricorda la cerimonia. Ogni famiglia aveva un “memento”: una immagine della Madonna sotto la quale ogni padre di famiglia scriveva la consacrazione. Il Curato la firmava e ognuno se la portava a casa. Nel 1927, afferma mons. Convert, se ne trovano ancora molte nelle famiglie. Più tardi i pellegrini che venivano ad Ars volevano possedere queste immagini, scrivere la loro consacrazione ed avere la firma del santo Curato. «Quante consacrazioni ha firmato! – dice un testimone – per la fiducia che aveva nella Madre celeste ne firmò tantissime». Affermava che non la si invoca mai invano, che Ella è tutta misericordia e amore per i poveri peccatori che ricorrono a Lei: diceva spesso che gli piaceva ringraziare Nostro Signore che aveva preso un così buon Cuore per i peccatori e soprattutto che ne aveva dato uno tanto buono alla sua santa Madre. Ha anche confessato «che consacrava i suoi parrocchiani alla Santa Vergine molte volte durante la notte; e tutti quelli, diceva, che andavano a lui per confessarsi, erano messi nel numero dei suoi parrocchiani». Don Toccanier dirà: «Il Curato offriva spesso la sua parrocchia alla Santa Vergine»(26). Prendiamo esempio dal nostro santo per far trionfare al più presto il Cuore Immacolato di Maria che è «così pieno di tenerezza per noi che i cuori di tutte le madri del mondo messi assieme non sono che un pezzo di ghiaccio in confronto al suo»(27).
CONCLUSIONE
Sappiamo bene che l’unico vero rimedio per l’uomo che porta in sé le conseguenze del peccato originale ha un solo nome: Gesù Cristo, il Sacerdote. Ed Egli continua la sua missione attraverso coloro che partecipano al suo sacerdozio ricevendo il sacramento dell’Ordine. Ma questa opera non si può veramente realizzare se al sacerdozio viene data un’altra orientazione. La missione del sacerdote è quella di Gesù Cristo: la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Gesù ha realizzato questa missione in particolare con il Sacrificio del Calvario, il sacerdote lo fa attraverso la santa Messa che è la rinnovazione dello stesso e unico Sacrificio. Ora, i nuovi sacerdoti devono celebrare una nuova messa (novus ordo missae) che non esprime più in modo chiaro questo sacrificio e si orienta (anche fisicamente) non più veramente verso la gloria di Dio ma verso l’uomo (l’assemblea), offrendo non più l’Ostia immacolata, ma i frutti della terra e del lavoro dell’uomo (vedi il nuovo offertorio della Messa). In questo modo la loro missione cambia orientamento avendo come fine principale non più Dio ma l’uomo. Come dice il Concilio Vaticano II la Chiesa è al «servizio dell’uomo» (Gaudium et spes,n. 3) e il sacerdozio (Presbyterorum ordinis) è orientato prima di tutto verso il corpo mistico (i fedeli) e non verso il Corpo di Cristo (Dio)(28). «L’ordine della finalità – afferma mons. Lefebvre – è stato invertito: il sacerdozio ha un fine primario che è quello di offrire il sacrificio, e un fine secondario che è l’evangelizzazione. Abbiamo numerosi esempi che mostrano sino a qual punto l’evangelizzazione prenda il sopravvento sul sacrificio e sui sacramenti. È fine a se stessa. Tale grave errore ha conseguenze tragiche: l’evangelizzazione, divelta dal suo scopo, risulterà disorientata, cercherà dei motivi che piacciono al mondo, quali la falsa giustizia sociale, la falsa libertà che si bardano di nomi nuovi: sviluppo, progresso, costruzione del mondo, miglioramento delle condizioni di vita, pacifismo»(29).
In questo modo il sacerdote facilmente perde di vista l’importanza dell’unione a Dio, della dimensione soprannaturale e della preghiera manifestata anche dal fatto che il breviario è ridotto ad un quarto di quello precedente la riforma. La salvezza delle anime si trasforma facilmente in un servizio sociale. In questa nuova visione, certo, imitare il santo Curato d’Ars diventa molto complicato se non impossibile a meno che si cambi la formazione nei seminari o si diventi dei “preti refrattari” come al tempo del nostro Santo per cercare di seguire la strada e la missione perenne della Chiesa e del suo Sacerdozio. È ciò che ha fatto mons. Lefebvre, il “Vescovo refrattario”, per trasmettere e salvare il sacerdozio cattolico. A lui penso sia doveroso dare un ringraziamento particolare in questo “anno sacerdotale”. Solo così ci può essere speranza di guarire il sacerdozio e la società dalla peste della secolarizzazione e formare sulla terra il vero regno di Dio. Allora i sacerdoti facilmente sapranno chi sono, che cosa devono fare e magari saranno anche più numerosi dei dentisti, psicologi e commercialisti…
Note
(1) GIAN PAOLO SALVINI, Il clero in Italia: timori e speranze, in «La Civiltà Cattolica», 2006, quad. 3735,  p.243.
(2) MONS. TROCHU, Il Curato d’Ars – San Giovanni Maria Battista Vianney (1786 – 1859), Torino-Roma, 1937, p.13.
(3) SANTO CURATO D’ARS, Pensieri scelti e fioretti, a cura di Janine Frossard, 1999, p. 76.
(4) MONS. TROCHU, Il Curato d’Ars, cit., p.107
(5) I sacerdoti “refrattari” a differenza di quelli “giurati” erano coloro che non giuravano fedeltà alla Costituzione Civile del Clero del 26 novembre del 1790.
(6) SANTO CURATO D’ARS, Pensieri scelti e fioretti, cit., p. 77.
(7) MONS. TROCHU, Il Curato d’Ars, cit., p. 496
(8) Ibidem, p. 379.
(9) Ibidem, p. 379
(10) Ibidem, p. 381
(11) Ibidem, p. 381
(12) Summa Theologica II II, q. 182, art. 1.
(13) MONS. TROCHU, Il Curato d’Ars, cit., pp. 134-135.
(14) Ibidem, p. 140.
(15) Ibidem, p. 535.
(16) Ibidem, p. 541 – Lettera del P. Maurizio Maria Borel certosino, indirizzata all’abate Toccanier, in data 15 settembre 1865.
(17) Ibidem, p. 363.
(18) Ibidem, p. 593.
(19) Ibidem, p. 364.
(20) Breve esame critico del Novus Ordo Missae.
(21) MONS. TROCHU, Il Curato d’Ars, cit., p. 270.
(22) Ibidem, p. 275.
(23) Ibidem p. 289.
(24) Ibidem, p. 9.
(25) Ibidem, p. 338.
(26) Lettre aux amis de saint Francois, n. 26, 10 febbraio 2009, p. 6.
(27) SANTO CURATO D’ARS, Pensieri scelti e fioretti, cit., p. 91.
(28) Per quello che riguarda le variazioni nel sacramento dell’Ordine vedere lo studio sul documento Presbyterorum Ordinis nella rivista Nouvelles de Chretientè, n. 92-93, 2005, Du déréglement dans l’Ordre ou le sacrement de l’Ordre à Vatican II, dell’abbé Chautard.
(29) MONS. LEFEBVRE, Lettera aperta ai cattolici perplessi, pp. 58-59.
