#scena drammatica
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NON È UN CADAVERE…È SOLO IN ATTESA
Episodio 10 Immagine creata con IA Episodio 10: Il compito si è concluso L’elicottero si posò con un rumore sordo sulle rocce frastagliate di Petra, sollevando un turbine di sabbia e polvere. I rotori stridevano contro il vento desertico, coprendo ogni altro suono. Nixar, zoppicando leggermente, avanzava con il passo di chi portava un peso insostenibile, il volto segnato da una determinazione…
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"113 minuti: So chi ha ucciso mio figlio" – Il thriller adrenalinico di James Patterson e Max Di Lallo. Recensione di Alessandria today
"113 minuti: So chi ha ucciso mio figlio" è un thriller avvincente scritto da James Patterson in collaborazione con Max Di Lallo, parte della collana BookShots, una serie di romanzi brevi pensati per essere letti tutti d'un fiato.
“113 minuti: So chi ha ucciso mio figlio” è un thriller avvincente scritto da James Patterson in collaborazione con Max Di Lallo, parte della collana BookShots, una serie di romanzi brevi pensati per essere letti tutti d’un fiato. La storia è costruita con un ritmo serrato e una tensione crescente, elementi che rendono questo libro un’esperienza intensa e coinvolgente. Molly Rourke è una madre…
#Alessandria today#Azione#BookShots#Colpi di scena#Donne protagoniste#Fbi#giallo contemporaneo#giustizia personale#Google News#Investigazioni#italianewsmedia.com#James Patterson#James Patterson Italia#lettura veloce#Max Di Lallo#narrativa adrenalinica#Narrativa breve#narrativa crime#narrativa d’azione#narrativa drammatica#narrativa emozionante#narrativa moderna#narrativa noir#perdita e dolore#Pier Carlo Lava#romanzi ad alta tensione#romanzi bestseller#romanzi con protagoniste femminili#romanzi consigliati#romanzi da leggere in un giorno
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Storia Di Musica #355 - King Crimson, Red, 1974
L'ultima storia dell'anno riguarda un disco che è uno dei capolavori di tutti i tempi. Riscoperto negli ultimi anni, per tutta una serie di avvenimenti che andrò a raccontarvi, chiude il cerchio del progressive di una delle band che lo fecero nascere: i King Crimson.
Di quella band che nel 1969 sconvolse il mondo della musica con In The Court Of The Crimson King è rimasto solo il genio di Robert Fripp, che in 5 anni cambia 7 formazioni diverse. E il disco di oggi nasce dopo l'ennesimo cambio di formazione. Concluso un tour americano di tre mesi nel 1974, Fripp, Bill Bruford (batteria) e John Kenneth Wetton (basso, voce e chitarra) decidono a maggioranza di allontanare il violinista David Cross. Rimangono un trio, e iniziano a pensare ad un nuovo disco. In Gran Bretagna Fripp ha un incontro che gli sconvolge la vita: legge gli scritti di John G. Bennett, allievo diretto di Gurdjieff. Bennett, che era un matematico, voleva nei suoi lavori integrare il proprio sapere scientifico con le conoscenze acquisite in materia di filosofie orientali e misticismo con la frequentazione del grande maestro greco-armeno. Fripp ne rimase folgorato, e nei decenni successivi organizzerà nei campi studio di Bennett corsi di chitarra divenuti leggendari: non prendere la chitarra per settimane intere, fare meditazione prima di ogni sessione, persino accordature tutte particolari per suonare lo strumento. Ma l'incontro con Bennett provocò anche altro: Fripp dichiara finita l'esperienza King Crimson, Bruford e Wetton hanno totale carta bianca per l'ultimo lavoro.
Quello che poteva essere l'inizio di una tragicomica esperienza, si rivela invece un trampolino creativo potentissimo: ne nasce fuori un disco dove il progressive e il jazz rock, cardini di quel suono così unico, sono la base di partenza per una musica più muscolare, scarna, drammatica. Bruford e Wetton chiamano musicisti sessionisti per le registrazioni, alcuni grandi amici dei nostri ed ex componenti: Ian McDonald, con il suo sax, uno dei fondatori della band, Mel Collins, anche lui ex Crimson, e Mark Charig che tra il 1970 ed il 1971 suona negli storici album Lizard e Islands, in quest'ultimo è suo un fenomenale assolo di cornetta nella title track. Le registrazioni di Red, colore della passione, della morte, della rinascita, iniziano nel luglio del 1974, e ne vengono fuori 40 minuti di musica straordinaria. Red è l'inizio già spiazzante: la band è in formazione power trio, il brano gira intorno ad un potente riff, tra i migliori di Fripp, fino a quando verso metà brano entra in scena un violoncello (strumento che apparirà anche in altri brani). Chi sia l'esecutore è ancora oggi un mistero, perchè non è segnato nei crediti sull'album e persino nei registri degli Olympic Studios di Londra dove iniziarono le registrazioni. Una recente teoria vuole che fosse nientemeno che Julian Lloyd Webber, fratello del famosissimo Andrew Re dei Musical, ma è una balla. Fatto sta che a 50 anni rimane ancora il mistero! Il disco continua con Fallen Angel, dove compare una rara chitarra acustica, è un brano sugli Hells Angels, dove un uomo chiede al fratello di unirsi alla terrificante banda per poi vederlo pugnalato tragicamente per le strade di New York. One More Red Nightmare è il lato horror del disco: l'incubo di uno schianto aereo, con il riff a salire vertiginosamente e gli interventi al sax di McDonald, un brano drammatico e potentissimo. Providence è una live session improvvisata al Palace Theatre di Providence, Rhode Island, il 30 giugno 1974, dove suona e comprare nei crediti anche David Cross. Ma sono gli ultimi, monumentali 12 minuti di Starless la pietra miliare di questo capolavoro: originariamente pensata per il precedente album, che si intitola Starless And Black Bible, è divisa in una parte cantata dove ritorna il caro Mellotron, un tema di chitarra elettrica e il sax di Mel Collins; nella seconda parte inizia il ritmo di un basso iconico (per gli appassionati puristi, in tempo 13/8 e dall'armonia diminuita) dove la chitarra di Fripp arriva nel cielo più oscuro, senza stelle appunto, un abisso celeste e non terreno.
