#scena drammatica
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NON È UN CADAVERE…È SOLO IN ATTESA
Episodio 10 Immagine creata con IA Episodio 10: Il compito si è concluso L’elicottero si posò con un rumore sordo sulle rocce frastagliate di Petra, sollevando un turbine di sabbia e polvere. I rotori stridevano contro il vento desertico, coprendo ogni altro suono. Nixar, zoppicando leggermente, avanzava con il passo di chi portava un peso insostenibile, il volto segnato da una determinazione…
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Non ho paura del buio di Robert Dugoni: Una detective alla ricerca della verità. Recensione di Alessandria today
Un thriller intenso e mozzafiato con Tracy Crosswhite come protagonista. Il primo volume della serie dedicata alla detective Tracy Crosswhite, “Non ho paura del buio”, firmato da Robert Dugoni, trascina il lettore in una spirale di misteri, segreti e colpi di scena. La trama ruota attorno al tormento personale di Tracy, che per vent’anni ha cercato la verità sull’omicidio della sorella minore…
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Deus ex machina
Apparizione di un personaggio divino ex machina in una rappresentazione della Medea di Euripide al teatro greco di Siracusa
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Deus ex machina è una frase latina mutuata dal greco "Mechanè", in greco antico: ἀπὸ μηχ��νῆς θεός? ("apò mēchanḗs theós") che significa letteralmente "divinità (che scende) dalla macchina".[1] Originariamente, indica un personaggio della tragedia greca, ovvero una divinità che compare sulla scena per dare una risoluzione ad una trama ormai irrisolvibile secondo i classici principi di causa ed effetto.
Per estensione, tale espressione è andata ad indicare un evento o un personaggio che, nel corso di una narrazione, ne risolve inaspettatamente gli intrecci, spesso con modalità apparentemente non correlate rispetto alla logica interna della vicenda, al punto di apparire altamente improbabile o come il risultato di un evento fortuito. Al di fuori dell'ambito narrativo, l'espressione indica una persona o un evento che inaspettatamente risolve una situazione difficile.
La definizione della frase "deus ex machina" venne usata per indicare il dio che scende sulla terra e risolve la situazione. La frase trae origine dalla tragedia greca: in tale ambito, quando era necessario far intervenire una o più divinità sulla scena, l'attore che interpretava il dio era posizionato su una sorta di gru in legno, mossa da un sistema di funi e argani, chiamata appunto mechanè. L'attore veniva calato sulla scena dall'alto, simulando dunque l'intervento di una divinità che scende dal cielo.
L'intervento ex machina degli dei veniva usato, soprattutto dal tragediografo Euripide, per risolvere felicemente una situazione intricata e apparentemente senza possibile via di uscita. Secondo Aristotele, quest'espediente non deve interferire con la λύσις, ovvero con lo scioglimento dell'opera, ma deve avvenire fuori dall'azione drammatica.
Nel mondo antico un uso eccessivo del deus ex machina era inoltre considerato prerogativa di autori poco raffinati che non sarebbero riusciti a sciogliere altrimenti trame complesse.
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SENSI DELL'ARTE - di Gianpiero Menniti
LA CRISI VISTA DA BOTTICELLI
"La calunnia" (Uffizi, Firenze) viene considerata una tavola appartenente a una terra di mezzo, tra la fine delle illusorie certezze umaniste di matrice neoplatonica e l'inizio di una consapevolezza intensa e profonda.
Risale a un periodo compreso tra il 1491 e il 1495, anni di svolta nella Firenze che assiste alla scomparsa di Lorenzo de Medici e all'ascesa effimera del frate ferrarese Girolamo Savonarola, con la successiva costituzione della "repubblica" che vedrà in Niccolò Machiavelli il più acuto tra i suoi protagonisti.
Sandro Botticelli (1445 - 1510) di quell'età di mutamenti radicali se ne fece imprevisto interprete: da artista di profonda sensibilità, artefice che aveva dipinto la gloria della "Signoria" medicea, seppe tuttavia intuire prima del tempo l'esigenza espressiva della crisi incombente, di una cupa caduta, dell'inesorabile e lunghissimo scivolamento che lascerà solo vestigia mute in una Firenze ingessata nel vanto fuggevole di impareggiabili forme architettoniche e artistiche.
Le fiamme alte dei "fuochi delle vanità" non bastarono a illuminare fino in fondo le piazze della città: quanta produzione artistica venne bruciata, sacrificata sugli altari di una rivoluzione di parole.
Ma non quest'opera del maestro della "Nascita di Venere" e della "Primavera": un quadro che segna, nei suoi chiaroscuri e nella concitazione drammatica della scena, l'avvento del tragico e grandioso "rinascimento" cinquecentesco.
Con la "Natività mistica", del 1501, il ciclo inaugurato da "La calunnia" si chiuse in un delirante, inascoltato appello.
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“ Sono anni molto violenti a Firenze. La città è percorsa da bande di fascisti terribili, duri e fanatici, riuniti in squadracce dai nomi paurosi. Una su tutti, ‘La Disperata’, al cui soccorso arriva ogni tanto ‘La Disperatissima’, composta da squadristi di Perugia che si muovono anche fuori regione spingendosi a fare incursioni fin nelle Marche. Gentaccia pronta a usare bastone e olio di ricino senza alcuno scrupolo, teppisti, criminali come Amerigo Dumini, il capo degli squadristi che un paio di mesi dopo sequestrano e uccidono Matteotti (e che, ricorda Lussu ne La marcia su Roma, era solito presentarsi dicendo «Amerigo Dumini, nove omicidi»). Il professor Salvadori, per non mettere in pericolo la famiglia, obbedisce alla convocazione senza fare storie e va a piazza Mentana. Entra nel covo alle diciotto del primo aprile [1924] e ne esce a tarda sera, coperto di sangue e barcollante. Max, all’epoca sedicenne, che gli è andato appresso perché aveva delle lettere da impostare alla stazione e l’ha aspettato fuori, ha sentito tre brutti ceffi che ciondolano per la piazzetta dire alcune frasi inquietanti. «Occorre finirlo». «Già, ma chi l’ha comandato?» «L’ordine viene da Roma».
