#celebrazione poetica
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pier-carlo-universe · 16 days ago
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"A Woman" di Zarina Boboqulova: un inno alla femminilità e all'amore eterno. Recensione di Alessandria today
Una poesia che celebra l’essenza della donna. Zarina Boboqulova, giovane poetessa nata il 1° marzo 2006 nella regione di Kashkadarya, offre una riflessione poetica profonda e toccante sull'importanza della donna nel mondo
Una poesia che celebra l’essenza della donna.Zarina Boboqulova, giovane poetessa nata il 1° marzo 2006 nella regione di Kashkadarya, offre una riflessione poetica profonda e toccante sull’importanza della donna nel mondo. “A Woman” è un inno alla femminilità, alla forza e alla bellezza intrinseca della figura femminile, un tema che emerge in ogni verso con intensità e delicatezza. Un viaggio…
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oltrearcobaleno · 25 days ago
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"SHE" di Miranda van der Spek: Un Anno di Cambiamento Celebrato in Natura
ll video recentemente presentato da Miranda van der Spek rappresenta una celebrazione visiva e sonora di un anno di attività del progetto SHE, un’iniziativa del collettivo Snowapple e di Ruigoord. Attraverso questo progetto, Miranda ha esplorato il tema del cambiamento in tutte le sue sfaccettature, portando le persone a riscoprire la natura e la musica in un connubio unico e suggestivo.
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Il video, frutto di un lavoro di documentazione e creatività, è stato girato durante una serie di eventi che si sono svolti immersi nella natura, in spazi verdi lontani dalla frenesia urbana. Ogni evento ha rappresentato un momento di connessione profonda tra le persone, l’ambiente naturale e l’arte musicale, tutti elementi che Miranda ha raggiunto viaggiando con il suo vecchio bus azzurro, ormai divenuto un simbolo itinerante del progetto SHE.
Un Viaggio di Riflessione e Cambiamento
Nel video, la voce fuori campo guida lo spettatore attraverso una narrazione poetica che esplora il concetto di cambiamento come un elemento inevitabile e necessario per la crescita personale e collettiva. Le parole in sovraimpressione evocano immagini di comunità, storia, natura e il movimento costante della vita. Il testo sottolinea come accettare il cambiamento sia fondamentale per progredire:
“Quando accettiamo il cambiamento, allora stiamo camminando in avanti. Quando neghiamo il cambiamento, restiamo fermi.”
Questa riflessione invita a non temere l’evoluzione, ma a vederla come una forza positiva che può rompere la stagnazione e portare a nuove opportunità. La vita è descritta come un fiume che scorre, sempre in movimento, capace di cambiare il paesaggio interno ed esterno, portando speranza e crescita.
Musica e Natura: Un Connubio di Trasformazione
La musica gioca un ruolo fondamentale nel progetto SHE. Ogni evento ha visto la partecipazione di musicisti e artisti che hanno collaborato con Miranda per creare un’atmosfera magica e immersiva. La scelta di portare la musica in spazi naturali ha permesso di riscoprire la bellezza del suono in connessione con l’ambiente, sottolineando ancora una volta il potere del cambiamento.
La natura stessa diventa protagonista nel video, con immagini di acqua, vento, erba e paesaggi che si trasformano continuamente. Il simbolismo del cambiamento è evidente anche nelle metafore utilizzate, come il piccolo uccello che si trasforma da uovo a nido, rappresentando il ciclo della vita e la crescita personale.
Un Omaggio a Cheryl Ann Angel e Shirley Krenak
Il progetto SHE è anche un omaggio a due figure femminili ispiratrici: Cheryl Ann Angel e Shirley Krenak. La loro lotta e il loro impegno per la giustizia sociale e ambientale sono stati una fonte di ispirazione per Miranda van der Spek e per tutti i collaboratori del progetto. Il video diventa così non solo una celebrazione del cambiamento, ma anche un atto di riconoscenza verso chi lotta per rendere il mondo un posto migliore.
Un Invito al Cambiamento Collettivo
Il messaggio finale del video è un invito chiaro: abbracciare il cambiamento come parte integrante della vita. Le parole conclusive incoraggiano a non resistere al flusso, ma a muoversi insieme a esso, proprio come un fiume che scorre verso nuove direzioni.
“Cambiamo le acque interne. Cambiamo le acque esterne. Fluiamo come un fiume. Andiamo avanti come un fiume.”
Questa chiamata all’azione non è solo individuale, ma collettiva. Ogni persona, ogni comunità può contribuire a creare un mondo in cui il cambiamento sia visto come una forza di rinnovamento e speranza.
Conclusioni: Un Viaggio che Continua
Il video di Miranda van der Spek non è solo una testimonianza di un anno di attività, ma un inno al potere trasformativo del cambiamento. Attraverso la musica, la natura e la connessione umana, il progetto SHE ha dimostrato che il cambiamento è non solo possibile, ma necessario per costruire un futuro migliore.
Il vecchio bus azzurro di Miranda continuerà il suo viaggio, portando con sé la musica, l’arte e il messaggio che il cambiamento può essere il primo passo verso una vita più consapevole e autentica.
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elmas-66 · 2 months ago
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Interconnessione poetica, dal virtuale alla realtà grazie alla poesia che unisce le anime speciali del mondo come dall'esemplare incontro di celebrazione con assegnazione di medaglia culturale dall'Utopia Poetica Mundial presidente Manuel Estrella Ekiwa e consegnato dalla presidente del Perù Luisa Camere Quiroz che ringrazio per il reportage, pubblicazione di Elisa Mascia -Italia
Foto cortesia dell’evento culturale Da Luisa Camere Quiroz – PerúGli incontri poetici sono continuati ma, con un tono diverso, è stata una giornata di ritrovi e di incontri di persone.  Non più attraverso un vetro ma era una realtà, cuore a cuore, pelle a pelle.  Oggi ho avuto l’opportunità di incontrare di persona Marita Troiano e Rocio Cardoso, originaria dell’Uruguay e in visita in Perù, e le…
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valentina-lauricella · 7 months ago
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Dal prof. Giovanni Giolo
L’ULTIMO LEOPARDI E LA GINESTRA
Benedetto Croce giudica la poesia di Giacomo Leopardi in base alla sua teoria estetica “poesia/non poesia” e condanna la sua posizione pessimistica, che attribuisce alla sua “vita strozzata”: si sentì premuto, avvinto e sopraffatto da una forza brutale, da quella che egli chiamò la “nemica natura”, che gli spezzò gli studî, gli proibì i palpiti del cuore, e lo rigettò su se stesso, cioè sulla sua offesa base fisiologica, costringendolo a combattere giorno per giorno per sopportare o lenire il malessere e le sofferenze fisiche che lo tormentavano invincibili. Questa “forza brutale”, questa violenza e questa sopraffazione, secondo il critico, scavarono in fronte a Leopardi quel “solco di dolore e di nobiltà”, per il quale fu ben presto riconosciuto in Europa come essere assunto nella pleiade degli altri spiriti straziati e sconsolati.
Bisogna però riconoscere che il pessimismo leopardiano coesiste con una natura schietta e nobile, trepida, aperta alla vita, al desiderio e alla speranza. La condanna di Croce è duplice e riguarda non solo la poesia ma anche il suo pensiero filosofico, in quanto, per lui, “ la filosofia non è né pessimistica né ottimistica”. Ottimismo e pessimismo rispecchiano stati d’animo e umori personali, sono interpretazioni soggettive di circostanze e situazioni della realtà: *la filosofia, in quanto pessimistica od ottimistica, è sempre intrinsecamente pseudofilosofia* e Leopardi non offre se non sparse osservazioni, non approfondite e non sistemate: a lui mancava disposizione e preparazione speculativa, e nemmeno nella teoria della poesia e dell’arte, sulla quale fu condotto più volte a meditare, riuscì a nulla di nuovo e importante, di rigorosamente concepito. Ma per Leopardi il male e il dolore non erano “sparse osservazioni non approfondite e non sistemate”, erano “la sostanza di tutta la filosofia” (Operette Morali, dialogo di Timandro ed Eleandro).
Il 1947 è l’anno in cui il panorama critico cambia radicalmente per opera di Walter Binni (La nuova poetica leopardina) e di Cesare Luporini (Leopardi progressivo). La poesia del recanatese viene vista, al contrario di Croce, come tensione speculativa, esaltazione del vitalismo e dell’agire come supremo rimedio alla noia, disprezzo della politica e celebrazione del nulla (Leopardi è, come nota Karl Vossler, il religioso amante del nulla). Ne nasce un nesso sempre più stretto, nel periodo post-fiorentino e in quello napoletano, fra poesia e pensiero, che segna il suo apice nella Ginestra. Leopardi è un intellettuale legato al materialismo illuministico (per questo il tergo / vigliaccamente rivolgesti al lume / che il fe’ palese) che lo induce a invitare gli uomini, come in un estremo appello messianico, ad allearsi “in social catena” contro la natura madre di parto e di voler matrigna. Ma, giustamente notano i critici, il nesso poesia-pensiero era presente già nelle canzoni del ’21-‘22 fino alla rottura del concetto di natura benefica che trova la sua proclamazione nell’Ultimo canto di Saffo.
Cesare Luporini sostiene che Leopardi sia un filosofo “moralista” “ed è soltanto sotto questo riguardo che egli conta”, “non è un filosofo tecnico della politica e della società”, anzi si oppone a chi vuol considerarlo un filosofo politico “tra i massimi del nostro Ottocento”, come Luigi Baldacci. Andrea Rigoni inoltre lo paragona ai veri teorici della politica e della società quali Rousseau, Montesquieu, Tocqueville e Schmitt. Altri, in effetti, potrebbero sostenere, alla stessa stregua, che Leopardi sia un metafisico e un filosofo dell’estetica, visto che la sua “riflessione storico-politica risulta coordinata e solidale” con quella metafisica ed estetica.
Ma Croce rifiuta questo giudizio e nota che in questo campo egli non approdò ad alcun risultato. Ma la critica successiva lo dichiara sia poeta che filosofo moralista e afferma che come moralista è il più grande che l’Italia possa vantare, come Nietzsche è il più grande moralista che possa vantare la Germania. Può Croce confutare la tesi leopardiana – si chiede Sossio Giametta - del male e del dolore della vita, della vanità e della nullità dell’esistenza? Può negare l’eterna distruzione ad opera della natura dei suoi figli e di tutte le cose umane: giovinezza, salute, bellezza, speranza, affetti, gloria, virtù, poesia? Certamente no: tutto questo è inconfutabile, e inconfutabile è il destino di miseria, vecchiaia, malattia e morte di tutti gli esseri.