All'epoca, quando uscì, il 5 Ottobre, si sapeva già da un'intervista al New Musical Express che il gruppo non esisteva più. Persino la copertina, così intima e minimalista rispetto alla magia delle loro precedenti, non attirò l'attenzione dovuta. Il disco ebbe pochissimo successo. Ma negli anni a seguire, visti anche i futuri e numerosi ritorni di Fripp a sigla King Crimson, il disco ha finito per ammaliare intere generazioni di musicisti: figura non solo come ultimo apice del prog, che verrà di lì a poco colpito a morte dal punk, ma è considerato il capostipite di tutte le varianti che da fine anni '80 riproposero i suoni articolati, la maestria strumentale, l'atmosfera tenebrosa e cinematografica. È un disco mondo, probabilmente anche più mistico e profondo di quello pensato dai musicisti, che ancora sfida a cercarci dentro a 5 decenni di distanza, nelle sue profondità recondite e terribili. Come si fa con ogni cosa che non ci lascia indifferenti. Tanto che un giovane produttore, Butch Vig, lo fece ascoltare ad un giovane musicista, che disse: "è il miglior album nella storia del rock". Quel musicista era Kurt Cobain.
Un grande abbraccio a quelli che leggono sempre, a quelli che spero si appassionino, ai curiosi ogni tanto. Buon anno e alle prossime storie musicali!
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vabbè mi è passato il sonno e ho voglia di fare un rant.
lucio corsi fa musica da un sacco di anni ma per far parte della scena indie e essere praticamente sconosciuto al grande pubblico arrivare secondo è un risultato stratosferico; certo avrei preferito ci arrivasse se a vincere fosse stato brunori, per dire.
non me ne frega niente dell'esc, nel senso che per me sanremo dovrà sempre essere sanremo e mai una selezione per il contest europeo.
detto ciò, proprio perché sanremo è(ra) sanremo mi auguro che questa edizione non sia la prima di una lunga serie di noia, conformismo, nemica di ogni guizzo o espressione di dissenso, perché sì, senza complottismo alcuno la svolta meloniana è stata chiara anche nel far svolgere le esibizioni come una catena di montaggio, un po' per rispettare i tempi e un po' perché se agli artisti lasci due secondi sul palco c'è il rischio che li impieghino per dire cose altamente problematiche e estremiste come "stop al genocidio".
(plauso infinito al maestro d'orchestra che contando sul grado d'ignoranza del soggetto medio ha sfoggiato un BDS glitterato di cui nessuno si è lamentato)
insomma, la vita è faticosa e questa settimana all'anno in cui possiamo memare, emozionarci, ascoltare roba bella e brutta e costruire ricordi che magari tra un ventennio si sbloccheranno e ci faranno ridere è una cosa piccola, ma senza fare troppo la drammatica, nel suo piccolo preziosa; mi dispiacerebbe vedere che si sfilaccia fino a distruggersi.
di questa edizione salvo davvero poco, ma mi porto a casa il concetto che le lune senza buche sono fregature. lo so da tanto ma non sapevo come dirlo, adesso invece sì.
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Deus ex machina
Apparizione di un personaggio divino ex machina in una rappresentazione della Medea di Euripide al teatro greco di Siracusa
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Deus ex machina è una frase latina mutuata dal greco "Mechanè", in greco antico: ἀπὸ μηχανῆς θεός? ("apò mēchanḗs theós") che significa letteralmente "divinità (che scende) dalla macchina".[1] Originariamente, indica un personaggio della tragedia greca, ovvero una divinità che compare sulla scena per dare una risoluzione ad una trama ormai irrisolvibile secondo i classici principi di causa ed effetto.
Per estensione, tale espressione è andata ad indicare un evento o un personaggio che, nel corso di una narrazione, ne risolve inaspettatamente gli intrecci, spesso con modalità apparentemente non correlate rispetto alla logica interna della vicenda, al punto di apparire altamente improbabile o come il risultato di un evento fortuito. Al di fuori dell'ambito narrativo, l'espressione indica una persona o un evento che inaspettatamente risolve una situazione difficile.
La definizione della frase "deus ex machina" venne usata per indicare il dio che scende sulla terra e risolve la situazione. La frase trae origine dalla tragedia greca: in tale ambito, quando era necessario far intervenire una o più divinità sulla scena, l'attore che interpretava il dio era posizionato su una sorta di gru in legno, mossa da un sistema di funi e argani, chiamata appunto mechanè. L'attore veniva calato sulla scena dall'alto, simulando dunque l'intervento di una divinità che scende dal cielo.
L'intervento ex machina degli dei veniva usato, soprattutto dal tragediografo Euripide, per risolvere felicemente una situazione intricata e apparentemente senza possibile via di uscita. Secondo Aristotele, quest'espediente non deve interferire con la λύσις, ovvero con lo scioglimento dell'opera, ma deve avvenire fuori dall'azione drammatica.
Nel mondo antico un uso eccessivo del deus ex machina era inoltre considerato prerogativa di autori poco raffinati che non sarebbero riusciti a sciogliere altrimenti trame complesse.
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SENSI DELL'ARTE - di Gianpiero Menniti
LA CRISI VISTA DA BOTTICELLI
"La calunnia" (Uffizi, Firenze) viene considerata una tavola appartenente a una terra di mezzo, tra la fine delle illusorie certezze umaniste di matrice neoplatonica e l'inizio di una consapevolezza intensa e profonda.
Risale a un periodo compreso tra il 1491 e il 1495, anni di svolta nella Firenze che assiste alla scomparsa di Lorenzo de Medici e all'ascesa effimera del frate ferrarese Girolamo Savonarola, con la successiva costituzione della "repubblica" che vedrà in Niccolò Machiavelli il più acuto tra i suoi protagonisti.
Sandro Botticelli (1445 - 1510) di quell'età di mutamenti radicali se ne fece imprevisto interprete: da artista di profonda sensibilità, artefice che aveva dipinto la gloria della "Signoria" medicea, seppe tuttavia intuire prima del tempo l'esigenza espressiva della crisi incombente, di una cupa caduta, dell'inesorabile e lunghissimo scivolamento che lascerà solo vestigia mute in una Firenze ingessata nel vanto fuggevole di impareggiabili forme architettoniche e artistiche.
Le fiamme alte dei "fuochi delle vanità" non bastarono a illuminare fino in fondo le piazze della città: quanta produzione artistica venne bruciata, sacrificata sugli altari di una rivoluzione di parole.
Ma non quest'opera del maestro della "Nascita di Venere" e della "Primavera": un quadro che segna, nei suoi chiaroscuri e nella concitazione drammatica della scena, l'avvento del tragico e grandioso "rinascimento" cinquecentesco.
