#inchieste giudiziarie
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“ Mia cara Francesca, le tue lettere arrivano, per lo più, alla sera. Verso le nove. Una mano entra nel buco, dicono "posta", poi le aprono e me le danno. Così le tue parole sono le ultime che ricevo: e me le porto in sogno. [...] Ho lavato i piatti (una ciotola di plastica, un piatto di plastica, delle posate idem) e le pulizie le farò nel pomeriggio, nell'interminabile viaggio che va dalle 15 al mattino dopo. Oggi è giorno di doccia (qui ci si lava un giorno sì e uno no) e aspetto il mio turno. Poi mi vestirò, e andrò all'aria. Girerò in tondo fino alle 11. In questa giostra assurda s'incontra ogni genere di uomini: falsari, spacciatori, zingari, bancarottieri; è un mondo tutto suo, credimi. E pieno di assurde favole, di storie incredibili; è impressionante il numero di giovani, di ragazzi, quasi. Da fuori, non si ha la sensazione di quello che accade qui, e di come enormi siano oggi i problemi della giustizia. Mi chiedi se desidero un libro. Sì. Di Dostoevskij "Memorie da una casa morta": attenzione, non "Memorie dal sottosuolo", che è un altro suo libro. Dico quello (alcuni lo traducono "M dalla casa dei morti") che parla della sua prigionia a Semipalatinsk, in Siberia. Lo lessi anni fa, e siccome è pieno di pensieri sulla pena, la prigione, e altro, vorrei rileggerlo. Davvero. Va bene? E io che posso restituirti? Senti, sbaglio o con Renata sei in freddo? Non so, mi è parso di capire che, in quel suo tirarsi indietro ti desse della pena. Guarda: succede, e alle volte è meglio che un amico dica francamente il suo pensiero piuttosto che vederlo accettare per forza. E il resto del lavoro? E la vita? E Milano? Io sono disgustato all'idea che esistano "giornalisti" del tipo attualmente in circolazione: criminali della penna, analfabeti della vita, irresponsabili, folli. Adesso è di moda chiamare questo "il carcere dei vip": perché non vengono, per sette giorni, a questo Portofino delle manette? Credimi: il nostro non è un Paese. Ho gioito al ritrovamento delle reliquie del tuo S. Francesco: non avevo dubbi, credi, che il finale fosse quello. E troveranno il resto. Vuoi scommettere? Mi chiedi dei sogni? Beh, sono molto teneri, dolcissimi. Mi pare di essere accanto a te, e di perdermi nei tuoi occhi. È delizioso. Anche se è la sbiadita, pallida immagine del vero. Ma ti sogno spesso. Ti ho detto: ora sono sereno, niente può più toccarmi. Mi metterò a studiare storia, che e la mia passione. Storia italiana. Poi, mi interessa enormemente la "comune coscienza del peccato", che è cosa ancora più debole, da noi, del "comune senso del pudore". Parlo con delinquenti veri, Cicciotta: e mi interessa la loro psicologia, la loro relatività, il loro codice, che è, in molti casi, anche se patologico, regolato da leggi ferree. Sì, ho vissuto molte vite: so e conosco cose che nessun viaggiatore vede e vedrà mai, avrò da riempire sere e sere d'inverno. Non andrò mai più allo zoo: l'idea di una gabbia mi darà, per sempre, un fremito di disgusto. Tu dici che sono forte: io non lo so, Cicciotta. Sento che mi sentirei indegno di vivere, se fossi diverso. Non si può concedere loro niente: sono dei bari, capisci? Questo Paese ha sempre piegato la schiena, baciando la mano di chi lo pugnalava. E non ci sarebbero tiranni, se non ci fossero schiavi. Il vero patrono d'Italia (e non capisco perché non lo facciano) dovrebbe essere Don Abbondio. San Francesco poteva nascere benissimo in qualunque altra parte del mondo. Solo Don Abbondio è irresistibilmente, disgustosamente italiano. A me spiace parlar male del mio Paese: ma deve cambiare. È l'"odi et amo" di Catullo (traduzione di Ceronetti): e se vuoi un ritratto, che condivido, dell'Italia, leggi, sempre di Ceronetti "Viaggio in Italia" (Einaudi). È una barca cariata, un guscio vuoto, pieno di vermi, che galleggia su un mare inquinato. E per le anime, è peggio. Ti abbraccio, Cicciotta. Tanto tanto Enzo [Bergamo, domenica 9 Ottobre '83] “
Enzo Tortora, Lettere a Francesca, Pacini Editore, 2016¹; pp. 82-84.
