#reagire ai soprusi
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shadyqueeneagle · 22 days ago
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Nel mio condominio, oltre a me, vive una ragazza sola: i miei vicini, sia donne che uomini, non la identificano per nome quando parlano di lei, ma le hanno dato un soprannome: La Lesbica, perché la vedono soltanto in compagnia di ragazze e mai di ragazzi. Con me, invece, non esiste questo "problema": il mio appartamento è un porto di mare dove si alternano uomini diversi; in tempi passati i vicini cattolici mi hanno causato fastidi, ma ho saputo farmi valere: io non resto a subire e li purgo.
Sui social, possiamo anche fare a meno di replicare a chi ci molesti, poiché non c'è possibilità che la Polizia Postale intervenga affinché riporti l'ordine; nella realtà, reagire ai soprusi "in quanto donne" è fondamentale, perché oltre a tutelare noi stesse, partecipiamo ad una società in cui è fondamentale costruire un rispetto per le donne, da parte di taluni uomini e anche talune donne (persone tossiche), che ancora manca.
Dobbiamo fare oggi il lavoro che nonne e madri non hanno fatto ieri.
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sweetbearfan · 19 days ago
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La nostra vita è idealmente uno spazio chiuso: se lasciamo che qualcuno vi entri e faccia di noi tutto quello che vuole senza mettere dei paletti, è perché abbiamo acconsentito a questo e non possiamo lamentarcene.
Sui social, possiamo anche fare a meno di replicare a chi ci molesti, poiché non c'è possibilità che la Polizia Postale intervenga affinché riporti l'ordine; nella realtà, reagire ai soprusi "in quanto donne" è fondamentale, perché oltre a tutelare noi stesse, partecipiamo ad una società in cui è fondamentale costruire un rispetto per le donne, da parte di taluni uomini e anche talune donne (persone tossiche), che ancora manca. Dobbiamo fare oggi il lavoro che nonne e madri non hanno fatto ieri.
Quando non hai una ragazza perché hai difficoltà a relazionarti con il sesso femminile, è molto facile che i social diventino la tua valvola di sfogo dove "dire alle donne" quello che nella realtà o devi ancora dire o hai già detto e sei stato giustamente lasciato. Ai maschi tossici - talvolta disoccupati, talvolta solo studenti, talvolta solo soli dopo il lavoro e svegli durante la notte - un solo account molesto non basta, ma ne creano a decine: ecco perché qui sembra ci siano tanti molesti.
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babypostparadise · 15 days ago
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I nati negli anni '80 avevano davanti, come le precedenti generazioni, solo la prospettiva d'un lavoro stabile, risultata poi illusoria; dal '96 in poi, con la discesa di Silvio Berlusconi in campo politico, le nostre certezze sono del tutto cadute causa l'introduzione della Legge Biagi, causa le migliaia di aziende fallite, causa 𝗹𝗲 𝗱𝗲𝗰𝗶𝗻𝗲 𝗱𝗶 𝗶𝗺𝗽𝗿𝗲𝗻𝗱𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶 𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗶 𝘀𝘂𝗶𝗰𝗶𝗱𝗮𝗿𝗼𝗻𝗼 perché Berlusconi tagliò i rubinetti del credito bancario alla medio-piccola impresa, allungando pure i tempi di pagamento dei lavori in appalto con lo Stato.
Questa è la Storia che troppi non vogliono raccontare per non dover ammettere davanti alle giovani generazioni (alcuni davanti ai propri figli) di non aver reagito in alcun modo a ciò che stava accadendo di gravissimo nella vita di tutti noi - quel non reagire che ha direttamente determinato i tempi moderni pieni di nuovo di soprusi anche nel mondo del lavoro: soprusi che subiscono i giovani.
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jose-rossetti · 6 months ago
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Come REAGIRE ai SOPRUSI / Mauro Rango - Ippocrate ORG
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cinquecolonnemagazine · 1 year ago
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Le Quattro Giornate di Napoli (quasi un diario)
“Le quattro giornate di Napoli (quasi un diario)”. Questo il titolo della presentazione del omonimo libro scritto dal presidente province dell'Anpi Napoli, Ciro Raia. Il libro è stato presentato presso la sede della Slc Napoli e Campania, al centro Direzionale. Le Quattro Giornate di Napoli (quasi un diario), l'evento e la presentazione L’evento è stato promosso da Sinagi, Associazione Merqurio, ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) e associazione QdN (Qualcosa di Napoli). I saluti sono stati di Emanuele Lastaria, segretario del Sinagi Napoli e Gianluca Daniele, segretario generale della Slc Cgil Napoli e Campania. L'introduzione, invece, è stata a cura di Francesco De Rienzo, segretario dell’associazione Merqurio. All’incontro hanno partecipato Berardo Impegno, presidente dell’associazione QdN e Ciro Raia, autore del libro e presidente ANPI Napoli. Ha moderato l'evento la giornalista Taisia Raio. Il libro “Le quattro giornate di Napoli (quasi un diario)” è un libro che racconta sotto forma di diario gli eroi e gli avvenimenti che nel settembre del 1943 permisero alla città di Napoli di liberarsi dall’occupazione tedesca. Un viaggio nella memoria di un periodo storico, in un certo senso, poco raccontato dal punto di vista dei "protagonisti". L'autore, che fa tutti i nomi possibili degli eroi combattenti, racconta giorno per giorno, quindi, tutte le rivolte e le tentate insurrezioni, fornendo di ogni partecipante quanti più dettagli sulla sua vicenda.  Le parole dei protagonisti dell'evento «Il messaggio delle Quattro Giornate è sempre attuale, così come la capacità del popolo napoletano di reagire ai soprusi», così Gianluca Daniele ha aperto l'evento di presentazione del libro di Ciro Raia. Lo stesso presidente provinciale dell’Anpi, ha voluto sottolineare che: "il futuro non possa prescindere dalla nostra memoria. La vera resistenza è partita dal Sud e non dobbiamo mai dimenticarlo". Berardo Impegno, presidente dell’associazione Qdn, ha ricordato con le sue parole che "il movimento napoletano della resistenza sia stato un fronte compatto dimostrando un senso civico e di comunità che è importante ancora oggi". Emaunele Lastaria, segretario del Sinagi Napoli, ha ricordato come "Abbiamo voluto fare questa iniziativa perché riteniamo che in questo momento c'è un forte attacco alla memoria e alla libera informazione. Noi come Sinagi abbiamo fatto una battaglia per la libera informazione con iniziative come La notte delle edicole. Questi temi, la memoria e l'informazione libera, sono degli elementi fondamentali della nostra democrazia e con questa iniziativa cerchiamo di dare il nostro contributo in modo tale che in futuro possa portare avanti queste bellissime iniziative". Read the full article
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clacclo · 1 year ago
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Per fortuna è stata una donna a rompere il sigillo, così posso dire la mia senza essere linciato...