Con la "Natività mistica", del 1501, il ciclo inaugurato da "La calunnia" si chiuse in un delirante, inascoltato appello.
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“ Sono anni molto violenti a Firenze. La città è percorsa da bande di fascisti terribili, duri e fanatici, riuniti in squadracce dai nomi paurosi. Una su tutti, ‘La Disperata’, al cui soccorso arriva ogni tanto ‘La Disperatissima’, composta da squadristi di Perugia che si muovono anche fuori regione spingendosi a fare incursioni fin nelle Marche. Gentaccia pronta a usare bastone e olio di ricino senza alcuno scrupolo, teppisti, criminali come Amerigo Dumini, il capo degli squadristi che un paio di mesi dopo sequestrano e uccidono Matteotti (e che, ricorda Lussu ne La marcia su Roma, era solito presentarsi dicendo «Amerigo Dumini, nove omicidi»). Il professor Salvadori, per non mettere in pericolo la famiglia, obbedisce alla convocazione senza fare storie e va a piazza Mentana. Entra nel covo alle diciotto del primo aprile [1924] e ne esce a tarda sera, coperto di sangue e barcollante. Max, all’epoca sedicenne, che gli è andato appresso perché aveva delle lettere da impostare alla stazione e l’ha aspettato fuori, ha sentito tre brutti ceffi che ciondolano per la piazzetta dire alcune frasi inquietanti. «Occorre finirlo». «Già, ma chi l’ha comandato?» «L’ordine viene da Roma».
In quel momento Willy esce dal palazzo circondato da una dozzina di fascisti esagitati che brandiscono bastoni. Il padre, ammutolito, è coperto di sangue, e quando Max gli si fa incontro per sostenerlo e aiutarlo riceve la sua razione di botte: i picchiatori non hanno finito, la squadraccia li segue fin sul ponte Santa Trinita, vogliono buttare padre e figlio al fiume. I due si salvano solo grazie a una pattuglia di carabinieri che passa di lì per caso, e quando infine arrivano a casa a mezzanotte, malconci e umiliati, sebbene Cynthia mantenga calma e lucidità e Willy cerchi di minimizzare, lo shock è forte per tutti loro. Scrive Joyce in Portrait: “Tornarono tardi, e la scena è ancora nei miei occhi. Noi due donne (mia madre e io, mia sorella era in Svizzera), affacciate alla ringhiera del secondo piano, sulla scala a spirale da cui si vedeva l’atrio dell’entrata; e loro due che dall’atrio salivano i primi gradini, il viso rivolto in alto, verso di noi. Il viso di mio padre era irriconoscibile; sembrava allargato e appiattito, e in mezzo al sangue che gocciolava ancora sotto i capelli, si vedevano i tagli asimmetrici fatti con la punta dei pugnali: tre sulla fronte, due sulle guance, uno sul mento. Mio fratello aveva il viso tutto gonfio e un occhio che pareva una melanzana. «Non è niente, non è niente», diceva mio padre, cercando di sorridere con le labbra tumefatte. Capii in quel momento quanto ci volesse bene.” In quella sera drammatica che costituisce uno spartiacque nella storia della loro famiglia, Joyce fa tesoro dell’esempio dato dai genitori e dal fratello. Il padre che coraggiosamente cerca di sminuire la portata della violenza e il fratello che lo sostiene forniscono alla Joyce dodicenne «solidità, in quanto alle scelte da fare. Servì a pormi di fronte a ciò che è barbarie e a ciò che invece è civiltà». “
Silvia Ballestra, La Sibilla. Vita di Joyce Lussu, Laterza (collana I Robinson / Letture), 2022¹; pp. 13-14.
#Joyce Lussu#La Sibilla#letture#leggere#biografie#saggi#Joyce Salvadori Lussu#Silvia Ballestra#Emilio Lussu#anni '20#intellettuali italiani del XX secolo#antifascismo#Firenze#libri#omicidio Matteotti#Perugia#squadrismo#Amerigo Dumini#Marcia su Roma e dintorni#famiglia#Toscana#Storia del '900#primo dopoguerra#politica italiana#Sardegna#Armungia#Partito Sardo d'Azione#Giustizia e Libertà#azionismo#Gerrei
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Dune - Parte Due, un sequel imponente, tra continuità e naturale evoluzione
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Ci siamo. Finalmente
Finalmente perché è uno di quei film che sono in grado di portare il pubblico in massa nelle sale. Finalmente perché è indubbiamente il tipo di produzione di cui il cinema ha bisogno per solleticare l'immaginario degli spettatori e mostrare come e quanto il grande schermo possa fare ancora la differenza rispetto all'ormai abituale visione casalinga.
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L’attesa è stata ampiamente ripagata da quanto si è potutto vedere, perché ha contribuito nell’ accrescere l’ hype per questo secondo capitolo e anche perché arriva in un periodo meno carico di novità rispetto lo scorso autunno, quando era programmata inizialmente la sua uscita.
Dune - Parte Due si presenta al proprio pubblico in una perfetta continuità con quanto visto nella prima parte, non solo continuando ma anche sviluppando la storia che era stata impostata, rappresentandone la naturale evoluzione sia in termini narrativi che espressivi. Resta il Dune che molti avevano amato nella sua prima parte alzano però l'asticella sotto molti punti di vista.
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Dune - Parte Due riparte da dove ci aveva lasciato, da quella conclusione che a molti aveva lasciato l'amaro in bocca. La seconda parte riprende l'arco narrativo di Paul Atreides (Timothée Chalamet) e le fila del racconto in senso ampio e compiuto. In questa seconda parte molto più spazio è finalmente dedicato al personaggio di Zendaya che nella prima parte aveva un ruolo molto introduttivo. Ed è alla Chani di Zendaya e ai Fremen che Paul si unisce, alla ricerca della vendetta contro i cospiratori che hanno distrutto la sua famiglia e per fermare quel terribile futuro che è in grado di prevedere. Una missione che mette Paul davanti a sfide e scelte, portando avanti la componente drammatica ed epica che l'adattamento di Villeneuve aveva già introdotto nel precedente.