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museoweb · 4 years ago
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Giotto di Bondone, conosciuto semplicemente come Giotto (Colle di Vespignano, 1267 -  Firenze, 8 gennaio 1337), è stato un pittore e architetto italiano del periodo Gotico. Giotto già in vita divenne un artista simbolo, un vero e proprio mito culturale, detentore di una considerazione che non mutò nei secoli successivi.
E’ considerato un anticipatore del Rinascimento, in quanto per primo riveste di una corporeità realistica la rappresentazione pittorica delle figure umane andando oltre lo ieratismo bizantino. Inoltre è Giotto ad introdurre lo spazio in pittura servendosi di una prospettiva non ancora evoluta ma efficace. I personaggi dei suoi dipinti sono connotati psicologicamente e segnano i primi tentativi di una laicizzazione della pittura.
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giancarlosebastianpuglisi · 4 years ago
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Cesare Beccaria: tortura, pena di morte, laicizzazione del diritto e ugu...
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camminidiliberta · 4 years ago
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Riflessioni sull’educazione: Jacques Verger, Le università nel Medioevo
Nel presente libro Verger delinea lo sviluppo dell'università quale istituzione sociale e politica. Durante il dodicesimo secolo le scuole cattedrali si stavano diffondendo, richiamando un crescente numero di studenti. Tale crescita era una risposta all'aumento della domanda di persone colte. La grande diffusione dei testi tradotti dal greco e dall'arabo, e il diritto romano, diedero autonomia all'insegnamento di alcune discipline secolari, come legge e medicina. Il rapido successo della dialettica stabilì un nuovo tipo di pedagogia; la teologia fu profondamente riesaminata. Particolari circostanze storiche fecero sì che alcuni centri  come Parigi, Bologna, Oxford, divennero estremamente  influenti. Attorno  a queste città cominciarono a prendere forma le prime corporazioni di studenti e maestri. Il monopolio della Chiesa sull'insegnamento cominciò a venir meno. Il quindicesimo secolo fu un epoca di cambiamento: nuove fondazioni, un corpo di insegnanti e di studenti in continua espansione. Tuttavia allo stesso tempo le istituzioni subivano un cambiamento diventando secolarizzate; la precedente autonomia era in declino davanti alle nuove pressioni statali.
Il saggio di Verger non si occupa di storia delle idee, privilegia una lettura sociale e politica della storia dell'università. Per quanto l'argomento sia molto complesso, perché deve tenere conto delle diverse realtà di numerose università disseminate in varie regioni dell'Europa, dall'esame storiografico emergono tre fenomeni costanti dal Medioevo ai giorni nostri: l'interesse dei potenti ad avvantaggiarsi del sapere e dei professionisti prodotti dalle università, la tendenza dei potenti ad esercitare un controllo sulle università indirizzandone le attività attraverso l'elargizione di finanziamenti, la costituzione spontanea di classi sociali colte e privilegiate all'interno dell'università. Verger inizia il suo studio esaminando la situazione delle scuole in Occidente nel XI-XII secolo. Solo in Italia  erano presenti scuole laiche di arti liberali, di elementi di notariato, di diritto pratico e, a Salerno, di medicina. Si trattava comunque di realtà private e poco note; la massima parte dei centri di cultura era sotto il controllo della Chiesa, presso un monastero o una cattedrale. Ogni scuola era diretta da un magister scholarum  direttamente  subordinato  al  vescovo o all'abate.  Queste scuole  erano destinate in primo luogo agli oblati dei monasteri e ai giovani chierici, la maggior parte impartiva solo un'istruzione elementare, pochi centri potevano definirsi di educazione superiore. I monasteri, luoghi del sapere per eccellenza nell'alto Medioevo, erano in una fase di decadenza. Al contrario le cattedrali, per via della riforma gregoriana, iniziarono ad essere i nuovi centri della cultura. L'insegnamento era ancora quello stabilito in epoca carolingia da Alcuino: alla base c'erano le sette arti liberali, al vertice la teologia. L'unica innovazione, peraltro molto importante, fu la riscoperta della dialettica aristotelica che portò al rinnovamento della teologia fornendo uno strumento razionale di interpretazione della Sacra Scrittura. I testi di Aristotele furono accessibili grazie ai contatti di Venezia con l'impero bizantino, grazie alla conquista normanna della Sicilia e soprattutto grazie all'incontro tra la cultura islamica e latina in Spagna. Da questi  apporti della cultura  greca dipenderà in  larga  misura l'orientamento dell'attività intellettuale delle università fino alla fine del Medioevo. Inoltre, negli ultimi anni del XI  secolo,  la lotta per  le investiture   comportò  un  risveglio dell'attività giuridica; di qui un intenso lavoro di ricerca, di critica e di riordinamento delle fonti del diritto. Parallelamente  vi fu lo sviluppo   delle città,  conseguenza del generale sviluppo demografico dell'Occidente.   Senza città non sarebbe stata possibile la nascita dell'università; la città infatti comportava la divisione del lavoro, le persone dedite ad uno stesso mestiere tendevano spontaneamente ad associarsi in comunità di uguali, dando vita ad una corporazione, spesso chiamata “universitas”. Nelle città di tutta Europa si moltiplicarono le scuole. All'inizio del Duecento solo le classi sociali più ricche potevano permettersi di pagare l'istruzione ai propri figli, verso la fine dello stesso secolo anche le classi medie erano in grado di fare altrettanto. Nel 1179 il III concilio Lateranense stabilì che ogni cattedrale era obbligata a tenere una scuola e che gli  scolastici  dovevano concedere gratuitamente la licentia   docendi  a chiunque la chiedesse, purché in possesso dei requisiti necessari. La licentia docendi conferiva il diritto di insegnare soltanto entro i confini della diocesi. All'inizio del Duecento il Papato istituì la licentia ubique docendi, riconosciuta ovunque, così facendo la Chiesa affermava il suo diritto a controllare tutta l'attività dell'insegnamento. Nonostante il forte controllo della   Chiesa l'istruzione iniziò  a non essere più considerata semplicemente come   formazione del clero, l'intellettuale cominciò a prendere coscienza della specificità sociale del suo lavoro, che non si lasciava ricondurre a quello del chierico. Verger cita il caso emblematico dell'università di Parigi: è probabile che una prima forma di associazione corporativa dei maestri parigini sia avvenuta nella seconda metà dell'undicesimo secolo, periodo in cui si assistette alla laicizzazione degli insegnanti, nel 1194 Celestino III concesse ai maestri e agli allievi di Parigi i privilegi goduti dai chierici, nel 1231 con la  bolla  Parens   scientiarum  Gregorio IX sancì l'autonomia dell'università rispetto all'autorità vescovile. Complessivamente il governo  delle università presentava nel   Duecento tratti democratici ed era esercitato in modo autonomo: non c'erano ancora funzionari statali incaricati di occuparsi degli affari universitari, solo i legati pontifici svolgevano un ruolo importante concedendo gli statuti e arbitrando nelle dispute. L’università nel Duecento non avevano edifici. I privilegi degli universitari comprendevano l'esenzione dal  servizio militare, dal pagamento delle tasse, e il godimento di rendite ecclesiastiche senza l'obbligo di prendere gli ordini e di servire alcun incarico. In un primo momento le università conferivano un solo titolo, la licentia docendi, inseguito si aggiunse un titolo minore, quello di bacceliere, e un titolo superiore, il dottorato, quest'ultimo era   utile a chi intendeva dedicarsi all'insegnamento e si trattava di una semplice formalità da un punto di vista scolastico, ma costava molto caro e fungeva da sbarramento sociale nei