#Enzo Tortora#Lettere a Francesca#Francesca Scopelliti#libri#Storia d'Italia del XX secolo#malagiustizia#caso Tortora#vita#intellettuali italiani del XX secolo#carcere#libertà#innocenza#raccolte epistolari#amore#lettere d'amore#giudici#anni '80#inchieste giudiziarie#leggere#citazioni#letture#calunnia#criminalità organizzata#camorra#diffamazione#magistratura#Memorie da una casa morta#Fëdor Dostoevskij#don Abbondio#Guido Ceronetti
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Natale quest’anno in casa Agnelli/Elkann be like:
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Un personaggio sempre sullo sfondo di vicende misteriose, che appare e scompare, di quelli che non finiscono sulle prime pagine dei giornali, ma il cui nome affiora più volte negli atti giudiziari degli ultimi trent’anni. A volte perché accostato alla mafia siciliana, più di recente alla ‘ndrangheta. L’uomo di cui parliamo ha quasi ottant’anni, è nato in Libia ma vive a Catania.
Si chiama Francesco Rapisarda e nel corso della vita ha stretto relazioni pericolose che – seppure non abbiano mai portato a imputazioni per associazione mafiosa – hanno contribuito ad alimentare sul suo conto ombre e misteri. Alcuni dei quali intrecciati con la massoneria. Ora che è al centro di inchieste dell’antimafia, il modo migliore per conoscerlo è risalire la linea del tempo.
Per ultimo il suo nome è comparso nell’inchiesta della procura di Catanzaro che, a inizio luglio, ha riacceso i riflettori sul villaggio Sayonara di Nicotera (Vibo Valentia), passato alla storia per avere ospitato, nell’estate ’92, uno dei summit in cui le ‘ndrine decisero di aderire alla strategia stragista inaugurata da Cosa nostra con le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e che, l’anno dopo, avrebbe portato le bombe a Firenze, Roma e Milano.
Per i magistrati, tre decenni dopo quella riunione, il Sayonara era ancora in mano alla ‘ndrangheta. E a dimostrarlo sarebbe proprio la presenza al suo interno di Rapisarda. Sayonara simbolo di un’alleanza duratura tra le organizzazioni mafiose divise dallo Stretto di Messina.
[...]
Per gli inquirenti, Rapisarda sarebbe arrivato al Sayonara forte di alcune referenze mafiose. In particolar modo da parte della famiglia Santapaola-Ercolano, che a Catania rappresenta Cosa nostra.
A sostegno di questa ipotesi, citano i fatti che nel 2016, l’anno prima di prendere la conduzione del lido, avevano portato Rapisarda e il fratello ai domiciliari nell’ambito dell’inchiesta Brotherood. Al centro dell’indagine erano finiti i punti di contatto tra esponenti della famiglia Ercolano e alcuni appartenenti a una loggia massonica di cui proprio Francesco Rapisarda era il sovrano.
Grazie a tali convergenze l’uomo, che è anche rappresentante di un’associazione che rimanda all’organo di governo del Rito Scozzese Antico ed Accettato, sarebbe riuscito a turbare un’asta giudiziaria e rientrare in possesso di un complesso industriale. Vicende per le quali Rapisarda è stato condannato a due anni e otto mesi in appello, dopo essere stato assolto in primo grado.
Per spiegare perché la vicinanza agli Ercolano avrebbe rappresentato un buon biglietto da visita agli occhi di Mancuso, i magistrati ricordano invece l’amicizia che lega il boss di Limbadi ad Aldo Ercolano, nipote del capomafia Nitto Santapaola e condannato all’ergastolo per diversi omicidi, tra cui quello del giornalista Giuseppe Fava.
[...]
l capitolo più misterioso della biografia di Francesco Rapisarda risale, però, a tempi più remoti. Si tratta di una vicenda in cui, in prima battuta, venne tirato in ballo insieme al fratello Carmelo, per poi uscire di scena: il duplice delitto della Megara.
È il 30 ottobre 1990 quando, nella zona industriale di Catania, l’auto su cui viaggiavano Alessandro Rovetta e Francesco Vecchio – amministratore e dirigente della più grande acciaieria di Sicilia – viene crivellata di colpi da un commando che, per gli investigatori dell’epoca, agì con «tecniche quasi militari».