Denis Villeneuve ci riconduce in un mondo affascinante e costruisce il film attorno ai suoi personaggi: il suo Dune, pure essendo un grande spettacolo visivo, è anche sopratutto la loro storia che il regista asseconda sia in termini di scelte visive che per la fotografia. L'autore di Arrival e Blade Runner 2049 ci mette faccia a faccia con le scelte che deve compiere Paul per poter portare avanti la sua missione, ma sopratutto si affida per dare cuore e forza al racconto alla Chani di Zendaya, forse uno dei personaggi con il percorso più solido e strutturato. Se però lei non è una novità assoluta, lo è invece Austin Butler con il suo Feyd-Rautha Harkonnen, figura enigmatica e folle, a cui l'attore dà vita sia nello sguardo che nelle movenze, in un perfetto equilibrio su un filo sottilissimo senza scivolare in eccessi che l'avrebbero potuto rendere una macchietta.
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Peccato per le altre New Entry che hanno poco spazio, che come per Zendaya nel capitolo precedenti fanno capolino nella storia in attesa di avere maggior spazio e ulteriore importanza nel seguito. È il caso di Florence Pugh e Christopher Walken, la cui valutazione andrà ragionata sulla lunga distanza e sulla trilogia che Villeneuve ha in mente. Si tratta in ogni caso di limiti dovuti alle scelte di scrittura e costruzione narrativa su più film, piuttosto che valenza e qualità degli attori, perché tutto il cast e la relativa resa visiva è sempre a fuoco e ottimale.
C'è infatti continuità narrativa e visiva in Dune - Parte Due rispetto al suo precedessore. Il nuovo film riprende e amplifica quanto già visto con coerenza stilistica e contenutistica, un aspetto che consideriamo come uno dei suoi pregi, ed è qualcosa di non così scontato come potrebbe sembrare. Il Dune di Villeneuve si dimostra un'opera unica e potente. Nessun compromesso a cui sottostare, Villeneuve, nel dettare i tempi del suo racconto, lo porta avanti con un andamento calmo e ragionato ma allo stesso tempo potente e travolgente: non c'è scena di Dune - Parte Due che non lasci il segno, che sia un semplice dialogo o una battaglia che lascia senza fiato.
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Ci si sente travolti dalla sabbia del deserto di Arrakis, tremano le gambe quando ci si trova faccia a faccia con i possenti vermi che abitano quei luoghi, e si freme di emozione nei momenti più intensi ed emotivi. Si partecipa alla visione e ci si immerge al suo interno sostenuti dalla musica di un Hans Zimmer e da una fotografia d'impatto capace di adattarsi ai diversi momenti e luoghi del film e dei personaggi. Dune - Parte Due prende a piene mani quanto c'era già di buono nel capitolo precedente e fa quel passo in avanti che ci si aspettava e augurava. E travolge lo spettatore come una tempesta di sabbia.
Concludendo Dune Parte 2 è un sequel in perfetta continuità con quanto visto nel precedente, un secondo film che affonda a piene mani in quanto di buono e forte era già presente nel primo capitolo e lo sviluppa con coerenza. Una vera e prorpia evoluzione, più che una sola continuazione di quanto già visto, che porta alla realizzazione del percorso di alcuni personaggi, sviluppandone altri soltanto accennandoli e guarda avanti introducendo altri elementi che la possibile e probabile terza parte avrà modo di approfondire. Molto a fuoco tutto il cast, ma è la messa in scena del racconto da parte di Denis Villeneuve a lasciare davvero senza fiato, grazie alla potenza e magnificenza della costruzione audio-visiva. Un film da vedere e da ammirare.
Perché ci piace
- La coerenza con cui vengono sviluppati i discorsi introdotti nella prima parte, sia dal punto di vista narrativo che visivo.
- La potenza della messa in scena e tutto il comparto audio-visivo del film.
- Un Hans Zimmer in stato di grazia nel sostenere il racconto con la sua colonna sonora.
- La Chani di Zendaya, su cui è stato fatto un ottimo lavoro di scrittura e costruzione narrativa.
- Timothée Chalamet, Zendaya e tutto il cast.
Cosa non va
- … al netto di un paio di personaggi che sono solo introdotti e che dovremo aspettare di veder sviluppati nella possibile Parte Tre.
- Se eravate scettici dopo il primo film, è possibile che anche il secondo non vi travolga. Ma per qualità e potenza vale la pena di provare.
#dune#dune part two#dune part 2#dune movie#dune 2#paul atreides#timothee chamalet#zendaya#florence pugh#austin butler#review#recensione
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TOKYO MEW MEW REWATCH - EP 42
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- Aspetta, prima chiediamolo a Zakuro!
Per una volta che Ichigo si dimostra la persona più matura e ragionevole nella stanza, va a finire tutto così in malora.
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- Ti prego portami con te.
Il simpaggio raggiunge livelli di guardia.
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- La squadra Mew Mew si scioglierà e noi perderemo sicuramente contro gli alieni!
Oh ma in questo episodio l'animale che presta il DNA a Purin è stato temporaneamente sostituito da un gufo? Di solito lei non è così pessimista!
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Altro bel rimando a come gli alieni siano in una situazione di merda, e conseguente litigio anche tra loro per come procedere. Bello che in questi episodi, anche se filler,gli antagonisti abbiano la stessa attenzione dei protagonisti.
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Ma quant'è stronza Zakuro in questi episodi? Prima sminuisce tutte le sue compagne di squadra come delle incompenti, anche se le uniche a non fare la cosa giusta (confrontarsi con lei e capire la situazione prima di saltare alle conclusioni) sono state Minto e in misura minore Purin mentre Ichigo e Retasu cercavano di calmarle; poi si incazza per non essere stata avvertita della missione. Ciccia, sei stata tu a piantarle in asso con l'uscita di scena drammatica.
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Eccallà, le famose briciole di backstory che non sono mai e dico mai state spiegate. Vent'anni dopo ancora ci rosico, specie avendo visto bruciare le speranze che New facesse qualcosa di meglio.
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Ripeto, ma quanto dà sui nervi Zakuro in questi episodi? Critica le altre, accusandole di non avere i requisiti per essere eroine, e intanto lei è lì a fare il peso morto. Lo sta facendo per dimostrare qualcosa, certo, ma intanto mentre le altre combattono lei sta ferma in mezzo ai maroni, quindi il resto del gruppo deve pure proteggerla. Voleva che dimostrassero di essere eroine con la forza morale del mandarla a fanculo?
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Devo dire che c'è un bel ragionamento dietro a entrambi gli approcci. Ryou ha ragione a dire che non possono costringere una persona (... ma allora assicurati che la persona compatibile sia d'accordo prima di modificarla, genio) e soprattutto che dato che le battaglie sembrano farsi sempre più dure, una persona riluttante sarebbe solo un intralcio per le altre.
