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Dare forma e raccontare se stessi, tra teologia e neuroscienze
Se la relazione è momento di apertura fondamentale per lo sviluppo dell’identità e la condizione di base dell’agire umano, ecco che la relazione con Dio diventa uno dei poli che definiscono l’identità umana, tuttavia questo discorso assume maggiore spessore in senso sociale: l’esperienza diretta del credente è in relazione con altri credenti, o con linguaggi portati da manufatti culturali, nel Cristianesimo rappresentati da elementi come la scrittura, la catechesi e la liturgia. Quindi le identità e l’agire religioso si configurano primariamente come identità e agire di gruppo; e le concezioni di Dio sono l’elemento semantico fondativo dei linguaggi che veicolano tali identità. Proprio in vista del peso dell’aspetto sociale, i temi della comunicazione, dell’educazione e della riforma morale, della coscienza di se e della relazione umana sono il centro del dialogo interdisciplinare, che si rivela utile in primo luogo per la teologia pratica e la pastorale. La teologia pratica, come ricordato all’inizio del saggio, ha infatti da tempo scoperto l’utilità di confrontarsi con le discipline che studiano l’essere umano. Nella misura in cui si riesce ad abbattere alcune barriere, tanto epistemologiche quanto ideologiche, anche le neuroscienze possono entrare in questo confronto.
Nel tentativo di superare le difficoltà insite nel dialogo, il teologo Leonardo Paris propone un confronto aperto. Come Vantini, anche Paris paragona la rivoluzione scientifica attuale a quella del 1600; e nota in particolare come il dualismo sia, a livello epistemologico, una costruzione moderna. Prende le mosse proprio dall’esigenza di superare quel “muro cartesiano” che separa anima e corpo (Paris,T eologia e Neuroscienze. Una sfida possibile, Brescia: Queriniana, 2017, p 12). Muro che le neuroscienze cercano di oltrepassare, mentre la teologia rischia di voler utilizzare come baluardo verso le ricerche di matrice scientifica: “Sul versante della teologia, un mondo unificato significa che le neuroscienze si possono permettere di intervenire su ogni cosa possibile e immaginabile, dall’esistenza di Dio, alla mistica, alla morale.” (ivi, p 18). Questa apertura genera timore, il paradigma epistemologico ateo della scienza moderna entra in temi che fino a pochi anni fa erano ad esso preclusi. In risposta a questo timore, il teologo suggerisce di porre l’attenzione sul tema dell’onestà intellettuale, nel pensiero scientifico e teologico. Il rischio, infatti, è che la disposizione intellettuale sia quella di cercare Dio nel buio. Ovvero di rifugiarsi nei vuoti di conoscenza, sottraendosi al confronto con il pensiero naturalizzante, che invece è in grado di cogliere il divino nella luce, nella bellezza, nell’armonia e nella regolarità della natura (ivi, pp 58-9). Partendo da questa posizione, che richiama la teologia naturale, Paris distingue il materialismo, posizione epistemologica accettata come punto di partenza della ricerca sul cervello, dal determinismo, che è invece è una posizione metafisica, non necessaria (ivi, pp 76-7). Il teologo pone in tensione, da un lato, il monismo materialista con il dualismo anima-corpo, affermando che il primo richiede spiegazioni, ossia cerca di spiegare come l’attività cerebrale si correli ai fenomeni mentali, mentre il secondo offre risposte semplici, di fatto attribuendo al concetto di anima le facoltà mentali senza fornire alcuna spiegazione di come l’anima stessa possa esprimere coscienza e volontà; dall’altro pone in tensione il determinismo con la libertà, sollevando il problema di come si qualifichi la libertà umana in un sistema determinista. Paris si orienta verso un materialismo non determinista, ritenendo che le persone umane siano esseri fisici e capaci di libertà, ossia in grado di auto-determinarsi (ivi, pp 82-3). Una libertà, che viene considerata come qualcosa che emerge dalla biologia, e quindi voluta da Dio, ma non dono diretto, spirituale (ivi, p 93). Il teologo sostiene un’antropologia cristiana che pone la persona umana come un essere che Dio ha impastato dalla terra, e con il quale si relaziona. L’autore pertanto sente l’esigenza di recuperare il dato corporeo, mentre la teologia si è storicamente focalizzata più sul soffio nelle narici (Gen 2,7). Parallelo è il problema dell’incarnazione: se Dio si è fatto carne (Gv 1,14) significa che ha condiviso la biologia umana, mantenendo tanto la propria libertà quanto la propria grazia, e impostando una relazione con l’essere umano (ivi, p 95). Un Dio incarnato che si mette di fronte, faccia a faccia, con l’umanità incarnata: tutto è avvenuto sulla terra, le manifestazioni di coscienza e libertà, tanto umane quanto divine, si sono palesate nella storia della realtà materiale. Dunque una relazione tra Dio e umanità mediata da corpi, che non prescinde da un sistema nervoso risultante dalle disposizioni genetiche selezionate dall’esperienza; in altre parole, da un’organizzazione di circuiti cerebrali dipendente sia dalla predeterminazione genetica sia dall’affinamento dovuto all’uso in risposta all’ambiente.
Il grande problema del materialismo monista è, tuttavia, spiegare la coscienza. Allo stato attuale ci sono diversi approcci allo studio della coscienza, una delle ipotesi più promettenti, che l’autore riprende, è quella di Crick e Koch (Una trattazione sintetica si trova nel saggio “Verso una teoria neurobiologica della coscienza”, in Mente e corpo. Dai dilemmi della filosofia alle ipotesi delle neuroscienze, Torino: Bollati Boringhieri, 2004), i quali mettono in relazione l’attività mentale cosciente con una specifica attivazione neurale, considerando la coscienza una convergenza di memoria e attenzione. La conclusione tratta da Paris è ricordare che la coscienza non è una cosa, ma è un processo che riguarda gli esseri viventi, corporei (ivi, p 108). Riprendendo i neurologi Edelman e Damasio, Paris segue la concezione secondo cui la coscienza umana si suddivide in coscienza primaria, che comprende la sensazione interna del corpo, la percezione esterna e la memoria, in particolare la memoria associativa e l’apprendimento di comportamenti adattivi; e in coscienza di ordine superiore, che implica il senso del sé, il pensiero astratto e il linguaggio, la consapevolezza sociale e il sé ricordato o autobiografico. Il riferimento alla coscienza di ordine superiore è molto importante per via del parallelismo tra la nozione di identità autobiografica di Damasio, e quella di identità narrativa proposta da Paul Ricoeur. In effetti, il dibattito tenuto alla fine degli anni ‘90 del secolo scorso tra il filosofo Ricoeur e il neuroscienziato Changeux, compendiato nel testo “La nature et la régle”, mostra una divergenza di posizioni, in particolare a causa del riduzionismo di Changeux, che ha impedito l’inizio di uno scambio interdisciplinare fruttuoso. La posizione dello studioso del cervello non riusciva a venire incontro all’esigenza di considerare la dimensione narrativa, portata avanti dal filosofo. Tuttavia, la posizione di Damasio supera il problema, anzi mostra una forte similarità con quella di Ricoeur. La capacità di narrare è per Damasio un guadagno evolutivo “Individui e gruppi, che grazie al loro cervello erano capaci di inventare giuste narrazioni o di usarle per migliorare se stessi e le società in cui vivevano, ebbero abbastanza successo perché le caratteristiche di quel cervello fossero favorite dalla selezione sia a livello individuale, sia di gruppo” (Damasio, Il Sé viene alla mente, Milano: Adelphi, 2012, p 366).
Tanto secondo Damasio, quanto secondo Paris, la formazione del soggetto, la presa di coscienza di sé stessi, in seno ad una cultura e ad una società, sono processi attraverso cui si strutturano tanto l’identità personale quanto i circuiti cerebrali, studiabili contemporaneamente dalle neuroscienze, dalle scienze umane e, negli aspetti religiosi e di fede, dalla teologia. Mentre Ricoeur pone l’attenzione principalmente alla persona davanti al testo biblico, Paris sottolinea come la dimensione sociale sia essenziale: il cervello umano è sociale tanto nelle disposizioni genetiche quanto in relazione all’ambiente cui si adatta. La libertà umana si schiude nell’agire sociale. Una libertà essenziale per costruire il sé esteso, che risponde alla dimensione volitiva del desiderio che si confronta con l’ambiente sociale. Il problema fondamentale del dialogo tra neuroscienze e teologia, ossia il ripensamento dell’anima, viene quindi risolto nella storia corporea, che genera un io cosciente, autobiografico, che è in grado di formare, pensare e raccontare se stesso.
Questo, ovviamente, cozza con l’idea di anima come elemento immateriale separato dal corpo, che implica che l’io umano sia un elemento spirituale dotato di volontà e coscienza, sussistente anche in assenza dell’elemento corporeo. Di fronte a questa concezione classica della teologia cristiana, Paris ribadisce che il concetto di anima viene considerato quale strumento verbale indispensabile per sostenere la fede cristiana, tuttavia pone l’accento sulla proposizione di fede, ossia sulla funzionalità del concetto alla vita cristiana (Paris, 2017, pp 171-2): valutando il cambiamento generale della cultura, il teologo propone il rinnovarsi anche del linguaggio religioso; in caso contrario la vecchia idea di anima, in mancanza di un aggiornamento semantico, non riuscirebbe più a garantire le funzioni tradizionalmente svolte, finendo infatti per venire usata sempre meno nell’azione pastorale (ivi, p 174). L’autore fa notare come la dottrina cattolica del corpo e del suo rapporto con l’anima debba molto del suo sviluppo alle polemiche contro lo gnosticismo (ivi, p 181). Quindi invita a domandarsi quali siano le funzioni del concetto di anima nella religiosità attuale, e come questa sia rilevante nella relazione tra Dio e esseri umani. Paris, a livello operativo, propone di iniziare ad usare una definizione materiale-sistemica dell’anima, che si riconosce nella concretezza dell’incarnazione, e che presenta grossi vantaggi in termini cristologici: senza l’elemento del corpo non ci sarebbe il Cristo, né la Sua Chiesa, né la risurrezione finale dei corpi (ivi, p 190).