Ad oggi non esistono colpevoli e l’indagine per tre volte è finita sul binario morto della richiesta di archiviazione. L’ultima attende il responso del gip, chiamato a valutare l’opposizione dei parenti delle vittime, convinti che non tutto il possibile sia stato fatto.
Sullo sfondo di questa storia c’è posto non solo la criminalità organizzata. Il 5 novembre 1990 una telefonata all’Ansa di Torino annunciò l’esecuzione di Rovetta e Vecchio per conto della Falange Armata, la sigla che ha accompagnato parte dei misteri italiani dagli anni Novanta in poi – dai delitti della Uno Bianca alle stragi – e che sarebbe sorta all’interno della settima divisione del Sismi, il servizio segreto militare. Di fatto, il duplice omicidio della Megara fu la seconda rivendicazione nella storia della Falange.
A mancare finora è stato anche il movente. L’acciaieria da tempo era nella morsa del racket e, con all’orizzonte una ristrutturazione miliardaria, Cosa nostra avrebbe avuto tutto l’interesse a evitare il clamore di un delitto eccellente.
È tra questi punti interrogativi che, a metà anni Novanta, compaiono sulla scena i fratelli Rapisarda: entrambi attivi nell’indotto della Megara, a citarli è il collaboratore di giustizia Giuseppe Ferone. Secondo il quale, Vecchio sarebbe stato ritenuto colpevole della riduzione di commesse a favore di una delle loro ditte e per questo destinatario di un’estorsione da parte degli emissari di un clan locale, a loro volta vicini ai Rapisarda.
[...]
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Presumo ricordiate la storia del vigile urbano di Sanremo sorpreso a timbrare il cartellino in mutande. Ne scrissero tutti i giornali con entusiastico corredo della prova documentale: la foto dell’uomo in slip, evidentemente pronto a rituffarsi fra le lenzuola in orario di lavoro. Era il 2015. Il vigile e la sua immagine divennero i simboli dell’Italia imbrogliona e nullafacente, su cui noialtri riversammo vibrante indignazione dall’alto della nostra statura morale. Tuttavia erano sufficienti cinque minuti per appurare che la casa del vigile, il suo ufficio e la timbratrice erano tutti nello stesso edificio. Il vigile si alzava alle 5.30, timbrava il cartellino, apriva i cancelli del mercato ortofrutticolo, di cui era custode, e cominciava la giornata. Bastava porre una domanda, ma a nessuno venne in mente. Così ci sono voluti cinque anni: nel 2020 il vigile è stato assolto, e forse sarà la mia negligenza, oppure che le cronache ne hanno dato notizia nell’angolo in basso, senza approfondimenti sui guasti di certe inchieste, giudiziarie e giornalistiche, ma io lo ignoravo. L’ho scoperto ieri quando è stato stabilito – a carico del comune di Sanremo, che licenziò il dipendente dalla sera alla mattina – un risarcimento danni di 227 mila euro. Un’ultima annotazione: a fornire ai giornali la foto, con cui il vigile è stato messo in ridicolo e alla gogna in tutta Italia, furono gli inquirenti. Però lo sappiamo: la magistratura è santa e non si tocca. E come al solito a noi delle redazioni importa poco di essere rimasti senza le mutande del diritto di cronaca: possiamo sempre coprirci le vergogne con il famoso bavaglio. (Mattia Feltri)
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Se invece non c’è più nulla si può ricostruire, magari in fretta e, per l’emergenza, senza troppe regole e troppi controlli. Le nostre aziende sono pronte. Gli (im)prenditori, già assuefatti ed esperti delle nuove semplificazioni messe in atto in molti settori anche in un Paese ad alta corruzione come l’Italia, non avranno difficoltà. E anche l’esperienza di convivere con qualche mafietta locale, è ormai acquisita. D’altra parte lo suggerì un esponete di Governo di non molto tempo fa che con le mafie occorreva convivere. E chi, come Libero Grassi, non ne volle sapere si consegnò al martirio mentre le inchieste giudiziarie su quelle convivenze non hanno sinora dato alcun risultato. D’altra parte, e non è da oggi, il settore metalmeccanico nazionale si regge, in gran parte, sul reparto bellico. Volete che non tragga qualche beneficio anche da quello della ricostruzione? Sì, effettivamente c’è una variabile che si tende a sottovalutare o proprio a non considerare. Nel percorso, migliaia di esseri umani vengono sacrificati. Ma è necessario al trionfo del mercato. Senza il quale il mondo va in crisi. Se non riparte l’economia interi popoli andranno in sofferenza. Ce