In primo luogo, un uomo violento è stato cresciuto da una donna! Per cresciuto intendo che la madre è stata l'esempio di come va trattata una donna sin da quando è nato: come permetteva al marito di trattarla, chi ha gestito tutte le faccende di casa, chi ha giustificato sempre e comunque il padre\marito, chi ha viziato il figlio (quasi sempre unico) facendogli credere che tutto gli fosse dovuto, chi non lo ha rimproverato quando a sei anni litigava con i compagni di scuola, chi gli ha permesso di mancargli di rispetto quando aveva sedici anni, in pratica, chi è stato l'esempio di come va trattata una donna, se non la madre?
Poi ci sono gli insegnanti. Quando si parla di loro si pensa sempre a quei poveri professori delle superiori che vengono vessati da ragazzoni di un metro e ottanta, ma non si pensa mai alle maestre che lo hanno cresciuto ed educato per ben cinque anni quando andava alle elementari.
Non si nasce improvvisamente uomini violenti, si nasce bambini innocenti e puri e si viene rovinati dagli adulti intorno! Finché non verranno riconosciute le responsabilità delle donne che sono state il riferimento per diciotto anni e più, non si andrà mai lontano.
Una madre che non si ribella ad un marito che, nel migliore dei casi, la sfrutta come donna di servizio, nel peggiore la abusa emotivamente, psicologicamente e\o fisicamente, sta insegnando al proprio figlio maschio che la donna è sottomessa all'uomo e non deve mai opporsi alla sua volontà. Poi si esce di casa e si incontrano Donne che non si fanno sottomettere...
Poi ci sono le figlie femmine, quelle che fanno ginnastica artistica anziché autodifesa o sport di contatto, quelle che devono essere sempre carine e ben vestite per piacere ai ragazzi, quelle che si paralizzano dal terrore anziché restare lucide e reagire perché sono abituate ad essere il sesso debole, quelle che piangono anziché mandare a fanculo, quelle educate ad essere la principessa sul pisello e non sanno neanche cambiare la ruota alla macchina o fare benzina. Le femmine, appunto, che con le Donne hanno in comune solo i genitali, che usano il corpo, la sensualità, il sorriso malizioso per ottenere tutto quello che vogliono da maschi solo testosterone e niente cervello. Se gli venisse insegnato a difendersi, a confrontarsi con un avversario che vuole picchiarti, forse saprebbero anche restare lucide e capire quando è il caso di essere determinate e quando è il caso di assecondare il pazzo violento perché non c'è possibilità di vincere. L'arte della guerra di Sun Tzu dovrebbe essere letto alle bambine al posto delle favole con il principe azzurro! Il bravo generale è colui che combatte solo se ha la possibilità di vincere... A volte basta assecondare per cinque minuti, per poi staccare con un morso i testicoli dell'aggressore, anziché opporsi da subito e alzare il livello di frustrazione e, di conseguenza, farla sfociare in violenza. Invece, purtroppo, capita che ci si senta intoccabili perché, al pari del figlio (unico) maschio, si è state allevate come la regina della casa.
Bisogna capire che la realtà non sempre è giusta e ideale, ma si deve essere preparati, maschi e femmine, a fare i conti con i soprusi, le ingiustizie e la violenza altrui. Si deve accettare il fatto che il male ci sarà sempre e imparare come gestirlo e come combatterlo, perché la vita non sarà mai rose e fiori se non sai come evitare le spine!
Poi ci sono i parenti e amici delle vittime, quelli che dopo diranno nelle interviste che quel ragazzo non gli è mai piaciuto, che la trattava male, che l'avevano avvisata e le avevano detto di lasciarlo. Quelli che, se avessero davvero avuto a cuore le sorti della figlia\sorella\cugina\amica avrebbero dovuto prendere il tizio e riempirlo di botte, per fargli capire che la ragazza non era sola e indifesa. Invece no, si sta in finestra a guardare perché la violenza non si usa, è sempre sbagliata, si passa dalla parte del torto, si deve aspettare l'intervento divino della giustizia... Ma chi se ne frega di una denuncia, se serve a salvare una vita! Non ci saranno mai carabinieri e magistrati a salvare le vittime, quello possono farlo solo le persone che le stanno intorno. Una denuncia per stalking non è mai servita a nulla, ma un bel pestaggio forse potrebbe fare la differenza...
Infine, non c'è nulla di più violento del dire "no alla violenza sulle donne"! Che cazzo significa, che sulle altre categorie va bene? Perché le donne no e gli altri sì? Non è questo un messaggio che crea vittime? "Non mi puoi menare perché sono donna" è il pensiero che porta a provocare all'infinito perché "tanto non mi può fare nulla, sono una donna..." E poi si scopre che l'altro se ne fotte che sei una donna! Iniziamo, invece, a fare una distinzione fra violenza e forza, insegniamo ad usare la forza per difendersi dalla violenza altrui, abituiamo i bambini ad accettare il fatto che ci sarà sempre qualcuno che si vorrà imporre violentemente (e che non devono essere loro a farlo!) e diamogli gli strumenti fisici e mentali per contrastarlo. Non viviamo nel Paese delle Meraviglie, non è giusto crescere i bambini come se lo fosse...