Ovviamente, la teologia si trova comunque a dover salvaguardare l’immortalità dell’anima. In effetti la teologia risente di antiche concezioni filosofiche, quel platonismo e quell’aristotelismo che hanno condizionato la storia del pensiero, tuttavia ci sono oggi forti resistenze all’aprirsi alla razionalità scientifica. L’importante allora diventa, da un lato evitare di usare il concetto di anima come scorciatoia, dall’altro confrontarsi con il tema della materialità, della corporeità nella cristologia e nella salvezza (ivi, p 198). In altri termini, evitare che l’anima venga usata come finta spiegazione: come fa l’anima infatti ad essere cosciente? Più utile studiare come la coscienza si rapporti con Dio e con la fede.
Paris finisce per rileggere il tema dello spirito e dell’antropologia tri-partita. Il corpo è considerato come dato concreto, l’anima come l’aspetto strutturato, sistemico-funzionale del corpo, mentre lo spirito come aspetto particolare di certe anime, prerogativa delle coscienze di ordine superiore (ivi, p 201). Lo spirito è la capacità di relazionarsi con l’altro e di costruire consapevolmente se stessi. Pertanto esso è caratteristica distintiva dell’anima umana (ivi, p 206), venendo a corrispondere allo spazio di libertà costruito attraverso la relazione sociale, sulla base della plasticità cerebrale.
Per concludere, lo sfondo di fede che promuove il dialogo interdisciplinare crede che il polo umano possa trovare nel polo divino il proprio significato. L’umanesimo senza Dio viene percepito come autoreferenziale, ricerca di una salvezza senza fede. Questa posizione tende quindi a rifiutare l’atteggiamento non-teista, che è proprio delle scienze umane e naturali moderne. Uno degli ostacoli principali da superare per avviare un dialogo proficuo tra teologia e neuroscienze, consiste proprio nel confrontare i due linguaggi senza sciogliere le specificità di ciascuna disciplina nell’altra: tentare di ridurre il divino all’umano, o viceversa divinizzare l’umano, renderebbe unilaterale il discorso. La cosa interessante è che, di fatto, questa impresa intellettuale implica comunque una fusione, almeno parziale, di due orizzonti di pensiero caratterizzati da una forte alterità e da concezioni ontologiche opposte. Ad ogni modo, sia che si concepisca l’essere umano come creatore del divino, sia che si creda l’opposto, l’oggetto di studio del dialogo è l’attività mentale e cerebrale, con i relativi effetti, che si produce ponendo un elemento di alterità, comunicato da una comunità di persone e dalle loro parole, da scrittura e predicazione, gesti e ritualità. Ne risulta una costellazione di significati che non sarebbero fruibili senza la dotazione cerebrale simbolica, affettiva, relazionale e linguistica umana; e che non è riconducibile alla produzione interna di alcun individuo, ma è sempre incontrata nella relazione con altre persone, e che incide sui credenti, contribuendo a farli diventare quello che sono. In sintesi, una identità umana e personale che si forma a partire dalla relazione, e prende consapevolezza nel raccontarsi.
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Creatività per una fede aperta
Il linguaggio con cui si parla del divino ne rappresenta la possibilità di conoscenza umana. Relaziona quelle esperienze, quei riferimenti esterni, che sono stati, nel corso dello sviluppo storico delle religioni, riuniti dalle comunità di fede in uno spazio semantico che viene chiamato «Dio».
Il potere dell’immaginazione umana di dare forma, di progettare mondi possibili, si unisce ad usi socialmente condivisi del linguaggio, per dare un significato al concetto di divinità. Secondo questo modo di vedere il divino, il testo rivelato trova la sua genesi come testo creativamente reinterpretato attraverso una chiave di lettura teocentrica. Quanto viene definito nelle scritture «ispirazione», al lato pratico risulta indistinguibile da un filtro percettivo teologico che interpreta il senso del discorso. In altre parole, la rivelazione corrisponde a una forma letteraria, una tradizione poetica che convoglia i suoi peculiari significati. Questa posizione radicalizza il concetto di Parola divina nei racconti umani, che sottolinea l’importanza dell’aspetto narrativo, delle scritture.
La letteratura che parla di Dio, allora rivela molto dell’essere umano: sulle ispirazioni, sul desiderare l’assoluto e sui limiti insuperabili. Pertanto “il divino come fiction dell’umano” è modello impossibile e anelato, che si pone quale figura guida di un percorso senza fine di auto-formazione individuale e collettiva.
Da un punto di vista teologico, le concezioni narratologiche conducono ad una posizione definibile meta-teista, o di teismo critico. Il concetto di Dio è un potente strumento di interpretazione del mondo, così come viene conosciuto attraverso le descrizioni che ne facciamo. Dal punto di vista ontologico, questa posizione segue un “realismo dal volto umano”, secondo la definizione di Putnam, ossia descrive metaforicamente qualcosa di reale.
Pur all’interno di tale prospettiva realista, lo spazio ontologico del divino è semantico, pertanto viene trovato da chi interpreta la realtà, piuttosto che essere espressione della direzionalità di una volontà divina che agisce sulla cognizione umana. Il concetto di Dio viene consegnato alle singole persone dalle tradizioni religiose, piuttosto che imporsi in forza di una qualche evidenza di tipo naturalistico: Dio è una voce silenziosa nel mondo abitato dagli esseri umani.
Un’ulteriore sfaccettatura è la posizione theopoietica, secondo cui Dio è parola, il logos biblico, ossia dispositivo semantico che scopre la trama di significato dell’esistenza. Dio è qualcosa che “si chiama e si invoca”, quale poetica dell’esistenza, della vita e dell’esperienza. Dio allora è un farsi attraverso le parole, è poiesis del linguaggio. Ribaltando quanto afferma Ricoeur: se l’identità è la narrazione di noi stessi, allora anche Dio è qualcosa di narrato.
Nel Vangelo, il divino è quella poetica religiosa che si manifesta come relazione con la vita e per la vita, al lato pratico è opera di amore, chiamata alla salvezza. Una poetica che comporta riforma morale, la metanoia, da intendesi o quale theosis, o come perfezione cristiana (alla John Wesley), o nei termini, calvinisti, di rigenerazione.
La religione si configura, rielaborando una suggestione di William Blake, come opera d’arte: questo rapportarsi con il divino che orienta l’esperienza formativa della conversione, che tende alla theosi, questo fine, che cosa è, se non l’invenzione dell’umanità di se stessa, oltre se stessa?
Dio come poesia scritta nelle vite umane, sigillo della loro finitezza e vulnerabilità, testimone del loro duraturo valore. La rivelazione come qualcosa di naturale, espressione elevatissima di cultura umana.
Gesù è inteso come figura seminale che ha inaugurato un nuovo paradigma religioso, e i primi cristiani furono coloro che ridefinirono il concetto di Dio alla luce della vita di Gesù.
La croce è vista quale simbolo creativo, che ha spostato le relazioni semantiche della parola divino: Dio, dal momento della crocifissione, cessò di essere compreso semplicemente come sovrano assoluto del cielo, per rivestire le sembianze della sofferenza e dell’empatia; la forza divina dell’autorità si trasformò in debolezza, che si è poi rivelata forza di ordine moralmente superiore. In questo la grandezza del movimento cristiano primitivo.
La vita cristiana, dunque, come prodotto di una particolare arte, quella religione che rigenera e trasforma, una scultura esistenziale che incarna la relazione vivificante che costituisce il processo dell’essere come perpetuo divenire.
Se si definisce la rivelazione secondo la metafora del processo artistico, allora è possibile chiedere quale sia, in questo caso, il suo valore: la parola “dio” è un fossile semantico, consegnato alla modernità da linguaggi arcaici, e non più utilizzabile? Oppure è ancora rilevante? Insomma, perché le persone di oggi dovrebbero impegnarsi in questa attività artistica che, nel fondo, è la religione?
Rinunciando al concetto di Dio si rischia di attribuire valori e significati divini ad altro, ad idoli, che assumono spesso i connotati del denaro e del potere, a cui si finisce per rendere una forma spontanea di culto, adorando inconsciamente aspetti materiali e mondani dell’esistenza. Il pericolo, in fondo, è quello di diventare adoratori di se stessi. Assume qui rilevanza la dimensione emotiva dell’adorazione, difficilmente evitabile, ma spesso ignorata. Invece è un aspetto che chiama alla responsabilità: vi sono elementi emotivi che alimentano la fede, bisogni che cercano di essere soddisfatti. Dov’è, quindi, il tesoro di ciascuno di noi? Perché lì si trova il suo cuore (parafrasando Matteo 6,21). Creatività religiosa come risposta a emozioni e bisogni profondi, in alternativa al riempire il vuoto interiore con beni materiali.
C’è un valore positivo nell’immaginazione che sfrutta visioni del mondo religiose, mitizzate, come strumento per dare vita a narrazioni che sfuggano ai limiti della modernità. Il modo di guardare al mondo moderno, razionale e scientifico, presenta dei grandi pregi, tuttavia non è perfetto. In effetti, uno dei problemi delle religioni, e delle relative teologie, consiste nell’abbarbicarsi a modi di concepire il mondo arcaici e superati. Così facendo si precludono concezioni razionali e scientifiche, caratteristiche della modernità, ed estremamente potenti. Il problema consiste nel rifiuto della razionalità, non nell’appello all’immaginazione e all’emozione. Al contrario, la capacità di percepire il mondo attraverso lenti sempre diverse resta una preziosa espressione di flessibilità culturale. In conclusione, i concetti di divino sono qualcosa che è stato esplorato nel corso della storia, da diverse culture, e può ancora essere ricercato.