Nel ’21 Leopardi si chiede: come si fa la poesia? E risponde che gli spiriti sommi potranno vincere qualsiasi ostacolo ed essere sommi poeti e sommi filosofi, anche se questo accade molto raramente. Nel ’23 sostiene che la poesia cerca il bello e la filosofia il vero e che il bello e il vero si conciliano nel grande filosofo e nel grande poeta. Nel periodo napoletano il poeta acquista maggior sicurezza di sé e le Operette morali concludono l’esperienza di un’altissima prosa poetica in chiave autobiografica-filosofico-etica che decreta il fallimento delle illusioni ed esprime il rimpianto dell’essere vissuto invano e il mito dolce-amaro della ricordanza. L’ultimo Leopardi della *Ginestra* si misura sul presente, si erge in lotta col suo tempo, con il secol superbo e sciocco, sente la sua infinita superiorità rispetto alla filosofia ottimistica e spiritualista dei *nuovi credenti,* è cosciente *di possedere un senso più alto della vita e approda a una concezione eroica della poesia, come detentrice di una verità diversa e superiore rispetto all’egoismo, all’utilitarismo e alla vuota retorica verbosa ed inerte, alla viltà di fronte alla morte e al Dio crudele: *sempre / codardi e l’alme / ingenerose, abbiette, / ebbi in dispregio.*
Nel ’36 rivendica l’originalità della sua filosofia che si oppone “ai preti, i quali qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto." Nella Ginestra il pensiero leopardiano acquista una nuova ed estrema sicurezza di persuasione della assolutezza della sua verità. Egli si proclama illuminista, materialista, ateo e deride i sogni e i deliri della mente umana. Per lui l’uomo è il corpo, la materia sente e pensa, lo spirito è flatus vocis e nella materia *tutto* è male. Le sue “persuase” certezze sono la caducità e la fragilità dell’uomo, l’infinita vanità del tutto, la malvagità della natura, il naturale egoismo dell’uomo e l’opposizione degli uomini dabbene *contro la lega dei birbanti.*
Egli entra in polemica con gli intellettuali del suo tempo arretrati e *regressivi* (nella Ginestra li chiamerà astuti o folli), mentre nella Palinodia denuncia: *sempre il buono in tristezza, il vile in festa / sempre e il ribaldo.* Leopardi appare uno “sradicato”, un “ribelle”, un “democratico” per la sua scelta dello “stato franco” di una repubblica fondata sulla sovranità popolare che nella Ginestra diviene una organizzazione comunitaria di tanti uomini confederati nella lotta con la *inimica natura*. Egli da malpensante, come dice Leporini, è su un’onda più lunga degli uomini del suo tempo. La Ginestra, la più grande poesia dell’epoca moderna, può essere paragonata ai massimi capolavori dell’umanità per l’assoluta tenuta di ritmo, per la sconvolgente impetuosità, per l’invito a una gioia che è libertà e fraternità fra tutti gli uomini. Come scrive Natalino Sapegno: “Nella Ginestra il lirico, il solitario, maturatosi attraverso la passione, si è fatto degno di parlare ai fratelli, di erigersi profeta di una civiltà e umanità nuova. Anche il linguaggio è veramente nuovo, non il linguaggio vago, indefinito, tenero, nostalgico degli Idilli, ma una lingua intensa e vibrante, una sintassi concitata e piena di spezzature, una musica senza morbidezze e squisitezze melodiche, energica e piena di slancio, una poesia che lascia l’impressione di un’esperienza tutta aperta, non esaurita nella immobile perfezione, ma protesa verso il futuro”. Il poeta presenta la ginestra come un modello per il comportamento dell’umanità. Essa, fiore gentile, soffre senza orgoglio e senza viltà il destino che le è dato in sorte, commisera i danni altrui e prova compassione per tutti i viventi dei quali condivide la sofferenza, la debolezza e la sorte mortale. Essa non si comporta come l’uomo che stolto, nato a perir, nutrito in pene, / dice ; - A goder son fatto, - / e di fetido orgoglio / empie le carte, eccelsi fati e nove / felicità, quali il ciel tutto ignora, / non pur quest’orbe, promettendo in terra /a popoli che un’onda / di mar commosso, un fiato d’aura maligna, un sotterraneo crollo / distrugge sì che avanza / a gran pena di lor la ricordanza. Il suo comportamento è ben diverso da quello degli intellettuali spiritualisti del tempo di Leopardi che si ritengono destinati alla felicità terrena e ultraterrana, non vogliono riconoscere la loro mortalità, la sofferenza, l’estrema debolezza di fronte alla catastrofi naturali come quella del Vesuvio nel 79 che distrusse Pompei, Ercolano e i paesi circostanti. Leopardi sa quanto questi intellettuali sono interessati alla collaborazione con le forze reazionarie del suo tempo che vogliono lasciare il volgo nell’ignoranza e gli propinano menzogne, volgo che ha il diritto di conoscere la verità, nulla al ver detraendo, che è il blasone araldico più alto di Leopardi, verità denunciata con forza dalla sua suprema poesia della estrema fase della sua esistenza: via la speranza, via la felicità, via le illusioni sulla natura e sulla natura degli uomini, che sono prodotti della natura e della natura portano in sé istinti bassi, crudeli, egoistici, via il passato spiritualistico, teocentrico, geocentrico, antropocentrico, via le ideologie che detengono il potere del suo tempo, ma la proclamazione del vero e dell’amore per gli uomini generosi e saggi in lotta con la natura.
“Il pessimismo cosmico di Leopardi – scrive Binni – raggiunge ormai la sua meta combattiva e propositiva in un’apertura verso il futuro, in una offerta di “buona, amara novella”, priva di ogni afflato trionfalistico, ma sostenuta da un’energica persuasione di una via stretta e ardua, chiusa nei limiti di un destino di morte e sofferenza, di rinnovate stoltezze, di catastrofi naturali e cosmiche: “eroica” nella sua volontà di resistenza e contrasto, di non rassegnazione, nel doveroso tentativo di rifondare nelle sue amare verità una *polis* comunitaria, nell’alleanza prioritaria tra i veri intellettuali, portatori di verità e volgo pieno di forze potenziali autentiche, ben capace di “virtù” (la parola moralmente suprema mai abbandonata da Leopardi)”. La Ginestra – conclude il critico – propone una lotta contro la natura, “lotta il cui successo non ha nessuna garanzia e che è tanto più doverosa proprio nella sua ardua difficoltà, mentre attualmente sull’umanità incombe la minaccia della catastrofe nucleare”.
(Gianni Giolo)
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carmenvicinanza · 1 year ago
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Nina Cassian
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Mi è toccato questo volto strano, triangolare, questo pan di zucchero o questa polena degna di navi corsare e capelli lunghi, lunari, sulla cresta…
E solo quando grido perché sbatto e solo quando il freddo si promana e solo quando il tempo di peccato m’imbratta, mi chiamano bella. Mi riconoscono umana.
Nina Cassian è una delle più importanti autrici romene del Novecento. 
Espressiva e potente, ha scritto oltre quaranta opere tra raccolte poetiche, libri per l’infanzia e traduzioni.
Nata col nome di Renée Annie Cassian-Mătăsaru, il 27 novembre 1924 a Galaṭi, figlia di uno stimato traduttore di classici, trascorse l’infanzia in Transilvania, per poi trasferirsi a Bucarest a metà degli anni Trenta. Nella capitale aveva studiato recitazione, pittura e pianoforte, affermandosi nell’avanguardia artistica del modernismo, di cui è stata un’importante esponente.
Nel 1945 ha pubblicato la sua prima poesia sul giornale România liberă, seguita a due anni di distanza dal volume La scară 1/1 definito decadente dalla critica ufficiale comunista che le impose, in un certo modo, di adeguarsi allo stile encomiastico richiesto dal regime.
Solo nel 1957 è tornata a una poesia svincolata dalla celebrazione ideologica.
Nel 1969 ha ricevuto il Premio dell’Unione degli Scrittori di Romania.
Nel 1985, invitata a tenere un corso di scrittura creativa all’Università di New York, decise di chiedere asilo politico perché era stata presa di mira dalla Securitate, la polizia segreta del dittatore Ceauşescu, per aver trascritto alcuni suoi versi compromettenti nel diario di un amico dissidente.
Dopo il trasferimento, la sua casa venne messa sotto sigilli, opere, documenti, dipinti furono requisiti e il suo nome venne cancellato dai libri di scuola, dalle storie letterarie e dalle antologie.
In una sua lirica aveva scritto, “pur se verrò sepolta in una terra aliena, risorgerò un giorno nella lingua romena“, ricordando il periodo in cui aveva maturato la dolorosa decisione di riparare oltreoceano dove ha vissuto da esule come altri e altre connazionali.
È morta a New York, il 15 aprile 2014, a seguito di un attacco cardiaco.
Nei suoi testi compare una vitalità poetica, una furia creativa caratterizzata da estremizzazioni, parossismi, inventiva. Descrive scenari surreali ma anche ordinari momenti di quotidianità. Compartecipano e collaborano a edificare la sua architettura poetica gli oggetti, gli elementi della natura, i sentimenti, gli animali, molto più che le persone.
I suoi toni sono caustici, arguti, ironici, sempre diretti, spesso malinconici. Colpisce l’atteggiamento di cupo e lucido disincanto e una concezione cinica dell’esistenza.
In Italia la sua opera compare in qualche antologia e solo due suoi libri sono stati tradotti: Inverno e C’è modo e modo di sparire. Poesie 1945-2007.
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spleenomane · 9 days ago
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Perdonate l'intromissione, ma mi sorprende che fin qui nessuno abbia tirato fuori dei fatti secondo me importantissimi per la comprensione della loro relazione: parlo del fatto che Boccaccio scrisse una biografia di Petrarca (De vita et moribus domini Francisci Petracchi). Di per sé scrivere la biografia di una persona vivente è una fatica non da poco, specialmente se siamo nel Trecento e le notizie sulla vita di qualcuno vanno essenzialmente chieste in giro, non si prendono da wikipedia: in questo caso le informazioni gli furono riferite da fra' Dionigi di Borgo San Sepolcro, nient'altro che il prete confessore di Petrarca (lo stesso che gli fece leggere le Confessioni di Sant'Agostino!).