D'altro canto Ichigo ha ragione a ribadire che momenti di stress e sconforto sono capitati a tutte loro, e che non intende lasciare andare Zakuro senza un vero confronto con lei, e possibilmente aiutarla a superare il suo problema.
Tutto sommato un episodio interessante. Zakuro mi ha dato sui nervi, ma non era poco, ci sono già state volte in cui ha attuato comportamenti paradossali per spronare le altre ragazze. Mi sarebbe piaciuto se fosse stato menzionato il filler in cui Minto stessa aveva cercato di lasciare il gruppo, ma cercare una continuity nei filler è come il gatto di Shrodinger.
Però quelle maledette briciole di backstory dannazione...
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Luis Jouvet, Medellin, ore 3 del mattino, aprile 1943.
Il sipario è calato. Lo spettacolo è finito. Nessuno è venuto a trovarmi. Sono salito nel mio camerino, solo. Che strana sensazione, sempre, quella di essere ancora truccati e restare così “a metà” sospesi tra il teatro e la vita laica. Scrivo, come è mia abitudine, le osservazioni della recita. Questa sera, ho notato che l’attenzione del pubblico al terzo atto era più alta, più intensa del solito. Mi sono sentito commosso e turbato da una specie di perdita d’identità che mi ha fatto paura. La platea era un cratere che fiammeggiava in silenzio, un riverbero quasi insostenibile. Io dicevo il mio testo come sull’orlo di un abisso con il terrore di urtare su una parola e precipitare giù. Forse mi sono mancati questa sera, il controllo ed il sangue freddo. Forse ho ascoltato troppo, la sala. È un mio difetto. E forse mi sono spinto troppo in là e troppo a lungo. Ma come “fare il teatro” senza pensarlo, senza porsi delle domande? Come stare in mezzo alla gente e non guardarla e non chiedersi, non interrogarsi sul teatro e sul mestiere dell’attore ? Su quello che “il teatro” è? Perché è? Perché lo si fa? Dopo trent’anni di pratica, il teatro mi appare ancora in tutti i suoi aspetti soltanto come un mistero. Provoca in me dei turbamenti profondi, dei disordini interiori difficili da spiegare. So soltanto che ci sono due modi per fare o considerare il teatro: alla superficie o in profondità, o meglio in altezza, voglio dire proiettato nella verticale dell’infinito. Per me, il teatro è questo: una cosa dello spirito, un culto dello spirito. O degli spiriti. Divisa, lacerata continuamente tra sentimenti contrari, la mia vita è passata nel teatro, in una servitù volontaria, dove il disgusto e la vergogna si sono mescolati sempre con il fervore e la fiducia e lo scoraggiamento con l’entusiasmo. Come tutti quelli che operano ed agiscono ho tentato d’imparare e di capire questo gioco, che gioco non è, del recitare e le ragioni di coloro che al gioco partecipano. Non l’ho capito. Ma nonostante tutte le delusioni che ho provato, in questa vita d’illusioni, tutto mi appare ancora oggi meraviglioso, anche se incomprensibile. Chi sono coloro che vengono a sedersi, una sera, in una sala di teatro? Chi sono coloro che parlano e si muovono sulla scena? E chi è colui che ha scritto un’opera drammatica? Tutto ciò che ho cercato di fare nel teatro, tutto ciò che ho cercato di conoscere mi lascia insoddisfatto. Se mi guardo a fondo non ho fatto altro che cercare di sapere e di tutte le calde emozioni che alcuni momenti drammatici mi hanno dato, soprattutto quando parevano indicarmi una scoperta vicina, solo questa curiosità mi resta. La scoperta non l’ho fatta. Continua la ricerca.
Può chiamarsi questa “la ricerca di un dogma?” È l’effimero del teatro che mi fa presentire in lui qualcosa di più grande, dietro? Sono le sue bassezza e le sue miserie che mi fanno cercare delle compensazioni? O è il desiderio di durare, di sopravvivere che mi fa vedere nel teatro qualcosa di spirituale, una specie di rinascita dalla morte, ogni sera? So che c’è in me una tendenza dogmatica e una tendenza mistica. Ma io sono e resto un attore che guida una compagnia di attori, non una specie di santo chiuso nel suo ritiro. Eppure io sento che in questa vita del teatro c’è una specie di corruzione, che nel teatro ci sono sempre degli elementi di corruzione. Essi vengono molto spesso fuori, da coloro che vogliono entrare nel teatro senza averne il diritto. Molto spesso dall’ignoranza di coloro che lo praticano oppure dall’impossibilità di essere sempre all’altezza di quello che io chiamo “stato drammatico” (e che cos’è poi questo teatro?). Intrusi, profani, dilettanti, povera umanità che cerca in qualche modo di raggiungere il sublime. Il teatro: creazione degli uomini per arrivare più in là, più in su? Esorcismo per combattere, ognuno di noi, i fantasmi che ci abitano? Gioco puerile che non va né più in là, né più in su di un gioco di bambini? Nessuno è ancora riuscito a trovare delle spiegazioni vere che riempiano il vuoto immenso di queste domande: cos’è il teatro? E perché si va a teatro? Perché si fa il teatro? E i rischi? È un mestiere quello del teatro in cui si rischia continuamente il disprezzo e la perdita di se stessi. E io ? Per quale anomalia, per quale sregolatezza dei miei sentimenti, proprio come dicono i Padri della Chiesa, mi sono ridotto a questa condizione di volere “far finta” per tutta una vita, di imitare, di … Ma perché “quelli” che mi guardano attoniti e commossi, in silenzio? Forse perché il teatro è fatto per insegnare agli altri altre cose che avvengono intorno a loro, perché essi credono o capiscono che coloro che recitano, sono là per “rivelarli” a loro stessi. Forse il teatro serve per fare sentire loro he hanno un’anima e un’anima immortale. Se è così, allora io sono l’intermediario di un’operazione altissima! Comunque sia, il mio mestiere è l’arte di fare credere qualcosa che non è, l’arte dell’apparenza. Far questo come una “maniera d’essere” e in questo esercizio trovare un equilibrio interiore per potere vivere. Trovare un equilibrio nel suo disequilibrio. Vivere nello sdoppiarsi. Perdersi nel teatro per ritrovarsi. Il segreto dell’attore, forse il segreto di tutto il teatro è qui… e i miei, sono propositi inutili. Ma possono fissare per l’anno 2000 (soltanto qualche decennio da oggi) lo stato d’animo di un attore qualsiasi, in un anno dell’epoca travagliata che stiamo vivendo. Un attore che reinventa, ogni sera, resuscita ogni sera il teatro con tutta la tenerezza che ha per amarlo meglio. È tardi. Non sono andato avanti di un passo. Tutto resta confuso, come sempre. Ho scritto. Sono stanco e non ho nemmeno il coraggio di rileggermi. Mi strucco
Luis Jouvet
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Son le 06:49 non riesco a dormire, mia nipote ha lasciato il cellulare accesso con la musica che viene riprodotta casualmente, e adesso si sente in lontananza somewere only we know, in particolare solo una strofa che si ripete: <<This could be the end of everything
So, why don't we go?>> Sembra quasi di stare in un film dove ad un certo punto, nel mezzo di una scena particolarmente sentimentale/drammatica parte la colonna sonora perfetta.