Come si pensa, come ci si relaziona al divino, attraverso i linguaggi umani? Una ricerca degna di interesse sarebbe analizzare il diverso uso di parole legate al termine “dio”: quali aggettivi vi sono associati, in che frasi è usato, a seconda delle culture e delle lingue; di particolare interesse per lo studio sono soggetti multi-lingue, perché capaci di esprimere usi linguistici propri di comunità differenti. Una simile ricerca porterebbe a mappare il campo di esistenza semantico del vocabolo “dio” come attualmente usato nei linguaggi delle varie culture. Ricerche di questo tipo contribuirebbero ad un aggiornamento delle concezioni sul divino, forse anche a superare il teismo per trovare un nuovo paradigma creativo, e narrazioni religiose alternative.
L’ecclesiologia si può configurare come “ricerca-azione”. La riflessione sulle pratiche sperimentate nella comunità religiosa, diventerebbe il motore di un modo di fare teologia che mette al centro le persone credenti. Una teologia pratica di questo genere ricadrebbe nell’ambito delle scienze sociali, in particolare delle scienze dell’educazione. Si farebbe disciplina pratica, studiabile a partire dalla sua costruzione attraverso l’azione umana. Infine, il confronto tra diverse comunità religiose porterebbe ad una teologia aperta, che rifiuti le chiusure identitarie.
Propongo un rovesciamento del senso del racconto della torre di Babele (Genesi 11,1-9). Il Dio nel quale i credenti moderni hanno fede, non è una divinità gelosa degli esseri umani, che confonde i linguaggi.
Oggi, lavorare assieme per tendere al cielo, senza avere mai la superbia di raggiungerlo, ma trasformando le persone attraverso la relazione e la comunione, implica imparare i linguaggi altrui. Metaforicamente, significa costruire una nuova torre di Babele, per arrivare a parlare la stessa lingua e usare le stesse parole.
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L’identità, tracce di Dio nel corpo umano
La posizione avanzata dalla teologa Lucia Vantini merita di essere esaminata più a fondo. Riprendendo l’osservazione di Pannenberg, che quello che è vero nella scienza non può essere sbagliato in teologia, Vantini trova un parallelismo tra l’epoca di Galilei e gli avanzamenti delle neuroscienze di oggi: in entrambe le circostanze, nuove conoscenze chiamano a rivedere le concezioni della teologia cristiana. Quest’ultima ha oggi la possibilità, e la sfida, di trarre dalla fenomenologia e dalle ricerche sul cervello, gli strumenti concettuali atti a rivedere le concezioni antropologiche dualistiche, così da compiere un balzo epistemologico epocale. In particolare, la fenomenologia viene proposta quale campo d’incontro tra neuroscienze e teologia; in altre parole, Vantini vede la neurofenomenologia come potenziale chiave di lettura dell’umano di fronte a Dio. Posto a cardine della relazione tra umano e divino è il tema della porosità del soggetto, che le neuroscienze hanno analizzato, ossia l’impossibilità di strutturarsi dell’individuo in termini autoreferenziali: la plasticità cerebrale, l’apertura all’esperienza, le caratteristiche dei neuroni specchio e le relative attitudini mimetico-empatiche, tutte queste cose indicano come il soggetto umano sia un soggetto in divenire, poroso in quanto plasmabile dall’ambiente e dalle relazioni sociali (Il Sé esposto tra desiderio e memoria, Padova: Facoltà Teologica del Triveneto, Tesi di Dottorato in Teologia, 2017, pp 182-3).
La studiosa costruisce sulle fondamenta del pensiero del teologo cattolico ungherese Alexandre Ganoczy, il quale ha sostenuto che una ricerca su Dio che non tenga conto delle neuroscienze sia disincarnata, epistemologicamente emarginata. Proponendo invece di leggere, negli sviluppi delle neuroscienze sociali, la traccia dell’umano sotto il segno della grazia, staccandosi da ontologie chiuse, per recuperare una visione antropologica olistica che caratterizza la religione ebraica, e gli esordi del cristianesimo, che non pensa alle persone contrapponendo pensiero ad emozione o individuo a comunità, né l’intervento divino alla storia mondana (ivi, pp 190-1). In fondo, si riscopre l’idea di leb delle scritture ebraiche, spesso tradotto come cuore, a cui vengono attribuite le funzioni intellettive, oltre che emozioni e sentimenti. Il leb è un cuore pensante, una realtà sintetica, carnale e spirituale, sede di giudizio e di memoria. Una concezione biblica che corrisponde ai modelli neuroscientifici non riduzionisti.
La visione che consegna Vantini è quella di un’umanità collocata nella natura, un’umanità integrale, non caratterizzata dal dualismo anima/corpo che ha permeato l’antropologia cristiana. La proposta teologica allora diventa interrogarsi sull’umano, in quanto imago Dei, ascoltando la voce delle neuroscienze sociali. Interrogazione sull’umano di fronte a Dio a tutto campo, che coinvolge discipline diverse, di matrice umanistica, biologica e teologica. Di particolare interesse risulta l’approfondimento dell’empatia, attraverso cui analizzare la fede concepita in primis come fiducia, dai tratti affettivi, cognitivi e corporei, che si esprime nelle relazioni (ivi, pp 218-9). In una simile ottica, le esperienze religiose sono definite come eventi mentali, quindi corporei, e in quanto tali è possibile studiare l’attivazione cerebrale durante questo tipo di esperienza. La chiave di lettura dell’attività neurale è di tipo fenomenologico: la persona descrive l’esperienza così come la ha vissuta.
Da quanto sostenuto qui, è logico concludere che il tema della relazione personale con Cristo coinvolge gli aspetti corporei, cerebrali, di formazione di memorie e disposizioni personali, in conseguenza ad esperienze religiose, di studio e di comunità. Il Vangelo diventa incarnato, letteralmente, nelle tracce neurali che lascia nei fedeli. In tutto questo l’esistenza di un Dio è un’ipotesi, di cui si può anche fare a meno, e che riposa sul sistema di credenze di ciascuno. Le neuroscienze della religione non sono un argomento a favore o contro l’esistenza di Dio. Piuttosto, rendono possibile studiare, ed eventualmente criticare, le pratiche religiose a partire dagli effetti che queste hanno sul cervello dei credenti. Per sintetizzare in un aforisma: non si nasce cristiani, lo si diventa grazie al discepolato. Di qui Vantini tratta la trasformazioni del sé in chiave cristologica. Sul tema della trasformazione, i punti di vista epistemologicamente distanti, quello teologico e quello delle neuroscienze, finiscono per convergere, nella ricerca e nella riflessione sulle esperienze trasformative vissute dai cristiani (Ma un discorso analogo può valere anche per le religioni non cristiane, a patto che promuovano la formazione della persona). Entrando in contatto con la storia di Gesù, i credenti sono coinvolti in una riconfigurazione del sé; incarnazione in Gesù, quindi, come modello dell’incarnazione del messaggio evangelico, in una corporeità viva (ivi, p 239). L’incontro con Gesù nelle scritture fa scoprire un’umanità straordinaria, ed il contatto con la scrittura e la testimonianza cristiana apre le porte alla ristrutturazione del Sé dei credenti: “La rivelazione viene così a essere una forma dell’esperienza e la fede assume una fisionomia pratica che sperimenta la rigenerazione della salvezza nel corpo” (ivi, p 331). In definitiva, “Le neuroscienze hanno mostrato che il Sé non trova la propria unità attraverso definizioni essenzialiste e tantomeno attraverso il riferimento a principi ontologici. Ciò che consente l’identità ha la forma temporale di un processo. Questa dinamica ha a che fare con la narrazione testimoniale: il Sé ha bisogno di raccontare la propria storia.” (ivi, p 287).
Conclude la teologa: “Certo, le neuroscienze non hanno un linguaggio che esplicitamente abilita a sperare, ma sorge qui una domanda tanto arrischiata quanto inaggirabile: raccontando di un Sé processuale, affettivo, vulnerabile ed eccitabile, un Sé che vive di relazioni che si imprimono per sempre nella carne, fa delle proprie memorie ferite o appaganti il punto di leva per ulteriori esposizioni, si misura con una libertà non assoluta e con una coscienza che non può governare tutta la complessità della vita, le neuroscienze non ci stanno forse restituendo la responsabilità di essere a immagine e somiglianza di quel Dio che redime la storia nella paticità di una carne rimasta ospitale anche nel luogo del massimo rifiuto?” (ivi, p 336). Il Sé è qui pensato come memoria e desiderio, e il divino è considerato tanto come desiderio ultimo, ossia la salvezza, quanto come ricordo originario, ossia la creazione. È l’assoluto alfa e omega al di là di cui non c’è niente.
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Teologia e neuroscienze: rileggere l’imago Dei
Il problema teologico radicale della concezione che riduce il fondamento dell’essere umano a imago in spiritu, consiste nel dare vita ad un pensiero antropologico che ignora la figura di Cristo; che prende in esame il testo di Genesi, tralasciando l’idea paolina del nuovo Adamo (1 Cor 15); che lascia fuori il tema di rivestire Cristo, la realtà di fede fatta da persone incarnate che conoscono un Dio incarnato.
L’impasse della concezione dualistica può venire superata fondando l’antropologia in termini cristocentrici, e l’esperienza della relazione con Dio come esperienza della figura di Cristo, un divino incarnato nella storia umana. L’imago Dei diventa l’immagine del crocifisso. In effetti, l’importanza dell’imitatio è ben presente nella letteratura paolina, dove l’apostolo è imitatore di Cristo, intendendo l’imitazione non in senso legalistico, come una prassi, un compiere delle opere; piuttosto l’apostolo riflette l’esempio di Cristo nella sua stessa vita, diventando a propria volta esemplare.