In quel momento Willy esce dal palazzo circondato da una dozzina di fascisti esagitati che brandiscono bastoni. Il padre, ammutolito, è coperto di sangue, e quando Max gli si fa incontro per sostenerlo e aiutarlo riceve la sua razione di botte: i picchiatori non hanno finito, la squadraccia li segue fin sul ponte Santa Trinita, vogliono buttare padre e figlio al fiume. I due si salvano solo grazie a una pattuglia di carabinieri che passa di lì per caso, e quando infine arrivano a casa a mezzanotte, malconci e umiliati, sebbene Cynthia mantenga calma e lucidità e Willy cerchi di minimizzare, lo shock è forte per tutti loro. Scrive Joyce in Portrait: “Tornarono tardi, e la scena è ancora nei miei occhi. Noi due donne (mia madre e io, mia sorella era in Svizzera), affacciate alla ringhiera del secondo piano, sulla scala a spirale da cui si vedeva l’atrio dell’entrata; e loro due che dall’atrio salivano i primi gradini, il viso rivolto in alto, verso di noi. Il viso di mio padre era irriconoscibile; sembrava allargato e appiattito, e in mezzo al sangue che gocciolava ancora sotto i capelli, si vedevano i tagli asimmetrici fatti con la punta dei pugnali: tre sulla fronte, due sulle guance, uno sul mento. Mio fratello aveva il viso tutto gonfio e un occhio che pareva una melanzana. «Non è niente, non è niente», diceva mio padre, cercando di sorridere con le labbra tumefatte. Capii in quel momento quanto ci volesse bene.” In quella sera drammatica che costituisce uno spartiacque nella storia della loro famiglia, Joyce fa tesoro dell’esempio dato dai genitori e dal fratello. Il padre che coraggiosamente cerca di sminuire la portata della violenza e il fratello che lo sostiene forniscono alla Joyce dodicenne «solidità, in quanto alle scelte da fare. Servì a pormi di fronte a ciò che è barbarie e a ciò che invece è civiltà». “
Silvia Ballestra, La Sibilla. Vita di Joyce Lussu, Laterza (collana I Robinson / Letture), 2022¹; pp. 13-14.
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Dune - Parte Due, un sequel imponente, tra continuità e naturale evoluzione
Ci siamo. Finalmente
Finalmente perché è uno di quei film che sono in grado di portare il pubblico in massa nelle sale. Finalmente perché è indubbiamente il tipo di produzione di cui il cinema ha bisogno per solleticare l'immaginario degli spettatori e mostrare come e quanto il grande schermo possa fare ancora la differenza rispetto all'ormai abituale visione casalinga.
L’attesa è stata ampiamente ripagata da quanto si è potutto vedere, perché ha contribuito nell’ accrescere l’ hype per questo secondo capitolo e anche perché arriva in un periodo meno carico di novità rispetto lo scorso autunno, quando era programmata inizialmente la sua uscita.
Dune - Parte Due si presenta al proprio pubblico in una perfetta continuità con quanto visto nella prima parte, non solo continuando ma anche sviluppando la storia che era stata impostata, rappresentandone la naturale evoluzione sia in termini narrativi che espressivi. Resta il Dune che molti avevano amato nella sua prima parte alzano però l'asticella sotto molti punti di vista.
Dune - Parte Due riparte da dove ci aveva lasciato, da quella conclusione che a molti aveva lasciato l'amaro in bocca. La seconda parte riprende l'arco narrativo di Paul Atreides (Timothée Chalamet) e le fila del racconto in senso ampio e compiuto. In questa seconda parte molto più spazio è finalmente dedicato al personaggio di Zendaya che nella prima parte aveva un ruolo molto introduttivo. Ed è alla Chani di Zendaya e ai Fremen che Paul si unisce, alla ricerca della vendetta contro i cospiratori che hanno distrutto la sua famiglia e per fermare quel terribile futuro che è in grado di prevedere. Una missione che mette Paul davanti a sfide e scelte, portando avanti la componente drammatica ed epica che l'adattamento di Villeneuve aveva già introdotto nel precedente.
Denis Villeneuve ci riconduce in un mondo affascinante e costruisce il film attorno ai suoi personaggi: il suo Dune, pure essendo un grande spettacolo visivo, è anche sopratutto la loro storia che il regista asseconda sia in termini di scelte visive che per la fotografia. L'autore di Arrival e Blade Runner 2049 ci mette faccia a faccia con le scelte che deve compiere Paul per poter portare avanti la sua missione, ma sopratutto si affida per dare cuore e forza al racconto alla Chani di Zendaya, forse uno dei personaggi con il percorso più solido e strutturato. Se però lei non è una novità assoluta, lo è invece Austin Butler con il suo Feyd-Rautha Harkonnen, figura enigmatica e folle, a cui l'attore dà vita sia nello sguardo che nelle movenze, in un perfetto equilibrio su un filo sottilissimo senza scivolare in eccessi che l'avrebbero potuto rendere una macchietta.
Peccato per le altre New Entry che hanno poco spazio, che come per Zendaya nel capitolo precedenti fanno capolino nella storia in attesa di avere maggior spazio e ulteriore importanza nel seguito. È il caso di Florence Pugh e Christopher Walken, la cui valutazione andrà ragionata sulla lunga distanza e sulla trilogia che Villeneuve ha in mente. Si tratta in ogni caso di limiti dovuti alle scelte di scrittura e costruzione narrativa su più film, piuttosto che valenza e qualità degli attori, perché tutto il cast e la relativa resa visiva è sempre a fuoco e ottimale.