La verità è che ci rido su, mi sento quasi in pace con il mondo, quasi.
E questa canzone mi fa pensare a te, e mi chiedo: “questo può essere la fine di tutto?
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Carla Cerati
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La fotografia mi serve per documentare il presente, la parola per recuperare il passato.
Carla Cerati, autrice anticonformista e fotografa impegnata, ha realizzato ricerche innovative ed è stata autrice di diversi romanzi di successo.
Prima donna a documentare la drammatica situazione dei manicomi italiani nel 1968, le sue immagini implacabili e impietose raccontano un trentennio della storia italiana.
Ha registrato quello che succedeva in un paese in mutamento, il teatro, il Sud, artisti e intellettuali, la Milano da bere, il movimento delle donne, le proteste degli anni Settanta, gli anni di piombo, i processi. Con sguardo profondo e inedito, ha esplorato drammi, eccessi, leggerezze e realtà crude e dolorose.
Nata a Bergamo il 3 marzo 1926, sognava di diventare scultrice e aveva anche superato l’esame d’ammissione all’Accademia di Brera, ma i suoi genitori pressarono affinché si sposasse, a 21 anni, nel 1947, vivendo prima a Legnano e poi a Milano, dove aveva iniziato a lavorare come sarta.
Verso la fine degli anni ’50 ha scoperto la fotografia, dai primi ritratti familiari è passata al teatro. Nel 1960, senza sapere ancora come si sviluppava un rullino, ha iniziato a collaborare con il regista Franco Enriquez al Teatro Manzoni di Milano. Aggirandosi fra le quinte teatrali, ha fotografato gli spettacoli di Giorgio Strehler, Eduardo de Filippo, Tadeusz Kantor, Carmelo Bene, Monica Vitti. Dal 1967 ha seguito il Living Theatre in Italia e all’estero.
Nel 1965, viaggiando in macchina attraverso la penisola, ha prodotto diversi reportage come Maghi e streghe d’Abruzzo e Sicilia uno e due e la cartella fotografica Nove Paesaggi Italiani, con design di Bruno Munari e presentazione di Renato Guttuso.
Assidua frequentatrice della Libreria Einaudi di Milano, ha ritratto i più grandi nomi del mondo culturale italiano del Dopoguerra, come fotoreporter inviata da L’Espresso, ha immortalato gli ambienti e le occasioni culturali, celebri i suoi bei ritratti di Pierpaolo Pasolini, Laura Betti e Andy Warhol.
Nel 1968, con Gianni Berengo Gardin e in collaborazione con lo psichiatra Franco Basaglia, è andata a fotografare nei manicomi italiani, dal suo lavoro è nato Morire di Classe, del 1969, libro di culto che ha costretto la popolazione italiana ad aprire gli occhi sulle spaventose condizioni di vita negli ospedali psichiatrici e che avrebbe contribuito nel 1978 all’approvazione della legge sulla loro chiusura.
Nel corso degli anni Sessanta, ha fotografato, per i maggior periodici illustrati del tempo, i movimenti giovanili, i volti e i luoghi del settore industriale, l’alluvione a Firenze e una Milano in pieno cambiamento.
In uno dei momenti più cruciali e tesi della nostra storia, ha fotografato le manifestazioni, i processi e gli scontri, documentato il Processo Calabresi-Lotta Continua, i funerali di Feltrinelli e tante manifestazioni femministe. Nella Spagna Franchista, si è infiltrata nella rete della resistenza culturale per ritrarre più di cento personalità che sfidavano la dittatura.
La sua Milano da bere che è diventata il libro Mondo Cocktail, del 1974.
Verso la fine degli anni ’80, ha abbandonato gradualmente la professione di fotoreporter e dato vita a una serie di progetti fotografici volti all’astrazione e alla composizione.
Ha curato diverse esposizioni e collaborato a lungo con la ballerina Valeria Magli con cui ha realizzato Capricci e la serie Forma Movimento Colore.
Del 1991 è la mostra e il relativo catalogo Scena e Fuori Scena, una riflessione sui confini fra realtà e finzione, vita e teatro.
Il suo primo romanzo, Un amore fraterno, del 1973, è stato finalista al Premio Strega.
In trent’anni di scatti è passata dalle foto delle manifestazioni studentesche a quelle dei vernissage patinati, dalla violenza degli anni di piombo, al glamour milanese.
Fotografare ha significato la conquista della libertà e anche la possibilità di trovare risposte a domande semplici e fondamentali: chi sono e come vivono gli altri?
Quella di raccontare il mondo che la circondava è stata una vera e propria necessità, soprattutto fermare la disperazione, il malessere, l’ansia del cambiamento.
Negli ultimi anni della sua vita ha scritto diversi libri che ripercorrono il suo percorsa politico e femminista come Un matrimonio perfetto (1991), Legami molto stretti (1994), La cattiva figlia (1996), La condizione sentimentale (1999), Una donna del nostro tempo (2005) e molti altri ancora, l’ultimo è stato L’eredità. Idee e canzoni di un sessantottino: Federico Ceratti del 2012.
Si è spenta a Milano il 19 febbraio 2016.
Il suo archivio, che ha provveduto a organizzare personalmente, è una fonte fondamentale per la conoscenza della nostra storia recente e la testimonianza del suo lavoro appassionato.
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Il Prezzo della Giustizia di Marcello Risicato: Un Thriller Psicologico di Amore e Vendetta. Recensione di Alessandria today
Un viaggio tra dilemmi morali e suspense mozzafiato.