confronti degli studenti meno abbienti. Gli studenti ricchi erano frequenti soprattutto nelle facoltà di diritto, per il resto gli studenti provenivano da tutti gli stati sociali definibili classe media: piccola nobiltà, borghesia, contadini benestanti. Per molti di questi l'università offriva una speranza di promozione sociale. L'insegnamento doveva essere gratuito, i maestri potevano vivere grazie ad una prebenda ecclesiastica, diventando così chierici condizionati dalla Chiesa. Tuttavia, specialmente nelle università italiane era uso che gli studenti versassero delle collette ai docenti. Lo sviluppo delle corporazioni universitarie fu promosso per tutto il XIII secolo dai papi. Per i papi l'università doveva fornire anzitutto del personale idoneo ai compiti peri quali l'impreparazione intellettuale era un pericolo: vescovi, predicatori, teologi e canonisti. L'unico studio utile ai predicatori era la teologia. Per prima cosa studiavano la dialettica a fini propedeutici, per poi dedicarsi al lungo studio della teologia, per completare il quale erano necessari ben 15 anni. La quasi totalità degli studenti di teologia erano frati domenicani. I domenicani disponevano dei   propri studia conventuali, tuttavia si inserirono nelle università, e dove mancava l'insegnamento della teologia lo studium domenicano veniva spesso inglobato nell'università fungendo da facoltà teologica. Per tutte le altre figure clericali gli studi preponderanti erano quelli di diritto. L'importanza del diritto aumentò nel XIV e XV secolo. La realtà universitaria cambiò parecchio: si passò dalla quindicina di università del 1300 alle settanta e più del 1500. La fisionomia universitaria cambiò altrettanto: risalgono a quest'epoca i sontuosi edifici universitari, parallelamente l'insegnamento si sclerotizza, le università non sono più un luogo di fermento intellettuale, diventano centri di sapere standardizzato che producono professionisti al servizio dello stato e della Chiesa. Aumentò la componente laica fra i maestri e gli studenti, soprattutto in Italia. Per quanto concerne la teologia l'ultima figura originale fu Guglielmo di Occam. I maestri successivi si attestarono sui metodi scolastici tradizionali, che però la critica occamista  aveva  svuotato  di  ogni  sostanza.  Il  nominalismo  non incoraggiava  gli universitari a costruire nuove sintesi teologiche, promuoveva invece l'interesse per i problemi particolari. Nel Tre-Quattrocento le università svolsero la funzione di custodi dell'ortodossia. In realtà molti universitari ambivano a contare nel governo stesso della Chiesa, il Grande Scisma (1378-1417) fornì l'occasione di esercitare un'influenza sulla Chiesa durante i concili di Costanza e Basilea, influenza che fu solo momentanea. In sintesi la teologia dell'epoca non contribuì né alla politica né alla storia delle idee, solo   il   misticismo tedesco di  matrice monastica riportò vita alla teologia tardo-medioevale. Diverso discorso per i giuristi, che compongono buona parte dell'alto clero dell'epoca. Lo  scopo primario della  Chiesa  era  infatti  quello di organizzare, amministrare e dirigere. La Chiesa doveva essere un'istituzione ben organizzata ed efficace, la religione si era risolta nella morale e la morale nelle regole e nelle obbligazioni. Nel Trecento il diritto canonico ha conosciuto un forte sviluppo. La politica universitaria dei papi di Avignone fu tesa a sviluppare le facoltà di diritto. Verger cita dei dati: dalla matricola dell'università di Avignone si apprende che dal 1430 al 1478 gli iscritti alla facoltà di diritto sono stati in media 3418 contro i 271 di teologia, i 61 di arti liberali e i 13 di medicina. Molti professori di diritto concludevano la propria carriera come vescovi; il giudice ecclesiastico delegato dal vescovo e il vicario generale avevano la licenza in diritto; i canonici cittadini erano spesso degli ex-universitari. Il rapporto tra università e stati è simile a quello tra università e Chiesa: le università potevano essere pericolosi focolai di agitazione sociale, ma portavano prestigio e benessere alle città che le ospitavano, e ai governi potevano fornire giuristi qualificati, formati sul diritto romano, fonte della sovranità dello stato. Lungo il Trecento si assiste ad una evoluzione amministrativa, le burocrazie diventano assai complesse, il che porta ad una domanda molto più forte di giuristi ben preparati. Pertanto molti principi fondarono le proprie università: nel Trecento le università non erano più corporazioni spontanee. Questo fenomeno ebbe il vantaggio di colmare delle lacune geografiche, tutta l'Europa dell'est era stata   priva di importanti centri di cultura prima di quest'epoca. Gli stati hanno quindi favorito la moltiplicazione delle università, tale atteggiamento rispondeva ad un reale bisogno di funzionari. Le facoltà di diritto del tardo Medioevo furono all'altezza del compito che gli stati affidavano loro. Fu invece dalle facoltà di arti e di teologia che vennero gli interventi politici. Queste facoltà rappresentavano gruppi più dinamici socialmente e non erano orientate alla formazione professionale o al servizio dello stato. I delegati dell'università partecipavano agli stati generali e molte volte i pareri dei maestri erano tenuti in notevole considerazione. Durante la guerra dei Cento Anni l'università di Parigi divenne   una delle basi del partito borgognone, filo-inglese, e durante il periodo di occupazione inglese si impegnò in un'attiva propaganda a favore del nuovo regime. Nel complesso le università del tardo Medioevo hanno svolto una funzione politica limitata, tuttavia tale da impensierire i governi e persuaderli a uno stretto controllo dell'autonomia delle università, le quali si difesero male perché smisero di appoggiarsi al papato. Così il re di Francia Luigi XI intervenne continuamente e senza scrupoli nella vita interna dell'università di Parigi, facendo espellere personale, proibendo l'insegnamento del nominalismo e via dicendo. In maniera analoga nel 1407 Venezia proibì ai sudditi di studiare altrove che a Padova. Le città presero in mano anche il reclutamento e il pagamento dei professori: poiché li pagavano, le città potevano sceglierli. Agli inizi del Duecento le università erano corporazioni autonome, focolai di ricerca e di insegnamento; alla fine del Quattrocento erano diventati dei centri di formazione professionale al servizio degli stati. Per quanto riguarda la classe sociale, in molte matricole si segnala l'esistenza di studenti poveri, esonerati dal pagamento dei diritti universitari, frequenti soprattutto in area tedesca e nell'Europa settentrionale, assai meno numerosi al sud. Il salario dei professori prova che la diseguaglianza era la norma e che la situazione economica di parecchi maestri era mediocre, solo una piccola parte disponeva di salari altissimi, tali da permettere uno stile di vita nobiliare. Tra costoro nasce una “nobiltà di toga”, si assiste ad una chiusura sociale. L'esclusione dei poveri nelle università italiane del Quattrocento ne è un esempio. La tendenza si nota soprattutto nelle facoltà di diritto e medicina: i diritti d'esame, già alti, furono aumentati ancora. L'accettazione di un nuovo dottore, spesso figlio di un altro dottore, avveniva con una cerimonia che seguiva da vicino quella della vestizione del cavaliere. Studiando le liste dei professori di molte università si nota che il figlio succedeva al padre, per facilitare la successione si decise di esentare dai diritti d'esame i figli e i nipoti dei maestri. Il gusto disinteressato per la scienza, la fede nel valore del dialogo, per le quali si erano battuti i maestri del XII e XIII secolo, ormai erano tramontate. Il sapere era diventato un patrimonio di famiglia, garanzia della posizione personale.  Logica conclusione di questo atteggiamento è stata l'equivalenza giuridica tra dottorato e cavalleria. Dal 1533 infatti Francesco I re di Francia conferirà il titolo di cavaliere ai maestri dell'università.