la vendono così e così trionfa l’economia del profitto, senza etica, senza morale, indifferente alle sorti di gran parte dell’umanità (la più povera) e dell’ambiente. Vite, storie, rapporti, ambiente, natura, diritti, libertà, giustizia, uguaglianza sono parole ignote all’algoritmo della crescita dell’economia e del mercato. Sì, perché ora non ci sono neppure più le facce, c’è l’algoritmo a sgravare le coscienze. In attesa che comandi l’intelligenza artificiale e i cuori delle persone si atrofizzino per mancato uso. Possiamo, può l’umanità accettare tutto questo? Fino a quando permetteremo che abusino della nostra pazienza? Fino a quando non incroceremo una politica capace di opporsi a livello globale al dominio di questo progetto di morte del pianeta e della nostra specie? Quando organizzeremo una seria opposizione al sistema nel quale siamo costretti a vivere nella certezza della negazione di un futuro per i nostri figli? Quante guerre dovremo ancora tollerare spinti a considerarle giuste quando siamo consapevoli che nessuna lo è? Quando vedremo muoversi un movimento capace di opporsi a tutto ciò, in ogni angolo del pianeta? Intanto lo sfregio continua e l’ultima aberrante proposta arriva dalla Commissione Europea che con l’Action Support of Ammunition Production vuole addirittura consentire di utilizzare parte dei fondi del PNRR per fabbricare munizioni che vadano a rimpiazzare quelle inviate, e utilizzate, in Ucraina, per rimpinguare le scorte di armamenti svuotate dal conflitto. Nel Piano che ha come fondamenti la transizione verde, quella digitale e la resilienza, si configurerebbero in quest’ultimo capitolo. La Resilienza passa dunque dalla guerra? Preferiamo rilanciare a gran voce, fino a urlarlo, che «si svuotino gli arsenali, si riempiano i granai», richiamando il Parlamento e gli italiani alla Costituzione e al suo ripudio della guerra «come aggressione e come mezzo per risolvere i problemi fra gli Stati» dove quel “l’Italia ripudia” non ammette né incertezze né interpretazioni.
L’Ucraina e il cantiere perverso
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Controcampo: Il Ruolo dei Media negli Attacchi alla Magistratura – Una Questione di Interesse?
Analisi critica delle motivazioni e degli obiettivi dietro le frequenti critiche alla magistratura da parte della stampa.
Analisi critica delle motivazioni e degli obiettivi dietro le frequenti critiche alla magistratura da parte della stampa. Alcuni giornali portano avanti un’opera di critica costante verso la magistratura, sollevando dubbi sulla legittimità delle inchieste e sulla politicizzazione delle azioni giudiziarie. Articoli recenti dipingono i magistrati come attori influenzati, suggerendo che le loro…
#articoli di cronaca#credibilità istituzioni#critiche#delegittimazione#difesa politica#Giornalismo#Giustizia#indipendenza giudiziaria#Informazione#Italia#Magistrati#Magistratura#manipolazione mediatica#Media#Opinione pubblica#polarizzazione#Politica#stampa e giustizia#teoremi magistratura
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“Indubbiamente l’attacco alla giurisdizione non è mai stato così forte, forse neppure ai tempi di Berlusconi. In ogni caso oggi è un attacco molto più pericoloso e insidioso per molte ragioni.
Innanzitutto perché Meloni non ha inchieste giudiziarie a suo carico e quindi non si muove per interessi personali ma per visioni politiche e questo la rende molto più forte. E rende anche molto più pericolosa la sua azione, avendo come obiettivo la riscrittura dell’intera giurisdizione e non semplicemente un salvacondotto.
In secondo luogo perché la magistratura è molto più divisa e debole rispetto ad allora. E isolata nella società. A questo dobbiamo assolutamente porre rimedio. Possiamo e dobbiamo farlo. Quanto meno dobbiamo provarci. Sull’isolamento sociale non abbiamo il controllo ma sul tema della compattezza interna possiamo averlo. Non è accettabile chinare le spalle ora o che qualcuno si ritagli uno spazio politico ai danni dell’intera magistratura.
In terzo luogo la compattezza e omogeneità di questa maggioranza è molto maggiore che nel passato e la forza politica che può esprimere è enorme e può davvero mettere in discussione un assetto costituzionale ribaltando principi cardine che consideravamo intangibili. Come corollario di questa condizione politica, anche l’accesso ad un informazione decente è ancora più difficile dell’era di Berlusconi.