Moltmann, invece, nota come, pur essendo l’idea di imago Dei fondamentale per l’antropologia cristiana, tuttavia le tradizioni bibliche non giustifichino la centralità del concetto, che è rappresentato solo nello scritto sacerdotale (Moltmann, Dio nella Creazione, Brescia: Queriniana, 2007, p 253). Partendo da tale osservazione, il teologo sviluppa l’imago Dei come destinazione originaria dell’essere umano, culmine della creazione (ivi, pp 254-5). In Genesi la somiglianza a Dio è vista in termini regali, l’essere umano come simbolo della sovranità divina, ed in maniera affine è concepita anche nel Salmo 8. Si badi, non però nei termini unilaterali dell’esercizio del dominio, piuttosto come riflesso della gloria divina sulla terra (ivi, p 257). In definitiva, la visione sacerdotale dell’antropologia tiene conto di aspetti cultuali e si pone in opposizioni a tendenze idolatriche: solo l’essere umano è immagine di Dio, quindi non andranno venerati né animali, forze della natura o figure angeliche, in quanto non sono riflessi della gloria divina (ivi, p 259). Moltmann prosegue ragionando come, dal momento che l’originaria immagine della creazione è stata deturpata dalla caduta nel peccato, nella letteratura paolina emerga la nozione di imago Christi, tanto come gloria di Dio, quanto come modello per l’umanità (ivi, pp 263-4). Grazie alla ri-creazione, o rigenerazione, operata attraverso Cristo, l’immagine umana si proietta in senso escatologico, assumendo i contorni della gloria Dei (ivi, p 267). In fine, il teologo nota che la teologia cristiana si è servita di due analogie per illustrare l’imago Dei come presenza di Dio nell’essere umano: la teologia latina ha preferito un’analogia psicologica, dell’anima che domina il corpo, mentre la teologia di lingua greca ha optato per l’analogia sociale, della comunione tra persone, tra donna e uomo, tra genitori e figli (ivi, p 273). Di fatto sia Agostino che Tommaso riducono l’imago Dei all’anima umana, razionale e dotata di volontà, che domina il corpo. Questa analogia esclude il corpo dall’immagine divina, eliminando anche la differenza sessuale, assieme a qualsiasi manifestazione legata alla corporeità. Questa visione affonda le radici nella filosofia platonica, e risuona con l’elemento del dominio, del controllo della parte celeste, o dell’anima, sulle cose terrestri, sul corpo. Invece, sembra distante dalle concezioni antropologiche veterotestamentarie, estranee alla distinzione tra anima e corpo: l’essere umano è una carne vivente, anima e corpo sono qualità umane, non componenti (ivi, 297). La concezione latina risulta debole quando si affronta il tema del Verbo che si è fatto carne (Gv 1,14), e del corpo come tempio dello Spirito Santo (1 Cor 6,19). Al contrario, la concezione orientale vede l’essere umano nella sua interezza come imago Dei, intendendo la comunione tra persone quale fondamento dell’immagine (ivi, p 280), che si manifesta allora nella socialità insopprimibile, nella relazionalità tra persone, tra generi, tra generazioni, e tra umano e divino.
In sintesi, il cuore del tema è riassumibile nelle parole di Vantini: “Il Sé è a immagine e somiglianza di Dio perché desidera relazioni.” (Vantini, Il Sé esposto tra desiderio e memoria, Padova: Facoltà Teologica del Triveneto, Tesi di Dottorato in Teologia, 2017, p 317). Questo homo capax Dei, che prende forma nelle relazioni, è studiabile contemporaneamente tanto da discipline che partono dal dato umano, corporeo, culturale, quanto da quelle che partono da un dato divino, celeste, rivelato.
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J.S. Spong TESI 12: Tutti gli esseri umani portano l’immagine di Dio e ogni persona deve essere rispettata per quello che è. Pertanto nessuna descrizione esteriore di un essere umano, sia basata sulla razza, l’etnia, il genere o l’orientamento sessuale, può propriamente essere usata come base per il rifiuto o la discriminazione.
Commento: senza dubbio, ci sono molte cose nella storia della Chiesa di cui bisogna pentirsi. Dall’oppressione delle donne, alla conversione violenta dei non credenti, alle crociate e ai roghi degli eretici; questi mali nati nel cristianesimo e dal cristianesimo hanno una radice comune nella discriminazione e, quando possibile, nella soppressione di quanto percepito come diverso, deviante dalle norme auto-imposte.
Ecco che l’inclusività, allora, può trasformarsi in medicina per guarire dagli errori passati.
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J.S. Spong TESI 11: La speranza della vita dopo la morte dev’essere separata per sempre dalla mentalità del controllo del comportamento attraverso ricompensa e punizione. La Chiesa deve smettere di fare affidamento sulla colpa per motivare il comportamento.
Commento: motivare le persone credenti con i sensi di colpa, la promessa di una ricompensa oltre questa vita, e la paura dell’inferno, non rende i cristiani un gruppo di persone piene d’amore, moralmente responsabili e capaci di vivere una vita ricca e piena. Invece, rende la Chiesa cristiana una realtà sociale fortemente manipolatoria nei confronti dei suoi stessi membri, che sono costantemente soggetti ad un doppio messaggio: da un lato, di sperare anche oltre ogni logica aspettativa, dall’altro, di essere colpevoli e punibili fin dalla nascita.
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Teologia e neuroscienze. Due discipline, alcuni punti di contatto
Pur senza pretesa di esaustività, di seguito verranno illustrati i principali argomenti di interesse comune tra teologia e neuroscienze. Verrà approfondito solo l’argomento relativo al Sé, all’identità soggettiva, in quanto è quello che coinvolge i temi fondamentali della concezione teologica dell’essere umano. In altre parole, il discorso sull’identità tocca il nucleo del dialogo interdisciplinare. Altri temi verranno qui solo accennati.
Ad ogni modo, il primo, in termini temporali, punto di contatto tra spiritualità e neuroscienze è costituito dall’investigazione neuroscientifica dell’esperienza interiore: la vita contemplativa e le neuroscienze hanno qualcosa in comune? L’esperienza spirituale sfugge ad ogni indagine materiale o, al contrario, non è che il risultato di processi fisici? In ambito buddista sono stati effettuati vari studi sull’attività cerebrale di persone che praticano la meditazione. Il neurologo Francisco Varela iniziò ad occuparsi del fenomeno nel 1987, fondando il Mind and Life Institute. Grazie alla neuroplasticità in cervello può essere modificato, evolvendo in funzione delle esperienze di vita. Matthieu Ricard sottolinea come siano state svolte ricerche (“Long-term mediators self-induce hig-amplitude gamma synchrony during mental practice”, in Proceedings of the national academy of science, Vol. 101, n. 46, 2004), su uomini e donne, orientali e occidentali, con dalle 10.000 alle 60.000 ore di pratica meditativa, misurandone gli effetti sul cervello e sui connessi aspetti psicologici; inoltre fa notare come bastino 30 giorni di meditazione quotidiana per vedere apparire una modifica delle funzioni neurali correlate alla coscienza (Courau Thierry-Marie et al. “L’essere umano al vaglio delle neuroscienze”, in Concilium: Rivista internazionale di teologia, 4, 2015, p 28). Ricerche di questo tipo possono servire per analizzare il potenziale di trasformazione umano; si tratta di studi replicabili sulla preghiera, sulla contemplazione e su altre pratiche pastorali e liturgiche, per valutare gli effetti a lungo termine delle stesse sulla mente e sul cervello delle persone cristiane praticanti.
Un secondo punto di contatto rilevante è costituito dall’indagine sul rapporto tra cervello e morale. Sul tema sono stati scritti testi importanti, come The Ethical Brain di Michael Gazzaniga, tuttavia il dibattito è stato alimentato da un articolo seminale di Green e colleghi (“An fMRI investigation of emotional engagement in moral judgment”, in Science 2001) in cui si è cercato di misurare il coinvolgimento, nel giudizio morale, delle aree cerebrali associate agli aspetti emotivi. Il pregio dell’articolo è stato il servirsi di dilemmi: porre i soggetti sperimentali di fronte a scelte moralmente difficili, misurandone l’attività cerebrale. In particolare si è confrontata l’attivazione delle aree emotive nelle scelte morali che coinvolgessero l’azione personale dei partecipanti. Allo scopo si sono proposte due tipi di scelte, che possono essere categorizzate come il dilemma del treno e il dilemma del cavalcavia. Nel primo caso si domandava ai soggetti sperimentali se, nel caso un treno fuori controllo stesse arrivando ad uno scambio, e tirando una leva si potesse indirizzare il convoglio verso una direzione dove avrebbe ucciso una persona, mentre se non si fosse tirata la leva il convoglio ne avrebbe uccise cinque, fosse moralmente legittimo tirare la leva, sacrificando così quella persona. Nel secondo dilemma invece, l’unico modo per evitare che il treno uccida le cinque persone, sarebbe spingere una persona giù da un cavalcavia, così uccidendola, in modo che il suo corpo frenasse il convoglio. In entrambi i casi si baratta la vita di un individuo per quella di cinque. Tuttavia nel primo caso la maggior parte dei soggetti ha sostenuto che sia moralmente giusto tirare la leva, causando il numero di morti minore; nel secondo caso, un maggior numero di persone ha affermato che non sia giusto spingere una persona sui binari. Pur a fronte di un identico numero di deceduti, la reazione umana è diversa. Questa ricerca ha evidenziato un maggior coinvolgimento emotivo, dei tempi di elaborazione della risposta più lunghi e una minore probabilità di intervenire, nel caso del dilemma del cavalcavia. Di fatto l’importanza della ricerca è consistita nell’allargare lo studio della morale dalla sola filosofia alle scienze biologiche. I nuovi strumenti di ricerca neuroscientifica consentono di studiare il rapporto tra religiosità e giudizio morale: attraverso ricerche a carattere longitudinale, ossia ripetute nel tempo, è possibile valutare come cambino gli atteggiamenti morali, e come l’esperienza e l’educazione, ivi comprese quelle di matrice religiosa, possano incidere sulla formazione di valori e sulle scelte morali.