Qualcuno potrebbe chiedersi: come mai non chiese informazioni a Francesco stesso? E qui è il punto: l'opera è incertamente datata al 1341-42. Parliamo di 8 o 9 anni prima dell'incontro tra Petrarca e Boccaccio, avvenuto nel 1350. Non so se ci capiamo, siamo qui di fronte al topos narrativo da fanfiction per eccellenza: il piccolo fanboy scrive letterine sparse e sogna il suo amore sgambettando sul lettino, finché d'improvviso non incontra il suo idolo, col quale inaspettatamente intraprende una relazione simbiotica e travolgente che durerà per il resto dei loro giorni e li farà giacere nello stesso letticiuolo. Alla fine Ciccio diverrà un paciocco tenerone guarito dalla depressione, e Vanni un latinista misogino. Cos'è l'amore se non condivisione?
Il caso si fa persino più morboso se consideriamo che ancor prima del De Vita, Boccaccio scrisse ben due opere sul nostro Checco, il Mavortis Milex (lett: "il soldato di Marte", una pseudo-lettera elogiativa al suo idolo, che è il soldato in questione, del 1339) e il Notamentum (una celebrazione della laurea poetica ricevuta dal Petrarca). Ben tre opere per un tizio di cui aveva solo sentito parlare.
Sapendo queste cose, shipparli non è un'amara perversione di qualche squilibrato, ma anzi un imperativo categorico, una legge morale, che dovrebbe risuonare nel petto di chiunque abbia occhi per vedere.
ok aiuto ho trovato la niche degli studenti/appassionati di letteratura italiana su tumblr ma ora ho bisogno di sapere: esistono altri petrarca/boccaccio shippers o sono l’unica pazza cursata con il potenziale di questa ship?
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pangeanews · 5 years ago
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Mario Luzi, il poeta irraggiungibile. (E sull’incontro con Anna Achmatova e Cristina Campo)
Controversia, cioè in contrasto al verso – andare contro. Nel contrasto s’inaugura il fuoco. Lì, tra i controversi, nella ramiglia del fuoco, nella masnada di fiamme, c’è il poeta.
La zattera circassa sul far della notte risale il fiume Koura con fuochi sotto gli spiedi con suoni e vini a bordo in memoria di Rustaveli il poeta dell’Uomo dalla pelle di leopardo e suo, di lei regina di queste rupi ma dietro quel remoto appuntamento del potere e dell’arte due vite disfatte nella sostanza, disfatte dal ricordo non meno che dalla dimenticanza…
Ancora la scrittura letta all’inverso scambiando la fine per l’incipit ponendo nel passato l’origine che incuba nell’aspettazione dei tempi…
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Graffito dell’eterna zarina s’intitola la poesia da cui è scalfito il brano, sopra; la raccolta, Al fuoco della controversia, era il 1978, e lui, Mario Luzi, ne diceva così: “Il passato è inconoscibile come il presente e come il futuro, nel senso che l’operazione della memoria e la sua registrazione non danno nessuna garanzia della realtà. Insomma, quella che è stata la vita non è catturabile da nulla”. Nel ‘Meridiano’ che raduna la sua Opera poetica (Mondadori, 1998), Luzi raccoglie quattro libri – Dal fondo delle campagne, Nel magma, Su fondamenti invisibili, Al fuoco della controversia – sotto un unico titolo, “Nell’opera del mondo”. Il mondo, quindi, è fondo e fuoco, è magma e controversia, è scavo e scatto negli invisibili. Quelle raccolte di Luzi – lo dico, ora, approfittando dei 15 anni dalla morte – elaborate complessivamente in 15 anni, sono il diamante oscuro, l’opera somma, tra le grandi del secolo. Voglio dire: Mario Luzi andrebbe pubblicato di continuo, come Seamus Heaney e Iosif Brodskij, per nulla intimidito da loro, anzi, come Boris Pasternak e Wallace Stevens, e delle sue poesie andrebbero adornate le nostre metropoli.
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Luzi è ieratico come Simone Martini, ha filiazioni neoplatoniche, ma possiede l’intransigenza di chi maneggia la terracotta. Nel magma, la raccolta edita da Scheiwiller nel 1963, poi magmaticamente accresciuta e concepita, fino alla Garzanti del 1966, mi pare l’occhio da vulcano della poesia italiana recente. Da lì esce l’angelo e il mostro, l’oro e la polvere, la bava e la bravura mistica. Il dialogo delle cose ultime – cioè le prime, le carnali – fa congiura in una poesia uscita dal XIII dell’Inferno, legno che soffia, testimonianza in latrati.
“Credi, credi di conoscermi” recita lei quasi parlando al vento e osserva controsole la polvere strisciare sullo stradone deserto. “Appartieni troppo a te stesso” insiste ad accusarmi prolungando la pena dell’indugio quella parte di lei che ancora combatte avvilita e altera nella macchina ferma. Ma le suona falso l’argomento e ne scorgo sul cristallo la larva che spenge d’un sorriso dimesso le parole appena dette. “Oh di questo hai anche troppo sofferto” aggiunge poi quasi portando fiori sul luogo, un’orticaia, dove mi ha crocifisso.
Michelangelo Antonioni, Bacon, lo sfascio di Marlon Brando, una particola di pietà; tutto nasce da questo magma: la poesia dialogata, confessionale, mistica, devastante. Nessun poeta è dotato della facilità suprema di Luzi: parla poetando con un respiro in endecasillabi e labbra dantesche.
*
Nel magma è onorato con l’Etna-Taormina, nel dicembre del 1964. Insieme a Mario Luzi, c’è Anna Achmatova. “Anna Achmatova non pronunciò una sola parola, partecipò con il suo silenzio alla sua celebrazione e alla mia. La sua figura matronale vestita di nero era assorta in sé, immobile, ma non assente. Quel mutismo trascendeva la sua persona e arrivava come il grido pietrificato di una storia tragica: la sua e quella del suo popolo e di tutta l’umanità straziata dall’arbitrio e dalla violenza di un’epoca fatale. Al termine mi avvicinai per significarle la mia ammirazione che risaliva ai tempi dell’adolescenza: e l’emozione di averla incontrata… Lei ebbe negli occhi la luce di un sorriso, ma da una grande lontananza”.
*
Nel magma non piaceva a Cristina Campo. “Della mia poesia amava particolarmente il libro Primizie del deserto. Ci fu un raffreddamento quando uscì Nel magma. Perché lei questo trapasso un po’ drastico non lo capì, si sentì sorpresa, lo prese un po’ come un tradimento. Forse non capiva questa conversione d’avvicinamento verso la prosa”. Aveva conosciuto la Campo nel 1947, lei aveva 24 anni. Conobbe, quello stesso anno, Dylan Thomas, a Firenze, con Stephen Spender (“In una città corrosiva come la nostra, il suo breve mito è rimasto intatto. La sua ubriachezza, la sua riluttanza o impossibilità di parlare non lo diminuivano affatto. Ambedue le cose si fondevano in un’unica impressione di incomunicabilità che, stranamente, eccitava la simpatia e incuteva rispetto”). Due sacralità di gergo contrario, incontra Luzi: l’incanto della Campo e l’ebbrezza di Dylan Thomas; la rinuncia e la dissipazione; la purezza e l’ustione. Contrari che si equivalgono.
*
La Campo ama la poesia di Luzi fino ad amare il poeta. “Ho veduto ancora Vittoria… si aggrappa disperatamente alla mia amicizia, che è molta, ma non può purtroppo portarle alcun bene vero”, scrive Luzi e Leone Traverso il 17 marzo 1953. Fa tutto, anche il sangue, ramato, Luzi, raffinato da aureo distacco. La Campo lo ricambia con una poesia, Moriremo lontani, pubblicata nel 1955 su “Paragone” (poi raccolta in Passo d’addio, 1956):
Moriremo lontani. Sarà molto se poserò la guancia nel tuo palmo a Capodanno; se nel mio la traccia contemplerai di un’altra migrazione.
Dell’anima ben poco sappiamo. Berrà forse dai bacini delle concave notti senza passi, poserà sotto aeree piantagioni germinate dai sassi…
O signore e fratello! ma di noi sopra una sola teca di cristallo popoli studiosi scriveranno forse, tra mille inverni: «nessun vincolo univa questi morti nella necropoli deserta».
*
Giorgio Caproni scrive a Luzi di Su fondamenti invisibili: “È un libro di grande poesia, se dir grande in poesia è dir qualcosa. È, col Magma, il più grande libro di poesia uscito in Italia nell’ultimo quarantennio. A tanta altezza, chi potrà mai più raggiungerti?”.
*
Ogni scrittura, sulla soglia dei versi di Luzi, è bacio becero, è incipriare il volto della tigre – dai versi di Luzi, una giuncaia crudele, occorre farsi mordere, perfino irritare.
*
Vedo, ora, una avventura nell’insperato, tra i versi di Luzi. Luzi, che appare poeta dell’austerità, il ‘classico’ contemporaneo, il Senatore a vita, piuttosto, è un avventuriero. Cioè, un poeta che ha cambiato linguaggi, con mania sorprendente – leggete Avvento notturno al fianco di Su fondamenti invisibili al fianco di Dottrina dell’estremo principiante ed è come passare dal guardiano di una basilica al fondatore di un ordine monastico a un monaco che svasa versi nel vento. Soprattutto, ancora, è l’avventuriero dell’avvenire. “Il vero viaggio, quello in cui si verifica la coincidenza fra spostamento della focalità e spostamento del corpo per me rimane l’Asia, tutta l’Asia”, scrive. E scrive quel poemetto, L’India, così perentorio:
“Avere o non avere la sua parte in questa vita” riemerge in parole il suo pensiero – ma solo un lembo. E io ne tiro fuori quella frangia Ansioso mi confidi tutto l’altro, attento non mi rubi niente di lei, neppure l’amarezza, ed attendo. S’interrompe invece. Seguono altre immagini dell’India e nel loro riverbero le colgo un sorriso estremo tra di vittima e di bimba quasi mi lasci quella grazia in pegno di lei mentre si eclissa nella sua pena e l’idea di se stessa le muore dentro.
“Perché porti quel giogo, perché non insorgi” mi trattengo appena dal gridarle, soffrendo perché soffre, certo, ma più ancora perché lascia la presa della mia tenerezza non saziata e piglia il largo piangendo.