Quindi il pericolo per una magistratura ed una giurisdizione davvero indipendente è altissimo. Dobbiamo essere uniti e parlare con chiarezza. Non dobbiamo fare opposizione politica ma dobbiamo difendere la giurisdizione e il diritto dei cittadini ad un giudice indipendente. Senza timidezze.
Dobbiamo pretendere che il Csm apra un dibattito al proprio interno e deliberi una reazione chiara e netta. Che anche l’Anm mostri il proprio approccio unitario e fermo. Ieri ho sentito un buon Santalucia, pacato ma piuttosto chiaro. Vorrei che si sentisse chiaramente che rappresenta tutta la magistratura.
Non possiamo fare molto ma essere uniti, tenere la schiena dritta e parlare con chiarezza questo sì”.
(Questa è l'e-mail integrale che il sostituto procuratore della Cassazione ha inviato, pubblicamente, ad alcuni suoi colleghi).
Questo è ciò che ha capito la Meloni!
A Nordio: sono i giudici che non capiscono le sentenze scritte in francese, o è questo governo che non capisce le e-mail, benché scritte in italiano?
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Meloni oggi è un pericolo più forte di Berlusconi... una frase di una gravità assurda..
De Ficchy Giovanni https://twitter.com/GiorgiaMeloni/status/1847966831367098460 “’Meloni non ha inchieste giudiziarie a suo carico e quindi non si muove per interessi personali ma per visioni politiche e questo la rende molto più forte, e anche molto più pericolosa la sua azione (…)’. Così un esponente di Magistratura democratica”. Con questa mail si conferma nuovamente la propensione di una…
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Applicato il Daspo ad agrigentino coinvolto in diverse inchieste su traffico di droga
Applicato il Daspo ad agrigentino coinvolto in diverse inchieste su traffico di droga Nuovi guai giudiziari per Andrea Puntorno, 47 anni, ex capo ultras della Juventus e già coinvolto... #SiciliaTV #SiciliaTvNotiziario Read the full article
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Nel Pd exploit per Decaro: più votato tra i dem. Vannacci spinge la Lega Giorgia Meloni, come era facile pronosticare, è la primatista assoluta di consensi personali di queste elezioni europee. Mancano dati ufficiali, ma è stimata oltre i 2 milioni di preferenze, essendosi candidata come capolista in tutte e cinque le circoscrizioni. La premier però non andrà a Strasburgo e cederà il suo seggio ad altri componenti della liste. E nonostante l’ottima performance personale non supera il primato di consensi personali stabilito da Silvio Berlusconi nel 1999: tre milioni di voti. E non dovrebbe superare nemmeno i 2,35 milioni di preferenze raccolte da Matteo Salvini alle scorse europee del 2019 È invece il sindaco di Bari Antonio Decaro il più votato nel Pd alle Europee. Al Sud - dove è il Pd è primo partito, con circa un punto percentuale di vantaggio su Fratelli d’Italia - Decaro incassa oltre 490mila voti (di cui 350mila in Puglia), più della capolista Lucia Annunziata, che ne raccoglie circa 240mila preferenze. Segue il governatore dell’Emilia Romagna e presidente del Partito Democratico Stefano Bonaccini, che sfiora i 380mila voti, di cui 250mila nella sua regione. La capolista al Nord Ovest Cecilia Strada raccoglie circa 260mila voti. La segretaria Elly Schlein, candidata al Centro e nelle Isole ottiene oltre 200mila voti (in questo caso mancano all’appello i voti di oltre 2mila sezioni). Sotto la soglia psicologica del 10%, il risultato della Lega (al 9,1%, in leggera ripresa rispetto all’8,8% delle scorse politiche) è trainato dal generale Roberto Vannacci. Candidato in tutte le circoscrizioni, il generale raccoglie oltre mezzo milioni di voti, circa 180 mila al Nord Ovest, 138mila a Nord Est, 94mila al Centro, 71mila al sud e circa 35mila nelle Isole. Nel Pd, è exploit del sindaco di Bari Antonio Decaro. Le inchieste giudiziarie per voto di scambio, che hanno coinvolto la giunta Emiliano, non hanno intaccato la popolarità del candidato, a cui l’elettorato ha attribuito nella circoscrizione dell’Italia meridionale quasi 500mila. Solo in Puglia ha ottenuto circa 350mila preferenze quando mancano poche sezioni per completare lo scrutinio. Decaro trascina l’intero partito a un risultato sorprendente: la Puglia diventa la seconda piazzaforte «rossa» (33,6%) dopo l’Emilia Romagna (36,1%) e prima della Toscana (31,9%). Il primo cittadino di Bari prende il doppio dei voti dell’altra big per Ilaria Salis 165mila voti in lista al Sud, Lucia Annunziata. Ilaria Salis fa il pieno di preferenze nelle due circoscrizioni dove è candidata con Avs (6,6%), il Nord-Ovest, dove è capolista, e le