Un viaggio tra dilemmi morali e suspense mozzafiato. Marcello Risicato, autore selezionato per due edizioni del Salone Internazionale del Libro di Torino, ci propone con “Il Prezzo della Giustizia” un thriller psicologico che esplora le profondità dell’animo umano. Attraverso la storia di Ethan, un ex poliziotto tormentato, il romanzo affronta temi universali come l’amore, la vendetta e la…
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Storia Di Musica #357 - Nick Cave And The Bad Seeds, Your Funeral...My Trial, 1986
C'è un sentimento comune nei dischi che hanno a che fare con Berlino: sono dischi che esprimono dei tormenti umani giganteschi, registrati dagli artisti in momenti cruciali della loro vita, spesso non solo artistica. Bowie quando decise di andare a Berlino per la sua trilogia (che per senso filologico dovrebbe essere una tetralogia, dato che fu il creatore anche di The Idiot di Iggy Pop) era nel pieno di una crisi creativa, di una dipendenza da droghe, autore di gaffe clamorose (una terribile in cui disse in una intervista: "In Inghilterra sarei potuto diventare Hitler. Non sarebbe stato difficile. I concerti erano così spaventosi che persino i giornali scrivevano: “Questa non è musica rock, questo è Hitler! Bisogna fare qualcosa!”. E avevano ragione. Era fantastico. In realtà… credo che sarei stato un gran bell’Hitler").
Una cosa simile avvenne dieci anni più tardi a Nick Cave. Conclusa l'esperienza con i Birthday Party nell'estate del 1983, decide di continuare la carriera come solista. Va per questo a Berlino, un posto che, nelle parole dello stesso Cave "ci ha dato la libertà e l'incoraggiamento per fare qualsiasi cosa avessimo voluto fare". Con lui ci sono Mick Harvey, batterista dei Birthday Party, con cui forma i Bad Seeds, sorta di supergruppo comprendente Barry Adamson dai Magazine al basso e Blixa Bargeld dei berlinesi Einstürzende Neubauten. Il primo disco però è ancora registrato a Londra, From Here To Eternity, con ricordi blues stralunati dalla slide di Bargeld, con due cover bellissime di In The Ghetto di Elvis Presley e Avalanche di Leonard Cohen. Nasce qui il suo mito: la sua voce teatrale, cavernosa, inquietante, che racconta di incubi, personaggi strani, ossessioni e dolore. In quello stesso periodo, vive un rapporto devastante con l'eroina: nonostante questo, pubblica The Firstborn Is Dead a Berlino, nei mitici Hansa Tonstudios usati dallo stesso Bowie. Il titolo è un riferimento al gemello di Elvis nato morto insieme a lui, c'è ancora il lato tragico del Blues e una cover di Dylan, Wanted Man, corretta nel testo con l'approvazione del Maestro di Duluth. Per Kicking Against The Pricks (1986), che è una raccolta di interpretazione di cover, entra in gruppo Thomas Wydler, batterista, che permette a Harvey di passare alle tastiere.
Le registrazioni di Your Funeral...My Trial avvengono nell'estate del 1986 presso gli Hansa Tonstudios. Cave è al massimo della disperazione fisica e mentale, l'idea iniziale era di fare due EP con i due titoli My Funeral e My Trial, ma nonostante la gravità della sua condizione psicofisica, alla fine le registrazioni furono entusiasmanti, tanto che tutti considerano questo il loro miglior disco della loro futura ultra-trentennale carriera. È un disco dove i racconti e le storie sono pieni di controcanti, di voci della mente e dei sentimenti che si rincorrono. Quasi tutto è opera di Cave e Harvey, l'unica cover è una versione acuta e sorprendentemente drammatica di Long Time Man di Tim Rose. È il disco notevolmente più compiuto e vario rispetto ai precedenti, che esplora un'ampia gamma di musiche pur mantenendo centrale la visione spesso oscura e sempre appassionata di Cave. Canzoni come Jack's Shadow, una delle future canzoni simbolo, e gli stati d'animo più gentili ma comunque malinconici di Sad Waters, che raccontano una scena in riva al fiume tra una coppia, sono semplicemente grandiose: Cave qui non solo canta ma suona anche l'organo Hammond, aggiungendo un'aria stranamente dolce all'atmosfera notturna del pezzo. The Carny è sicuramente il momento clou, l'accompagnamento di carillon/carnevale incrinato per gentile concessione di Harvey è del tutto appropriato per il racconto di Cave di un circo andato orribilmente male: da questa canzone Marc Craste nel 2003 ricaverà un cortometraggio animato, Jo Jo In The Stars, che vincerà il BAFTA Award for Best Animated Short Film nel 2004. Hard On For Love, come il titolo rivela abbastanza chiaramente, è allo stesso tempo sensuale e schietta fino al testo, riferimenti biblici e tutto il resto, mentre la musica febbrile sale in un'ondata di emozioni. Stranger Than Kindness è scritta da Bargeld e da Anita Lane, cantautrice australiana che da qui in poi collaborerà con i Bad Seeds.
Una versione di The Carny verrà suonata nel film Il Cielo Sopra Berlino di Wim Wenders, dove Cave e i Bad Seeds interpretano loro stessi suonando dal vivo. Cave, la cui carriera verrà segnata da traumi colossali, ha sempre amato questo disco, secondo le sue stesse parole "è molto speciale per me e sono successe un sacco di cose fantastiche, musicalmente, in studio. Ci sono alcune canzoni in quel disco che per quanto mi riguarda sono quasi perfette": una perfetta descrizione di un incubo.
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Ditonellapiaga: Ti collochi in una scena oppure senti l’esigenza di averne una in questo momento? Whitemary: Se dovessi ritrovarmi in una cerchia di artisti, c’è sicuramente Cosmo, ma banalmente perché facciamo tutti e due elettronica e cantiamo in italiano. Poi siamo diversi, abbiamo un passato di vita completamente differente, però a livello di stile sicuramente. Ditonellapiaga: E a livello internazionale? Whitemary: Mi piace Mary Davidson, per me è stata tanto d’ispirazione, mi ha proprio dato coraggio questa cosa di usare la voce in maniera drammatica. Amo le artiste che ci tengono a specificare come producono, quello che usano, mettono le macchine al centro. Mi piace l’elettronica al femminile.
Dall'articolo "Perché sottovalutare il fascino dell’elettronica in italiano? Ditonellapiaga intervista Whitemary" di Irene Papa
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mito->poesia->tragedia->metodo scientifico: uno sviluppo straordinario
Il genere tragico in Grecia: riproposizione ed evoluzione del mito arcaico.