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sciscianonotizie · 7 years ago
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gregor-samsung · 3 years ago
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“ Quando il 29 ottobre del 1923 Kemal Atatürk proclamò formalmente che il nostro paese era una repubblica, tutto cominciò lentamente a cambiare aspetto. Furono inviati ordini a Kuleli secondo i quali non si dovevano obbligare gli studenti ad andare in moschea. La religione doveva diventare una libera espressione. Così i bastoni furono temporaneamente abbandonati, e solo una manciata di ragazzi frequentava la moschea. Ma allora i bastoni furono tirati fuori un'altra volta per un uso assai diverso, perché i frequentatori della moschea spesso arrivavano tardi alle lezioni, e mentre prima il bastone si abbatteva sonoramente sulla schiena dei devoti riluttanti, poi cominciò un periodo folle nel quale si abbatteva sulla schiena degli scolari riluttanti. Atatürk e il suo governo decisero che religione e affari pubblici dovessero essere separati, e nella nuova Costituzione è scritto: «La lingua della Repubblica Turca è il turco e la sua capitale è Ankara». La precedente leggeva: «La religione della Turchia è l'Islam, la lingua è il turco e la capitale Ankara». Il cambiamento fu molto maggiore di quanto possa apparire a occhi europei. La religione da allora fu praticamente abolita e, benché le moschee rimanessero luoghi di culto, la gente non ebbe più il tempo di pregare le prescritte cinque volte al giorno... a parte i vecchi, e forse i malati che non avevano da espletare pubblici doveri. La maggior parte dei turchi non aveva semplicemente tempo. Il lavoro degli uffici pubblici non poteva più aspettare il tempo di preghiera dei funzionari. L'insegnamento religioso fu abolito in tutte le scuole, musulmane e cristiane, e gli appartenenti alle congregazioni non furono più autorizzati a mostrarsi in strada nelle vesti del loro particolare ordine religioso. Al giorno d'oggi, quando il muezzin chiama alla preghiera, sono pochi quelli che lo ascoltano, e ancora meno quelli che rispondono. Fu mutato anche il fine settimana, e adesso osserviamo il sabato e la domenica cristiani al posto del giovedì e del venerdì musulmani. La moschea di Kuleli fu abbandonata, e il suo posto fu occupato dalle sedie e dai tavoli rotti da riparare. La nostra uniforme cambiò, divenne quella blu-marina familiare dei cadetti di oggi, con la vivace striscia rossa lungo la cucitura dei pantaloni, e fu adottato un cappello con un piccolo accenno di visiera, perché il fez era stato abolito per legge. “
Irfan Orga, Una famiglia turca, postfazione di Ateş Orga, traduzione di Luca Merlini, Passigli Editori (collana Passigli Narrativa), Firenze, 2007; pp. 252-53.
[ Edizione originale: Portrait of a Turkish Family, Victor Gollancz Ltd., London 1950 ]
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pangeanews · 5 years ago
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Confessioni di un poeta che ha rinnegato tutto, tranne l’ombra. Il vangelo secondo Gabriele Galloni
Negli ultimi tempi, diciamo così, è avvenuta una profonda ‘laicizzazione’ nella mia scrittura. Non so dire se abbia mai davvero creduto fino in fondo; se sia mai stato un devoto, intendo, un fedele assoluto. Per tre anni sono stato con una ragazza che lo era (anche lei poetessa), e di riflesso lo ero diventato anche io. Frequentavo i gruppi parrocchiali, andavo a messa, studiavo la Bibbia; mi confrontavo con teologi e sacerdoti; e poi ritiri spirituali, sedute di approfondimento mistico, pellegrinaggi e camminate infinite tra i monti dei vari santi d’Italia. La mia poesia, i miei scritti, ne hanno risentito molto. Il sacro era diventato il filtro attraverso cui raccontare le mie personali ossessioni – ma lungi da me l’intento blasfemo e/o la provocazione, come alcuni poco accorti hanno creduto.
Non dimentichiamoci che il cattolicesimo è, tra le altre cose, anche il culto della Carne, del Corpo – e il Corpo e la Carne hanno sempre trovato largo spazio nella mia opera letteraria.
Poi, conclusa la relazione, il mondo religioso ha cessato il suo ascendente su di me. Non del tutto, chiaramente; molte tracce sono rimaste e, credo, rimarranno per sempre. Ma a oggi non so bene quale sia la mia posizione all’interno del mondo cristiano-cattolico. Ogni tanto vado ancora in chiesa; faccio il segno della croce; rimango lì a osservare gli affreschi, le penombre dietro l’altare. Mormoro qualcosa; prego ancora.
Sicuro, sono rimaste le icone bizantine sopra il mio letto; e il rosario appeso alla lampadina da lettura. E Assisi che è ancora una delle città del mio cuore.
*
Sempre ad Assisi – visitata con la ragazza citata sopra –  entrai in una piccola chiesa i cui affreschi mi turbarono oltremodo. Cristiani decapitati, donne squartate le cui interiora penzolavano al vento; occhi fuori dalle orbite; sangue a profusione. Non ho idea di chi fosse l’autore di quelle opere. Ma fu in quel momento che mi domandai: e se fosse questo ciò che cerco nel Cattolicesimo? Il martirio, cioè; la Carne. La dissoluzione, lo spregio del corpo – del fisico. L’annientamento; il darsi in pasto al prossimo. Del resto, quando ero bambino, fantasticavo spesso di essere ucciso a mani nude – e il mio cadavere lasciato alla furia dei miei coetanei.
Però la mia fede era salda; con Arianna, sempre la stessa ragazza già citata, parlavamo spesso della vita oltre la morte. Giocavamo a posizionare i nostri amici e le grandi personalità della Storia nelle varie destinazioni dell’oltrevita. Inferno, Purgatorio, Paradiso. Ricordo, in particolare, una dissertazione su Ted Bundy, il serial killer. Un omicida feroce, d’accordo; tra i più feroci che la storia ricordi. Eppure, senza alcun interesse personale, Ted Bundy salvò una ragazzina che stava affogando. Dunque, dicevo, la bilancia di Dio dovrà prendere in considerazione anche quest’atto di bene. E quale sarà il giudizio finale? Io e la mia ragazza credevamo in un Dio misericordioso; pronto a perdonare l’orrore. Assegnammo Ted Bundy nelle parti alte dell’Inferno, vicino la porta di uscita; prossimo all’Orrore eterno, certo, ma con un minimo di Luce a illuminare la sua pelle nuda. Per noi, invece, era scontato il Purgatorio; né io né lei avevamo mai commesso atrocità simili –  e il nostro Dio ignorava le inezie.