Vi è poi il tema dell’identità sessuale, a livello cerebrale e corporeo. La ricerca cerebrale sul genere e sulla sessualità restituisce un dato biologico complesso, evidenziando una grande ampiezza dei poli idealizzati di femminile e maschile. La teologia farebbe bene a prendere atto delle concezioni antropologiche che emergono dalle scienze della vita, per non ricadere nei propri pregiudizi, e riproporre schemi di epoche passate.
Un ulteriore punto di contatto è il tema della malattia e della salute, nonché la relazione tra salute, anche mentale, e salvezza. Il tema del benessere è infatti rilevante a livello spirituale, testimonianza ne è l’attenzione alla salute posta da numerosi movimenti di tipo New Age, dove si può quasi parlare di culto della salute. Si tratta di un argomento allo stato attuale ancora molto poco studiato.
Infine, vi è il tema antropologico di fondo del confronto tra teologia e neuroscienze, che trova la sua radice nei termini di homo capax Dei. Il problema alla base è se il nostro cervello inventi Dio, o percepisca Dio. Questione posta da Alexander e Andrew Fingelkurts (“Is our brain hardwired to produce God, or is our brain hardwired to perceive God? A systematic review on the role of the brain in mediating religious experience”, in Cognitive Processing, 10, 2009): dopo aver esaminato sistematicamente i numerosi argomenti a favore dell’una e dell’altra prospettiva, gli autori concludono diplomaticamente che non ci sia alcuna evidenza conclusiva sulla natura dell’esperienza religiosa, che pertanto entrambe le prospettive siano valide. Tuttavia va aggiunto che l’aut-aut con cui viene proposto il tema, invenzione contro percezione, riflette il più ampio dualismo con cui si affronta la questione religiosa, ossia da un punto di vista teologico e fideistico, o da uno scientifico e materialistico. Invece la questione va lasciata aperta, superando la dicotomia con uno sguardo integrale sull’essere umano, come organismo capace di coscienza, credenze ed esperienze religiose. Affrontare l’argomento in modo unilaterale è, infatti, comunque parziale. L’esperienza religiosa è un fenomeno universale, presente in tutte le culture e durante le varie fasi della vita, si riflette nell’attività neurale, non dipende da singole regioni del cervello, anche se può essere indotto con stimolazioni cerebrali specifiche, mostra una base ereditaria, ed è modulato da aspetti culturali e sociali. Per essere studiato in maniera completa occorre la collaborazione di discipline diverse.
Al contrario, le concezioni dualistiche, propugnando opposizione tra anima e corpo, sono foriere di vere e proprie barricate disciplinari. Da parte della comunità teologica, ci può essere il timore che il cervello umano venga individuato come “l’inventore delle idee di Dio e di anima” finendo così per stravolgere l’antropologia cristiana. Il teologo Eduardo Cruz, ribadisce come le fondamenta dell’antropologia cristiana poggino sul concetto di imago Dei, intesa come anima, immortale e incorporea; in caso contrario, ovvero se il cervello si inventasse Dio, “la dottrina dell’Imago Dei … sarebbe così ridotta a un insieme di proposizioni devozionali, elementi fittizi che tentano di dare una qualche dignità all’essere umano. L’equazione è come invertita, per cui risulta una imago hominis proiettata nella figura di un essere fantastico.” (in Courau, 2015, p 127). Cruz paventa la risoluzione del discorso teologico in un discorso sull’essere umano, ovvero nell’immaginazione. Da un punto di vista umanistico e razionale, la componente divina e sovrannaturale viene reinterpretata come il prodotto della mente umana, e questo porta alla banalizzazione. Invece, affinché le discipline dialoghino, è importante ricordare che sono possibili modi diversi di fare esperienza del mondo, di dare senso ad una realtà che non è immediatamente sensibile. Ciò non toglie che il programma dell’incontro interdisciplinare tra teologia e neuroscienze implichi la naturalizzazione del fenomeno da studiare. Porre il fondamento dell’antropologia in un’imago Dei che si manifesta oltre la vita corporea, significa trincerare il proprio oggetto di studio in modo che non sia raggiungibile, precludendone l’analisi tanto alle discipline culturali che alle scienze naturali e sociali.
La mancanza di attenzione agli aspetti corporei, situati in contesti di vita, sociali, culturali, linguistici, di genere, lungo la storia umana, è stato un difetto della teologia occidentale. Essa ha basato la propria idea di essere umano su di una concezione dell’imago Dei, ossia di essere creato a immagine di Dio quanto all’anima e allo spirito, tralasciando l’aspetto materiale, in quanto il libro di Genesi (2,7) racconta che l’essere umano divenne vivente quando Dio trasmise il soffio di vita, ed è pertanto una imago Dei in spiritu. Questo tipo di posizione è un punto di partenza che rende difficile il dialogo tra neuroscienze e teologia. Si possono comunque trovare posizioni alternative, all’interno della stessa riflessione teologica cristiana.
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Organismo e anima, la teologia in dialogo con le neuroscienze
Che cosa può ricavare la teologia cristiana, in primis cattolica e protestante, da un confronto disciplinare con le neuroscienze? Il un tema è molto più ristretto rispetto al rapporto generale tra scienze delle religioni e scienze cognitive; si tratta di prendere in considerazione i risultati della ricerca scientifica nell’ambito di un pensiero orientato dalla fede. Pertanto, prima di rispondere, va sottolineato come ci si trova a far dialogare due ambiti caratterizzati da posizioni epistemologicamente e ontologicamente distanti; e che sarebbe più facile affrontare la questione solo dalla prospettiva scientifica, senza entrare in merito del discorso teologico, implicante un’assunzione di fede. In particolare, il riferimento alla tradizione cristiana rende difficile impostare il discorso sull’anima, concepita attraverso categorie metafisiche che derivano dalla filosofia antica. Un simile impianto ontologico cozza con il monismo materialista che domina la ricerca neuroscientifica. Sarebbe forse più facile rifarsi direttamente al pensiero e alle scritture ebraiche, espungendo la concezione antropologica di tipo dualista, dove anima e corpo sono due entità separate, appunto ripresa dal pensiero greco, soprattutto dalla scuola platonica. Al contrario: “la visione biblica dell’essere umano è unitaria. Si parla di «anima» e di «corpo», ma non per indicare due componenti più o meno separabili, bensì la stessa realtà, cioè l’essere umano nella sua integralità considerata da punti di vista diversi.” (Ferrario, Libertà di credere, Torino: Claudiana, 2014, p 227).
Quali contributi possono, allora, offrire gli studi sul cervello alle riflessioni teologiche? Così come in passato la teologia pratica ha guardato alle scienze umane per meglio definire il suo statuto di ricerca (Genre, Cittadini e discepoli. Itinerari di catechesi, Torino: Claudiana, 2000, p 14), la pastorale si è rivolta prima alla psicanalisi e poi alle diverse brache della psicoterapia, la catechetica alle scienze dell’educazione, l’omiletica alla retorica, ed in generale le scienze della comunicazione sono state prese in considerazione, così come la sociologia per fare ricerca sulla chiesa come gruppo umano, la psicologia per studiare i singoli individui, si pensi alle proposte di Theissen e di Drewermann sull’esigenza di proporre un’interpretazione psicologica dei testi biblici (ivi, pp 68-71); allo stesso modo, la teologia ora può rivolgersi anche alle neuroscienze, per prendere in esame gli aspetti cerebrali e corporei della vita di fede. In sintesi, le neuroscienze stanno facendo evolvere il modo di intendere l’essere umano, e pertanto il modo di intendere la relazione tra umano e divino.
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La secolarizzazione del pensiero
Il percorso che ha condotto ad un esame critico degli assunti concettuali alla base della teologia cristiana ha una lunga storia. Don Cupitt nel suo libro-documentario Sea of faith, ne ricostruisce la storia in maniera divulgativa. I contributi intellettuali a questo percorso sono davvero numerosi: dalla rivoluzione copernicana, al pensiero cartesiano, che hanno segnato la divisione definitiva tra fede religiosa e conoscenza scientifica; la rivoluzione darwiniana, che ha portato a considerare gli essere umani come animali, e ha messo in crisi la visione della creazione offerta dal libro della Genesi; la psicanalisi, con le critiche alla religione mosse da Freud, e gli studi di Jung; lo studio delle scritture, con figure come Lutero, che ha riconsegnato il testo biblico all’interpretazione razionale, l’interpretazione storico-critica della Bibbia, che utilizza metodi filologici e letterari per comprendere il senso del testo, senza considerarlo come qualcosa di dettato dai cieli, nonché la ricerca sul Gesù storico, contrapposto al Gesù narrato nei Vangeli; rilevanti poi le critiche sociali alla religione di matrice marxista, l’incontro con le religioni orientali, si pensi a Schopenhauer in particolare; infine la filosofia della morte di Dio inaugurata da Nietzsche, e la critica riguardo all’uso del linguaggio religioso di Wittgenstein. Questo solo per citarne una parte!