La forma della tragedia classica greca è il punto di arrivo di un processo sviluppato a partire da un primitivo nucleo del coro, progressivamente ridimensionato a favore di uno spazio sempre maggiore riservato al dialogo dei personaggi. La tragedia ripropone e riplasma del materiale mitico ereditato dal mondo arcaico. Il suo appellativo si collega etimologicamente alla parola tragos con riferimento al capro, riferimento che è stato interpretato in vari modi quali: a) il sacrificio rituale celebrato alla fine della rappresentazione; b) la maschera indossata dal coreuta, c) il premio dato al vincitore. In ogni caso, si tratta di un riferimento a qualcosa di animalesco, ferino, primitivo, selvaggio (si veda ciò come traccia dell’animalesco selvaggio dionisiaco rispetto all’olimpico armonioso compositore delle passioni rappresentato da Apollo).
La struttura era articolata in un prologo sugli antefatti dell’azione, un parodo, canto di ingresso del coro, gli episodi costituiti da dialoghi con gli stasimi, i canti di stacco tra gli episodi, e l’esodo, canto di uscita. Il coro (12 coreuti ai tempi di Eschilo con uno di loro, il corifeo, dialogante a nome degli altri con gli attori) cantava in armonia con la musica e la danza ( infatti il verbo koreuein significa danzare). Gli attori, tutti di sesso maschile, indossavano maschere, coturni, ovvero alti calzari per essere più visibili agli spettatori e la scena era dotata di macchine teatrali. In genere le rappresentazioni avvenivano in occasioni di feste in onore di Dioniso, dio rurale patrono della fertilità. Erano dei veri e propri festival in cui gareggiavano i poeti tragici con la loro tetralogia (3 tragedie ed un dramma satiresco). C’era una commissione selezionatrice fatta da un arconte ed altri due membri che sceglieva i tre concorrenti per la gara finale, ogni tetralogia veniva rappresentata in una giornata intera e quindi il concorso durava 3 giorni. La giuria per assegnare la vittoria della corona di edera era formata da 1 rappresentante per tribù estratto a sorte da una lista fornita da ognuna delle 10 tribù, che dava una classifica dei concorrenti su una tavoletta, delle 10 poi ne venivano estratte 5 a sorte per avere il vincitore. I contenuti delle opere attingevano ad un patrimonio di racconti mitici tradizionali e la rappresentazione drammatica era fondata sul contrasto, la lacerazione tragica tra protagonista umano e divino e degli uomini tra loro. Tutto il popolo partecipava, lo stato finanziava i poveri con due oboli per indennizzo delle ore di lavoro perdute ed i costi degli spettacolo (scenografia, costumi, attori, coreuti, musicisti) che erano in parte sostenuti anche dalle famiglie ricche, c’era anche un servizio d’ordine dotato di robusti manganelli contro eventuali disturbatori. La partecipazione popolare al "RITO COLLETTIVO" funzionava da presa di coscienza, grazie a questa esteriorizzazione del dramma tragico reso nello spettacolo teatrale, che determinava una presa di distanza, una assunzione di responsabilità collettiva di fronte alle tensioni tremende dell’esistenza umana secondo una visione che affondava le sue radici nei sanguinosi rituali del mondo pre-greco. In questo consiste la CATARSI di cui parla Aristotele: LA RAPPRESENTAZIONE HA UN EFFETTO LIBERATORIO DALLE PASSIONI (i patemata = patemi di animo).
La tragedia si differenzia dal mito per un tratto sostanziale: se nel mito lo scontro è nel mondo divino, qui il piano si sposta sulla violenza tra dei e uomini e degli uomini tra di loro. Questo è testimoniato dal lessico tragico. Sono fondamentali alcune parole chiave ricorrenti nei dialoghi, che mostrano la inconciliabilità nella tragedia di polarità opposte di comportamento: parole da un lato come collera (che però è anche invidia!) (ϕθόνος),e accecamento divino (΄Άτη) , tracotanza (ύβρις), e violenza brutale (βία) , dall’altro legge (νόμος), diritto (δίκη), autorità legale (κράτος), timore (ϕóβος), e pietà (ʹΈλεος), parole che segnano nella loro opposizione il contrasto inconciliabile che caratterizza la tragedia. Viene bollata la tracotanza, si esibiscono i valori morali e le norme etico-sociali cui conformare i comportamenti dei cittadini della polis ed il ricorso al mito serve a rinsaldare il tessuto connettivo della convivenza. Nella trilogia più famosa, l’Orestea, formata da Agamennone, Coefore, Eumenidi, la tragedia si risolve con Oreste portato nella sede suprema della istituzione della polis, l’Areopago, dove Oreste è alla fine assolto e le furiose persecutrici Erinni si trasformano nelle benigne Eumenidi. Si impone la Giustizia, la DIKE, che si esplica nel NOMOS, nella Legge della città, a fronteggiare la violenza, ma ciò non sarà sufficiente se nell’Antigone la legge del cuore e degli affetti si scontrerà con la legge ufficiale della città stessa, che tuttavia prevarrà alla fine. Ma a questo punto, gli Dei c’entrano poco, il conflitto è tra gli uomini, gli Dei sono solo spettatori. I drammi umani riportano le scorie dei drammi divini. Più i conflitti "si umanizzano", più si perde la carica istintiva, travolgente dell’eros e della violenza primitiva e questo porta alla famosa tesi di Nietzsche che ne La nascita della tragedia (1871) vede nelle prime tragedie un equilibrio tra le parti del coro che rappresentano la potenza dionisiaca degli istinti e le parti del dialogo degli attori che moderano con la razionalità apollinea lo scatenamento degli istinti, fino ad arrivare ad Euripide che descrivendo con realismo delle vicende umane fa prevalere il distacco dello spirito superiore ed equilibrato apollineo in contemporanea all’avvento del razionalismo di Socrate in filosofia e la definitiva eclissi del dionisiaco, evento che il filosofo tedesco denuncia come la più grande perdita per tutta la cultura occidentale.
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Più i miti perdono valore di Verità, staccati dal culto dionisiaco, più i paragoni e le similitudini linguistiche, da "strati intermedi" tra il mondo degli dei e quello umano subiranno una trasformazione che costituirà i primi gradini delle deduzioni analogiche di cui il metodo empirico si servirà più tardi.
-Franco Sarcinelli (WeSchool)
-Bruno Snell (le origini del pensiero europeo)
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