Infine, quelle donne che si vergognano di chiedere aiuto che razza di parenti e amici di merda hanno? Che educazione hanno ricevuto? Se non ti senti libera di parlare di quello che ti sta succedendo, la colpa è di chi non ti ha mai fatto sentire accettata, che ti ha sempre giudicata e fatto sentire in errore. Altrimenti, sapresti che non hai responsabilità nella violenza che subisci. Se accetti il primo gesto di sopraffazione, se lo giustifichi perché era nervoso, se resti in una relazione tossica e non vedi via d'uscita, la responsabilità è di chi ti ha cresciuta senza darti il sostegno che ogni bambino dovrebbe avere.
Così come non si nasce violentatori, non si nasce nemmeno vittime! C'è chi fa del male e chi avrebbe povuto impedirlo e non l'ha fatto.
Trovare il capro espiatorio nel patriarcato, nella società maschilista, nei valori che non ci sono più, serve solo a deresponsabilizzarsi per tutto quello che possiamo fare noi in prima in persona. Aspettare sempre che ci sia un intervento dall'alto, che il politico faccia qualcosa, che il magistrato agisca, che il carabiniere intervenga, significa solo delegare ad altri le nostre responsabilità. Significa essere vittima e carnefici allo stesso tempo.
Buttate quei cazzo di gessetti colorati, togliete le bandierine arcobaleno dai balconi e pisciate sulle panchine rosse, poi prendete il borsone e andate in palestra ad allenarvi, se non volete essere più vittime!
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lo scopo è lo scardinamento del legame uomo-donna,base della famiglia, meglio ignorare la pretestuosa polemica.
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donaruz · 2 years ago
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“Imparare a leggere e scrivere per conoscere tutto il resto dell'umanità”.
Quale augurio migliore di queste parole di Alberto Manzi per il primo giorno di scuola?
Alberto Manzi non è solo il maestro che ha insegnato a leggere e scrivere agli italiani, quando in un’Italia piena di belle speranze ma ancora poco alfabetizzata, condusse il programma “Non è mai troppo tardi”. Andato in onda dal 1960 al 1968, è sicuramente un capolavoro di pedagogia, premiato e imitato in altri settantadue paesi, espressione massima della Rai come servizio pubblico.
Alberto Manzi è molto di più.
È un maestro che ha la vocazione dell’insegnamento e non ha paura di iniziare dalle aule più difficili: dopo la guerra, nel 1946, accetta l’incarico, che altri prima di lui avevano rifiutato, di insegnare nel carcere minorile “Aristide Gabelli” di Roma. Non è semplice: in un enorme stanzone senza banchi, senza sedie, senza nemmeno libri, sono riuniti bambini e ragazzi tra i 9 e i 17 anni con storie terribili alle spalle. Ma Alberto Manzi non si perde d’animo e alla fine riesce a guadagnare la loro fiducia inventando e sperimentando metodi didattici innovativi. Racconta storie e le fa raccontare e recitare ai ragazzi. Insieme pubblicano “La tradotta”, il giornale del carcere, un modo per tirar fuori le emozioni di questi ragazzi che troppo presto hanno conosciuto la durezza della vita.
È un maestro che dal 1955 fino al 1977 trascorre le sue estati in Sud America. All’inizio nella foresta amazzonica con un incarico dell’università di Ginevra per studiare le formiche (Alberto Manzi era anche laureato in biologia oltre che in pedagogia e filosofia). Poi si sposta in Perù e in Bolivia, dove capisce che per gli indios è fondamentale l’istruzione per reagire alle ingiustizie e ai soprusi. Ma non si limita ad insegnare a leggere e scrivere. Li aiuta a costituirsi in piccole cooperative agricole, a organizzarsi per non essere sfruttati. Quindi si attira le antipatie delle autorità che lo dichiarano persona non gradita. Ma lui continuerà ad andarci lo stesso.
È un maestro che capisce le potenzialità dei mezzi di comunicazione e oltre al celebre “Non è mai troppo tardi” e altri programmi nel corso degli anni, usa anche la radio per raccontare storie, insegnare a grandi e piccoli, o meglio come disse lui: “Non insegnavo a leggere e scrivere: invogliavo la gente a leggere e a scrivere”.
È un maestro scrittore e poeta, e per le sue opere avrà molti premi e riconoscimenti.
È un maestro che insegna all’università, ma poi la lascia per dedicarsi alla scuola elementare “Fratelli Bandiera” di Roma, dove resterà fino alla pensione.
È un maestro che scrive alle istituzioni, per protestare contro una scuola considerata inadeguata, fredda, sorda alle esigenze dei bambini. Tanto insofferente alle categorie asettiche della scuola, che nel 1981 Manzi si rifiuta di compilare le schede di valutazione: “Non posso bollare un ragazzo con un giudizio, perché il ragazzo cambia, è in movimento; se il prossimo anno uno legge il giudizio che ho dato quest'anno, l'abbiamo bollato per i prossimi anni”. Davanti alle pressioni del Ministero della Pubblica Istruzione, l’anno successivo apporrà un timbro su ogni scheda: “fa quel che può, quel che non può non fa”.
È un maestro ormai anziano e in pensione, ma che sa sempre che l’istruzione è l’unico antidoto alla violenza e all’ingiustizia, e quindi nel 1992 realizza un programma per la RAI: “Impariamo insieme” per insegnare l’italiano agli extracomunitari.
È un maestro che non smette mai di credere nel potere dell’istruzione e nella forza dei bambini, ai quali diceva “Siete capaci di camminare da soli a testa alta, perché nessuno di voi è incapace di farlo”.
Non è mai troppo tardi per ricordare Alberto Manzi, maestro speciale.