A prescindere dai singoli contributi, l’osservazione fondamentale che si vuole fare è che la teologia cristiana sia tuttora ancorata al sovrannaturale. Mentre il pensiero moderno ne ha progressivamente preso le distanze. Momento emblematico della divaricazione tra cristianesimo e pensiero razionale è il XVII secolo. Fino al Rinascimento, e durante tutto il Medioevo, la civiltà cristiana aveva prodotto un pensiero, perfino una teologia molto raffinata quale la scolastica, che aveva sempre preso come punto di partenza una conoscenza considerata vera in quanto rivelata. Al contrario, a partire dal ‘600, e in maniera compiuta a partire dal lavoro illustrato nei Principia di Newton, pubblicati nel 1687, si iniziò a porre un sapere del tutto umano, che fa uso della matematica, ottenuto in maniera critica, sperimentale. Fin dal secolo successivo, con la stagione dell’Illuminismo, si iniziò a considerare questo nuovo sapere, come epistemologicamente più saldo rispetto a quello rivelato. Il lavoro di Newton, e di altri fisici, pose le basi per una visione meccanica della natura. Pochi decenni dopo, nel 1755, Kant e Laplace proposero una teoria che descrive la storia della formazione dell’intero sistema solare. In maniera analoga, progredirono la geologia e lo studio degli organismi viventi. Quando Darwin pubblicò L’origine delle specie, nel 1859, la narrativa biblica della creazione era già stata pesantemente colpita dall’evidenza delle scoperte della geologia.
Durante la seconda metà del secolo XIX, iniziò ad assumere importanza il metodo storico-critico nello studio delle scritture. Furono gli studi di Wellhausen ad imporsi in maniera più incisiva: i testi del Pentateuco non erano più considerati come qualcosa che era stato scritto dal profeta Mosè, bensì come dei testi dalla genesi complessa, redatti durante l’arco di più generazioni, a partire da tradizioni e documenti più antichi. La mentalità insita nell’approccio storico-critico prevede che il testo biblico non venga preso alla lettera, ma come testo letterario, pregno di significati ed importanza storica. L’autore della Bibbia, quindi, non è più considerato Dio, piuttosto si riconosce che una pluralità di persone abbiano lavorato sui testi. Si può affermare che l’autore delle scritture ebraiche sia il popolo di Israele. Nel frattempo erano andatisi sviluppando gli studi sul Gesù storico, avendo come pioniere David Strauss, che mostrarono come un ebreo vissuto nel primo secolo, da maestro e profeta venne gradualmente mitizzato nella mente dei suoi discepoli, e dagli autori delle narrative della sua vita, scritte alcuni decenni dopo la sua scomparsa. Gli approcci storici, filologici e letterari ai documenti fondanti del cristianesimo sottolinearono l’assenza di una supposta rivelazione diretta di un testo compiuto, da Dio agli esseri umani. Consegnarono invece il resoconto della formazione di un corpus di scritti: un insieme di racconti e di norme, che fu redatto più volte nel corso della storia, come reinterpretazione di tradizioni precedenti, in risposta alle esigenze culturali e sociali di ciascuna epoca di redazione. Grazie ad un approccio storico-documentale allo studio della religione, risulta evidente che le dottrine fondamentali del cristianesimo attuale furono elaborate durante l’epoca dei Padri della Chiesa, attraverso sia dibattiti colti che lotte di potere. Si sono, insomma, messe in luce le dinamiche umane alla base delle dottrine e dei dogmi cristiani.
Riprendendo quanto detto sin qui, il metodo scientifico si è stabilito come la più efficiente via verso una conoscenza certa. Quali conseguenze per le credenze religiose? Quale statuto epistemologico, quale importanza culturale e sociale, si può attribuire a dottrine che vanno semplicemente credute, in quanto non verificabili? Queste domande indagano i problemi che hanno messo in crisi le credenze religiose nelle società moderne, che sono diventate sempre più laiche. Sia chiaro che nelle società attuali, anche se hanno attraversato un processo di secolarizzazione, rimangono sia laicità che religiosità, dando vita ad un relativo dibattito pubblico. La tentazione è che una delle parti tenti di imporre all’altra le proprie concezioni del mondo. Il pericolo risiede da un lato in una tirannia della razionalità, dall’altro in una chiusura dogmatica religiosa. Il dialogo tra queste due istanze può trovare diverse collocazioni: dall’essere largamente ignorato, a diventare infuocato, dall’essere visto come scontro tra due modi di vivere e di pensare opposti e inconciliabili, al venire impostato come un’interazione tra due domini distinti, e vicendevolmente completantesi. È comunque importante notare un essenziale disequilibrio epistemologico tra fede religiosa e ricerca scientifica. La scienza mira a trovare degli enunciati che una mente razionale è costretta ad accettare, in quanto non confutabili ed evidenti. Nel caso della fede non sono richieste, né disponibili, delle prove sufficienti ad obbligare la mente umana ad accettare una proposizione. Questo non toglie che la teologia possa, e sia tenuta a, offrire formulazioni coerenti e argomenti a favore dei contenuti di fede, che può avvantaggiarsi di un’apologia, tuttavia la fede stessa non si configura come un obbligo intellettuale: l’età della Scolastica è definitivamente tramontata nella storia del pensiero scientifico.
Volendo mettere al riparo i contenuti della fede dal potere dell’indagine scientifico-materialista, ci si può rifugiare, come fa Cupitt, nella scomoda posizione filosofica del non-realismo. Applicando un atteggiamento non realista alle tradizioni religiose, se ne consegue che le narrazioni alla base della fede non debbano essere letteralmente reali per poter venire trattate come un corpus di miti e immagini capace di incidere sul modo di vivere. In filosofia si usa il termine realismo per indicare l’esistenza di un mondo reale che resta tale indipendentemente dall’esperienza che ciascun soggetto possa farne. Una prospettiva non-realista riguardo a Dio sostiene che Dio sia reale per chi ci crede, ovvero che l’esperienza di Dio sia soggettiva e limitata, se non alla singola persona, quantomeno alla comunità di fede. Dio diventa pertanto sempre il «mio dio», ciò che ciascun credente pensa sia divino. Le dottrine sovrannaturali non sarebbero quindi delle realtà esterne alla fede, che esistono indipendentemente dalla mente che le concepisce, piuttosto diventano dei principi guida per la vita. La prospettiva non-realista, per quanto epistemologicamente molto debole, ha il pregio di chiamare alla responsabilità le persone credenti: infatti, non potendo additare una realtà esterna come fonte delle dottrine, diventa responsabilità delle comunità religiose elaborare dottrine eticamente solide. Questo atteggiamento conduce ad una verità di fede che, anche quando non strettamente fattuale, è comunque lecita a livello pragmatico.
Posizione affine è quella che permea gli scritti di Lewis. Pur priva di alcun riferimento ontologico, la posizione di C. S. Lewis sottolinea il potere del mito quale mezzo per ordinare la complessità della vita in una narrazione portatrice di significato. Il modo in cui l’autore sviluppa le proprie concezioni sul mito è in chiara polemica con il programma teologico di Bultmann, che secondo Lewis condurrebbero allo svuotamento del messaggio evangelico. L’idea che il linguaggio dell’immaginazione, dunque dell’arte e del mito, sia elemento essenziale per elaborare una concezione del mondo religiosa, merita di essere approfondita.
https://www.sofn.org.uk/
http://www.doncupitt.com/don-cupitt
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To celebrate Schopenhauer’s 233rd birthday, we’re meditating on his words. Schopenhauer believed that morality came from the ‘everyday phenomenon of compassion’, that it was natural to all humanity, and that compassion is the only 'non–egoistic motive’. https://ift.tt/3aGi7Xi
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J.S. Spong TESI 10: La preghiera non può essere una richiesta fatta ad una divinità teistica perché agisca nella storia umana in un modo particolare.
Commento: l’idea di avanzare richieste ad un essere onnipotente è tanto ingenua da sembrare infantile. Persino la lode, che spesso accompagna la preghiera, diventa una sorta di adulazione. Si tratta, secondo il teologo, di una concezione idolatra del pregare, un tentativo di imporre a Dio la volontà umana.
Alla domanda: che cosa sia allora la preghiera? Spong risponde che la preghiera è qualcosa che si vive, piuttosto che qualcosa che si faccia.
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Invito al pensiero di Ricoeur, la costruzione del soggetto
La struttura dialogica dei testi biblici punta al loro referente unico, che si può provvisoriamente definire come il Divino Altro, o Colui che chiama. Passerò ora a considerare alcune rappresentazioni simboliche di Colui che risponde, variamente descritto da Ricoeur come "soggetto convocato", o il "soggetto incaricato". Per essere convocati è necessario trovare se stessi, rendendosi conto che alla base della propria identità non c'è un individuo, ma c'è la Parola. L'essere umano non si costituisce da solo, è costituito dalla Parola. La confessione di fede di Ricoeur consiste nel ritenere che l'uomo sia istituito dalla parola divina, ovvero da un linguaggio che è parlato da Dio all'umanità. Questa esperienza è descritta nei testi biblici grazie alla tipologia dei soggetti convocati, che inizia con il profeta, la cui chiamata è esplicitamente segnalata. Il tipico racconto profetico ha una struttura coerente che inizia con l'annuncio della presenza divina, seguito da un comando; descrive la risposta - che spesso indica l'ansia o un senso di inadeguatezza da parte del soggetto - e termina con la messa in servizio del soggetto e la rassicurazione del continuo sostegno e la presenza del divino. Anche se solo uno è chiamato individualmente, a tutti i popoli è data la possibilità di mettersi alla sequela, e questi racconti di vocazione sono destinati ad essere modelli della chiamata collettiva di tutta la comunità. Leggere le profezie prepara alla comprensione dell'evento Cristo. Aiuta la comunità a capire la sofferenza e la gloria, imprime il volto divino e umano di Cristo nella comunità del cristiani. In coloro che sono plasmati nella loro identità dai testi del nuovo testamento. Coloro che rispondono alla chiamata sono coloro che testimoniano la presenza di Dio nella loro vita. Questo apre la riflessione sul concetto di testimonianza. La testimonianza costituisce il quadro epistemologico che Ricoeur applica alla rivelazione. Egli considera l'uso della testimonianza nella vita quotidiana, prima di considerare il suo ruolo nella filosofia e religione. La testimonianza è una forma di giudizio che non è né oggettivo né relativista: si tratta di un'interpretazione degli eventi espressa da un individuo. Un testimone, dando testimonianza, si impegna a riferire o raccontare ciò che ha visto o sentito. Pertanto la testimonianza si basa su di una interpretazione, dal momento che è il prodotto di un'esperienza già rielaborata dal testimone. Il testimone si è fatto un giudizio di ciò che ha visto o sentito e lo condivide con gli altri attraverso la testimonianza. Da un punto di vista giuridico, il ruolo della testimonianza è quello di portare chiarezza riguardo ad una situazione opaca, o ad una controversia. Quando la questione può essere risolta andando ai direttamente ai fatti, la testimonianza perde il suo valore. Si tratta di qualcosa che si basa sul probabile ma non su una prova inconfutabile. Se esistesse una prova inconfutabile, la testimonianza diventerebbe irrilevante. Nel contesto cristiano è familiare il collegamento tra testimonianza e martirio, dove la testimonianza è testata fino al limite estremo della morte. Al fine di verificare la convinzione del testimone, durante la fase primitiva del cristianesimo, si arrivava a mettere alla prova la disponibilità a soffrire e a morire per garantire la verità della propria testimonianza. Tuttavia questo modo poteva mettere alla prova la convinzione dei testimoni, ma non direttamente i contenuti di quanto testimoniato. Ricoeur rileva inoltre il collegamento tra l'esperienza limite e testimonianza, egli tenta di trovare una filosofia in cui l'esperienza di assoluto possa essere unita alla limitatezza della vita umana. L'autore individua la rivelazione come questo momento in cui limite e assoluto sono uniti. L'esperienza di rivelazione, egli suggerisce, è un momento in cui il sé è spogliato di se stesso, ed è solo in questa circostanza che l'esperienza dell'assoluto può essere vissuta.