C'è infatti continuità narrativa e visiva in Dune - Parte Due rispetto al suo precedessore. Il nuovo film riprende e amplifica quanto già visto con coerenza stilistica e contenutistica, un aspetto che consideriamo come uno dei suoi pregi, ed è qualcosa di non così scontato come potrebbe sembrare. Il Dune di Villeneuve si dimostra un'opera unica e potente. Nessun compromesso a cui sottostare, Villeneuve, nel dettare i tempi del suo racconto, lo porta avanti con un andamento calmo e ragionato ma allo stesso tempo potente e travolgente: non c'è scena di Dune - Parte Due che non lasci il segno, che sia un semplice dialogo o una battaglia che lascia senza fiato.
Ci si sente travolti dalla sabbia del deserto di Arrakis, tremano le gambe quando ci si trova faccia a faccia con i possenti vermi che abitano quei luoghi, e si freme di emozione nei momenti più intensi ed emotivi. Si partecipa alla visione e ci si immerge al suo interno sostenuti dalla musica di un Hans Zimmer e da una fotografia d'impatto capace di adattarsi ai diversi momenti e luoghi del film e dei personaggi. Dune - Parte Due prende a piene mani quanto c'era già di buono nel capitolo precedente e fa quel passo in avanti che ci si aspettava e augurava. E travolge lo spettatore come una tempesta di sabbia.
Concludendo Dune Parte 2 è un sequel in perfetta continuità con quanto visto nel precedente, un secondo film che affonda a piene mani in quanto di buono e forte era già presente nel primo capitolo e lo sviluppa con coerenza. Una vera e prorpia evoluzione, più che una sola continuazione di quanto già visto, che porta alla realizzazione del percorso di alcuni personaggi, sviluppandone altri soltanto accennandoli e guarda avanti introducendo altri elementi che la possibile e probabile terza parte avrà modo di approfondire. Molto a fuoco tutto il cast, ma è la messa in scena del racconto da parte di Denis Villeneuve a lasciare davvero senza fiato, grazie alla potenza e magnificenza della costruzione audio-visiva. Un film da vedere e da ammirare.
Perché ci piace
- La coerenza con cui vengono sviluppati i discorsi introdotti nella prima parte, sia dal punto di vista narrativo che visivo.
- La potenza della messa in scena e tutto il comparto audio-visivo del film.
- Un Hans Zimmer in stato di grazia nel sostenere il racconto con la sua colonna sonora.
- La Chani di Zendaya, su cui è stato fatto un ottimo lavoro di scrittura e costruzione narrativa.
- Timothée Chalamet, Zendaya e tutto il cast.
Cosa non va
- … al netto di un paio di personaggi che sono solo introdotti e che dovremo aspettare di veder sviluppati nella possibile Parte Tre.
- Se eravate scettici dopo il primo film, è possibile che anche il secondo non vi travolga. Ma per qualità e potenza vale la pena di provare.
#dune#dune part two#dune part 2#dune movie#dune 2#paul atreides#timothee chamalet#zendaya#florence pugh#austin butler#review#recensione
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TOKYO MEW MEW REWATCH - EP 42
- Aspetta, prima chiediamolo a Zakuro!
Per una volta che Ichigo si dimostra la persona più matura e ragionevole nella stanza, va a finire tutto così in malora.
- Ti prego portami con te.
Il simpaggio raggiunge livelli di guardia.
- La squadra Mew Mew si scioglierà e noi perderemo sicuramente contro gli alieni!
Oh ma in questo episodio l'animale che presta il DNA a Purin è stato temporaneamente sostituito da un gufo? Di solito lei non è così pessimista!
Altro bel rimando a come gli alieni siano in una situazione di merda, e conseguente litigio anche tra loro per come procedere. Bello che in questi episodi, anche se filler,gli antagonisti abbiano la stessa attenzione dei protagonisti.
Ma quant'è stronza Zakuro in questi episodi? Prima sminuisce tutte le sue compagne di squadra come delle incompenti, anche se le uniche a non fare la cosa giusta (confrontarsi con lei e capire la situazione prima di saltare alle conclusioni) sono state Minto e in misura minore Purin mentre Ichigo e Retasu cercavano di calmarle; poi si incazza per non essere stata avvertita della missione. Ciccia, sei stata tu a piantarle in asso con l'uscita di scena drammatica.
Eccallà, le famose briciole di backstory che non sono mai e dico mai state spiegate. Vent'anni dopo ancora ci rosico, specie avendo visto bruciare le speranze che New facesse qualcosa di meglio.
Ripeto, ma quanto dà sui nervi Zakuro in questi episodi? Critica le altre, accusandole di non avere i requisiti per essere eroine, e intanto lei è lì a fare il peso morto. Lo sta facendo per dimostrare qualcosa, certo, ma intanto mentre le altre combattono lei sta ferma in mezzo ai maroni, quindi il resto del gruppo deve pure proteggerla. Voleva che dimostrassero di essere eroine con la forza morale del mandarla a fanculo?
Devo dire che c'è un bel ragionamento dietro a entrambi gli approcci. Ryou ha ragione a dire che non possono costringere una persona (... ma allora assicurati che la persona compatibile sia d'accordo prima di modificarla, genio) e soprattutto che dato che le battaglie sembrano farsi sempre più dure, una persona riluttante sarebbe solo un intralcio per le altre.
D'altro canto Ichigo ha ragione a ribadire che momenti di stress e sconforto sono capitati a tutte loro, e che non intende lasciare andare Zakuro senza un vero confronto con lei, e possibilmente aiutarla a superare il suo problema.
Tutto sommato un episodio interessante. Zakuro mi ha dato sui nervi, ma non era poco, ci sono già state volte in cui ha attuato comportamenti paradossali per spronare le altre ragazze. Mi sarebbe piaciuto se fosse stato menzionato il filler in cui Minto stessa aveva cercato di lasciare il gruppo, ma cercare una continuity nei filler è come il gatto di Shrodinger.