Isole. Quando mancano ancora i dati di poche centinaia di sezioni, l’attivista agli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico a Budapest, supera i 164mila voti. Ed è eletta perciò al Parlamento europeo Prima le donne: nella classifica delle preferenze alle europee nella circoscrizione del Nord Ovest sono loro ad aver ottenuto il primato. Prima assoluta con 582.565 voti è la premier Giorgia Meloni (379.253 nella sola Lombardia), seguita dalla capolista PD Cecilia Strada con 248.126 (157.638 in Lombardia). Terzo l’ormai ex sindaco di Bergamo Giorgio Gori che sfiora i duecentomila voti, per l’esattezza 193.885, di cui 161.945 nella sua regione. A quota 176.622 Roberto Vannacci candidato dalla Lega, ma supera quota centomila preferenze anche Ilaria Salis. L’attivista ha ottenuto 110.130 preferenze, di cui 64.839 in Lombardia. Sfiora il tetto dei centomila Antonio Tajani con 98.620 preferenze, mentre Letizia Moratti, la presidente della consulta di Forza Italia ne incassa 36472 (29.790 a Milano dove è stata sindaco).
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Scandali e affluenza alle urne. «La politica ha perso credibilità»
Voto di scambio. Favori. Correnti. Commenti al vetriolo lanciati tramite le pagine dei giornali e nei palazzi del potere. Le ultime inchieste giudiziarie hanno scosso la politica italiana da nord a sud. Tra le fila del Partito democratico si è parlato persino di commissariamento dei vertici. E ora si teme che l’eco della “questione morale”, che in Piemonte fa riferimento all’inchiesta che…
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Camera, respinta la mozione di sfiducia contro Santanchè
Camera, respinta la mozione di sfiducia contro Santanchè. La Camera ha respinto con 213 no, 121 sì e 3 astenuti la mozione di sfiducia presentata dal M5S e sottoscritta da tutte le opposizioni (ad eccezione di Italia Viva), contro Daniela Santanché. La ministra del Turismo non era presente nell'Aula di Montecitorio per impegni legati al suo ruolo istituzionale. Le opposizioni ne avevano chiesto le dimissioni dopo le inchieste giudiziarie sulle sue attività imprenditoriali con le società Visibilia, Bioera e Ki Group. Ieri, sempre alla Camera, è stata respinta anche la mozione di sfiducia contro Salvini per i rapporti della Lega con Russia Unita: 129 i sì, 211 i no e 3 gli astenuti. Sempre ieri è cominciata la discussione in Aula sulla mozione di sfiducia contro la ministra. Emma Pavanelli, deputata M5S, è stata la prima a prendere la parola sottolineando più volte l'assenza di Santanchè nell'aula di Montecitorio e puntando il dito contro «l’assordante silenzio del governo e di Fratelli d’Italia». «Evidentemente la maggioranza ha preferito tenerla nascosta», ha detto la deputata pentastella. “Votiamo no alla sfiducia a Santanché perché basata sulle indagini giudiziarie che la riguardano. E noi non chiediamo le dimissioni per un avviso di garanzia o per un rinvio a giudizio. Il garantismo è tale se si applica a tutti, soprattutto agli avversari. Facile fare i garantisti con gli amici: la vera sfida è essere garantisti con gli avversari", scrive su X il leader di Italia Viva Matteo Renzi. "Daniela Santanché ministra ha fallito e noi la contestiamo sul piano politico. Ma noi non usiamo le indagini per attaccarla. A differenza di quello che ha sempre fatto la stessa Santanchè che ha chiesto in carriera le dimissioni di 18 ministri, tra cui tutti i nostri amici - aggiunge -. Noi siamo profondamente diversi dalla Santanchè e da chi vive con la doppia morale. O da chi si professa custode autonominato di uno stato etico. Votiamo no alla sfiducia basata sul giustizialismo”. Il comportamento di Santanchè è un «disonore per le istituzioni», secondo il leader del M5S Giuseppe Conte del M5S: «Garantismo per cosa? Qui la garanzia è che si stanno disonorando le istituzioni», ha detto al presidio dell'agenzia Agi ribattendo al commento di Italia Viva riguardo al garantismo sul caso Santanchè.«Il garantismo è una cosa seria non lo invochiamo fuor di luogo. Ci sono garanzie costituzionali che riguardano i processi e che vanno garantite a tutti gli imputati e gli indagati ma è una cosa ben diversa. Qui stiamo parlando di responsabilità politica, di opportunità», ha aggiunto Conte.