Per riassumere brevemente, l'ermeneutica biblica di Ricoeur descrive la rivelazione come una chiamata esistenziale o un invito ad abitare il regno di Dio. I testi biblici non sono unificati, ma interdipendenti a causa della loro referente comune. Alcuni testi biblici, in particolare i Vangeli, condividono il carattere di testimonianza perché descrivono la risposta di singole persone e della comunità all'esperienza della rivelazione.
L'enfasi di Ricoeur sulla chiamata di Dio e sulla risposta umana illustra una posizione teologica: influenzato da Heidegger, che rifiuta di descrivere Dio come un oggetto, ma tenta di trovare un modo per esprimere a Dio come "essere", Ricoeur concepisce i testi biblici come testi poetici con una capacità di invitare il lettore a un nuovo modo di essere. Ricoeur postula un nuovo tipo di identità, plasmata dalla narrazione biblica e avente come fondamento il modello Gesù. In conclusione, secondo Ricoeur la voce dell'Altro, ascoltato in profondità dal sé, è la voce del sé come un altro, e rivela un assaggio della gloria divina nel cuore umano. La coscienza è il luogo dove il richiamo del sé a se stesso è intensificato e trasformato da Gesù, che funge da modello e archetipo. Il cristiano è quindi colui che interpreta se stesso nello specchio delle Scritture e vede come le proprie scelte si riflettono nella vita di coloro che testimoniano con la loro vita il potere trasformativo della Parola di Dio.
https://www.seuil.com/ouvrage/penser-la-bible-paul-ric-ur/9782757863022
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Invito al pensiero di Ricoeur, Ermeneutica biblica
Fino a questo punto ho considerato il modo in cui l'identità narrazione è costruita in un contesto culturale. Ho spiegato come l'identità narrativa sia la conseguenza di un'interpretazione. Passiamo ora a considerare il carattere di identità narrativa plasmato da testi biblici. Dobbiamo chiederci, con Ricoeur: se Dio si rivela nei testi, come il lettore del testo può interpretare la rivelazione, e come forma se stesso grazie alla lettura del testo rivelato? Ricoeur assume che i testi biblici vadano affrontati allo stesso modo di altre opere letterarie: le scritture sono soggette alle stesse pratiche ermeneutiche. Per Ricoeur, il kerygma si trova nei testi nella forma in cui essi esistono: quella relativa a Dio non è una verità che possa essere scoperta una volta che la narrazione mitologica sia stata rimossa. Per Ricoeur l'aspetto unico dei testi biblici non è la loro origine, ma il loro essere riferiti a Dio. Non un Dio rivelato in forma di verità proposizionale, ma rivelato nella testimonianza di coloro la cui identità narrativa è stata modellata dall'incontro con i testi biblici. Ricoeur non offre un unico metodo ermeneutico per l'interpretazione delle Scritture, ma applica diversi strumenti interpretativi a seconda della varietà di generi biblici. Il significato viene trovato tramite la critica storica, le letture strutturaliste e narrative, e la critica letteraria. Inoltre l'autore sostiene che siano possibili letture differenti in diverse circostanze. Egli insiste sul fatto che il suo approccio ai testi biblici è dettato dalla loro natura di raccolta di scritti di diversi generi, con una dinamica interna che comprende l'interpretazione intertestuale. In Essays on Biblical Interpretation Ricoeur elenca cinque forme di discorso, ovvero cinque generi, presenti nella Bibbia: narrativa, prescrittivo, sapienziale, innico e profetico. Egli sostiene che ognuno deve essere considerato olisticamente: il significato non può essere estratto dal testo separandolo dalla sua forma linguistica: i generi letterari della Bibbia non costituiscono una facciata retorica che sarebbe possibile abbattere in modo da rivelare il significato. Al contrario, per Ricoeur sono veicolo irrinunciabile della rivelazione. Ciascuno dei testi biblici deve essere interpretato nei suoi termini e compreso come rivelatore di un aspetto di Dio. Insieme, essi incarnano una forma di rivelazione che è pluralistica, polisemica e che rappresenta un rapporto complesso tra umano e divino. In sintesi, i testi narrativi descrivono eventi che "fanno la storia" e hanno plasmato la comunità. La lettura di Ricoeur dei testi narrativi è stato fortemente influenzata dal lavoro di Gerhart von Rad sulla storia della salvezza, che ha individuato la liberazione degli Israeliti dalla schiavitù come la narrazione fondamentale del popolo di Dio. Ricoeur ha sostenuto che la narrazione fornisce la correzione di altri testi in cui la presentazione di Dio può sembrare monolitica, come nei testi prescrittivi. I brani prescrittivi, espressi in codici legali, chiamano all'obbedienza; mentre, nel contesto narrativo, un nuovo patto funge da dimostrazione che il rapporto tra divino e umano è in evoluzione. I testi sapienziali sono testi della memoria, espressione di una rielaborazione del proprio passato in funzione del proprio futuro. I testi profetici fungono da contrappunto alla narrazione, offrendo una promessa data alla comunità che ha costituito se stessa attorno alla narrazione biblica e che è chiamata a rispondere alla rivelazione attraverso un'azione sociale. Infine gli inni esprimono la risposta degli individui e della comunità a Dio, il Dio che benedice e invita espressioni di gratitudine. Tutti questi generi costituiscono un insieme che Ricoeur identifica come un testo poetico, che rivela una nuova realtà in cui tutti sono invitati a partecipare. Vivere nel mondo narrato dalla Bibbia significa avere fede, significa entrare in un patto con Dio e essere parte di una nuova creazione.
https://www.religion-online.org/book/essays-on-biblical-interpretation/
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Invito al pensiero di Ricoeur, L'identità narrativa
Ricoeur si basa su Dilthey e MacIntyre per esaminare la relazione tra la narrativa e la vita. MacIntyre (After Virtue, University of Notre Dame Press, 1981) sviluppa la sua visione dell'identità narrativa dal punto di vista dell'etica. Egli si concentra sul processo di costruzione dell'intreccio come un mezzo attraverso il quale le persone costruiscono il senso della loro vita e così plasmano la loro comprensione del "vivere bene". Partendo da questa prospettiva, l'attestazione è il culmine dell'arco ermeneutico e narrativo, perché l'autentica attestazione è paradigmatica per l'interpretazione dei testi: è l'atto finale di un impegno personale che porta il lettore ad andare oltre il testo, e a vivere la sua vita in maniera diversa grazie ai nuovi significati mediati dal testo. Pertanto l'identità narrativa è una creazione poetica, modellata dal lettore. Il processo di interpretazione oscilla tra modellare e testare la narrazione finché non viene trovato un fragile equilibrio. L'interpretazione finale del testo, allora, non avviene attraverso una comprensione verbale, ma in funzione di come viene vissuta: l'identità narrativa è la risoluzione poetica del circolo ermeneutico, è il punto in cui l'ermeneutica supera l'aspetto letterario ed entra nella vita. In Soi-même comme un autre, Ricoeur descrive come l’identità narrativa funga da mediatore tra i due poli della possibilità, oscillando tra due limiti: "un limite inferiore, dove la permanenza nel tempo esprime la confusione di idem e ipse; e un limite superiore, dove ipse pone la questione della sua identità senza l'aiuto e il sostegno di idem." (p 124). Questa mediazione consente una continuità personale, ipse, anche senza rimanere sempre uguali a se stessi, idem. Se così non fosse, ogni lettore risponderebbe sempre alla stessa maniera ai testi. L'evoluzione nell'attestazione porta alla possibilità di formare in continuazione la propria identità. Potremmo chiederci se l'identità narrativa può essere costruita solo a partire da eventi passati. Ma, Ricoeur tenta di suggerire che c'è una dimensione teleologica dell'identità, ovvero che nel narrare la vita siamo in grado non solo di guardare indietro, ma anche di guardare al futuro, di costruire narrazioni riguardo ad eventi che non sono ancora avvenuti. Questa capacità ci porta a vivere in maniera progettuale. La nostra capacità di rispondere alle possibilità future, per istigare e creare nuovi modi di essere, è inclusa in quello che Ricoeur ritiene far parte della poetica. Mentre la Poetica di Aristotele riguardava l'imitazione della vita attraverso l'arte, per Ricoeur il termine implica una comprensione più ampia: essa è indissolubilmente legata alla capacità degli esseri umani di comportarsi in modo creativo e di agire in maniera originale. Quindi l'identità narrativa diventa tanto ricostruzione del proprio passato, quanto progetto di vita.