Ed è di buon augurio ricordarlo oggi, ancora, all’inizio di un nuovo anno scolastico…
Buona scuola a tutti!
🦋 La farfalla della della gentilezza 🦋
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corallorosso · 3 years ago
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Maestri speciali Alberto Manzi non è solo il maestro che ha insegnato a leggere e scrivere agli italiani, quando in un’Italia piena di belle speranze ma ancora poco alfabetizzata, condusse il programma “Non è mai troppo tardi”. Andato in onda dal 1960 al 1968, è sicuramente un capolavoro di pedagogia, premiato e imitato in altri settantadue paesi, espressione massima della Rai come servizio pubblico. Alberto Manzi è molto di più. È un maestro che ha la vocazione dell’insegnamento e non ha paura di iniziare dalle aule più difficili: dopo la guerra, nel 1946, accetta l’incarico, che altri prima di lui avevano rifiutato, di insegnare nel carcere minorile “Aristide Gabelli” di Roma. Non è semplice: in un enorme stanzone senza banchi, senza sedie, senza nemmeno libri, sono riuniti bambini e ragazzi tra i 9 e i 17 anni con storie terribili alle spalle. Ma Alberto Manzi non si perde d’animo e alla fine riesce a guadagnare la loro fiducia inventando e sperimentando metodi didattici innovativi. Racconta storie e le fa raccontare e recitare ai ragazzi. Insieme pubblicano “La tradotta”, il giornale del carcere, un modo per tirar fuori le emozioni di questi ragazzi che troppo presto hanno conosciuto la durezza della vita. È un maestro che dal 1955 fino al 1977 trascorre le sue estati in Sud America. All’inizio nella foresta amazzonica con un incarico dell’università di Ginevra per studiare le formiche (Alberto Manzi era anche laureato in biologia oltre che in pedagogia e filosofia). Poi si sposta in Perù e in Bolivia, dove capisce che per gli indios è fondamentale l’istruzione per reagire alle ingiustizie e ai soprusi. Ma non si limiterà ad insegnare a leggere e scrivere. Li aiuta a costituirsi in piccole cooperative agricole, a organizzarsi per non essere sfruttati. Quindi si attira le antipatie delle autorità che lo dichiarano persona non gradita. Ma lui continuerà ad andarci lo stesso. È un maestro che capisce le potenzialità dei mezzi di comunicazione e oltre al celebre “Non è mai troppo tardi” e altri programmi nel corso degli anni, usa anche la radio per raccontare storie, insegnare a grandi e piccoli, o meglio come disse lui: “Non insegnavo a leggere e scrivere: invogliavo la gente a leggere e a scrivere”. È un maestro scrittore e poeta, e per le sue opere avrà molti premi e riconoscimenti. È un maestro che insegna all’università, ma poi la lascia per dedicarsi alla scuola elementare “Fratelli Bandiera” di Roma, dove resterà fino alla pensione. È un maestro che scrive alle istituzioni, per protestare contro una scuola considerata inadeguata, fredda, sorda alle esigenze dei bambini. Tanto insofferente alle categorie asettiche della scuola, che nel 1981 Manzi si rifiuta di compilare le schede di valutazione: “Non posso bollare un ragazzo con un giudizio, perché il ragazzo cambia, è in movimento; se il prossimo anno uno legge il giudizio che ho dato quest'anno, l'abbiamo bollato per i prossimi anni”. Davanti alle pressioni del Ministero della Pubblica Istruzione, l’anno successivo apporrà un timbro su ogni scheda: “fa quel che può, quel che non può non fa”. È un maestro ormai anziano e in pensione, ma che sa sempre che l’istruzione è l’unico antidoto alla violenza e all’ingiustizia, e quindi nel 1992 realizza un programma per la RAI: “Impariamo insieme” per insegnare l’italiano agli extracomunitari. È un maestro che non smette mai di credere nel potere dell’istruzione e nella forza dei bambini, ai quali diceva “Siete capaci di camminare da soli a testa alta, perché nessuno di voi è incapace di farlo”. Non è mai troppo tardi per ricordare Alberto Manzi, maestro speciale. Ed è di buon augurio ricordarlo oggi, ancora, all’inizio di un nuovo anno scolastico… Buona scuola a tutti! La farfalla della gentilezza
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gabbiadicarta · 5 years ago
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Ieri un mio amico mi ha raccontato che aveva una ex molto gelosa, lo rinchiudeva in casa a chiave e diceva “adesso tu non esci!”. Quando la lasciò lei gli tirò uno schiaffo. Che schifo! Secondo me quelle che fanno così lo fanno più per il fatto che sono donne e nessuno dice niente. Non tanto per rabbia. Anche secondo te lo fanno più perché se ne approfittano di ciò?
no, lo fanno semplicemente perchè sono violente e insicure di se stesse. Certi comportamenti si hanno per predisposizione genetica a ‘sto punto.
Anche una mia vecchia amica menava regolarmente il mio ex ragazzo quando si frequentavano. L'ha picchiato, offeso e tradito molteplici volte e non perchè voleva approfittarne in quanto donna. Semplicemente ha (tuttora) un carattere di merda, dovuto ad un'instabilità mentale e familiare. Sarebbero da denuncia, ma OVVIAMENTE non solo per la società, ma anche per la polizia molti casi di violenza nei confronti degli uomini vengono presi sottogamba. Troppo difficile ammettere che anche l'uomo non sempre ha la forza fisica e mentale per reagire ai soprusi.
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a---fire---inside · 6 years ago
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metamoro futuristic police! au (parte 4) aesthetic
aesthetic generale - parte 1- parte 2 - parte 3 (+aesthetic+soundtrack) -parte 4 (+soundtrack) 
Mettersi contro un Ispettore Capo ha conseguenze disciplinari e non solo, ed più facile fare un lungo respiro e calmarsi, invece che reagire a un uomo così odioso controllando che il proprio CC non si alteri. 