*
Sono stato ad Assisi tre volte. Ho sempre amato l’Umbria. Per il nome, forse, che ricorda così tanto la parola Ombra; una delle mie parole-chiave. Assisi, dicevamo. Nessuna folgorazione sulla via di Damasco. Però, all’interno della Basilica di san Francesco, mi commossi profondamente. Quasi ignorai gli affreschi di Giotto; guardavo le persone. Ecco. L’aspetto comunitario del Cattolicesimo – questo mi faceva tremare fino alle ossa; il sentirsi parte di una comunità e perciò, in qualche modo, protetti. E mi commuoveva il sacrificio di Gesù, la visione collettiva del sacrificio di Gesù; il modo in cui mia nonna parlava di Gesù, come se fosse un lontano amico d’infanzia. Le campagne di Corviale come le valli della Galilea. Questo pensavo, inerpicandomi insieme alla mia ex compagna su uno dei colli che circondano Assisi. Scattammo delle foto.
*
Gabriele Galloni con gatto
Fino a qualche tempo fa mi sono considerato, se non uno scrittore cattolico, uno scrittore quantomeno cristiano. L’elemento religioso (camuffato, velato, nascosto come un vecchio specchio in una casa abbandonata) era sempre presente. Andava di pari passo con l’Eros, con la Morte; ho sempre ritenuto questi elementi inscindibili. Ora, che sono passato oltre, mi rendo conto della palese ingenuità del trinomio religione, sesso, morte. Il gioco è troppo facile: bisogna andare oltre. Raccontare l’ascesi in trasparenza; preferire l’elegia all’epica.
*
Mi piace immaginare la vita di Gesù Cristo come un eterno pomeriggio; un panorama ocra di tanto in tanto segnato da interferenze (come l’episodio del Tempio o la resurrezione di Lazzaro). In generale, mi piace immaginare che i luoghi della sua vita non abbiano mai visto la notte; e che la notte Gesù l’abbia vista solo al momento della morte – e quindi della sua Ascensione.
*
Con l’eccezione di Arianna, non ho mai avuto ragazze cattoliche praticanti. La mia attuale ragazza è atea, per esempio, e molte volte ci troviamo a discutere su questo argomento. Ma tu credi o no? mi domanda sempre alla fine dei giochi. E io balbetto qualcosa; credo, sì, ma credo anche nella reincarnazione; nell’anima che cambia forma e luogo – che diventa altro, un ciclo perpetuo. E lei ribatte: se credi nella reincarnazione non puoi essere cristiano. E io: a volte credo anche in un Paradiso, però. Con Livin’ for your lover di Chris Isaak in sottofondo perenne. E il mare vicino. E sempre cene in pineta, tutti insieme, felici; sotto l’occhio di Dio – che però non è un occhio, ma un lampione distante qualche centinaio di metri.
Gabriele Galloni
*Gabriele Galloni è nato a Roma nel 1995. Ha pubblicato la trilogia poetica Slittamenti, In che luce cadranno, Creatura breve; e una silloge di racconti, Sonno giapponese, edita da Italic Pequod. Da pochi giorni è uscita la quarta raccolta poetica, L’estate del mondo (Saya edizioni).
**
È in questa vita un’altra vita nuova e in questo corpo un altro corpo ancora.
Mi segui fino al bagnasciuga e indietro; affiora a pelo d’acqua una bottiglia vuota. È notte, ma la spiaggia è affollatissima; così che mi è difficile ascoltarti.
Raggiungiamo le dune. C’è un sentiero dietro il canneto; porta alla vecchia fabbrica di sapone. La luce dei falò qui non arriva – e nemmeno una voce.
Ho tredici anni. E della voce adesso saprò tutto quello che c’è da sapere; da fare.
Ché in questa vita è un’altra vita nuova e in ogni corpo un altro corpo ancora.
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anticattocomunismo · 4 years ago
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Ordine di Malta, Becciu stoppa il "golpe" tedesco
Ordine di Malta, Becciu stoppa il “golpe” tedesco
Forte scontro sulla natura religiosa dell’Ordine di Malta a fronte di una sua laicizzazione: meno potere ai religiosi e di più alla corrente filo ONU capeggiata dal barone Boeslager. La governance tedesca ha tentato il Putsch spingendo per un Capitolo straordinario, ma contravvenendo ai regolamenti. La Santa sede, che nel 2017 era intervenuta a favore di Boeslager investito dalla vicenda dei…
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purpleavenuecupcake · 7 years ago
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Generale Marco Bertolini, immigrazione e fatti nostri, qualche considerazione
Nonostante i tanti problemi che ci sta procurando, il flusso migratorio che ci investe da anni sta contribuendo in misura determinante a metterci di fronte ad alcune realtà che non possono essere eluse dall’Italia e che avevamo evidentemente bisogno di focalizzare. Il nostro rapporto con quello che ci circonda, infatti, è spesso stato mediato, nell’ultimo mezzo secolo, dalle altrui interpretazioni della nostra funzione quale membro più o meno importante di una “Comunità Internazionale” dai contorni indefiniti. A seconda dei casi e delle convenienze, infatti, è essa rappresentata dal generico “mondo globalizzato” che tanto ci piace, dalla comunità “delle democrazie” opposta a quella “delle dittature” e degli “Stati canaglia”, dall’ONU, dall’Unione Europea, dall’Occidente, dalla NATO, dai paesi dell’Euro, dall’Europa mediterranea o, con un pelo di razzismo, da una resiliente Europa occidentale, infastidita da ‘sti nuovi ricchi dell’ex Europa orientale spesso più occidentalisti di noi. I più spudorati, vista la secolarizzazione e laicizzazione rampante di cui vanno fieri, propongono addirittura un Occidente “cristiano”, che però preferisce le spiagge alle Messe domenicali, da contrapporre ad un Oriente islamico col quale vogliono, fortissimamente vogliono, entrare in conflitto, chissà perché. Forse perché non galleggiano nel nostro mare, per lo meno con la testa. Resta il fatto, che questa delega ad altri di buona parte della nostra identità fa del Bel Paese un elemento passivo del contesto nel quale, al contrario, dovrebbe essere protagonista. Tornando al punto, da qualche anno, sorprendentemente, stiamo riscoprendo l’acqua calda, vale a dire l’ovvia e singolare importanza della nostra posizione geografica dalla quale deriva un’altrettanto importante valenza strategica. Ce lo diceva la storia, a partire da quella antica nella quale la nostra caotica, bellissima e a tratti cenciosa Capitale era anche Caput Mundi, proprio in virtù della sua posizione, baricentro e riferimento universale: ma la storia l’abbiamo ripudiata e rinnegata come lascito di un passato chissà perché imbarazzante e di cui vergognarci. Ce lo ricorda la cultura occidentale della quale ci definiamo semplici figli e che ci piace considerare anglodiretta, per la lingua, la musica e la tecnologia che ci entusiasmano; invece è frutto soprattutto di quello che hanno fatto i nostri padri anche se ci piace far finta di niente, gigioneggiando con la definizione di patrimonio “dell’umanità”, e non semplicemente “nostro”, da appiccicare a tutto quello che abbiamo di più bello. Ce lo dice anche la Chiesa universale che, abbandonata con supponenza progressista la lingua latina per la sua liturgia, ha comunque mantenuto l’italiano come lingua franca con la quale esprimersi urbi et orbi. Ma è inutile divagare. Improvvisamente, da poco più di un lustro ci siamo dovuti riabituare all’idea che il Mediterraneo nel quale siamo centrali non si limita ad essere un concentrato di bellezze di cui godere passivamente, ma un’arena nella quale si