L'idea di identità proposta da Ricoeur presenta alcuni limiti importanti. Con l'arrivo della post-modernità, infatti, le singole narrazioni sono minacciate non da una metanarrazione dominante, ma dall'assenza di metanarrazione. Riprendendo la lezione di Lyotard (La Condition postmoderne: rapport sur le savoir, Paris: Minuit,1979), è possibile notare come l'elemento narrativo dell'identità implichi la costruzione di una o più metanarrazioni solide, in caso contrario ogni narrazione diventa relativistica. Nel mondo post-moderno la narrazione rischia di essere concepita come pura fantasia. Al contrario Ricoeur pose come base della narrazione l'autenticità. Quindi narrazione come costruzione, che implica immaginazione, ma non come illusione, ossia non frutto del solo desiderio, piuttosto frutto dell'azione e delle tracce che il passato lascia nel presente.
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J.S. Spong TESI 9: Non c’è nessuno standard eterno, oggettivo, rivelato nelle scritture, o su tavole di pietra, che debba governare per sempre il nostro agire etico.
Commento: per Spong Dio non può essere l’autore dei dieci comandamenti; piuttosto, i codici morali conservati nelle scritture riflettevano le necessità del popolo. La pretesa dell’origine divina di regole, consuetudini e leggi era una tattica, utilizzata nell’antichità, per garantirne l��osservanza. Inoltre, per quanto un codice morale scritto possa essere uno strumento socialmente utile, l’etica non si può ridurre ad alcun sistema di regole.
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Riflessioni su: Ardusso Franco et al. (2004), Divinizzazione dell'uomo e redenzione dal peccato
Se la salvezza è espressione della volontà di Dio, come si qualifica lo spazio di libertà umana rispetto ad azione divina?
La teologia occidentale è attraversata da un interrogativo antropologico che pone sempre il problema di comporre la volontà umana con quella divina. Ne è testimonianza il dibattito tra Agostino e Pelagio concernente il ruolo della grazia divina e della volontà umana, e il conseguente ruolo del libero arbitrio o dell'impotenza umana, con preminenza dell'azione della grazia che santifica l'essere umano determinando una nuova inclinazione che dona all'umanità la libertà di amare, ossia offre una possibilità di relazione con Dio e con il prossimo precedentemente distrutta dalla caduta narrata in Genesi.
Meno conosciuta è la polemica relativa alla Congregatio de Auxiliis, che agitò il sud dell'Europa tra i pontificati di Clemente VIII e Paolo V. Alla sua base si trova il testo De concordia liberi arbitrii cum divinae gratia donis, scritto dal gesuita Luis de Molina. Il testo entra in polemica con la visione agostiniana e luterana, per abbracciare motivi pelagiani affermando che la grazia divina sia efficacie solo in virtù dello sforzo della volontà umana. Fieri oppositori di questa concezione furono i Domenicani. Di fatto l'autorità romana dichiarò lecite tanto le posizioni domenicane quanto quelle gesuite.
L'interrogativo attraversa dunque tutta la teologia cristiana, sempre eludendo risposte univoche. Unico punto fermo è la grazia come azione libera di Dio: espressione della libertà di amare l'essere umano peccatore.
Porre l'accento esclusivamente sull'azione divina porta a sottolineare il concetto di elezione, o di doppia predestinazione: libertà assoluta di dio è posta di fronte alla depravazione umana. All'interno di questa visione emerge un problema di teodicea. Un Dio giusto può destinare alla dannazione? La soluzione consiste nel tema della riconciliazione universale, o apocatastasi. Restaurazione finale di tutte le cose, e conclusione logica dell'azione della grazia.
Al contrario, all'interno della tradizione ortodossa, per un pensatore come Gregorio Palamas l'intervento di Dio è liberatore dell'umano dalla tragicità della sua esistenza, consentendo un ritorno alla vita. È liberazione dal peccato. Nel cristianesimo orientale la deificazione è la realizzazione della condizione umana: essendo l'essere umano creato a immagine divina, l'intervento divino porta a realizzare quest'immagine, rendendo la persona umana simile a Dio ontologicamente, trasformando quindi l'essere dell'umano in un essere divino. In sintesi, per Palamas la divinizzazione è partecipazione della persona umana all'essere di Dio, e quindi non è una trasformazione puramente morale.
Interessante notare come l'idea che la relazione tra credente e Cristo non sia riducibile ad aspetti puramente etico-morali è presente anche in Lutero (Ardusso, p. 121). Secondo il riformatore Cristo non è imitabile come fosse un modello umano, ma lo diventa tramite la fede: vivere in Cristo e non solo secondo Cristo!
Nonostante questo iniziale slancio di fede partecipativa, in occidente il concetto di immagine divina è stato inteso in termini morali e non ontologici. Ovvero la natura umana resta immutata in seguito all'azione divina. Nel protestantesimo dalla theosis, intesa come mutamento ontologico, si passa a porre l'accento sulla giustificazione. L'essere umano resta peccatore, ma allo stesso tempo è dichiarato giusto da Dio.
A cosa ha portato questa concezione di totale sudditanza della libertà umana all'azione divina? Forse paradossalmente, ha finito per enfatizzare l'importanza della libertà stessa.
Secondo il teologo Gisbert Greshake, l'evoluzione storica della salvezza si configura come progressiva storia della libertà. Salvezza e liberazione, all'interno della teologia occidentale, hanno finito per diventare interdipendenti. L'aspetto individuale e soggettivo della salvezza ha gettato le basi per un'antropologia moderna. Ci si può allora domandare se l'emancipazione, la liberazione intra-mondana, abbia sostituito la salvezza. Di qui una visione di Gesù esclusivamente etico-sociale. Sull'aspetto della salvezza come liberazione ha lavorato a lungo la teologia della liberazione. Tuttavia se la salvezza è liberazione, la liberazione da sola non è salvezza.
D'altro canto, ammettere la libertà umana nella sfera della salvezza apre uno spazio tragico al libero arbitrio: la scelta del male. Qui il pensiero va al grande inquisitore evocato in I fratelli Karamazov, e al peso della responsabilità della scelta del peccato.
L'interpretazione nichilistica del libero arbitrio di fronte al male indica la colpa come il frutto della libertà.
Al contrario, secondo un'interpretazione di fede, la vera libertà è vista in funzione cristologica: per essere liberi occorre oltrepassare i limiti antropologici per diventare come Cristo.
http://www.byterfly.eu/islandora/object/librib:302279/datastream/PDF/content/librib_302279.pdf
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Invito al pensiero di Ricoeur, il mondo di fronte al testo
D'altro canto, i mondi sono soggetti a cambiare e trasformarsi nel tempo, anche grazie alla perturbazione generata dalle letture dei testi. Testo e mondo sono realtà che si compenetrano e diventano comprensibili vicendevolmente: ciò che viene interpretato nel testo è un mondo proposto dal testo stesso, che il lettore può abitare e in cui abbia potuto proiettare i propri significati. Tuttavia il lettore ha facoltà di rifiutare di entrare nel mondo del testo: può non trovare nel testo una descrizione del mondo che sia compatibile con la sua visione. Può essere semplicemente che l'autore abbia dato troppo lavoro da fare, definendo male i confini narrativi del mondo che intendeva proporre. Può essere che il mondo che il testo descrive sia così sciocco o banale da non suscitare alcun interesse nel lettore. Oppure la lettura può essere puramente critica, e rifiutare la visione del mondo e il relativo intreccio di significati proposti dall'autore. Per fare chiarezza è opportuno guardare più in dettaglio cosa Ricoeur intenda per "abitare" il mondo proiettato dal testo. Non si tratta di un'adesione puramente intellettuale, ma esistenziale. Abitare un mondo consegnatoci dal testo è una scelta di vita. Se poi il mondo che decidiamo di abitare non è realizzabile, ci scontreremo con i problemi e le illusioni da esso generati: non è scontato o automatico che la poetica descriva un mondo abitabile. Ricoeur sottolinea come l'immaginazione sia una facoltà indispensabile ai fini di conoscere il mondo che abitiamo. Tuttavia la sua ermeneutica si espone al rischio di perdere la distinzione tra reale e immaginario. Quello che interessa a Ricoeur è la possibilità di reale. Per Ricoeur, l’applicazione sostituisce la comprensione come categoria ermeneutica. Nella sua ermeneutica, inoltre, egli in genere sostituisce il termine "applicazione" con il termine "attestazione", termine tridimensionale che descrive un metodo di giudizio, un tipo di risposta, dimensione esistenziale. Il lettore risponde al testo, adottando nuovi significati, o rifiutandoli, in ogni caso prendendo una posizione riguardo a come stanno le cose. L'attestazione è l'unico test attraverso cui l'essere umano può mettere alla prova la veridicità degli enunciati. In questo Ricoeur tende a riprendere le istanze ontologiche del pragmatismo. Questa attestazione è descritta come garanzia, ma non come certezza, fiducia, ma non verifica. La categoria di attestazione, nel pensiero di Ricoeur, costituisce la base di fiducia con cui il lettore accoglie la narrazione. Sull'attestazione si impernia il concetto della “identità narrativa”: l'identità narrativa come categoria descrive il modo in cui gli esseri umani comprendono se stessi e il modo in cui si forma la loro vita. In altre parole quello che la persona attesta forma la base della sua identità. Per fare un esempio pratico: se un lettore della Bibbia risponde al testo credendo in un Dio, allora sta costruendo la sua identità come credente; se al contrario rifiuta la presenza di un Dio nelle storie narrate dalla Bibbia, allora la sua identità prende la piega del non-teismo. In conclusione, le vite diventano progetti o attività poetiche, diventano l'attestazione del possibile.
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