Ermal si gira per guardare in faccia quelli che hanno sputato quelle parole velenose, poi rivolge lo sguardo ai suoi compagni di squadra che gli lanciano un’occhiata eloquente, poi verso Fabrizio, che non distoglie gli occhi dal foglio anche se sente quelli del suo ispettore, come quelli di tutta la sala, su di sé.
Un tempo avrebbe voluto sprofondare per la vergogna, lui che era timido. Lavorare per qualcosa in cui credeva e ottenere buoni risultati gli avevano dato sicurezza, poi é cambiato tutto, ha perso la libertà e lo status di persona agli occhi della gente e del sistema, e ha subito tante di quelle umiliazioni che essere fissato e insultato non è la più grave.
Fabrizio si comporta come se non avesse sentito niente: continua a tenere in mano la penna come prima e a riempire i moduli, e la sua indifferenza irrita Castoldi che continua, gettando fango sul quartiere da cui proviene, poi sull’officina abusiva che aveva suo padre.
Anche se Ermal è riuscito a non soccombere a odio e violenza, ottenendo un CC limpido, non significa che non abbia ricordi e desideri inespressi, e sentir parlare di un padre che a differenza del suo non picchiava i suoi figli è più che oltraggioso. Si gira di nuovo, e il suo sguardo stavolta è più eloquente di quelli dei suoi compagni di squadra che cercano di fermarlo.
“Ispettore? Qui serve la sua firma”
Ermal si gira perché Fabrizio gli sta passando un foglio, l’espressione stoica e concentrata sul suo compito, nessuna emozione riflessa negli occhi nocciola. Nemmeno quando gli insulti continuano.
Con la luce di spalle e le ombre che danzano sulle loro figure, l’Ispettore Capo Castoldi sembra avere le corna, come il demonio che è, pensa Ermal, voltatosi di scatto verso i due uomini, avendo compreso l’allusione a tutti i pestaggi e chissà cos’altro, a cui il bastardo ha sottoposto Fabrizio, 
Ermal non tollera i soprusi, lui che ne ha subiti tanti quando era troppo giovane e inerme per combatterli.
E non sopporta che debba subirli Fabrizio, l’affascinante mistero che ancora non riesce a decifrare ma che gli occupa la mente, e non solo.
Così fa per alzarsi e dirgliene quattro (alzare la voce in una sala piena di gente non è appropriato. Ma quello che dirà loro farà in modo che si senta) quando sente un calore sul polso, che lo ferma.
La mano di Fabrizio è calda e forte e delicata allo stesso tempo, ed Ermal che si è trovato a fissarla più volte, ora ne sente il peso e la lieve pressione sul polso, e gli sembra strano che pur non essendo un tipo fisico, non si senta a disagio. Anzi, quel contatto gli dà calma e forza allo stesso tempo. E’ un gesto familiare, come se l’altro lo conoscesse da tanto, forse da sempre, tanto che quasi non sente quello che dice Castoldi, come se fosse in una bolla insieme a quell’uomo, l’unico che gli sembra di distinguere bene, mentre tutto il resto è sfocato.
Fuori dalla bolla gli insulti di Castoldi continuano, e se per Ermal è più difficile distinguerli, per Fabrizio è più difficile non farlo, ma sa bene che non può che restare calmo e lasciarlo parlare, tanto i bambini non sono lì davanti a sentire epiteti infamanti che nemmeno capirebbero, e Ermal non deve essere trascinato nel fango con lui.
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newsintheshell · 7 years ago
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『RECENSIONE』Erased (Boku dake ga inai machi)
Cosa faresti se la vita ti desse la possibilità di rimediare ai tuoi errori?
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Erased (Boku dake ga inai machi, letteralmente “la città in cui io non ci sono"), è un manga scritto e disegnato da Kei Sanbe, serializzato sul Young Ace di Kadokawa Shoten. In Italia è edito da Star Comics, mentre i diritti dell’anime, prodotto da A-1 Pictures e andato in onda dal 2016, sono stati acquistati da Dynit; la serie è era disponibile in streaming, sottotitolata, su VVVVID. 
Nella piattaforma è ancora visionabile il film live-action diretto da Yuichiro Hirakawa e a breve potremo vedere anche la webserie prodotta da Netflix, che promette di far luce su alcuni dettagli non esplorati nell’opera originale. 
Satoru Fujinuma è un mangaka che non riesce a sfondare. Questo insuccesso è in parte dovuto alla timidezza e alle sue esperienze di infanzia. È piuttosto disilluso dalla vita, eppure uno straordinario fenomeno, il “Revival”, gli consente – o meglio gli impone – di cambiare le carte in tavola: al verificarsi di un incidente, il ragazzo viene infatti catapultato indietro nel tempo per prevenirne le circostanze... Un giorno, un evento particolarmente traumatico costringe Satoru a riaprire delle ferite mai del tutto rimarginate: la tragica morte di sua madre lo riporterà indietro nel tempo fino al 1988, quando all’epoca aveva solo 10 anni. Satoru decide a questo punto di sfruttare l'occasione per salvare la vita a Kayo Hinazuki, la ragazza che è causa dei suoi forti sensi di colpa. Infatti, al tempo non fu capace di sottrarla al suo destino e la fece indirettamente diventare la prima di tre vittime di un serial killer che tormentava la sua città in quell’anno.