scontrano interessi contrapposti da parte dei maggiori protagonisti della politica mondiale. E noi ci siamo in mezzo, con i rischi e le opportunità che questo comporta, ma anche con l’impreparazione a fronteggiarli e a coglierle che ci deriva dall’approccio culturale di cui sopra. Certamente, da questo punto di vista, la crisi libica è stata una grande lezione. Ci è scoppiata tra le mani improvvisamente e contro i nostri interessi, nonostante il tifo forsennato di alcune forze politiche nazionali che, per miopia e in odio al governo in carica, vollero ignorare l’abisso di problemi nel quale stavamo precipitando. Per molti, infatti, di altro non si trattava che di un “rinforzino” al Ruby bis o ter che doveva semplificare il nostro quadro politico nazionale a vantaggio degli uni e a svantaggio degli altri. Punto. Eppure, se già non l’avevamo capito, la Comunità Internazionale che prendeva il mazzo in mano per eliminare il “dittatore” libico non pensava assolutamente all’Italia, alla quale non si peritò neppure di notificare con un apprezzabile anticipo le proprie intenzioni, né lo faceva tenendo conto di interessi comuni, ma semplicemente per quelli di un limitato numero di paesi, rispettivamente Francia, Gran Bretagna e USA. E’ certamente inutile recriminare, ma in quell’occasione avremmo dovuto piegarci alla realtà e capire che da quel momento saremmo stati da soli a fronteggiare le conseguenze dell’accaduto. E le conseguenze non si sono fatte attendere, a cominciare dall’immigrazione incontrollata che ci investe continuamente ma che non dovremmo incorrere nell’errore di considerare l’unico problema che da quella sponda ci potrà interessare nel futuro. In ogni caso, si tratta certamente di un problema di difficilissima soluzione, stante l’assenza in Libia di un potere centrale in grado di controllare tutto il territorio, con particolare riferimento alle piste che attraversano da sud il Sahara ed alle coste soprattutto della Tripolitania dalle quali parte la massa dei profughi. Il problema è balzato all’attenzione della nostra opinione pubblica con le immagini strazianti dei primi drammi che hanno portato alla morte di centinaia e poi di migliaia di profughi a poca distanza dalle nostre coste e che ci ha imposto la necessità di “fare qualcosa”. Purtroppo, il “qualcosa” è stato impostato con un forte condizionamento emotivo da parte dell’opinione pubblica, in un clima di commozione emergenziale nel quale sembrava (e ancora sembra in moltissimi casi) che il problema consistesse essenzialmente nel recuperare e poi sistemare in qualche maniera i profughi a casa nostra e non nell’impedire che affrontassero la micidiale traversata (anzi, le traversate, quella del Sahara e poi quella del Mediterraneo). E in questo clima è parso sufficiente mettere un po’ di navi nel Canale di Sicilia, chiamando a raccolta gli altri Paesi europei, e istituire qualche Centro Raccolta in Italia nel quale smistare quelli che ancora erano considerati semplici “naufraghi”. Così facendo, però, si è innescata una spirale perversa nella quale la presenza di una componente navale pronta ad intervenire in soccorso ha incoraggiato sempre più i tentativi di traversata, nella certezza di un sicuro recupero e di un successivo sicuro approdo in un’Italia che non faceva niente per scoraggiare il fenomeno e accoglieva tutti. Da questo punto di vista, la presenza stessa delle navi militari - prima con l’operazione nazionale Mare Nostrum, successivamente diventata Mare Sicuro, poi con quella europea EUNAVFOR MED e con Triton - seppur non finalizzata specificatamente alla condotta di attività di recupero migranti, non ha assolutamente fatto da deterrente. Infatti, per quanto le loro missioni si ripromettessero essenzialmente finalità operative (la cattura dei trafficanti di esseri umani, il sequestro/affondamento dei barconi utilizzati, ecc..) lo svolgimento di tali attività in mare aperto non può prescindere da un preventivo soccorso nei confronti dei trasportati che così continuano a migliaia ad essere portati sul nostro territorio, non essendo disponibile alcun accordo con autorità libiche credibili e compiacenti per fare lo stesso in Libia. Insomma, si è imposto il paradosso per il quale le Marine militari europee impiegate nel Canale di Sicilia, quelle che una volta si definivano Marine da guerra, sono ora protagoniste di una missione certamente importante da un punto di vista umanitario ed etico in senso lato, ma altrettanto certamente problematico sotto quello operativo. Infatti, la loro presenza favorisce quell’afflusso incontrollabile dall’Africa che vorrebbero interrompere, giustificando inoltre un processo di emulazione da parte di molte Organizzazioni Non Governative che si sentono in diritto di fare lo stesso, per di più portandosi sempre più sotto le coste libiche e senza accettare limiti e regole da parte degli Stati interessati, in primis il nostro. E’ chiaro che una soluzione a un problema così complesso non può essere trovata con un colpo di bacchetta magica, ma è anche vero che non si può continuare a fare finta di niente, in omaggio alle fisime ideologiche di chi vuole considerare l’immigrazione una “risorsa” e non un problema da risolvere. Ed è purtroppo chiaro che nel discutere di questi problemi si discute anche della sicurezza di molte persone che affidano la loro vita ad avventurieri senza scrupoli che trovano nella nostra inerzia, e spesso nell’ipocrita compiacenza di molti, un’opportunità per continuare o ampliare i loro traffici sulla pelle dei migranti. Si deve, in sostanza, invertire il senso di quella spirale perversa, facendo capire che il recupero dei “naufraghi” non può essere confuso con un generico traghettamento dalle coste libiche a quelle italiane (perché poi italiane non si sa) mediante un servizio routinario e non più emergenziale. E per fare questo, non resta che allontanare le nostre navi dalle coste libiche, per costringere i trafficanti ad utilizzare imbarcazioni più pesanti e performanti al posto degli improbabili gommoni impiegati fino ad ora per uscire semplicemente dalle acque territoriali nordafricane. Così facendo, saranno costretti anche loro a “metterci la faccia”, e a rischiare la galera, mentre spesso ora si limitano ad accompagnare i gommoni da bordo di altre imbarcazioni per eclissarsi appena avvistati dalle navi militari. Certamente, le traversate saranno più onerose da un punto di vista finanziario e questo scoraggerà molti dal tentarle, riducendo anche, nel medio periodo, il numero di perdite in mare. Naturalmente, a tale comportamento dovranno essere tenute anche le ONG, forzando la loro riluttanza a sottostare alle norme degli Stati o, per lo meno, obbligandole a trasportare i recuperati negli Stati di cui le loro navi battono bandiera. E questo è un problema nel problema, rispondendo tali organizzazioni a logiche che nulla hanno a che fare con gli interessi nazionali, almeno con quelli dei paesi come il nostro, restii “per Costituzione” ad imporsi nel contesto internazionale. Fortunatamente, almeno per ora è la Libia stessa, non si sa se solo nella sua declinazione tripolina-misuratina o con qualche ammiccamento anche da parte di Tobruk, ad imporsi e a favorire una soluzione in linea con i nostri interessi, avendo ingiunto alle ONG di allontanarsi dalle