*
Mario Luzi fa ancora razzia, col suo profilo da airone e da grifone, da serafino e da belva – lo leggi e ti mozza le dita prima di concepire un verbo. E tu ti guardi, monco, ridi della tua ridicolaggine. La poesia di Luzi è una vertigine in cui lui non precipita: la sfida con un tuffo, di claustrale eleganza. (d.b.)
L'articolo Mario Luzi, il poeta irraggiungibile. (E sull’incontro con Anna Achmatova e Cristina Campo) proviene da Pangea.
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cinemaandphoto · 5 years ago
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Monreale,1979. La bambina lavapiatti
“La fotografia l’ho vissuta come documento, come interpretazione e come altro ancora (…) L’ho vissuta come salvezza e come verità” così si racconta Letizia Battaglia, nota per essere la  ‘fotografa che ha documentato la mafia’, ora in mostra per l’ultima settimana nella Casa dei Tre Oci alla Giudecca.
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Trecento fotografie esposte nel palazzo neogotico danno l’idea di una vita spesa a raccontare, grazie alla macchina fotografica. Mafia, eventi luttuosi, politica, ma anche gioia e celebrazione di quella Sicilia vissuta da dentro, con passione e speranza.
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Letizia Battaglia, un nome che  racchiude una doppia anima, quasi un ossimoro; Battaglia come lotta da un lato, Letizia come felicità dall’altro. La fotografa siciliana crea immagini lontane dal tipico clamore della cronaca, gli scatti sono spesso persone, soprattutto donne, silenziose e solenni. Oltre i corpi di giudici e vittime senza nome, con il suo obiettivo Letizia continua a ritrarre i suoi protagonisti, bambine e giovani donne; espressione di un futuro possibile. L’idea sta nel mostrare al pubblico ‘forme d’attenzione’: quel ‘qualcosa’ che arriva prima delle sue fotografie, perché Letizia Battaglia si è interrogata su tutto ciò che cadeva sotto al suo sguardo: che fosse un omicidio o un bambino, uno scorcio o un raduno, una persona oppure un cielo. Guardare è stata la sua attività principale, che si è ‘materializzata’  per immagini”.
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La fotografia può essere un accidente della vita, un’espressione come un’altra di un’esperienza sociale e politica, a volte intima, come rivelano le foto della sua amata Palermo e della sua gente. Gli occhi dei bambini sono penetranti, trafiggono quel velo bianco e nero per comunicare tutta la voglia di cambiare, di avere speranza. “ Ho amato con tutta me stessa Palermo. Ero un tutt’uno con la mia macchina fotografica, ed ero ovunque mi chiamassero. Non distinguevo più il fotografare dalla vita stessa.
E ho avuto la fortuna di vivere gioie e lutti della mia città, sperando che diventasse anche un po’ più pazza. Non ho mai lavorato con cinismo, come alcuni colleghi uomini’ svela la Battaglia in una video intervista di Maresco. E la sua appassionata vocazione si rivela anche grazie alla sensibilità, al suo occhio femminile che non può essere portatore della stessa poetica al maschile. “Io sono una persona, non sono una fotografa. Sono una persona che fotografa. La fotografia è una parte di me, ma non è la parte assoluta, anche se mi prende tantissimo tempo”.
Casa dei Tre Oci
Venezia, Giudecca, fermata Palanca
Ultima settimana sempre aperto con orario 10-19
Letizia Battaglia: ultima settimana ai Tre Oci “La fotografia l'ho vissuta come documento, come interpretazione e come altro ancora (...) L'ho vissuta…
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olliedoeshawaii-blog · 6 years ago
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C. SBARBARO
Era da un sacco che volevo dedicare qualche riga a Sbarbaro. Tipo qualche mese. E mi dispiaceva non riuscire mai a farlo per davvero.  Presa dai sensi di colpa, come per scusarmi, ogni tanto ho cercato di inserirlo nella mia vita in circostanze casuali:  su di un articolo di poesia ci butto là uno "Sbarbaro" decontestualizzato e un po' preso alla sprovvista, quando aspetto alla stazione o mentre il mio ragazzo studia e allora nel mentre io apro google, "Sbarbaro" e vai di 5 minuti di zapping per siti.
Ormai è un pensiero familiare, a tratti simpatico.
Che poi in realtà io nemmeno lo conoscevo prima dell'università. Poi ho seguito un corso sulla poesia del '900 ed eccolo là inserito nel programma insieme ad altri tre autori minori, "Camillo Sbarbaro". Forse più spaesato e preso alla sprovvista di quando si è ritrovato nominato nel mio articolo.
Piccolo preambolo: i poeti del primo '900 se ne fregavano dei sublimi ideali che nobilitano la vita. Il loro era più un versificare i suoi avanzi, i residui.
Per essere chiari, non abbiamo l'Achille di turno ma un Totò Merumeni. Non abbiamo i trionfi ma gli ossi di seppia.
Un po' tutta la mentalità in quegli anni era per sommi capi questa. Basti pensare a Freud che descrive la psicoanalisi, praticamente sua figlia, come lo studio dei "rimasugli del mondo dei fenomeni".
Beh ecco, per me il grunge e compagnia bella nasce da questa roba qui, dalla celebrazione della marginalità.
Sbarbaro è così. È marginale. Se ne sta nell'angolo della sua Liguria e da lì non si smuove: metafisica regionale. La stessa di Montale, che non a caso è il diretto erede della sua bella poetica.
A lui interessa il perimetro del continente dell'esistenza, le sue rive e derive. Non le sue amazzonie, non le sue aurore boreali.
Fin dall'inizio la cosa che mi ha divorata di curiosità è che oltre ad essere poeta era il più famoso lichenologo d'Italia.
Adesso, i licheni. A me fa ridere.
Figuratevi un omino che dedica una vita intera a poesie, funghi e alghe. Da prenderci un caffè insieme, farci quattro chiacchiere per forza. E badate che ci faceva sul serio. Si è messo a descrivere più di cento specie diverse di licheni: le più felici portano ancora il suo nome, quasi come pegno per essere state messe finalmente alla luce da un tale gentiluomo.
“Sui licheni scrissi fin troppo, sempre cercando una spiegazione a questo hobby; nessuna conoscenza specifica, solo curiosità, piacere visivo, simpatia: la stessa che mi fa avvicinare tutto quello che non è vistoso, per gli altri senza importanza, misero”.
Secoli fa Beccaria scrisse qualcosa come "a stili diversi corrispondono idee diverse". Ancora non vi ho raccontato tutto di Camillo, ma non serve una laurea per capire che uno così non poteva scrivere come d'Annunzio.
La sua poesia approda sulle rive dell'anti-retorica. E nemmeno ci fa apposta, la sua non è alcuna ribellione alla tradizione letteraria. Non vi salti in mente che uno così faccia delle guerre; il suo stile petroso non è altro che l'estensione naturale di uno stile di vita ridotto ai minimi termini. Vi faccio un esempio.
 La sua raccolta si chiama "Pianissimo". Già il nome, vabè cosa ve lo dico a fare: poesia discreta e sussurrata a voce bassa, non fa promesse, è solo singhiozza piano -pianissimo- nel vuoto. Le edizioni successive alla prima furono ritoccate e ritoccate per rimuovere elementi stilistici che al poeta sembravano eccessivi, barocchi. Era come se attuasse di volta in volta una sorta di chirurgia antiestetica volta all'avvilimento dell'armonia.
L'eccesso, gli sbalzi verso l'alto, il sublime e in generale la verticalità erano aboliti nei suoi versi che erano tesi come l'orizzonte netto del deserto, come quando gli venne in mente di scrivere: “Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso", e palesa elementarmente il il suo disagio esistenziale, l'impossibilità di creare rapporti, con l'esterno e con sè stessi.
E infine, ma di nuovo, i licheni: fonte di ispirazione, forme biologiche adattabili ovunque (“una muffa più un fungo, due debolezze che fanno una forza")
tranne che in prossimità degli umani.
In un esistenza talvolta amara talvolta crudele che trascorreva con l'idea che "nella vita come in trincea alzi la testa e fischiano le pallottole", la contemplazione dei licheni era la costante delle giornate:
"In due casi il mio amore per i licheni soffre eclissi: quando sono innamorato e quando scrivo. Vide giusto allora chi senza conoscermi lo diagnosticò una forma di disperazione".
Gira e rigira, è sempre l'amore a salvarci, a suggerirci l'autenticità tra i surrogati, a rendere inutili tutti quei disperati tentativi che ripetiamo giorno dopo giorno per salvarci le penne. Che poi "salvarci", altro non vuol dire che trovarci un senso, per non finire ad essere pellegrini alla mercè della casualità.
E, che ne dite, magari Sbarbaro voleva trovarsi un senso attraverso il ridurre all'osso tutto ciò che non comprendeva, compreso sè stesso.
Dentro di sè vedeva solo il vuoto:
"Io son come uno specchio rassegnato
che riflette ogni cosa per la via.
In me stesso non guardo perché nulla
vi troverei.."
E così con profonda umiltà si proiettava nei licheni per studirsi meglio e infine riconoscersi
"Magra dagli occhi lustri (...) la mia anima torbida che cerca chi le somigli".