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Per quanto il tema del viaggio nel tempo possa ormai risultare come qualcosa di stantio per l'ampia trattazione ricevuta, per questa serie è stata fatta ugualmente la coraggiosa scelta di porlo come cardine sul quale far girare la storia, ad una condizione: accettare qualche compromesso. Come accennato qualche riga più su, il protagonista, Satoru, è capace di compiere veri e propri salti temporali grazie al suo potere, il “revival”. Quest’ultimo viene introdotto nelle battute iniziali come un’abilità innata del protagonista, ma, ciò che ci ha fatto storcere il naso è la mancata contestualizzazione del potere stesso, che sembra quasi un evento casuale al quale Satoru non può sottrarsi e che tanto meno può controllare, ritrovandosi intrappolato nel suo destino di eroe per caso. Come ad esempio nei primi episodi, quando Satoru sventa un’incidente stradale nonostante stesse svolgendo il proprio lavoro di consegne a domicilio. Dunque, è la trama che sembra chiedere al pubblico di fidarsi ciecamente, con la promessa di regalare un qualcosa di più coinvolgente con lo sviluppo delle vicende. E’ anche vero che sarebbero bastati dei semplici flashback, riguardanti il risveglio del revival o il suo sviluppo, per rendere questa abilità più facilmente accettabile e ben più coerente con il worldbuilding dell’opera. La componente fantascientifica viene quindi messa in secondo piano, in favore dello sviluppo in pieno stile “giallo” che la narrazione prenderà man mano che le vicende vanno svolgendosi. Ma, come si suol dire, non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Accettata questa condizione bisogna fare i conti con personaggi che risultano perlopiù piatti nelle azioni che compiono. È il caso della giovane Airi Katagiri, studentessa liceale ed allo stesso tempo compagna di lavoro di Satoru. La nostra Airi mostrerà la più completa fiducia nel protagonista fin dagli inizi della serie senza ragioni logiche apparenti, basandosi  su “l’impressione" che ha di Satoru. Tutto ciò la porterà a mentire alla polizia ed a scagliarsi contro il proprio datore di lavoro, quantomai determinato a consegnare Satoru stesso alle forze dell’ordine. Entrando più nel dettaglio e prendendo in analisi il protagonista, divenuto ormai il bersaglio preferito delle nostre accuse (non ce ne vogliate), possiamo vedere come il salto temporale avvenuto dopo la morte della madre (che il revival sia legato allo shock che Satoru subisce?) non abbia per niente influito nel comportamento di quest’ultimo, lasciando la sua mentalità da ventinovenne nel corpo di un bambino. Ne è esempio il modo in cui cerca di risolvere la difficile situazione di Kayo Hinazuki con espedienti ai quali un bambino, per quanto assistito da un adulto, non avrebbe mai potuto pensare. E’ comunque un aspetto interessante che in qualche modo influirà nei rapporti tra i vari personaggi. Non immaginate, però, forviati da quanto scritto poc’anzi di vedere un ragazzino combattere da solo contro il male in pieno stile “battle shonen”, altrimenti potreste incorrere nella malsana idea di perdervi uno dei migliori prodotti degli ultimi anni.
“Ho paura... Io ho paura all’idea di guardare dentro di me...”
A questo punto vi starete chiedendo, perché Erased è un’opera che va vista sebbene mostri queste lacune? Per il semplice fatto che, se si accetta quanto scritto sopra, si ha la possibilità di vivere una vera e propria esperienza da cinema sul “grande schermo” del nostro computer. Il lavoro svolto dalla A1-pictures non delude affatto, anzi; lo studio è stato capace di  adattare al meglio l’animazione ad una trama che, di per sé, è già molto interessante. La creazione dell’ambientazione in un contesto come quello scolastico molto abusato dall’animazione giapponese, il comparto musicale e la cura dei dettagli si fondono con scelte di regia più che azzeccate. Iconica è l’immagine che abbiamo di Kayo quando, il giorno prima della sua scomparsa, viene intravista da Satoru al centro del parco nel quale era solita recarsi prima di tornare a casa, in un disperato tentativo di fuggire seppur per poco dall’inferno domestico che la attendeva. E’ una serie capace di incollare allo schermo lo spettatore, lasciandolo sbalordito per tutte le 12 puntate, che sembrano quasi poche. La trama, dal canto suo, mette in scena un ottimo giallo che trova la propria forza nei temi che tratta, rendendosi capace di coinvolgere e fare denuncia sociale allo stesso tempo. Kayo Hinazuki è vittima di violenza da parte della madre, e la serie ci mostra come l’attenzione che viene data alle persone possa essere per loro una speranza di miglioramento. Kayo infatti passa dall’essere incapace di reagire alla propria situazione, completamente svuotata nell’animo dai soprusi subiti, ad aprirsi con il mondo attraverso piccoli atti di coraggio, grazie alla compagnia di Satoru e del suo gruppo di amici. Personalmente parlando, particolarmente apprezzabile è il personaggio di Sachiko Fujinuma, la madre di Satoru. Donna estremamente perspicace che, intuendo le buone intenzioni del figlio, si prodiga per supportarlo nelle sue scelte, consapevole e fiduciosa in lui, forgiata dall’aver dovuto crescere suo figlio con le sue sole forze.
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In conclusione possiamo affermare che Erased sia un’opera di gran calibro, considerando le tematiche analizzate e i mezzi impiegati per perseguire questo obiettivo. Coraggiosa nelle proprie scelte, merita sicuramente quelle quasi cinque ore del nostro tempo, che lasciano, per lo meno nel nostro caso, con un senso di appagamento totale, chiudendo la storia con un finale ben più che soddisfacente.
Pro:
✔️ Ampia trattazione di temi socialmente impegnati ✔️ Vari colpi di scena ben strutturati e coinvolgenti ✔️ Comparto tecnico eccelso
Contro:
✖️ Scelte comportamentali poco realistiche da parte di alcuni personaggi ✖️ Mancata contestualizzazione dell’elemento fantascientifico
CONSIGLIATO: a chi cerca una serie di livello tecnico elevato, capace di lasciare a bocca aperta senza trascurare la narrazione, creando un’empatia verso i personaggi, rendendo ogni momento godibile al massimo attraverso plot twist e montagne russe di emozioni.
