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valentina-lauricella · 7 months ago
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Dal prof. Giovanni Giolo
L’ULTIMO LEOPARDI E LA GINESTRA
Benedetto Croce giudica la poesia di Giacomo Leopardi in base alla sua teoria estetica “poesia/non poesia” e condanna la sua posizione pessimistica, che attribuisce alla sua “vita strozzata”: si sentì premuto, avvinto e sopraffatto da una forza brutale, da quella che egli chiamò la “nemica natura”, che gli spezzò gli studî, gli proibì i palpiti del cuore, e lo rigettò su se stesso, cioè sulla sua offesa base fisiologica, costringendolo a combattere giorno per giorno per sopportare o lenire il malessere e le sofferenze fisiche che lo tormentavano invincibili. Questa “forza brutale”, questa violenza e questa sopraffazione, secondo il critico, scavarono in fronte a Leopardi quel “solco di dolore e di nobiltà”, per il quale fu ben presto riconosciuto in Europa come essere assunto nella pleiade degli altri spiriti straziati e sconsolati.
Bisogna però riconoscere che il pessimismo leopardiano coesiste con una natura schietta e nobile, trepida, aperta alla vita, al desiderio e alla speranza. La condanna di Croce è duplice e riguarda non solo la poesia ma anche il suo pensiero filosofico, in quanto, per lui, “ la filosofia non è né pessimistica né ottimistica”. Ottimismo e pessimismo rispecchiano stati d’animo e umori personali, sono interpretazioni soggettive di circostanze e situazioni della realtà: *la filosofia, in quanto pessimistica od ottimistica, è sempre intrinsecamente pseudofilosofia* e Leopardi non offre se non sparse osservazioni, non approfondite e non sistemate: a lui mancava disposizione e preparazione speculativa, e nemmeno nella teoria della poesia e dell’arte, sulla quale fu condotto più volte a meditare, riuscì a nulla di nuovo e importante, di rigorosamente concepito. Ma per Leopardi il male e il dolore non erano “sparse osservazioni non approfondite e non sistemate”, erano “la sostanza di tutta la filosofia” (Operette Morali, dialogo di Timandro ed Eleandro).
Il 1947 è l’anno in cui il panorama critico cambia radicalmente per opera di Walter Binni (La nuova poetica leopardina) e di Cesare Luporini (Leopardi progressivo). La poesia del recanatese viene vista, al contrario di Croce, come tensione speculativa, esaltazione del vitalismo e dell’agire come supremo rimedio alla noia, disprezzo della politica e celebrazione del nulla (Leopardi è, come nota Karl Vossler, il religioso amante del nulla). Ne nasce un nesso sempre più stretto, nel periodo post-fiorentino e in quello napoletano, fra poesia e pensiero, che segna il suo apice nella Ginestra. Leopardi è un intellettuale legato al materialismo illuministico (per questo il tergo / vigliaccamente rivolgesti al lume / che il fe’ palese) che lo induce a invitare gli uomini, come in un estremo appello messianico, ad allearsi “in social catena” contro la natura madre di parto e di voler matrigna. Ma, giustamente notano i critici, il nesso poesia-pensiero era presente già nelle canzoni del ’21-‘22 fino alla rottura del concetto di natura benefica che trova la sua proclamazione nell’Ultimo canto di Saffo.
Cesare Luporini sostiene che Leopardi sia un filosofo “moralista” “ed è soltanto sotto questo riguardo che egli conta”, “non è un filosofo tecnico della politica e della società”, anzi si oppone a chi vuol considerarlo un filosofo politico “tra i massimi del nostro Ottocento”, come Luigi Baldacci. Andrea Rigoni inoltre lo paragona ai veri teorici della politica e della società quali Rousseau, Montesquieu, Tocqueville e Schmitt. Altri, in effetti, potrebbero sostenere, alla stessa stregua, che Leopardi sia un metafisico e un filosofo dell’estetica, visto che la sua “riflessione storico-politica risulta coordinata e solidale” con quella metafisica ed estetica.