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lamilanomagazine · 2 years ago
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Milano, la Cattolica inaugura l’anno accademico con la laurea honoris causa al Cardinal Ravasi
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Milano, la Cattolica inaugura l’anno accademico con la laurea honoris causa al Cardinal Ravasi. Mercoledì 23 novembre in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 2022/2023 dell’Università Cattolica del Sacro Cuore sarà conferita la laurea honoris causa in Scienze dell’antichità al Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente emerito del Pontificio Consiglio della Cultura e Presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. La cerimonia di inaugurazione si aprirà, alle ore 9.45, nella Basilica di Sant’Ambrogio con la Celebrazione Eucaristica presieduta dall’Arcivescovo di Milano monsignor Mario Delpini. Alle ore 11.30, nell’Aula Magna dell’Università Cattolica (largo Gemelli, 1 – Milano), dopo l’intervento del Ministro dell’Università e della Ricerca Annamaria Bernini, il Rettore Franco Anelli pronuncerà il discorso inaugurale, al termine del quale seguiranno i saluti istituzionali di monsignor Mario Delpini, in qualità di Presidente dell’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori, ente fondatore dell’Ateneo, e del Sindaco di Milano Giuseppe Sala. Sarà il Preside di Lettere e filosofia, Andrea Canova, a leggere le motivazioni, con cui la Facoltà ha attribuito il riconoscimento accademico al Presidente emerito del Pontificio Consiglio della Cultura: «Per il suo intrinseco valore di studioso, per il lungo servizio nelle istituzioni ecclesiali, che ne ha messo in piena luce l’adesione profondamente vissuta agli ideali dell’umanesimo cristiano e per il costante rapporto con l’Università Cattolica negli anni della sua prefettura alla Biblioteca Ambrosiana, Sua Eminenza il Cardinal Gianfranco Ravasi appare meritevole di essere insignito dalla Facoltà di Lettere e filosofia della Laurea Magistrale honoris causa in Scienze dell’antichità». Dopo il conferimento della laurea honoris causa, il Cardinale Gianfranco Ravasi enuncerà la prolusione dal titolo “Cosa hanno in comune Gerusalemme e Atene? L’umanesimo cristiano antico”. La cerimonia potrà essere seguita anche dalle aule collegate e in diretta streaming dal sito www.unicatt e sui social dell’Università. Il Cardinale Gianfranco Ravasi è nato a Merate (provincia di Lecco) il 18 ottobre 1942. È stato ordinato sacerdote dell’Arcidiocesi di Milano dal cardinale Giovanni Colombo il 28 giugno 1966. Dopo aver perfezionato gli studi biblici a Roma, alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificio Istituto Biblico, ha insegnato Esegesi dell’Antico Testamento nella Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e nei seminari della sua diocesi. Nel 1989 è stato nominato prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, la prestigiosa istituzione culturale milanese fondata nel 1607 dal cardinale Federico Borromeo. Il 3 settembre 2007 Benedetto XVI lo ha nominato arcivescovo titolare di Villamagna di Proconsolare e contemporaneamente Presidente del dicastero della Cultura e delle Commissioni per i Beni Culturali della Chiesa e di Archeologia Sacra. Il 29 settembre dello stesso anno, nella basilica Vaticana, gli ha conferito l’ordinazione episcopale. Sempre Benedetto XVI lo ha creato Cardinale nel Concistoro del 20 novembre 2010. La sua vasta produzione letteraria ammonta a circa centocinquanta volumi, riguardanti soprattutto argomenti biblici e scientifici, opere particolarmente amate dai lettori per la capacità di interpretazione dei testi sacri, per la chiarezza e la finezza letteraria e poetica. Nel 2007 l’Università di Urbino gli ha conferito la laurea honoris causa specialistica in Antropologia ed epistemologia delle religioni. Nel 2010 è stato annoverato tra i soci onorari dell’Accademia di Belle Arti di Brera e insignito del diploma honoris causa di secondo livello in Comunicazione e didattica dell’arte. Papa Francesco lo ha confermato Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura il 29 marzo 2014. Il 5 giugno 2022 con l’entrata in vigore della riforma della Curia romana Praedicate evangelium viene soppresso il Pontificio Consiglio della Cultura e diviene pertanto Presidente emerito dello stesso.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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pier-carlo-universe · 4 days ago
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"Ritorno d’autunno: una poesia inedita ispirata a Vincenzo Cardarelli". Recensione di Alessandria today
"Un omaggio al grande poeta italiano che ha saputo catturare l’essenza del tempo e della natura nei suoi versi."
“Un omaggio al grande poeta italiano che ha saputo catturare l’essenza del tempo e della natura nei suoi versi.” Poesia: “Ritorno d’autunno” L’autunno ritorna,sfuma i contorni del giorno,distende il cielo in un languido abbracciodi nubi leggere e pensieri sospesi. Sento il crepitio delle foglie,un’eco che risuona nel cuore,un ricordo antico che si risvegliacome un vento gentile. Le ore si…
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laciviltacattolica · 3 years ago
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L’AMORE? UN CULTO GRADITO A DIO | Luigi Territo S.I.
Nata nel 1982 a Tripoli, Arwa Abouon non ha conosciuto il vento caldo del deserto libico né le sofferenze di un popolo ancora oggi ferito da violenze e guerre fratricide. Ancora molto piccola, all’età di un anno e mezzo, la sua famiglia si trasferì dalla Libia in Canada in cerca di fortuna. Fin da piccola i suoi genitori le insegnarono l’orgoglio per le proprie radici, per la cultura araba e la religione islamica. Cresciuta in un ambiente multietnico, e da sempre interessata al dialogo fra culture e religioni, si laurea alla Concordia University di Montreal in Design, arte e fotografia. La giovane artista esplora le identità in conflitto che abitano il suo mondo: questioni di genere, esperienze religiose, tradizioni e modernità. Intervistata sulla rappresentazione del velo nelle sue opere, la giovane artista libica sostiene che le sue fotografie non vogliono partecipare a un dibattito politico, ma piuttosto etico, spirituale: «Penso che la religione abbia il potere di guarire un individuo, la vera pratica religiosa dà vita ad azioni moderate in tutti gli aspetti della nostra esistenza». In I’m Sorry/I Forgive You (2012), la Abouon fotografa il padre ammalato accarezzato affettuosamente dalla moglie. Un casto bacio sulla fronte, uno scatto per immortalare un amore profondo, sincero, un gesto rubato all’intimità dell’anziana coppia per testimoniare il legame indissolubile che li ha uniti per tutta la vita. «Vedere un’anziana coppia musulmana abbracciarsi e baciarsi è stato qualcosa che ho voluto sottolineare [...], volevo mostrare allo spettatore l’immenso amore che hanno avuto l’uno per l’altro, soprattutto perché contrasta con le rappresentazioni mediatiche del mondo islamico». L’artista inserisce il profilo dei genitori all’interno di un pattern che evoca le decorazioni geometriche delle moschee. Nel candore di uno sfondo privo di colore è racchiusa la monumentalità di un gesto familiare semplice e solenne. Arricchita dagli ornamenti tipici dei luoghi di preghiera, l’opera vuole celebrare la fedeltà e l’amore come il culto più alto che si possa rendere a Dio. Nel doppio ritratto speculare si gioca poi quel messaggio di uguaglianza e di pari dignità che non necessita di spiegazioni. A differenza delle usuali immagini dell’islam politico, ritratto quotidianamente sui media di tutto il mondo, l’opera di Arwa Abouon vuole essere una celebrazione poetica dei fondamenti della fede. La vita della giovane artista libico-canadese si è consumata in fretta: all’età di 38 anni si è spenta tra le braccia dei suoi cari. La sua esistenza è stata un viaggio magico. La sua arte rimane una testimonianza di libertà, un grido di vita, una luce pallida e mite in un mondo ancora accecato da fondamentalismi e divisioni.
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enkeynetwork · 5 years ago
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Bologna Art Week 2020, novità ed eventi clou
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La Bologna Art Week anche nel 2020 è stata un autentico successo di critica e di pubblico. Ma di cosa si tratta esattamente? L'Art Week fa parte delle celebrazioni di Art City e Arte Fiera, una rassegna che interessa la città di Bologna nelle ultime settimane di Gennaio. E che è ormai diventata un'autentica tradizione per gli appassionati di arte a 360°. Un percorso che si articola attraverso mostre, aree espositive ma anche rappresentazioni ed eventi, design e creatività. Visioni artistiche di nuova generazione e omaggi alla ricca tradizione artistica di Bologna si intersecano in una celebrazione che vale bene una visita. Vediamo quindi quali sono stati i punti cardine dell'edizione 2020 della Bologna Art Week. Cos'ha riservato la settimana dell'arte a tutti coloro che vivono la grafica e il design nella maniera più autentica?
Tante novità alla Bologna Art Week 2020
E' stata una Bologna Art Week carica di novità entusiasmanti quella che ha salutato Gennaio 2020. Il palinsesto dell'evento infatti presentava un gran numero di esclusive mai sperimentate prima nella storia dell'inziativa.
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Esposizioni, eventi e mostre alla Bologna Art Week 2020 A cominciare dalle tre nuove sezioni che hanno fatto da "spalla" alla storica Main Section. E senza dimenticare la "settima arte". Tanto è vero che per l'edizione 2020 di Bologna Art Week è stata riabilitata la sezione "Fotografia e immagini in movimento". Che segue l'evolversi dell'arte della riproduzione per immagini, dai primi esempi di fotografi agli esperimenti con praxinoscopi e e zootropi, gli antenati del cinema moderno. C'è stata poi la sezione Focus, che pone l'obiettivo sulle avanguardie e i traguardi artistici della seconda metà del XX secolo. Correnti, concezioni e stili molto vicini alla nostra percezione odierna e di cui subiamo ancora l'influenza. Pittura XXI, infine, è dedicata agli artisti di nuova generazione e alla riscoperta del genere pittorico, che non è stato certo messo in cantina dallo sviluppo di nuove tecnologie. Ma che anzi ha trovato, grazie a esse, un terreno fertile di crescita grazie (anche) alla pittura digitale.
Ingresso gratuito a mostre, installazioni ed eventi
Come sempre,  nell'ottica della Bologna Art Week, la partecipazione ai vari Main Projects è completamente gratuita. Infatti l'obiettivo dell'evento è quello di portare l'arte al grande pubblico. Offrendo al tempo stesso sia una possibilità di svago ricreativo, sia un'occasione imperdibile per accrescere la propria cultura. E nell'edizione 2020 della Bologna Art Week c'era veramente l'imbarazzo della scelta. Visioni innovative, concetti originali e arditi che affrontano domande esistenziali e problemi di attualità; nell'arte, sembra dirci la città di Bologna, è davvero possibile trovare le risposte a tutti i nostri assilli. Si incomincia con la mostra AGAINandAGAINandAGAINand, ospitata dal Museo d'Arte Moderna di Bologna e che indaga il tema stuzzicante della ripetizione nel mondo moderno. Segue Gaussiana, un'opera metafisica che unisce geometria, infiniti matematici e arte pittorica giustapposti alla tradizionale concezione scultorica. Al Teatro Comunale di Bologna uno degli eventi clou è stato Orchestra. Studio #3. Un cerchio fisico e ideale, un ring su cui si fronteggiano sette direttori d'orchestra. La mission; interpretare Ravel con una polifonia di voci e vissuti diversi. Creando così un'opera davvero "corale", in cui le voci d'orchestra si intersecano sotto la spinta ora di un direttore, ora dell'altro.