Elric & Lelouch
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sciscianonotizie · 7 years ago
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dania72 · 8 years ago
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Ma davvero la rabbia è sempre una cosa negativa? In fondo – come scrive Ivan Cotroneo in suo bellissimo volumetto intitolato Il piccolo libro della rabbia (Bompiani, 1999) – la rabbia è una “forza potente grazie alla quale è possibile reagire ai torti, arginare i soprusi, evitare di incamerare malessere, affermare la tua personalità, difendere le tue idee, esplorare percorsi creativi”. Insomma, si può anche vivere felici e arrabbiati. ARGHHH…
--web
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italianaradio · 5 years ago
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DIFENDIAMO L’OSPEDALE Grande partecipazione pubblica all’incontro di ieri. Verso la costituzione di un comitato
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/difendiamo-lospedale-grande-partecipazione-pubblica-allincontro-di-ieri-verso-la-costituzione-di-un-comitato/
DIFENDIAMO L’OSPEDALE Grande partecipazione pubblica all’incontro di ieri. Verso la costituzione di un comitato
DIFENDIAMO L’OSPEDALE Grande partecipazione pubblica all’incontro di ieri. Verso la costituzione di un comitato
DIFENDIAMO L’OSPEDALE Grande partecipazione pubblica all’incontro di ieri. Verso la costituzione di un comitato Lente Locale
di Domenica Bumbaca.
LOCRI – «Senza abusi e senza soprusi vorremmo vedere ripristinare e potenziare tutti i servizi che per legge sono previsti presso l’ospedale di Locri». Chiaro il messaggio che il costituendo comitato “DifendiAmo l’ospedale” ha ribadito ieri sera di fronte una gremita sala a Locri.
Coordinati dai fautori dell’iniziativa popolare, Bruna Filippone, Ilario Capocasale e Monica Taverna, si è svolta la seconda riunione pubblica preliminare alla costituzione di un comitato cittadino per la salvaguardia e la tutela della salute dei cittadini della Locride. L’incontro ha visto la partecipazione di oltre cento persone provenienti da diversi comuni, in presenza anche di professionisti e addetti ai lavori, durante le quali sono state esposte con chiarezza le condizioni in cui versa il nosocomio locrese e si sono definite le finalità del nascente comitato la cui costituzione avverrà formalmente alla prossima riunione fissata per il 2 febbraio alle ore 18:00 presso i locali del bar Rouge. Durante la serata gli interventi di autorevoli protagonisti della buona sanità locridea hanno dato maggiori informazioni sull’ospedale e fornito consiglio, tanto da essere da sprone a quanti hanno intenzione di reagire alla disastrosa condizione in cui versa l’ospedale di Locri confermando che la costituzione del comitato risulta necessaria affinché qualcosa possa cambiare. «È bene aderire in molti al comitato – affermano Bruna Filippone, Monica Taverna, Ilario Capocasale -. Per farlo basta solo dare la propria disponibilità con una firma presso la palestra FREE TIME di Locri, perché con un numero maggiore di persone interessate potremmo farci valere e farci sentire». L’iscrizione è gratuita e non comporta vincoli di alcun tipo. «Si ribadisce e si sottolinea – affermano- che il movimento è apolitico e non muterà la sua natura nel tempo». L’impegno è quello di vigilare sull’ospedale affinché un paziente non si ritrovi ad elemosinare il suo diritto alla salute. Troppe le mancanze, le contraddizioni e i disservizi, pertanto secondo i presenti non c’è più tempo di affidarsi a nessuno ma sarà necessario scendere in campo e in prima linea, attivandosi da buoni cittadini attivi per richiamare i propri diritti. Lamentarsi non servirà a nulla, piuttosto la denuncia e un attento osservatorio sullo stato delle cose potranno essere gli strumenti utili per potenziare i servizi e non permettere un lento e celato smantellamento, come già sta succedendo a piccole e decisive fasi».
DIFENDIAMO L’OSPEDALE Grande partecipazione pubblica all’incontro di ieri. Verso la costituzione di un comitato Lente Locale
DIFENDIAMO L’OSPEDALE Grande partecipazione pubblica all’incontro di ieri. Verso la costituzione di un comitato Lente Locale
di Domenica Bumbaca. LOCRI – «Senza abusi e senza soprusi vorremmo vedere ripristinare e potenziare tutti i servizi che per legge sono previsti presso l’ospedale di Locri». Chiaro il messaggio che il costituendo comitato “DifendiAmo l’ospedale” ha ribadito ieri sera di fronte una gremita sala a Locri. Coordinati dai fautori dell’iniziativa popolare, Bruna Filippone, Ilario […]
DIFENDIAMO L’OSPEDALE Grande partecipazione pubblica all’incontro di ieri. Verso la costituzione di un comitato Lente Locale
Gianluca Albanese
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goodbearblind · 6 years ago
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LA REPUBBLICA ITALIANA CONDANNÓ NEL 1949 IL PARTIGIANO BELGRADO PEDRINI ALL’ERGASTOLO. IL SUO CRIMINE: ESSERE STATO SEMPRE UN’ANTIFASCISTA
Questa storia comincia a Carrara, città terra di anarchici.
Belgrado Pedrini, classe 1913, orfano di madre e figlio di uno scultore viaggiatore, non è ancora diciottenne quando inizia a leggere Bakunin, Kropotkin e Malatesta.
Convinto antifascista nel momento in cui il regime gode di maggiore consenso, entra ed esce dalle patrie galere dato che, insieme ad altri compagni della città, non si tira indietro quando bisogna reagire ai soprusi delle camice nere.