sue coste. La riaffermazione di una volontà sovranista libica nei confronti della migrazione che dalla Tripolitania parte per l’Italia, insomma, non può che essere benvenuta, anche se non c’è da illudersi: senza un intervento anche sul territorio che interrompa il flusso da sud, infatti, ogni provvedimento sarà insufficiente. In altre parole, la soluzione di un tale problema semplicemente “in mare” non è possibile ed anzi si confermerà sempre più controproducente, con buona pace di quelli che anche da noi ipotizzano soluzioni settoriali per quello che è un problema molto complesso e globale. A parte la fase più appariscente riferita alla traversata del Mediterraneo, infatti, tale soluzione implica soprattutto investimenti a favore della Libia per rinforzarne le capacità di controllo del territorio, azioni diplomatiche e magari successivamente attività di supporto militare sul terreno, per mettere in sicurezza i tratti di costa, per aiutare le forze locali nel contrasto ai trafficanti, per il controllo dei confini meridionali del paese, nonché per assicurare apprestamenti logistici (campi profughi) in grado di accogliere in condizioni di sicurezza e decoro coloro che affluiscono da sud, in attesa che il flusso si interrompa e possano essere rimpatriati. Inoltre, è necessario elaborare da parte nostra una campagna mediatica e psicologica per far capire agli aspiranti migranti, ancor prima che decidano di lasciare il loro paese, quanto sia poco remunerativo il tentativo, per i rischi che comporta e per i disagi che implicherà anche una volta arrivati a destinazione. Esattamente il contrario di quello che abbiamo finora fatto con ammiccanti fictions che, enfatizzando l’afflato di amorevole accoglienza col quale abbiamo affrontato il problema, hanno incoraggiato molti a provarci, anche a costo della loro vita e di quella dei loro familiari. Infine, da un punto di vista politico, bisogna fare un bagno di umiltà e di realismo, accettando il fatto che in Libia bisogna fare i conti con chi è in grado di controllare il territorio e non semplicemente con chi ci è stato indicato dalla Comunità Internazionale, sulla base di criteri di “legalità internazionale” definiti da chi non pagherà mai dazio per le scelte operate. Dobbiamo cioè rinunciare all’ingenuità di puntare tutto sul “Primo Ministro” Al Serraj, semplicemente perché appoggiato e spinto da qualche ufficio nel Palazzo di Vetro, facendo finta di ignorare che l’unico in grado di controllare le piste che attraversano il Sahara è il Gen.Khalifa Haftar, titolare di una capacità militare che il primo non ha. E la capacità militare, nel mondo reale al riparo dalle nostre illusioni oniriche, conta molto. Come dicevo in precedenza, la nostra posizione nel Mediterraneo oltre ad esporci a molti rischi, ci assicura anche molte opportunità, trattandosi di un mare al centro degli interessi di molti e nel quale si stanno definendo equilibri che influenzeranno il nostro benessere e la nostra sicurezza in futuro. Non solo Libia e migranti, quindi, ma anche grandi possibilità di sfruttamento energetico, commercio ed influenza dalle quali siamo sempre stati scoraggiati da chi temeva che nostri eccessivi “sigonellamenti” ci portassero ad elaborare una strategia troppo nazionale. Insomma, dobbiamo capire che alla base delle nostre attuali debolezze e vulnerabilità c’è la pervicace volontà di altri di non avere nel nostro Stivale un interlocutore troppo forte e determinato, in grado di proporsi come pietra di inciampo per i propri intrallazzi. E spesso a tali manovre nei nostri confronti ci siamo piegati per meschini interessi di parte, anzi di partito, prestando il fianco e la nostra suicida partecipazione ad operazioni esterne contro di noi delle quali paghiamo oggi le conseguenze. Faremmo bene a rivedere questa nostra vocazione a subordinarci agli interessi altrui, trasformando in semplici e banali questioni di bottega partitica nazionale le questioni di carattere strategico mondiale che ci ruotano intorno. Ne avremo bisogno presto, temo, di questa revisione, considerando che a parte la Libia ci sono altre aree nel Mediterraneo, a partire dalla situazione in Medio Oriente fino alla collegata – collegatissima - crisi “dormiente” in Ucraina, che dovremo considerare con molta attenzione. E dalle quali potranno derivarci problemi molto più seri di quelli attuali. di Marco Bertolini Il Generale C.A. Marco Bertolini dell'Esercito Italiano, tra i molteplici incarichi e comandi di prestigio ha comandato il Comando Operativo di Vertice Interforze, la Brigata Paracadutisti Folgore e da aprile 2017 è il Presidente Nazionale dell'Associazione Paracadutisti d'Italia.       Click to Post
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levysoft · 8 years ago
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Già nelle opere che precedono Scienza nuova, Vico dimostra la propria originalità rispetto al panorama della filosofia seicentesca, dominata dal razionalismo cartesiano e dalla diffusione del metodo sperimentale galileiano. Il filosofo napoletano muove infatti dal presupposto di restituire dignità alle discipline umanistiche - e in particolare alla Storia - come strumenti di indagine dell’uomo e del mondo. Applicando il metodo etimologico gia dal De antiquissima Italorum sapientia (1710), Vico identifica il verum con il factum, cioè fissa in maniera per lui inequivocabile il fatto che si può avere conoscenza vera solo di ciò che è stato fatto direttamente; in tal senso, la storiografia (che studia scientificamente ciò che l’uomo ha fatto) è la disciplina principale cui bisogna dedicarsi, dato che la Natura è opera di Dio, e quindi trascende i nostri limiti conoscitivi.
Vico ribalta così cogito ergo sum di Cartesio, limitandolo alla sua funzione di coscienza e non di scienza del proprio essere, e stabilisce una differenza tra conoscenza divina e conoscenza umana. Infatti se quello divino è unintelligere perfetto di ogni elemento dell’oggetto, l’uomo invece può soltanto limitarsi al pensare, ovvero al cogitare, raccogliendo fuori di sé gli elementi necessari alla formulazione di una verità della quale potrà solo essere partecipe senza mai riuscire a possederla. Per questa via, spiegando che la Provvidenza divina è l’architetto della Storia mentre l’uomo ne è il fabbro, il filosofo coniuga la scelta di fondare una “scienza nuova” su base storiografica con l’ordine razionale divino soggiacente ai fatti umani che Vico, cattolico ortodosso, non mette affatto in discussione. La storia vichiana dovrà quindi indagare le cause e rinvenire le leggi provvidenziali cui obbediscono gli eventi storici. Gli strumenti della nuova storia vichiana sono la filologia, che Vico intende estensivamente come non solo come studio erudito di tipo linguistico ma anche come approfondimento di tutti gli aspetti giuridici, economici, politici e socioculturali di un periodo storico, e la filosofia, cui spetta il compito di raccogliere e organizzare tutto ciò che è emerso dallo studio verso le cause universali della Provvidenza. Vico contesta così sia i metodi d’indagine eccessivamente settoriali e fatti solo di una serie non ragionata di eventi e fatti, sia le generiche filosofie della storia, che spesso non si sono confrontate con il concreto divenire della storia umana.