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L'installazione 'Via libera per volare' ispirata a Rodari Non potrà non coinvolgere grandi e piccini l'installazione "Via libera per volare". Articolata lungo diverse sedi, si ispira alla poetica di Gianni Rodari. E in particolare a quel "semaforo blu" di cui tanti di noi hanno letto da bambini. Degna di nota anche l'installazione Specchi. One. Two. FREE di Alessandro Lupi. Situata nel CUBO Museo d'Impresa del Gruppo Unipol, l'opera è stata acclamata per il suo alto tasso di spettacolarità. Con un abile gioco di specchi Alessandro Lupi indaga i concetti di percezione visiva e mentale. Ma anche concetti molto più metafisici quali possono essere il tempo e lo spazio nel loro senso più intrinseco. Read the full article
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fondazioneterradotranto · 5 years ago
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Nuovo post su https://is.gd/Ab97hC
Antonio Caraccio di Nardò e le sue ecfrasi
di Armando Polito
Inutile arrovellarsi il cervello per tentare di ricordarsi in quali fatti di cronaca cittadina più o meno recente potrebbe essere rimasto coinvolto il personaggio nominato nel titolo. Basta considerare le date di nascita e di morte: Nardò, 1625-Roma 1713. D’altra parte nemmeno io sapevo granché su di lui prima di occuparmene…1
Di seguito quattro suoi ritratti (dov’è la differenza tra il primo e il secondo? Per scoprirlo e per saperne di più anche sugli altri, vai al link segnalato in nota 1.
Barone di Corano2, il Caraccio fu uno dei letterati più famosi del suo tempo. Bisognerà, dunque, fare un salto di parecchi secoli, complici anche le sue ècfrasi3, termine tecnico con cui i retori greci etichettavano la descrizione o la celebrazione poetica di luoghi o di opere d’arte, fatte con stile elaborato in modo da gareggiare in efficacia espressiva con l’oggetto stesso.
Le tre ecfrasi sono in Poesie liriche, che il neretino pubblicò per i tipi di Tinassi a Roma nel 1689.
Le riproduco dal volume in formato immagine con la mia trascrizione (con adattamento moderno della grafia e della punteggiatura) e le note esplicative.
1) p. 134
Per la Diana, pittura del Sig. Carlo Maratta
Poi che l’emula imago al fin compitaa
Maratta offrì de la silvestre Divab,
e si vedea dipinta nò, ma viva
la tela che il pennello hà colorita,
coleic che de la fraled, humana vita
gli stamie avvolge e lor filando avvivaf,
gittò le roccheg,e dispettosa e schiva
per tutto il ciel fu querelarsi h udita.
-Deh, Giove, deh! De l’animar si cessi
più le lane quassùi: scorger tu dei
ch’anima han colà giuso i lini istessi l -.
Giove rispose sorridendo à lei:
– Cessi il timor, ch’�� far le vite elessim
sol per gli huominin voi, luio per gli Dei -.
_____________
a compiuta
b Diana, dea delle selve
c Cloto. Era una delle tre Parche.  A lei spettava filare il filo simboleggiante la vita, Lachesi ne stabiliva la lunghezza e Atropo lo tagliava al momento giusto.
d fragile
e i fili
f dà la vita
g la conocchia; l’uso del plurale fa quasi capire che rinunziava al suo compito anche per il futuro. 
h lamentarsi
i si smetta per sempre quassù di dare la vita ai fili di lana
l tu devi vedere che anima hanno laggiù gli stessi lini
m scelsi, destinai
n huomini per uomini è una sorta di latinismo grafico (da homines).
o il Maratta
  Il sonetto, dunque, celebra un quadro del Maratta avente come soggetto Diana. Nessun suo dettaglio trapela dalla poesia, se non quello, abbastanza generico, del realismo. Oltretutto la dea cacciatrice fu uno dei soggetti cari al nostro pittore (anche se certamente meno della Vergine, che gli valse l’appellativo di Carlo delle Madonne), come risulta dalle testimonianze che seguono.
Nell’Elogio di Carlo Maratti  inserito in Serie degli uomini più illustri in pittura, scultura, e architettura con i loro elogi e ritratti, Allegrini, Pisoni e C., Firenze, 1775, tomo XI, p. 157 si legge: Per il nipote poi d’Innocenzio D. Livio Odescalchi, oltre un Quadro con le due stagioni, Estate ed Autunno, poco diverse da altre due, che furono mandate in Spagna, figurò in un gran paese di boscaglia fatto da Crescenzio Onofri, una Diana, che difesa da una nuvola dà il segno della caccia, parlando ad una Ninfa, che si allaccia i coturni, mentre altre s’incamminano a rintracciar co’ cani le fiere.
Nella biografia che di Carlo scrisse Giovanni Pietro Bellori4 a p. 221 si legge:
Pel gran Contestabile Colonna D. Lorenzo dipinse le favole di Atteone e Diana in un bellissimo paese, di Gasparo in doppia altezza, e figure minori del naturale. Finse la Dea in piedi, che addita il giovine cacciatore, il quale mal cauto in rimirarla si trasmuta in Cervio spuntando le corna dalla fronte. Altre delle Ninfe si essercitano a nuoto, altre si ascondono, e si ricuoprono il seno, e le membra ignude, l’antro opaco, e selvaggio, ove soggiorna la Dea, è tutto ameno d’alberi, e d’acque cadenti, che stagnano in un lago. Oggi sì raro dipinto si trova appresso il Marchese Nicolò Maria Pallavicino, con gli altri, che qui andremo seguitando. Uno scherzo di Diana, e questo è compreso in una figura sola della Dea sedente in un bosco, e ad una fonte, ive si bagna le piante. Ma quasi di vicino senta strepito, o moto d’alcuno, che sopraggiunga, travolge la faccia, e s’inclina ascondendo con una mano il seno, ed aprendo l’altra per ripararsi, nel quale atto con raro effetto l’ignudo di questa figura soavemente si abbaglia all’ombra di un tronco, da cui pende sospeso l’arco, e la faretra, restando illuminata la spalla, il crine, e la fronte esposta al giorno.
Ipotizzo che il soggetto dell’ecfrasi sia proprio l’ultima Diana descritta nelle testimonianze appena riportate,  in virtù della sua esclusiva presenza che corrisponde perfettamente all’emula imago, che sarebbe stata meno emula se fossero state presenti altre figure, sia pure in secondo piano. Di seguito Diana al bagno che riproduco da http://catalogo.fondazionezeri.unibo.it/entry/work/52020/Maratta%20Carlo%2C%20Diana%20al%20bagno, indirizzo a cui rinvio per la relativa scheda.
Al di là del problema identificativo , però, questa ecfrasi ha una motivazione profonda, potrebbe essere quasi un gesto di gratitudine nei confronti del Maratta, per spiegare il quale debbo mostrare il frontespizio di un’altra opera del Caraccio e, quel che più qui interessa, l’antiporta.
In basso a sinistra si legge Carol(us) Marat(ta) Invenit, che, tradotto alla lettera, è Carlo Maratta escogitò. Invenit nelle tavole si alterna a delineavit (disegnò), per cui il Maratta fu il disegnatore. In basso a destra si legge Petr(us) Sanct(e) Bartol(i) sculp(sit), cioè  Pietro Sante Bartoli incise. Se quest’ultimo (Perugia, 1635-Roma, 1700) fu anche antiquario del Pontefice e della Regina Cristina di Svezia, il Maratta (Camerano, 1625- Roma, 1713) era considerato come il maggior pittore del suo tempo (di seguito due suoi ritratti, il primo a corredo della citata biografia del Bellori, il secondo dal citato volume del 1775).
Il Caraccio, dunque, aveva fatto ricorso sul piano editoriale (e le tavole fuori testo avevano allora un’importanza forse paragonabile a quella che oggi ha l’immagine, comunque erano un dettaglio irrinunciabile per un’edizione di pregio) a due autentici fuoriclasse. Il lettore deve sapere che nel 1690 era stata fondata a Roma da Giovanni Mario Crescimbeni l’accademia dell’Arcadia, sulla quale il lettore troverà le informazioni essenziali in http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/.  Qui basta ricordare che gli interessi dell’accademia erano letterari, ma ad essa aderirono anche letterati non in senso stretto, non esclusi i pittori. Perciò, se non desta meraviglia che pastore (così si chiamavano i soci dell’accademia) fosse il Caraccio col nome pastorale di Lacone Cromizio, non appare nemmeno strano che vi facesse parte pure il Maratta col nome pastorale di Disfilo Coriteo5.
Non ho elementi per ipotizzare che l’ecfrasi appena presentata fosse il frutto di uno sconto fruito sul costo della tavola, ragion per cui posso solo far riferimento ad una riconoscenza tutta intellettuale basata sulla stima reciproca e sulla frequentazione degli stessi ambienti culturali. Non mi rimane che sottolineare la felice invenzione del poeta, per cui, oltretutto, la risposta di Giove sembra contenere un riferimento al tema religioso, particolarmente caro al Maratta (anche se nemmeno la ritrattistica è da trascurare) e sancire una sorta di convivenza, più che di sincretismo, tra la religione pagana e quella cristiana, così ricorrente nella produzione dell’Arcadia.
2) p. 159
Mentre terra che ‘la copre, urnab che ‘la furac
del buon Natal (dico il mortal) ci ha privod,
in bei color qui effigiato al vivo
Arte ce ‘l rende ove il rapì Naturae.
E mentre stassif in ciel candida e pura
l’almag di lui, ch’ivi è beato e divoh,
gran simulacroi del suo spirtol vivo
la memoria di lui nel mondo duram.
Così tra sè come s’ei viva e come
qui segga e parli il mio pensier l’adombran
tra vera fama e simulateo chiome.
Né, morto, inver da questa vita ei sgombrap,
ché, se qui l’ombra sua resta e ‘l suo nome,
altro il viver non è che un nome e un’ombra.
______________
a lo
b tomba
c ruba, sottrae alla vista
d privato
e l’arte ci restituisce quello che la natura ci ha tolto
f se ne sta
g anima
h divino
i immagine
l spirito
m continua, sopravvive
n immagina
o rappresentate artisticamente, dipinte
p esce, va via
Se nel caso precedente il soggetto dipinto era tratto dal mito, qui, invece, il ritratto è quello di un personaggio in carne ed ossa (più che in carne, in ossa …), cioè Natale Rondanini (1628-1657), che fu segretario dei principi (sovrintendente ai rapporti epistolari con i principi) di papa Alessandro VII e uno dei membri di spicco dell’Accademia degli Umoristi, che era stata fondata a Roma il 27 marzo 1608 da Paolo Mancini e che rimase attiva fino al 16706 .