Però quelle maledette briciole di backstory dannazione...
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Luis Jouvet, Medellin, ore 3 del mattino, aprile 1943.
Il sipario è calato. Lo spettacolo è finito. Nessuno è venuto a trovarmi. Sono salito nel mio camerino, solo. Che strana sensazione, sempre, quella di essere ancora truccati e restare così “a metà” sospesi tra il teatro e la vita laica. Scrivo, come è mia abitudine, le osservazioni della recita. Questa sera, ho notato che l’attenzione del pubblico al terzo atto era più alta, più intensa del solito. Mi sono sentito commosso e turbato da una specie di perdita d’identità che mi ha fatto paura. La platea era un cratere che fiammeggiava in silenzio, un riverbero quasi insostenibile. Io dicevo il mio testo come sull’orlo di un abisso con il terrore di urtare su una parola e precipitare giù. Forse mi sono mancati questa sera, il controllo ed il sangue freddo. Forse ho ascoltato troppo, la sala. È un mio difetto. E forse mi sono spinto troppo in là e troppo a lungo. Ma come “fare il teatro” senza pensarlo, senza porsi delle domande? Come stare in mezzo alla gente e non guardarla e non chiedersi, non interrogarsi sul teatro e sul mestiere dell’attore ? Su quello che “il teatro” è? Perché è? Perché lo si fa? Dopo trent’anni di pratica, il teatro mi appare ancora in tutti i suoi aspetti soltanto come un mistero. Provoca in me dei turbamenti profondi, dei disordini interiori difficili da spiegare. So soltanto che ci sono due modi per fare o considerare il teatro: alla superficie o in profondità, o meglio in altezza, voglio dire proiettato nella verticale dell’infinito. Per me, il teatro è questo: una cosa dello spirito, un culto dello spirito. O degli spiriti. Divisa, lacerata continuamente tra sentimenti contrari, la mia vita è passata nel teatro, in una servitù volontaria, dove il disgusto e la vergogna si sono mescolati sempre con il fervore e la fiducia e lo scoraggiamento con l’entusiasmo. Come tutti quelli che operano ed agiscono ho tentato d’imparare e di capire questo gioco, che gioco non è, del recitare e le ragioni di coloro che al gioco partecipano. Non l’ho capito. Ma nonostante tutte le delusioni che ho provato, in questa vita d’illusioni, tutto mi appare ancora oggi meraviglioso, anche se incomprensibile. Chi sono coloro che vengono a sedersi, una sera, in una sala di teatro? Chi sono coloro che parlano e si muovono sulla scena? E chi è colui che ha scritto un’opera drammatica? Tutto ciò che ho cercato di fare nel teatro, tutto ciò che ho cercato di conoscere mi lascia insoddisfatto. Se mi guardo a fondo non ho fatto altro che cercare di sapere e di tutte le calde emozioni che alcuni momenti drammatici mi hanno dato, soprattutto quando parevano indicarmi una scoperta vicina, solo questa curiosità mi resta. La scoperta non l’ho fatta. Continua la ricerca.
Può chiamarsi questa “la ricerca di un dogma?” È l’effimero del teatro che mi fa presentire in lui qualcosa di più grande, dietro? Sono le sue bassezza e le sue miserie che mi fanno cercare delle compensazioni? O è il desiderio di durare, di sopravvivere che mi fa vedere nel teatro qualcosa di spirituale, una specie di rinascita dalla morte, ogni sera? So che c’è in me una tendenza dogmatica e una tendenza mistica. Ma io sono e resto un attore che guida una compagnia di attori, non una specie di santo chiuso nel suo ritiro. Eppure io sento che in questa vita del teatro c’è una specie di corruzione, che nel teatro ci sono sempre degli elementi di corruzione. Essi vengono molto spesso fuori, da coloro che vogliono entrare nel teatro senza averne il diritto. Molto spesso dall’ignoranza di coloro che lo praticano oppure dall’impossibilità di essere sempre all’altezza di quello che io chiamo “stato drammatico” (e che cos’è poi questo teatro?). Intrusi, profani, dilettanti, povera umanità che cerca in qualche modo di raggiungere il sublime. Il teatro: creazione degli uomini per arrivare più in là, più in su? Esorcismo per combattere, ognuno di noi, i fantasmi che ci abitano? Gioco puerile che non va né più in là, né più in su di un gioco di bambini? Nessuno è ancora riuscito a trovare delle spiegazioni vere che riempiano il vuoto immenso di queste domande: cos’è il teatro? E perché si va a teatro? Perché si fa il teatro? E i rischi? È un mestiere quello del teatro in cui si rischia continuamente il disprezzo e la perdita di se stessi. E io ? Per quale anomalia, per quale sregolatezza dei miei sentimenti, proprio come dicono i Padri della Chiesa, mi sono ridotto a questa condizione di volere “far finta” per tutta una vita, di imitare, di … Ma perché “quelli” che mi guardano attoniti e commossi, in silenzio? Forse perché il teatro è fatto per insegnare agli altri altre cose che avvengono intorno a loro, perché essi credono o capiscono che coloro che recitano, sono là per “rivelarli” a loro stessi. Forse il teatro serve per fare sentire loro he hanno un’anima e un’anima immortale. Se è così, allora io sono l’intermediario di un’operazione altissima! Comunque sia, il mio mestiere è l’arte di fare credere qualcosa che non è, l’arte dell’apparenza. Far questo come una “maniera d’essere” e in questo esercizio trovare un equilibrio interiore per potere vivere. Trovare un equilibrio nel suo disequilibrio. Vivere nello sdoppiarsi. Perdersi nel teatro per ritrovarsi. Il segreto dell’attore, forse il segreto di tutto il teatro è qui… e i miei, sono propositi inutili. Ma possono fissare per l’anno 2000 (soltanto qualche decennio da oggi) lo stato d’animo di un attore qualsiasi, in un anno dell’epoca travagliata che stiamo vivendo. Un attore che reinventa, ogni sera, resuscita ogni sera il teatro con tutta la tenerezza che ha per amarlo meglio. È tardi. Non sono andato avanti di un passo. Tutto resta confuso, come sempre. Ho scritto. Sono stanco e non ho nemmeno il coraggio di rileggermi. Mi strucco
Luis Jouvet
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Son le 06:49 non riesco a dormire, mia nipote ha lasciato il cellulare accesso con la musica che viene riprodotta casualmente, e adesso si sente in lontananza somewere only we know, in particolare solo una strofa che si ripete: <<This could be the end of everything
So, why don't we go?>> Sembra quasi di stare in un film dove ad un certo punto, nel mezzo di una scena particolarmente sentimentale/drammatica parte la colonna sonora perfetta.