Ma Croce rifiuta questo giudizio e nota che in questo campo egli non approdò ad alcun risultato. Ma la critica successiva lo dichiara sia poeta che filosofo moralista e afferma che come moralista è il più grande che l’Italia possa vantare, come Nietzsche è il più grande moralista che possa vantare la Germania. Può Croce confutare la tesi leopardiana – si chiede Sossio Giametta - del male e del dolore della vita, della vanità e della nullità dell’esistenza? Può negare l’eterna distruzione ad opera della natura dei suoi figli e di tutte le cose umane: giovinezza, salute, bellezza, speranza, affetti, gloria, virtù, poesia? Certamente no: tutto questo è inconfutabile, e inconfutabile è il destino di miseria, vecchiaia, malattia e morte di tutti gli esseri.
Nel ’21 Leopardi si chiede: come si fa la poesia? E risponde che gli spiriti sommi potranno vincere qualsiasi ostacolo ed essere sommi poeti e sommi filosofi, anche se questo accade molto raramente. Nel ’23 sostiene che la poesia cerca il bello e la filosofia il vero e che il bello e il vero si conciliano nel grande filosofo e nel grande poeta. Nel periodo napoletano il poeta acquista maggior sicurezza di sé e le Operette morali concludono l’esperienza di un’altissima prosa poetica in chiave autobiografica-filosofico-etica che decreta il fallimento delle illusioni ed esprime il rimpianto dell’essere vissuto invano e il mito dolce-amaro della ricordanza. L’ultimo Leopardi della *Ginestra* si misura sul presente, si erge in lotta col suo tempo, con il secol superbo e sciocco, sente la sua infinita superiorità rispetto alla filosofia ottimistica e spiritualista dei *nuovi credenti,* è cosciente *di possedere un senso più alto della vita e approda a una concezione eroica della poesia, come detentrice di una verità diversa e superiore rispetto all’egoismo, all’utilitarismo e alla vuota retorica verbosa ed inerte, alla viltà di fronte alla morte e al Dio crudele: *sempre / codardi e l’alme / ingenerose, abbiette, / ebbi in dispregio.*
Nel ’36 rivendica l’originalità della sua filosofia che si oppone “ai preti, i quali qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto." Nella Ginestra il pensiero leopardiano acquista una nuova ed estrema sicurezza di persuasione della assolutezza della sua verità. Egli si proclama illuminista, materialista, ateo e deride i sogni e i deliri della mente umana. Per lui l’uomo è il corpo, la materia sente e pensa, lo spirito è flatus vocis e nella materia *tutto* è male. Le sue “persuase” certezze sono la caducità e la fragilità dell’uomo, l’infinita vanità del tutto, la malvagità della natura, il naturale egoismo dell’uomo e l’opposizione degli uomini dabbene *contro la lega dei birbanti.*
Egli entra in polemica con gli intellettuali del suo tempo arretrati e *regressivi* (nella Ginestra li chiamerà astuti o folli), mentre nella Palinodia denuncia: *sempre il buono in tristezza, il vile in festa / sempre e il ribaldo.* Leopardi appare uno “sradicato”, un “ribelle”, un “democratico” per la sua scelta dello “stato franco” di una repubblica fondata sulla sovranità popolare che nella Ginestra diviene una organizzazione comunitaria di tanti uomini confederati nella lotta con la *inimica natura*. Egli da malpensante, come dice Leporini, è su un’onda più lunga degli uomini del suo tempo. La Ginestra, la più grande poesia dell’epoca moderna, può essere paragonata ai massimi capolavori dell’umanità per l’assoluta tenuta di ritmo, per la sconvolgente impetuosità, per l’invito a una gioia che è libertà e fraternità fra tutti gli uomini. Come scrive Natalino Sapegno: “Nella Ginestra il lirico, il solitario, maturatosi attraverso la passione, si è fatto degno di parlare ai fratelli, di erigersi profeta di una civiltà e umanità nuova. Anche il linguaggio è veramente nuovo, non il linguaggio vago, indefinito, tenero, nostalgico degli Idilli, ma una lingua intensa e vibrante, una sintassi concitata e piena di spezzature, una musica senza morbidezze e squisitezze melodiche, energica e piena di slancio, una poesia che lascia l’impressione di un’esperienza tutta aperta, non esaurita nella immobile perfezione, ma protesa verso il futuro”. Il poeta presenta la ginestra come un modello per il comportamento dell’umanità. Essa, fiore gentile, soffre