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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C’è una convergenza di interessi tra mafiosi ed estremisti di destra su alcuni delitti eccellenti e stragi, manovrata da una regia ancora occulta che mette in collegamento Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e terroristi neri. Storie macchiate dal sangue di vittime innocenti su cui si attende ancora una verità, non solo giudiziaria ma anche politica. Il tema centrale, come scrivono i giudici della Corte d’assise di Bologna nell’ultima sentenza sulla strage del 2 agosto, “è il collegamento tra Cosa Nostra, l’eversione terroristica di destra e i collegamenti con il gruppo di potere coagulatosi intorno alla P2 e a Licio Gelli“. Ci sono una serie di legami che dimostrano che tra i “neri” dei Nuclei armati rivoluzionari, di cui faceva parte anche Massimo Carminati, e Cosa Nostra, vi fossero scambi operativi, “mediati da altri soggetti”. Le inchieste giudiziarie documentano come in diverse vicende i boss calabresi sono andati a braccetto con i neri. E comprendere lo sviluppo di questo intreccio è compito pure della Commissione parlamentare antimafia. Lo scorso aprile sono state rese pubbliche le motivazioni della sentenza della Corte d’assise di Bologna, da cui si legge che è stato un attentato, quello del 2 agosto 1980 alla stazione, eseguito da neofascisti. I giudici mettono in collegamento la strage con l’omicidio a Palermo del presidente della Regione, Piersanti Mattarella, fratello del Capo dello Stato. Per quel delitto sono stati assolti i neri Fioravanti e Cavallini. Nel processo di Bologna sono stati recuperati elementi che hanno indotto i giudici a ritenere che “l’eliminazione di Mattarella dopo quella di Aldo Moro, al quale si apprestava a succedere, secondo ragionevoli interpretazioni della fase storica, era indispensabile per eliminare un irriducibile ostacolo ai piani della P2 e al contempo a quelli di Cosa nostra, convergenti sull’obiettivo data l’azione che Mattarella aveva avviato in Sicilia per sottrarre il suo partito all’alleanza con la mafia”. I sicari di Mattarella non hanno ancora un nome, ma sono stati condannati come mandanti i componenti della cupola. I neri rivendicarono il delitto: “Qui Nuclei Fascisti Rivoluzionari, rivendichiamo l’uccisione dell’onorevole Mattarella in onore ai caduti di Acca Larentia”. Seguita da comunicati di rivendicazione di Br e Prima linea ritenuti depistanti, quasi a correggere quella prima incauta rivendicazione. L’assoluzione in primo grado nel 1995 scaturisce dalle dichiarazioni di Buscetta e Marino Mannoia, i quali assicuravano che i killer erano uomini di Cosa Nostra, senza tuttavia saperli identificare. Fioravanti e Cavallini erano stati processati in base alle accuse rivolte da Cristiano Fioravanti, fratello di Valerio, che li indicava come autori dell’agguato; la testimonianza della moglie di Piersanti Mattarella che vide in faccia il killer e ne descrisse l’andatura ballonzolante di Fioravanti; e infine la presenza di Valerio Fioravanti a Palermo nei giorni in cui Mattarella fu ucciso. Su questo delitto la procura della Repubblica di Palermo sta ancora indagando. E poi c’è lo stesso modello di pistola che uccide Mattarella e il giudice Mario Amato, organizzato e portato a termine dai terroristi dei Nar. In questo caso spara Gilberto Cavallini. La perizia sulla pistola risulta “coincidente” con quella utilizzata per uccidere Mattarella. Ci sono “punti di collimazione” e poi la Colt utilizzata dai “neri” per uccidere Amato aveva “un difetto di funzionamento”, come quella che i testimoni oculari hanno detto per l’arma utilizzata nell’agguato al presidente della regione siciliana. Gli specialisti del Racis dei carabinieri sono riusciti a comparare i proiettili dell’omicidio Mattarella con la Cobra usata dai Nar a Roma. Il risultato è “coincidente”: significa che c’è una probabilità molto alta che l’arma sia la stessa. Sulla saldatura tra mafia e Nar indagava pure Giovanni Falcone, lui non era il solo a credere nella pista “fascio-mafiosa”. La commissione antimafia presieduta da Bindi ha tolto il segreto alla relazione sul delitto Mattarella del 1989 firmata Loris D’Ambrosio, allora in servizio all’Alto commissariato, in cui spiega che “l’inesistenza di piste mafiose per gli autori materiali non implica, sia ben chiaro, l’esclusione della matrice mafiosa dell’omicidio”. Per D’Ambrosio non era solo mafia. Mattarella viene ucciso come “nemico dell’anti-Stato”. E proprio la scelta di affidare l’esecuzione a terroristi neri permette ai capi di Cosa Nostra di “disorientare l’opinione pubblica e l’apparato investigativo” e dimostrare “alla stessa organizzazione quanto devastante ed estesa sia la capacità di espansione e controllo che l’anti-Stato è in grado di esercitare”. Una storia fascio-mafiosa che è materia per un’attenta inchiesta di una commissione parlamentare. Magari quella dell’Antimafia.