La verità è che ci rido su, mi sento quasi in pace con il mondo, quasi.
E questa canzone mi fa pensare a te, e mi chiedo: “questo può essere la fine di tutto?
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“Mi ha toccata sotto le coperte”. Choc al Grande Fratello: la concorrente disperata in lacrime, le accuse sono gravissime
[[{“value”:” Durante la notte al Grande Fratello, una scena drammatica ha sconvolto i telespettatori. Mentre Jessica e Luca si trovavano in cucina a chiarirsi, un pianto disperato di Zeudi Di Palma ha interrotto l’atmosfera della casa. Il suono delle sue lacrime, che arrivava dal salone, ha allarmato tutti i concorrenti, ma anche gli spettatori da casa. Quando l’attore ha chiesto cosa stesse…
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Momo watching: Supernatural
Io comunque non riesco ancora a riprendermi dal finale di Supernatural. Forse non è stata una buona idea vederlo in questo periodo di stress da trasloco, avrei dovuto vedere qualcosa di più tranquillo e leggero. Invece no, vai con i drammi dei Winchester!
Mi aspettavo un finale amaro, ero pronta da tempo. Anzi, mi aspettavo tranquillamente anche che le cose andassero più o meno così, con QUEL personaggio morto e l'altro che va avanti vivendo una vita normale. Sapevo che avrei pianto l'anima, ma aveva senso e sarebbe stato un finale adatto a chiudere il cerchio. Quello che mi ha deluso è il modo in cui lo hanno realizzato, troppo frettoloso e con una scena che avrebbe dovuto risultare drammatica, ma è stata talmente spogliata di epicità da essere resa quasi ridicola. Gli autori ci hanno abituati per 15 stagioni a vedere gente morta e risorta di continuo. La morte ha smesso di sembrare spaventosa dopo la stagione 5, parliamoci chiaro, e questo credo sia stato il loro primo errore. Ovviamente adesso, arrivati alla fine, è necessario ricordare al pubblico che qui nessuno è immortale (anche se fino ad ora sembrava di sì, perché tutti quanti avevano una plot armor gigantesca) e il metodo migliore che hanno trovato per ricordarcelo è stato quello di causare una morte accidentale.
Nessun problema con le morti accidentali, ma se prima mi hai fatto vedere che è possibile sconfiggere lilith, il diavolo, l'oscurità, la morte stessa, Dio e chi più ne ha più ne metta, poi non puoi farmi morire i personaggi facendoli cadere su una buccia di banana. Non ha senso, depotenzia la scena e tutto il percorso che hanno fatto nel corso delle 15 stagioni. Quella rassegnazione lì in QUELLA scena non ha senso di esistere. Perché non rassegnarsi prima allora? Davanti ad ostacoli ben più grandi... Accettare di morire in quel modo, senza neanche provare a chiamare soccorsi, è veramente stupido a quel punto della storia. Non riesco ad accettarlo. Fosse successo nella prima stagione, lo avrei capito, ma non dopo 15 stagioni in cui i personaggi muoiono e risorgono a turno come fossero in un episodio dei looney tunes! Peccato. Una delle mie serie preferite con un finale che definire deludente è poco! La penultima puntata invece l'ho apprezzata molto, per quanto tutte le stagioni dopo la 5 facciano acqua da tutte le parti e siano piene di filler... Se dovessi consigliare a qualcuno di vedere supernatural oggi, probabilmente gli direi di fermarsi alla quinta stagione. Io purtroppo non ce l'ho fatta, perché arrivata lì ero talmente tanto coinvolta dai protagonisti da considerarli praticamente parte della famiglia e quindi avevo bisogno di affondare con loro XD
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EndLess Love Anticipazioni SHOCK : : UNA MORTE ATROCE !!!