Di seguito lo stemma dell’Accademia tratto da Girolamo Aleandro, Sopra l’impresa degli Accademici Humoristi, Mascardi, Roma, 1611.
Nella cornice centrale una nube, da cui cade abbondante pioggia, e il motto REDIT AGMINE DULCI tratto da un passo di Lucrezio7.
 Se per l’ecfrasi precedente ho potuto avanzare un’ipotetica individuazione del dipinto, per questa posso solo fare le riflessioni che seguono. L’in bei color del terzo verso fa pensare inequivocabilmente ad un dipinto, per cui il che ne alzò l’accademia degli Humoristi dell’intestazione dovrebbe essere interpretato come il quale (monsignore, soggetto) elevò per noi  l’accademia degli Humoristi  (complemento oggetto) e non come il quale (ritratto, complemento oggetto) elevò (eresse) per lui l’accademia degli Humoristi (soggetto), anche se quest’ultima interpretazione, soprattutto per via di alzò potrebbe trovare riscontro nel monumento funebre al Rondanini, attribuito a Domenico Guidi (1625/ 1701), che si trova nella navata sinistra della chiesa di S. Maria del Popolo a Roma (di seguito nell’immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/7/74/Natale_Rondinini_tomb.JPG).
D(EO) O(PTIMO) M(AXIMO)
NATALI RONDININO ROMANO/ALEXANDRI FIL(IO) PAULI AEMILII CARD(INALIS) FR(ATRI)/PIETATE INGENIO ERUDITIONE/ROMANAE IUVENTUTIS FACILE PRINCIPI/QUI XXVII ANNUM AGENS/AB ALEXANDRO VII P(ONTEFICE) M(AXIMO)/PRAEFECTUS EPISTOLIS AD PRINCIPES/OPERAM SUAM PONT(IFICI) SAPIENTISSIMO ITA PROBAVIT/UT MOX AB EO CANONICATU VAT(ICANAE) BASIL(ICAE) AUCTUS FUERIT/NOVA IN DOMESTICAS IMAGINES DECORA ILLATURUS/NISI MAIORA IN DIES DE SE POLLICENTEM/REPENTINA VIS MORBI IN IPSO ROBORE AETATIS/REIP(UBLICAE) ERIPUISSET/FELIX ZACCHIA FILIO DULCISS(IMO)/CONTRA VOTUM SUPERSTES P(OSUIT)/OBIIT ANNO D(OMINI) MDCLVII AETATIS SUAE XXX
(A Dio Ottimo Massimo. A Natale Rondanini di Roma, figlio di Alessandro, fratello del cardinale Paolo Emilio, senza dubbio primo della gioventù romana per religiosità, ingegno, erudizione, che a ventisette anni, nominato prefetto alle lettere ai principi dal pontefice massimo Alessandro VII, rese tanto accetta al sapientissimo pontefice la propria opera che subito da lui fu insignito del canonicato della basilica vaticana, destinato a portare nuovo decoro alle immagini di famiglia, se la violenza della malattia8 non avesse sottratto allo stato proprio nel fiore dell’età lui che di sé prometteva cose più grandi di giorno in giorno, Felice Zacchia9 , sopravvissuta contro il desiderio, pose al figlio dolcissimo. Morì nell’anno del Signore 1657 a trent’anni)
Felice Zacchia, madre di Natale, non aveva certo bisogno di qualsiasi aiuto, tanto meno di quello economico, per erigere il monumento al figlio, per cui escluderei senz’altro qualsiasi riferimento dell’ecfrasi ad esso. Si tratterebbe, insomma, di un ritratto di anonimo (a differenza delle opere nominate nella prima e, come vedremo, nell’ultima ecfrasi) e questo rende ancor più problematica l’identificazione.
3) p. 189
Santa Caterina martire. Pittura del Signor Daniel Saiter
Vergine io veggioa, anzi beata, e divab,
al fier supplicioc di gran rota avintad,
che, da la man di Daniel dipinta,
dipinta, no, non già di senso è privae.
La turba de’ ministri horrida e schiva,
vera ella ancor più che insensata e finta,
resta non so se dall’incendio vinta
o da stupor d’imaginarla viva.
Mentre io rimiro opre sì grandi e nove,
attendo d’hor’ in hor ch’entro il suo velo
ella s’accogliaf, e volga i passi altrove.
Ma colma il sen d’inalterabil zelo,
se pur man non ritira o piè non move,
v’è che col cor tutta è rapita in cielo.
______________
a vedo
b divina
c supplizio
d avvinta, sottoposta
e non ha ancora perso i sensi
f si ricomponga
A differenza delle ecfrasi precedenti qui i dettagli non mancano, anche se appaiono piuttosto scontati per l’iconografia della santa e, in particolare, del suo martirio. Daniele Saiter (1642 o 1647-1705), pittore austriaco, che dopo un apprendistato a Venezia, si spostò a Roma dove lavorò presso la bottega di Carlo Maratta. Questo dettaglio è più che una coincidenza se si pensa che esso potrebbe giocare a favore dell’agevole identificazione del dipinto in questione con il Martirio di S. Caterina (di seguito nell’immagine tratta da https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Daniel_Seyter?uselang=it#/media/File:SMP_Cap_Cibo_Martirium_der_Hl_Caterina.jpg) che, insieme col Martirio di S. Lorenzo, il Saiter dipinse nella chiesa di S. Maria del Popolo a Roma, nella Cappella Cybo nella navata destra.
Ricordo, per completare il quadro,  che la pala d’altare di questa cappella con l’Immacolata Concezione e i santi Giovanni Evangelista, Gregorio, Giovanni Crisostomo e Agostino è opera di Carlo Maratta.
_______
1 Vedi Armando Polito, Antonio Caraccio, l’Arcade di Nardò, in Nardò e i suoi: studi in memoria di Totò Bonuso (a cura di Marcello Gaballo), Fondazione Terra d’Otranto, 2015, pp. 41-66 e, su questo blog,  http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/06/antonio-caraccio-nardo-1630-roma-1702-note-iconografiche/. Avverto che, sempre su questo blog, a lui sarà dedicata la prossima puntata, la settima, della serie Gli Arcadi di Terra d’Otranto.
2 Antico feudo nel territorio di Nardò.
3 Dal greco ἔκϕρασις (leggi ècfrasis), che significa descrizione.
4 In Ritratti di alcuni celebri pittori del secolo XVII disegnati ed intagliati in rame dal Cavaliere Ottavio Lioni, con le vite de’ medesimi  tratte da vari autori, Antonio de’ Rossi, Roma, 1731, pp. 146-251.
5 Il primo vi era entrato il 2 maggio 1691, il secondo il 2 maggio 1704. Anche la figlia di Carlo, Faustina, entrò nell’Arcadia contemporaneamente al padre col nome pastorale di Aglaura Cidonia. Sposò il poeta Giambattista Felice Zappi, pure lui socio dell’Arcadia col nome pastorale di Tirsi Leucasio dal 5 ottobre 1690.
6 Suoi componimenti in latino sono in Carmina illustrium poetarum italorum, Tartino & Franchio, Firenze, 1721, v. 8 pp. 87-96.
7 De rerum natura, VI, 631-638: Postremo quoniam raro cum corpore tellus/est et coniunctast oras maris undique cingens,/debet, ut in mare de terris venit umor aquai,/in terras itidem manare ex aequore salso;/percolatur enim virus retroque remanat/materies umoris et ad caput amnibus omnis/confluit, inde super terras redit agmine dulci/qua via secta semel liquido pede detulit undas. (Infine, poiché la terra è con corpo poroso e cingendo da ogni parte le distese del mare è congiunta con esso, l’umidità dell’acqua, come defluisce nel mare dalla terra, così deve diffondersi nella terra dal mare salato; viene filtrata infatti la salsedine, e la sostanza dell’umidità  rifluisce indietro e confluisce tutta per i fiumi alla loro sorgente e da lì ritorna con dolce corrente sulle terre, per dove ove la via una volta aperta fa scendere le onde con liquido piede)
8 Probabilmente si trattò di febbre terzana o malaria, stando ai sintomi descritti in Sforza Pallavicino, Della vita di Alessandro VII, Giachetti, Prato, 1840, v. II, p. 170.
9 La madre di Natale; suo marito Alessandro era morto nel 1639.
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pangeanews · 5 years ago
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E chi ci credeva che Tom Waits sarebbe arrivato a 70 anni? Ritratto di un maledetto che è diventato icona vivente
Non tutti negli anni ’70 avrebbero scommesso che Tom Waits sarebbe arrivato a 70 anni. Del resto non l’avrebbero detto neanche del suo grande amico cattivo, Keith Richards. Qualcuno, di quella generazione di artisti maledetti, ce l’ha fatta alla fine a vedersi da vecchio, mezzo secolo dopo. Ma se per il chitarrista degli Stones bisogna invocare qualche miracolo biologico, va detto che quello del cantautore americano è stato sempre e solo un bellissimo personaggio, uno splendido cartoon.
*
La cicca incollata alle labbra, la camicia fuori dai pantaloni sgualciti, lo sguardo torvo di chi ha fatto le ore piccole e dormito poco, l’andatura claudicante e la gestualità della marionetta tenuta in piedi dal nodo allentato della cravatta al collo. E ancora quel cappello in bilico sul ciuffo ribelle, il mento caprino ad affilare ancor più il muso, la voce sempre più scartavetrata di disco in disco: Waits ha perennemente recitato, consegnandoci una maschera su cui fantasticare. Prova ne è il crescendo registrato dalla parallela attività di attore, che oggi lo impegna molto più della musica. Una lunga serie di cammei in film partiti con le migliori intenzioni, a fianco di grandi nomi – Jarmusch e i Coen, Stallone e Redford, Nicholson e Benigni – e finiti spesso e immeritatamente in flop al botteghino. Con prestigiose eccezioni: il cult movie Daubailò, il corale America Oggi, il Dracula di Coppola, fino alla Ballata di Buster Scruggs. Le parti sono diventate via via più consistenti. Prova ulteriore della finzione artistica il fatto che, poco più che 30enne, si sia accasato mollando Rickie Lee Jones e l’appartamento al Tropicana Hotel di Los Angeles, dove componeva col pianoforte piazzato in cucina, cominciando a figliare con quella che ancora oggi è sua moglie e musa: Kathleen Brennan, a cui è rimasto fedelmente accanto, coinvolgendola sempre più nelle sue produzioni e allestendo una sorta di impresa musicale familiare composta da amici e parenti stretti (pure lo storico contrabbassista Greg Cohen è diventato suo cognato sposando la sorella).