Nel novembre del 1942, nel momento in cui durante la Seconda guerra mondiale l’Asse ha raggiunto la sua massima espansione, Belgrado gira di notte per Carrara ad appendere manifesti, autoprodotti, che invitano alla ribellione. Una sera viene intercettato da uomini del regime e insieme ad altri due compagni spara per sfuggire alla cattura. Ormai braccati dall’OVRA, la polizia politica fascista, i tre fuggono prima a Genova e poi a La Spezia. Qui, in una camera d’albergo, vengono circondati da forze ingenti, ci sono perfino uomini della Gestapo. Quando si accorgono della situazione gli antifascisti aprono il fuoco e la battaglia dura una notte intera. Belgrado e i suoi compagni sono arrestati la mattina seguente, solo perché non hanno più munizioni per le proprie armi. Feriti, hanno nove colpi di pistola addosso, vengono portati nel carcere locale. Da li Belgrado gira diverse prigioni. Si trova a Carrara, in un reparto di massima sicurezza dal quale può uscire solo dentro una bara, quando nel giugno del 1944 alcuni partigiani della formazione Elio riescono a liberarlo. Si unisce alla brigata e combatte con ardore fino alla Liberazione. Dopo la guerra Belgrado partecipa alla ricostruzione della Federazione anarchica italiana e si batte attivamente affinché i criminali fascisti vengano giudicati per i crimini che hanno commesso. Ma, incredibilmente, al contrario di numerosi fascisti che vengono amnistiati è proprio lui a finire sotto la scure della giustizia.
Nel 1949 viene rinviato a giudizio per i fatti di La Spezia. Lo accusano dell’omicidio di un poliziotto: non conta che questi fosse un uomo del regime che gli sparava addosso. Non conta la storia antifascista di Pedrini, non contano gli anni in galera, non contano le sue gesta da partigiano. Non conta nemmeno che la pistola di Belgrado non sia quella che ha sparato, visto che lui preferisce autoaccusarsi piuttosto che mettere nei guai altri compagni.
Ergastolo, poi commutato a trent’anni di carcere: questa è la sentenza. Sentenza alla quale si ribellò con vari tentativi di fuga falliti. Sentenza che scontò fino al 1974, quando ottenne l'amnistia da parte del presidente Leone. Da uomo libero riprese la sua battaglia continuando a professare gli ideali di sempre, con la coerenza di sempre, fino alla morte avvenuta nel 1979.
Cannibali e Re
Cronache Ribelli
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donaruz · 3 years ago
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Maestri speciali
Alberto Manzi non è solo il maestro che ha insegnato a leggere e scrivere agli italiani, quando in un’Italia piena di belle speranze ma ancora poco alfabetizzata, condusse il programma “Non è mai troppo tardi”. Andato in onda dal 1960 al 1968, è sicuramente un capolavoro di pedagogia, premiato e imitato in altri settantadue paesi, espressione massima della Rai come servizio pubblico.
Alberto Manzi è molto di più.
È un maestro che ha la vocazione dell’insegnamento e non ha paura di iniziare dalle aule più difficili: dopo la guerra, nel 1946, accetta l’incarico, che altri prima di lui avevano rifiutato, di insegnare nel carcere minorile “Aristide Gabelli” di Roma. Non è semplice: in un enorme stanzone senza banchi, senza sedie, senza nemmeno libri, sono riuniti bambini e ragazzi tra i 9 e i 17 anni con storie terribili alle spalle. Ma Alberto Manzi non si perde d’animo e alla fine riesce a guadagnare la loro fiducia inventando e sperimentando metodi didattici innovativi. Racconta storie e le fa raccontare e recitare ai ragazzi. Insieme pubblicano “La tradotta”, il giornale del carcere, un modo per tirar fuori le emozioni di questi ragazzi che troppo presto hanno conosciuto la durezza della vita.
È un maestro che dal 1955 fino al 1977 trascorre le sue estati in Sud America. All’inizio nella foresta amazzonica con un incarico dell’università di Ginevra per studiare le formiche (Alberto Manzi era anche laureato in biologia oltre che in pedagogia e filosofia). Poi si sposta in Perù e in Bolivia, dove capisce che per gli indios è fondamentale l’istruzione per reagire alle ingiustizie e ai soprusi. Ma non si limiterà ad insegnare a leggere e scrivere. Li aiuta a costituirsi in piccole cooperative agricole, a organizzarsi per non essere sfruttati. Quindi si attira le antipatie delle autorità che lo dichiarano persona non gradita. Ma lui continuerà ad andarci lo stesso.
È un maestro che capisce le potenzialità dei mezzi di comunicazione e oltre al celebre “Non è mai troppo tardi” e altri programmi nel corso degli anni, usa anche la radio per raccontare storie, insegnare a grandi e piccoli, o meglio come disse lui: “Non insegnavo a leggere e scrivere: invogliavo la gente a leggere e a scrivere”.
È un maestro scrittore e poeta, e per le sue opere avrà molti premi e riconoscimenti.
È un maestro che insegna all’università, ma poi la lascia per dedicarsi alla scuola elementare “Fratelli Bandiera” di Roma, dove resterà fino alla pensione.
È un maestro che scrive alle istituzioni, per protestare contro una scuola considerata inadeguata, fredda, sorda alle esigenze dei bambini. Tanto insofferente alle categorie asettiche della scuola, che nel 1981 Manzi si rifiuta di compilare le schede di valutazione: “Non posso bollare un ragazzo con un giudizio, perché il ragazzo cambia, è in movimento; se il prossimo anno uno legge il giudizio che ho dato quest'anno, l'abbiamo bollato per i prossimi anni”. Davanti alle pressioni del Ministero della Pubblica Istruzione, l’anno successivo apporrà un timbro su ogni scheda: “fa quel che può, quel che non può non fa”.
È un maestro ormai anziano e in pensione, ma che sa sempre che l’istruzione è l’unico antidoto alla violenza e all’ingiustizia, e quindi nel 1992 realizza un programma per la RAI: “Impariamo insieme” per insegnare l’italiano agli extracomunitari.
È un maestro che non smette mai di credere nel potere dell’istruzione e nella forza dei bambini, ai quali diceva “Siete capaci di camminare da soli a testa alta, perché nessuno di voi è incapace di farlo”.
Non è mai troppo tardi per ricordare Alberto Manzi, maestro speciale.
Ed è di buon augurio ricordarlo oggi, ancora, all’inizio di un nuovo anno scolastico…
Buona scuola a tutti!
🦋 #lafarfalladellagentilezza
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