https://ift.tt/Zv8rNSf https://www.youtube.com/watch?v=DbpVJZWdf0Y EndLess Love Anticipazioni , SHOCK : : “UNA MORTE ATROCE !!!” Un momento da brividi sta per arrivare! Nihan, spinta dal dolore e dalla rabbia per tutto ciò che Emir ha causato a lei e ai suoi cari, non può più trattenere la sua sete di giustizia. In una scena drammatica, Nihan si trova faccia a faccia con Emir e, con un grido di rabbia, pronuncia le parole che nessuno si sarebbe aspettato: “Ora ti uccido!!!”. La tensione è alle stelle: come reagirà Emir? Questa volta la vendetta sarà davvero la fine per lui? Non perderti i prossimi episodi, dove il destino di Emir è in gioco! Benvenuti nel nostro canale YouTube, il punto di riferimento assoluto per tutti gli appassionati di intrattenimento televisivo italiano! Siamo qui per offrirti un viaggio avvincente nel mondo delle soap opera, delle serie tv, dei reality e dei talent show. Scopri in anteprima le puntate delle tue serie preferite con le nostre esclusive anticipazioni che ti terranno col fiato sospeso. Saremo anche la tua finestra sul gossip, rivelando retroscena succulenti e curiosità che ruotano intorno agli attori, alle attrici e ai personaggi televisivi che tanto ami. Unisciti a noi e resta sintonizzato per ricevere le ultime novità e per vivere il dietro le quinte delle produzioni che appassionano milioni di persone. Ti aspettiamo nel nostro canale YouTube, pronto a sorprenderti, intrattenerti e soddisfare la tua sete di conoscenza nel mondo delle soap opera, serie tv, reality e talent show italiani. Iscriviti e scopri con noi il lato affascinante dell’intrattenimento televisivo! #anticipazioniendlesslove #endlesslove #endlessloveanticipazioni from Tv Trend Italia https://www.youtube.com/channel/UCHqQYJ9rtTKFYW8IYlgCqWQ via Formula 1 Live https://ift.tt/T8Lhl23 December 06, 2024 at 01:19AM
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Un Tranquillo Weekend di Delitti di Gilly Macmillan: Il thriller psicologico che sconvolge le certezze. Recensione di Alessandria today
Un capolavoro di suspense e tensione firmato Gilly Macmillan
Un capolavoro di suspense e tensione firmato Gilly Macmillan Intrighi nella brughiera inglese: la trama In Un Tranquillo Weekend di Delitti, Gilly Macmillan ci trascina in un viaggio pieno di suspense, ambientato in una remota fattoria inglese. Jayne, Ruth ed Emily, tre amiche inseparabili, decidono di trascorrere una notte al Dark Fell Barn, un rifugio isolato, in attesa dei loro mariti.…
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mito->poesia->tragedia->metodo scientifico: uno sviluppo straordinario
Il genere tragico in Grecia: riproposizione ed evoluzione del mito arcaico.
La forma della tragedia classica greca è il punto di arrivo di un processo sviluppato a partire da un primitivo nucleo del coro, progressivamente ridimensionato a favore di uno spazio sempre maggiore riservato al dialogo dei personaggi. La tragedia ripropone e riplasma del materiale mitico ereditato dal mondo arcaico. Il suo appellativo si collega etimologicamente alla parola tragos con riferimento al capro, riferimento che è stato interpretato in vari modi quali: a) il sacrificio rituale celebrato alla fine della rappresentazione; b) la maschera indossata dal coreuta, c) il premio dato al vincitore. In ogni caso, si tratta di un riferimento a qualcosa di animalesco, ferino, primitivo, selvaggio (si veda ciò come traccia dell’animalesco selvaggio dionisiaco rispetto all’olimpico armonioso compositore delle passioni rappresentato da Apollo).
La struttura era articolata in un prologo sugli antefatti dell’azione, un parodo, canto di ingresso del coro, gli episodi costituiti da dialoghi con gli stasimi, i canti di stacco tra gli episodi, e l’esodo, canto di uscita. Il coro (12 coreuti ai tempi di Eschilo con uno di loro, il corifeo, dialogante a nome degli altri con gli attori) cantava in armonia con la musica e la danza ( infatti il verbo koreuein significa danzare). Gli attori, tutti di sesso maschile, indossavano maschere, coturni, ovvero alti calzari per essere più visibili agli spettatori e la scena era dotata di macchine teatrali. In genere le rappresentazioni avvenivano in occasioni di feste in onore di Dioniso, dio rurale patrono della fertilità. Erano dei veri e propri festival in cui gareggiavano i poeti tragici con la loro tetralogia (3 tragedie ed un dramma satiresco). C’era una commissione selezionatrice fatta da un arconte ed altri due membri che sceglieva i tre concorrenti per la gara finale, ogni tetralogia veniva rappresentata in una giornata intera e quindi il concorso durava 3 giorni. La giuria per assegnare la vittoria della corona di edera era formata da 1 rappresentante per tribù estratto a sorte da una lista fornita da ognuna delle 10 tribù, che dava una classifica dei concorrenti su una tavoletta, delle 10 poi ne venivano estratte 5 a sorte per avere il vincitore. I contenuti delle opere attingevano ad un patrimonio di racconti mitici tradizionali e la rappresentazione drammatica era fondata sul contrasto, la lacerazione tragica tra protagonista umano e divino e degli uomini tra loro. Tutto il popolo partecipava, lo stato finanziava i poveri con due oboli per indennizzo delle ore di lavoro perdute ed i costi degli spettacolo (scenografia, costumi, attori, coreuti, musicisti) che erano in parte sostenuti anche dalle famiglie ricche, c’era anche un servizio d’ordine dotato di robusti manganelli contro eventuali disturbatori. La partecipazione popolare al "RITO COLLETTIVO" funzionava da presa di coscienza, grazie a questa esteriorizzazione del dramma tragico reso nello spettacolo teatrale, che determinava una presa di distanza, una assunzione di responsabilità collettiva di fronte alle tensioni tremende dell’esistenza umana secondo una visione che affondava le sue radici nei sanguinosi rituali del mondo pre-greco. In questo consiste la CATARSI di cui parla Aristotele: LA RAPPRESENTAZIONE HA UN EFFETTO LIBERATORIO DALLE PASSIONI (i patemata = patemi di animo).