Dal delitto Mattarella alla strage di Bologna: la trama oscura che lega mafia e terrorismo nero - Lirio Abbate – repubblica.it
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Mafia a Bari, Fiorello ironizza: "In città 14 clan, faranno primarie per decidere chi comanda"
I fatti di Bari sono veramente incredibili”. Introduce così Fiorello l’argomento di cronaca legato alle vicende del Comune di Bari, durante la sua trasmissione Viva Rai 2. Il conduttore, nella puntata di questa mattina, ha parlato del caso legato alle inchieste giudiziarie baresi che hanno indotto il Governo a nominare una commissione per verificare l’ipotesi di scioglimento dell’amministrazione…
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È passato un ventennio da quel San Valentino del 2004 in cui il ciclismo perse il Re delle Montagne: Marco Pantani. A 34 anni, il Pirata salì per l'ultima volta sulle sue amate due ruote, lasciando un vuoto irrimediabile nel cuore degli appassionati. Oggi, a due decenni di distanza, ripercorriamo la straordinaria carriera di Pantani, il più grande scalatore puro di sempre, che ha scritto pagine indelebili nella storia del ciclismo italiano. Marco Pantani, originario di Cesenatico, era molto più di un campione; era l'incarnazione del ciclismo come lo immagina un bambino. Con il suo stile spettacolare, Pantani è stato l'ultimo a vincere Giro d'Italia e Tour de France nello stesso anno, un'impresa compiuta nel 1998 che ha segnato un'epoca. La sua popolarità era travolgente, un romanzo popolare scritto su strade di montagna e salite epiche. Il rapporto di Pantani con la montagna era ancestrale. Fin da giovanissimo, giocava con il suo talento devastante, sfidando la gravità e salendo le vette con una leggerezza magica. Nel Giro d'Italia del 1999, dopo un incidente che gli fece perdere il gruppo, Pantani rimontò 49 avversari, arrivando da solo con le braccia alzate al Santuario di Oropa, regalando uno spettacolo indimenticabile, come documentato dalla foto di Roberto Bettini che fa parte della mostra fotografica "Il Giro. Una Storia d'Italia" a cura dell'Archivio Riccardi, esposta al Museo di Roma in Trastevere nella primavera del 2023. Paragonare Pantani a altri scalatori leggendari è difficile, ma la sua grandezza risiedeva nella capacità di prendere a pugni sia le montagne che gli avversari. Era un artista della salita, unico nel suo genere. La sua storia umana, segnata da tragedie personali e vicende giudiziarie, ha contribuito a creare un'aura di eroismo tragico attorno al Pirata. Il suo addio prematuro il 14 febbraio 2004 è stato un colpo al cuore del ciclismo. Le inchieste e le controversie non hanno offuscato il ricordo di Pantani, che continua a emozionare anche a distanza di anni. Il ciclismo italiano, alla ricerca di un nuovo punto di riferimento, sente ancora la mancanza di Marco Pantani che, con le sue gesta, ha reso ogni sua vittoria un'impresa epica e ogni salita un palcoscenico per le emozioni. Il ricordo di Marco Pantani, il Pirata delle due ruote, rimane un omaggio alla grandezza dell'atleta e alla sua capacità unica di vincere emozionando. Vent'anni senza Pantani, ma il suo spirito vive ancora sulle strade delle montagne che amava scalare.
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