senza orgoglio e senza viltà il destino che le è dato in sorte, commisera i danni altrui e prova compassione per tutti i viventi dei quali condivide la sofferenza, la debolezza e la sorte mortale. Essa non si comporta come l’uomo che stolto, nato a perir, nutrito in pene, / dice ; - A goder son fatto, - / e di fetido orgoglio / empie le carte, eccelsi fati e nove / felicità, quali il ciel tutto ignora, / non pur quest’orbe, promettendo in terra /a popoli che un’onda / di mar commosso, un fiato d’aura maligna, un sotterraneo crollo / distrugge sì che avanza / a gran pena di lor la ricordanza. Il suo comportamento è ben diverso da quello degli intellettuali spiritualisti del tempo di Leopardi che si ritengono destinati alla felicità terrena e ultraterrana, non vogliono riconoscere la loro mortalità, la sofferenza, l’estrema debolezza di fronte alla catastrofi naturali come quella del Vesuvio nel 79 che distrusse Pompei, Ercolano e i paesi circostanti. Leopardi sa quanto questi intellettuali sono interessati alla collaborazione con le forze reazionarie del suo tempo che vogliono lasciare il volgo nell’ignoranza e gli propinano menzogne, volgo che ha il diritto di conoscere la verità, nulla al ver detraendo, che è il blasone araldico più alto di Leopardi, verità denunciata con forza dalla sua suprema poesia della estrema fase della sua esistenza: via la speranza, via la felicità, via le illusioni sulla natura e sulla natura degli uomini, che sono prodotti della natura e della natura portano in sé istinti bassi, crudeli, egoistici, via il passato spiritualistico, teocentrico, geocentrico, antropocentrico, via le ideologie che detengono il potere del suo tempo, ma la proclamazione del vero e dell’amore per gli uomini generosi e saggi in lotta con la natura.
“Il pessimismo cosmico di Leopardi – scrive Binni – raggiunge ormai la sua meta combattiva e propositiva in un’apertura verso il futuro, in una offerta di “buona, amara novella”, priva di ogni afflato trionfalistico, ma sostenuta da un’energica persuasione di una via stretta e ardua, chiusa nei limiti di un destino di morte e sofferenza, di rinnovate stoltezze, di catastrofi naturali e cosmiche: “eroica” nella sua volontà di resistenza e contrasto, di non rassegnazione, nel doveroso tentativo di rifondare nelle sue amare verità una *polis* comunitaria, nell’alleanza prioritaria tra i veri intellettuali, portatori di verità e volgo pieno di forze potenziali autentiche, ben capace di “virtù” (la parola moralmente suprema mai abbandonata da Leopardi)”. La Ginestra – conclude il critico – propone una lotta contro la natura, “lotta il cui successo non ha nessuna garanzia e che è tanto più doverosa proprio nella sua ardua difficoltà, mentre attualmente sull’umanità incombe la minaccia della catastrofe nucleare”.
(Gianni Giolo)
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paoloferrario · 8 years ago
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EL ME' INDIRIZZ, idea scenica da una idea di Gianni Giolo, con le MUSICHE di Fo, Jannacci, Della Mea, Carpi, Strehler e i TESTI di Pietro Collina, Riccardo Borzatta e Federico Piadeni, Fondazione CA' D'INDUSTRIA, Via Brambilla, 61, COMO. Organizzazione: Pierangela Torresani, Marco Bonacina, Omar Dodaro, 22 DICEMBRE 2016. VIDEO postato su youtube da O. Dodaro, 1 ore e 8 minuti
EL ME’ INDIRIZZ, idea scenica da una idea di Gianni Giolo, con le MUSICHE di Fo, Jannacci, Della Mea, Carpi, Strehler e i TESTI di Pietro Collina, Riccardo Borzatta e Federico Piadeni, Fondazione CA’ D’INDUSTRIA, Via Brambilla, 61, COMO. Organizzazione: Pierangela Torresani, Marco Bonacina, Omar Dodaro, 22 DICEMBRE 2016. VIDEO postato su youtube da O. Dodaro, 1 ore e 8 minuti
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paoloferrario · 8 years ago
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EL ME’ INDIRIZZ, idea scenica da una idea di Gianni Giolo, con le MUSICHE di Fo, Jannacci, Della Mea, Carpi, Strehler e i TESTI di Pietro Collina, Riccardo Borzatta e Federico Piadeni, Fondazione CA’ D’INDUSTRIA, Via Brambilla, 61, COMO. Organizzazione: Pierangela Torresani, Marco Bonacina, Omar Dodaro, 22 DICEMBRE 2016. VIDEO postato su youtube da O. Dodero, 1 ore e 8 minuti
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