La tragedia si differenzia dal mito per un tratto sostanziale: se nel mito lo scontro è nel mondo divino, qui il piano si sposta sulla violenza tra dei e uomini e degli uomini tra di loro. Questo è testimoniato dal lessico tragico. Sono fondamentali alcune parole chiave ricorrenti nei dialoghi, che mostrano la inconciliabilità nella tragedia di polarità opposte di comportamento: parole da un lato come collera (che però è anche invidia!) (ϕθόνος),e accecamento divino (΄Άτη) , tracotanza (ύβρις), e violenza brutale (βία) , dall’altro legge (νόμος), diritto (δίκη), autorità legale (κράτος), timore (ϕóβος), e pietà (ʹΈλεος), parole che segnano nella loro opposizione il contrasto inconciliabile che caratterizza la tragedia. Viene bollata la tracotanza, si esibiscono i valori morali e le norme etico-sociali cui conformare i comportamenti dei cittadini della polis ed il ricorso al mito serve a rinsaldare il tessuto connettivo della convivenza. Nella trilogia più famosa, l’Orestea, formata da Agamennone, Coefore, Eumenidi, la tragedia si risolve con Oreste portato nella sede suprema della istituzione della polis, l’Areopago, dove Oreste è alla fine assolto e le furiose persecutrici Erinni si trasformano nelle benigne Eumenidi. Si impone la Giustizia, la DIKE, che si esplica nel NOMOS, nella Legge della città, a fronteggiare la violenza, ma ciò non sarà sufficiente se nell’Antigone la legge del cuore e degli affetti si scontrerà con la legge ufficiale della città stessa, che tuttavia prevarrà alla fine. Ma a questo punto, gli Dei c’entrano poco, il conflitto è tra gli uomini, gli Dei sono solo spettatori. I drammi umani riportano le scorie dei drammi divini. Più i conflitti "si umanizzano", più si perde la carica istintiva, travolgente dell’eros e della violenza primitiva e questo porta alla famosa tesi di Nietzsche che ne La nascita della tragedia (1871) vede nelle prime tragedie un equilibrio tra le parti del coro che rappresentano la potenza dionisiaca degli istinti e le parti del dialogo degli attori che moderano con la razionalità apollinea lo scatenamento degli istinti, fino ad arrivare ad Euripide che descrivendo con realismo delle vicende umane fa prevalere il distacco dello spirito superiore ed equilibrato apollineo in contemporanea all’avvento del razionalismo di Socrate in filosofia e la definitiva eclissi del dionisiaco, evento che il filosofo tedesco denuncia come la più grande perdita per tutta la cultura occidentale.
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Più i miti perdono valore di Verità, staccati dal culto dionisiaco, più i paragoni e le similitudini linguistiche, da "strati intermedi" tra il mondo degli dei e quello umano subiranno una trasformazione che costituirà i primi gradini delle deduzioni analogiche di cui il metodo empirico si servirà più tardi.
-Franco Sarcinelli (WeSchool)
-Bruno Snell (le origini del pensiero europeo)
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO SECONDO - di Gianpiero Menniti
LA NASCITA DELLA PITTURA OCCIDENTALE
Un corpo giace senza vita tra le braccia di una madre disperata. Questo è il passaggio più profondo che compie lo strappo dall’iconicità, strappo ormai pienamente accolto da molti precedenti eppure reso, qui, con i caratteri della più evidente plasticità degli umani sensi e dell’umano patire, fino ad estenuare la resa drammatica, portandola ad emergere, cancellando ogni mediazione simbolica. La disperazione capace di esprimersi, nei diversi personaggi, in un gesto di composta rassegnazione, in un misurato equilibrio con la forza dell’impeto passionale lacerante che gli si contrappone: come nella figura di un palpitante San Giovanni proteso fin quasi allo spasimo nel gridare il proprio dolore. Ancora più evidente è il segno lasciato da angeli incapaci di controllare i propri sentimenti: così, si abbandonano a un volteggio scomposto nello sfondo di un cielo che stinge l’azzurro in un colore livido, esso stesso influenzato dal carattere intensamente drammatico della scena. Si tratta di una forma di rappresentazione religiosa che si rivolge agli uomini di un nuovo tempo, a uomini che si pongono domande e che animano di dubbi la relazione con lo spirito, uomini che obbediscono a una coscienza nuova, consapevole di una crisi di maturità nell’emergere di un senso dell’individuale molto più marcato. Sono gli uomini dei rifioriti centri urbani, protagonisti di una nuova prosperità, espressione della rivoluzione commerciale dei secoli XI e XII. Per certo, tuttavia, si tratta di una spiritualità mediata dagli ordini mendicanti, in particolare dall'esempio del realismo francescano. Giotto, a cavallo tra due epoche, riesce a cogliere le nuove sensibilità imbevute di un diverso afflato religioso, rivelazione concettuale frutto della mistica francescana che venne imponendosi sul cambiamento più di quanto si possa immaginare. Un Giotto che mai si ritrae rispetto alla sperimentazione pittorica. È il Giotto di "Anna e Gioachino alla Porta Aurea" che si scambiano un bacio, avvenimento unico, una "prima volta" nella storia della pittura di quelle epoche. Ed è il Giotto della "Cattura di Cristo", nel quale tra la bagarre di una scena complessa si scorge il misterioso incontro di sguardi tra Gesù e Giuda, entrambi vittime ma di un diverso destino del quale appaiono essere intimamente consapevoli. Osservando il dipinto non ho potuto fare a meno di richiamare alla memoria un’immagine moderna, quella di un quadro futurista: "I funerali dell’anarchico Galli" di Carlo Carrà (1911). Quella stessa vorticosa e inarrivabile dinamicità immersa in un flusso che appare inarrestabile, è in parte presente nell’inquieto e disordinato sollevarsi di lance e bastoni e torce del dipinto di Giotto, che fissa il sentimento centrale della scena concentrandolo su un immobile Gesù, dissonante e ieratico rispetto al conflitto che si anima intorno a un Cristo acquiescente al gesto di Giuda. La pittura, sempre più, mi appare come un gesto unico.
- Giotto di Bondone (1266 - 1337), Cappella degli Scrovegni, Padova, 1303-1305: "Bacio di Giuda o Cattura di Cristo", "Compianto sul Cristo morto", "Gioacchino ed Anna alla Porta Aurea"
- Carlo Carrà (1881 - 1966): “ I funerali dell'anarchico Galli”, 1910-1911, Museum of Modern Art, New York
- In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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Emily in Paris 1: tutto è possibile a Parigi
Emily in Paris, la romantic comedy con protagonista Lily Collins creata da Darren Star, su Netflix
Emily in Paris: Lily Collins nella serie Netflix
Emily in Paris, la serie al femminile di Darren Star disponibile su Netflix, è impossibile non pensare alle altre serie di simile impostazione e trama che hanno fatto capolino sulle varie piattaforme. Protagoniste sono delle giovani donne che si dividono fra carriera, amore, amici nella Big City, dove sperano di realizzare i propri sogni. La Emily del titolo in questo caso si avvicina a loro ma, al tempo stesso, se ne allontana per alcuni aspetti, grazie alla scrittura di Darren Star e all'interpretazione di Lily Collins.