Su queste basi, Vico illustra la propria concezione della storia, che, provvidenzialisticamente, muove dal desiderio dell’uomo di superare lo stato primitivo di caduta e di bisogno e di dirigersi verso l’ordine divino a cui sente di appartenere 1. Questo sforzo, denominato da Vico “conato”, è necessario per superare quegli impulsi primitivi che limitano l’uomo, o, per dirla con Vico, i “bestioni insensati” che si affidano esclusivamente agli stimoli dell’istinto ferino, così che, prima della costituzione della società, non è possibile parlare di umanità in senso proprio 2. Per il filosofo, sono tre i fatti (o meglio, le istituzioni civili) che fanno uscire l’essere umano dalla condizione della bestia: il concetto di religione, lo strumento del matrimonio, il ricorso alla sepoltura dei morti 3.
Vico divide quindi la storia in tre differenti età:
l’età degli dei, in cui gli uomini, affidandosi esclusivamente ai propri sensi e alla loro fantasia, interpretano il mondo come un gigantesco organismo di forze incommensurabili. Così, le forze naturali diventano divinità, benefiche o punitive, di un sistema politeista generato dalla fervida immaginazione dei primi uomini. Il potere spetta alle divinità superiori, e il loro volere è reso noto per mezzo di auspici ed oracoli. Il linguaggio, che qui è ai suoi albori, è il depositario di queste credenze, concretizzatesi nei miti religiosi. l’età degli eroi, in cui la società inizia a stratificarsi: un gruppo si impone con la forza sugli altri, arrogandosi quelle qualità che prima spettavano agli dei. È il tempo della virtù aristocratica (in cui si fondono, tra le altre, valore militare, pietà, temperanza e coraggio) si formano i governi aristocratico-oligarchici, fondati sul dominio dei pochi sui molti. In questa fase, è la poesia epica a celebrare le gesta dei primi eroi. l’età degli uomini, in cui tutte le credenze precedenti ricevono un fondamento e una spiegazione razionale e si impone il principio dell’uguaglianza degli uomini di fronte alla legge, che è la garanzia sia delle repubbliche popolari sia delle monarchie. In quest’età, oltre alla filosofia e al diritto naturale che assicura la convivenza civile, nascono anche le altre discipline, come la logica, l’economia, la politica. Ai generi poetici della fase precedente si sostituisce l’espressione in prosa, e il linguaggio stesso assume la natura di una convenzione stabilita storicamente tra gli uomini.
Secondo un’analogia tra lo sviluppo dell’uomo e il progresso della Storia, Vico istituisce un paragone tra queste tre età e i tre gradi della mente umana, che sono quindi differenziati in senso, fantasia e ragione. Anche se questa successione non va interpretata troppo rigidamente, essa spiega bene la rivalutazione vichiana degli aspetti creativi e fantastici esclusi dal “metodo” cartesiano e dal suo privilegiare la certezza scientifica e il primato della ragione; Vico infatti assegna al grado della fantasia lo sviluppo della sapienza poetica: la poesia, nata prima ed indipendente dalla ragione e dall’intelletto organizzato, è così l’espressione di una facoltà a sé stante, con cui gli uomini esprimono il trascendente attraverso il linguaggio. Esempio tipico - e per Vico forma più elevata della poesia umana - di tutto ciò è la poesia omerica dell’Iliade e dell’Odissea, che è il racconto corale e l’opera collettiva dell’età eroica del popolo greco, una poesia “barbara” che però esprime verità sostanziali non ancora razionalizzabili tramite una riflessione intellettuale 4. A questo servono gli “universali fantastici”, ovverossia immagini poetiche che riproducono gli attributi topici dell’esperienza. Alla decadenza della poesia con il sopraggiungere del raziocinio corrisponde invece l’affermarsi, sia a livello del singolo individuo che dello sviluppo dell’umanità, dei “concetti universali”.
La dottrina della provvidenza
All’interno della sua filosofia della storia, Vico concilia - attraverso la metafora dell’architetto-Dio e dell’uomo-fabbro - la libera azione umana, che si realizza nella storia delle nazioni sulla Terra, e l’indirizzo garantito dalla volontà di Dio. La dottrina della provvidenza vichiana prende le mosse dal rifiuto dell’azione del caso e del fato, poiché il primo rende impossibile l’esistenza di un ordine e il secondo è un ostacolo alla libertà. Ordine e libertà, nel percorso di costituzione del mondo delle nazioni, possono essere assicurati solamente dall’azione della provvidenza, orienta l’azione umana, che è in sé tendenzialmente distruttiva, in direzione della conservazione e miglioramento del mondo della storia. Se torniamo alle istituzioni che per Vico determinano l’incivilimento dei “bestioni” (le nozze, i tribunali, la sepoltura dei defunti) notiamo che essi sono appunto la provvidenziale regolamentazione di istinti primordiali: la libidine porta alla costituzione delle famiglie, la necessità di limitare il bellum omnium contra omnes e il timore della vendetta privata spinge alla formalizzazione delle leggi, l’ansia della morte genera l’insorgere del culto dei morti. Questo ordine provvidenziale non determina però una diminuzione della libertà umana: infatti, ipercorsi delle singole nazioni possono essere differenti dal piano provvidenziale complessivo della storia ideal-eterna. In alcune di esse, per esempio, la società è rimasta ferma a uno stadio primitivo e barbaro, o ancora altrove all’età degli eroi.
I corsi e i ricorsi della Storia
La storia, in una celebre formulazione di Vico, è un ciclo di corsi e ricorsi. In questo senso, l’età degli dei, degli eroi e degli uomini si susseguono ciclicamente, in un percorso in cui allo sviluppo razionale dell’ultima età subentrano, per degenerazione, germi di corruzione e crisi che fanno crollare le istituzioni sociopolitiche, fino alla tirannide e all’anarchia. Vico, che esemplifica questo modello della storia universale sulla storia dell’ascesa e del declino di Roma, paragona le malattie del sistema sociale a quelle che colpiscono l’individuo, in modo speculare alla maniera in cui le età dell’uomo erano anche i tre stadi di sviluppo della civiltà. Tra le cause principali che affliggono l’età degli uomini e della civilizzazione Vico individua - in coerenza con il retroterra cristiano-cattolico della sua formazione 5 - lo scetticismo e il realtivismo etici, che fanno preferire all’uomo il proprio tornaconto rispetto al bene comune, e la laicizzazione della cultura, che intacca il valore della religione come elemento fondante del vivere collettivo.
Tuttavia, anche in questo caso, la provvidenza divina fornisce alcuni rimedi alla crisi della civiltà:
l’azione di un monarca - che Vico chiama “Augusto” ispirandosi alla figura di Ottaviano Augusto, che segnò il passaggio dalla repubblica al principato - che trasforma il governo in una monarchia, ripristinando le leggi e soffocando le rivolte. l’assogettamento di una nazione in crisi da parte di nazioni più stabili. la caduta in uno stato bestiale, anteriore alla civiltà, a partire cui, una volta riscoperta la semplicità primigenia e il beneficio della religione, gli uomini ricominceranno il ciclo delle tre età.
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