* Certo agli inizi di birre e sigarette ne ha consumate parecchie, specie sul palco, quando ancora si poteva fumare al chiuso. Ma non è andato molto più in la, e non per molto tempo. Quella vita disgraziata da nottambulo tormentato l’avrà realmente fatta solo per qualche anno. Proprio come certi attori, seguaci di Stanislavskij, che sperimentano personalmente ruoli e situazioni nella vita reale, rubare espressioni e dettagli dalla quotidianità altrui, per calarsi poi con maggiore verità nei panni da interpretare. L’aver più volte dichiarato d’aver chiuso con alcol e tabacco non ha però permesso alla voce di schiarirsi, anzi ha misteriosamente proseguito la sua discesa all’Ade diventando anch’essa cartoonistica, grottesca ed esasperata come il burattino da cui esce, precipitando in un abisso infernale di ruggine e catrame. La trasformazione di tono e registro è quasi incredibile, specie nei primi lp dove, da un anno all’altro, si stenta a credere che si tratti dello stesso cantante.
* Waits ha dato una new coat of paint alla poetica urbana, alimentando e ridipingendo con le sue storie e le sue musiche una nuova mitologia metropolitana cominciata all’inizio del XX secolo, incarnando scenicamente una dimensione esistenziale: quel mondo nascosto, sottoterra, in cui però – in una società ormai totalmente alienante – è possibile ancora scovare un ultimo brandello di umanità, il fuoco fatuo della poesia, innamorarsi. Già il titolo Closing Time, paradossale per un disco d’esordio, è emblematico dello sguardo rivolto fin dall’inizio all’indietro, a un universo in bianco e nero, e culturalmente contro le mode del momento. Uno stile evocativo di un’epoca intera, dei cui elementi si è riappropriato in maniera autonoma, rielaborandoli e riattualizzandoli in una produzione originale e inimitabile. Più che Conte, a cui è stato associato, in Italia fu Buscaglione l’artefice di un’operazione simile.
*
Ma se la vita è fatta di incontri, per imbattersi nel fantasma del sabato sera, bisogna incontrare a un certo punto qualcuno che metta un suo cd: Waits non può rappresentare il punto di partenza di un libero ascolto musicale, ma solo un punto di arrivo di una fitta rete di riferimenti culturali che si rimandano tra loro spaziando da Armstrong al mariachi, da Sinatra all’heavy metal, da Bukowsky al valzer: una coreografia di generi e arrangiamenti esplosa con Swordfishtrombone, tutti messi di fronte allo specchio distorcente dell’estro dell’autore, unico collante a tenere insieme brani e album: le rauche e inconfondibili corde vocali, capaci di amalgamarli in un calderone ribollente. A conferma dell’insopprimibile dimensione teatrale dell’opera di Waits, il micidiale trittico di album degli anni ’80 doveva chiudersi proprio con una messinscena, Frank’s Wild Years: un musical stile Broadway, non un concerto solitario nei pub, in cui agli inizi – lo si vede in vari video su Youtube – si faticava a distinguerlo da un avventore. Finirà per diventare la più grossa delusione della sua carriera, per le difficoltà soprattutto economiche di realizzazione. Se ne ricaverà quello che è tutt’oggi l’unico dvd live, Big Time: la Grande Occasione, sfuggita a lui stesso come ai suoi protagonisti. In quel caso sì, la realtà s’affiancò davvero alla fantasia di Waits-Frank, perdente e romantico, che d’ora in poi sarebbe andato ufficialmente in scena come rappresentazione, su un palco con quinte e proscenio, non confuso tra i tavolini di un night club tra 9th e Hennepin.
* Via coppola e cravatta, largo a borsalino e ombrello. Del vecchio look restano giacca, scarpe a punta e una mosca sotto il labbro. Cambiano anche i testi: la celebrazione della fuga alla Kerouac, della vita di strada alla ricerca del sogno a stelle e strisce, cede il posto al ritorno a casa. Il rain dog riscopre il calore del focolare domestico in pezzi da brivido come Train song e House where nobody lives. Il pessimismo si dilata, dai reietti e vagabondi delle città americane diventa universale: lo sguardo malinconico e rassegnato di Waits si estende all’umanità, soprattutto nei lavori recenti: God’s away for business e Misery’s the river of the world sono titoli parlano da soli. Diventa addirittura politico, nella stessa direzione dell’altro suo grande amico, quello buono, Bruce Springsteen: ne sono esempi Day after tomorrow, Road to peace, l’anno scorso perfino Bella Ciao.
*
Waits ha stravolto l’immagine del pianista ubriaco, avvolto in una nuvola di fumo ed eccentricamente retrò in cui, lamentava, l’aveva impagliato la Asylum (che, pur negandogli sperimentazioni e contaminazioni nel sound, ebbe almeno il merito d’aver creduto ciecamente in lui per un decennio nonostante le scarse vendite) modificandola in una ancora più estrema e favolistica: il burattinaio infernale che tira i fili di quella fauna underground di cui lui stesso faceva parte, il diavolo folle di quel sottobosco di citazioni letterarie, teatrali e cinematografiche, riorchestrate dalla sua bacchetta magica. La mutazione ha contagiato anche la casa discografica, con il passaggio a cavallo del millennio dalla faraonica Island alla minuscola ANTI-Records (altro nome che dice tutto): etichetta indipendente dal catalogo punk che nel 2002 assecondò la stravagante anti-commercialità di Waits facendo uscire contemporaneamente sul mercato due cd separatamente (le sound track Blood Money e Alice per altrettanti spettacoli firmati Bob Wilson); salvo, 4 anni più tardi, pubblicarne uno triplo, di canzoni rimaste orfane nella lunga trasformazione del mulo in centauro. A ormai 9 anni dall’ultima fatica, Bad as me, (e ancor più dall’ultimo tour) la metamorfosi di un artista assoluto in icona vivente, simbolo di creatività, può dirsi conclusa. Forse.
Giuseppe Gaetano
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diceriadelluntore · 8 years ago
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Vorrei tentare \vorrei offrirti le mie mani \vorrei tentare \vorrei difendere questo momento\e penso di sentirmi confusa e felice \e penso di sentirmi confusa e felice. Al Festival di Sanremo 1997 (venti anni fa....) una giovane ragazza dal caschetto nero, occhi grandi, pelle chiara, che canta con una voce singhiozzante e unica si presenta con i versi appena citati cantati con potente ritmo rock. Il successo è esplosivo, e l’album omonimo, Confusa e Felice, che contiene altre gemme in Uguale A Ieri, Venere, Bonsai, vende in Italia oltre 100 mila copie. Pure il suo esordio era avvenuto sempre a Sanremo l’anno prima con Amore di Plastica, scritta a quattro mani con Mario Venuti. Carmen Consoli come Venuti, viene da Catania, e nella stupenda città etnea dalla metà degli anni ‘80, grazie ad una piccola etichetta discografica, la Cyclope di Francesco Virlizi, nasce una generazione di bravi musicisti, tra cui la band di Venuti, i Denovo, che ebbero un ottimo successo verso la metà degli anni ‘80 con il loro pop sofisticato (che richiamava quello dei formidabili XTC). La Consoli cresce musicalmente in quel fervore musicale con un piccolo gruppo, i Moon Dog’s Party, nei locali di Catania, proponendo un repertorio di cover soul e rock anni ‘60, con una predilezione per Janis Joplin. Dopo l’esordio sanremese del ‘96, fece scalpore in positivo una sua versione de L’animale in un album tributo ad un altro illustro catanese, Franco Battiato (Battiato Non Battiato, disco sublime). A quell'epoca aveva già vinto un Premio Tenco, un Premio Recanati e un Premio Ciampi, affascinando per la sua poetica dei testi, la sua vocalità particolare e per una maturità artistica che non ha mai abbandonato. Dopo il successo di Confusa e Felice, diviene la cantantessa. Nel 1998 i toni rock e la forza di Confusa e Felice vengono un po’ attenuati in Mediamente Isterica, molto chiaroscurale e decisamente più intimista, che ha una canzone famosa e bella nel singolo Besame Giuda, ma valide sono anche Quattordici Luglio, In Funzione di Nessuna Logica e L’ultima Preghiera. Dopo un seguito tour, l’atteso nuovo disco, che più focalizzato e costruito, è il suo primo capolavoro, e, senza paura di scriverlo, uno dei dischi italiani più belli degli ultimi 25 anni: Stato Di Necessità esce dopo l’ennesima apparizione sanremese con la bella In Bianco e Nero. Prodotto dal fido Virlizi, con l’aggiunta di una squadra di sessionisti validissimi capitanati da Santi Pulvirenti, magnifico chitarrista jazz e autore di famose e fortunate colonne sonore, il disco è un equilibrio perfetto tra il rock, anche ardente di Stato di Necessità (volutamente spiazzante nella sua carica ormonale) o allegro di Il Sultano (della Kianca), le melodie più dolci, come L’Ultimo Bacio, colonna sonora del film di Muccino, la languida Parole di Burro, la Consoli alla Tori Amos di Non Volermi Male. Da ricordare anche la splendida Orfeo e Novembre '99, con echi di bossa nova. Album storico, che nel 2002 esce anche in versione internazionale con il titolo État De Necessité. Il successo e la garanzia di qualità iniziano a varcare i confini nazionali, e la soddisfazione più grande per la cantantessa arriva il 6 febbraio 2005 ad Addis Abeba, dove è l’unica artista bianca al concerto di celebrazione del sessantesimo anniversario della nascita di Bob Marley. La sua carriera continuerà fino ad oggi ad un altissimo livello, diventa mamma, e continua il suo percorso, pressoché unico nella musica italiana, di cantautrice affermata sia dalla critica che dal pubblico. E lo si poteva già pensare di una che 21 anni fa cantava: ma come posso dare l'anima\e riuscire a credere\che tutto sia più o meno facile\quando è impossibile\volevo essere più forte di\ogni tua perplessità\ma io non posso accontentarmi\ se tutto quello che sai darmi\è un amore di plastica.
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