SEX AND THE YOUNGER
Dopo i giovani di Beverly Hills, 90210, i condomini di Melrose Place, le single più famose della tv di Sex and the City e lo scontro generazionale di Younger, Star ci presenta la storia di Emily Cooper, giovane ragazza di Chicago pronta a un avanzamento di carriera dato che la sua responsabile all'azienda di marketing dove lavora (una vergognosamente poco sfruttata Kate Walsh) dovrà trasferirsi per un anno a Parigi, dove hanno acquisito un'azienda più piccola. La vita come spesso capita ha altri piani: quando la capa scopre di essere incinta e non poter più andare a Parigi, il trasferimento tocca a Emily che, piena di speranze e buona volontà, parte alla volta di una città oltreoceano dove non conosce nemmeno la lingua. E un fidanzato rimasto a Chicago con il quale vuole provare a mantenere una relazione a distanza.
Emily in Paris: Lily Collins e Lucas Bravo nella serie Netflix
Emily però non è una sprovveduta, almeno non nel proprio lavoro, di cui conosce bene la comunicazione, soprattutto quella sui social media, e cerca di mettere il proprio "punto di vista americano" al servizio dei colleghi francesi, che però non la vedono di buon occhio, da straniera e millennial qual è. Così, tra una riunione e una trovata di marketing, un pan au chocolat, un promettente e affascinante chef che vive al piano di sotto, nuovi amici incontrati per caso al parco, triangoli, quadrangoli e pentagoni amorosi a lavoro, Emily inizia a costruirsi una vita in quel di Parigi. Molte avventure la attendono al varco.
I SOCIAL NON SONO IL NEMICO
Emily in Paris: Lily Collins e Ashley Park nella serie Netflix
In un'atmosfera da Il Diavolo Veste Prada, ma mai cattiva fino in fondo, viene messa in scena la battaglia generazionale del nostro tempo, presa in prestito da Younger. Questo è l'aspetto più originale e interessante di Emily in Paris: la riflessione tra le righe sul ruolo dei social media nel marketing e nella pubblicità e sulla reale influenza degli influencer. Star però decide di farlo dal punto di vista di una di loro, preparata e piena di spirito di squadra, mostrandoci quindi una risorsa preziosa, non qualcuno da non demonizzare e guardare con sospetto come fa la sua capa francese Sylvie, perché le cose fino a quel momento "si erano fatte in un altro modo". Il cambiamento spaventa, sempre, soprattutto nella comunicazione, ma bisogna provare ad abbracciarlo, magari con due baci sulla guancia come fanno i francesi. Il confronto fra generazioni e il ruolo di ognuna di esse nella società, viene affrontato sempre in salsa di commedia romantica e ammiccante al sesso, senza essere troppo volgare o sboccata, o eccessivamente drammatica. La trama è piena di cliché, come il collega gay di Emily, la capa cattiva ma che in fondo ha un cuore, alcuni snodi narrativi come i fortuiti incontri della protagonista… ma glieli si perdona per il suo essere brava nel proprio lavoro e per avere un cuore gentile, quasi fosse una moderna Cenerentola.
AVREMO SEMPRE PARIGI
Emily in Paris: Samuel Arnold nella serie Netflix
La Parigi che si vede nella serie non è certamente la Parigi dei vicoli bui e dei quartieri dell'immigrazione di The Eddy, ma la capitale francese da cartolina di Ratatouille, dove da ogni parte si può ammirare la Tour Eiffel. I colori, la fotografia, i costumi degni di una fashion blogger indossati da Emily sono tutti volti ad acuire l'immagine romantica che in molti hanno della "città dell'amore", pronta a realizzare i desideri di cuore e non solo di chi le fa visita. Una Parigi "magica" da Midnight in Paris. Tutto è equilibrato e "bello da vedere" in Emily in Paris, a partire dalla protagonista: tutti sono sempre impeccabili, anche appena svegli la mattina - ma anche provando un pò fastidio o invidia verso di lei e gli altri personaggi, si sente un monito di speranza per i propri sogni da realizzare e una genuina simpatia. Emily in Paris ci fa credere che forse, in fondo, a Parigi davvero tutto può essere possibile.
Conclusioni
Concludo la visione della prima stagione di Emily in Paris consapevole che l’effetto ottenuto da protagoniste femminili di questo tipo nello spettatore può risultare controproducente, ma non sembra questo il caso. Complice l’interpretazione di Lily Collins, la cornice di una Parigi da cartolina e la scrittura leggera, Emily in Paris trasuda bravura nel proprio campo e genuina gentilezza, quindi ci fa piacere tifare per lei, e anche un po’ per i suoi amici, i suoi colleghi e perché no… la sua capa. Realizzeranno i loro sogni a Parigi? Dieci episodi da mezzora per scoprirlo.
👍🏻
La serie si muove bene tra le commedie romantiche più classiche e Il Diavolo Veste Prada per l’ambiente lavorativo competitivo che racconta.
La Parigi da cartolina dove non si può non innamorarsi e dove tutto sembra possibile, compresi gli outfit della protagonista.
La riflessione tra le righe sul ruolo oggi dei social media e degli influencer…
👎🏻
…che forse andava approfondita un po’ di più.
La trama contiene più di qualche cliché e qualche ingenuità in alcuni snodi narrativi.
La presenza di Kate Walsh è troppo poco sfruttata come responsabile di Emily a Chicago.
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