#radici e relazioni umane.
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Presentazione del Libro “Dialoghi” di Rosalba Perotto Goglio e Rosanna Rutigliano presso La Nisolina Art Space
La mostra “Alberi” di Albina Dealessi accompagna la presentazione del libro in occasione della ventesima Giornata del Contemporaneo a Lu Monferrato.
La mostra “Alberi” di Albina Dealessi accompagna la presentazione del libro in occasione della ventesima Giornata del Contemporaneo a Lu Monferrato. Il 12 ottobre 2024, presso la Nisolina Art Space di Lu Monferrato, si terrà la presentazione del libro “Dialoghi” di Rosalba Perotto Goglio e Rosanna Rutigliano, accompagnata dalla mostra d’arte “Alberi” dell’artista Albina Dealessi, che ha fornito…
#Alberi mostra#Albina Dealessi#AMACI#Arte contemporanea#arte e letteratura#Arte e Natura#arte simbolica#celebrazioni culturali#Connessioni umane#cura delle relazioni#Dialoghi letterari#Dialoghi libro#eventi AMACI#eventi culturali Lu Monferrato#eventi ottobre 2024#Giornata del Contemporaneo#Lu Monferrato#mitologia e quotidianità#mostra arte contemporanea#mostra d’arte Monferrato#natura e arte#Nisolina Art Space#Presentazione libro#presentazioni libri Monferrato#radici e relazioni umane.#radici umanità#Riflessioni Contemporanee#Rosalba Perotto Goglio#Rosanna Rutigliano#scambi epistolari
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Han Kang
Han Kang è la scrittrice sudcoreana che ha vinto il Premio Nobel per la letteratura nel 2024.
Ha iniziato a pubblicare negli anni Novanta ma ha travalicato i confini del suo paese soltanto nel 2016 quando, il suo romanzo La vegetariana ha vinto l’International Booker Prize.
Innovatrice della prosa contemporanea, con uno stile poetico unico e sperimentale, si confronta con traumi storici, esponendo la fragilità dell’esistenza, enfatizzando le connessioni tra corpo e anima, vita e morte.
Nata a Gwangju, il 27 novembre 1970, è figlia dello scrittore Han Seungwon che, come lei, ha vinto il Yi Sang Literary Award.
Si è laureata in letteratura alla Yonsei University e iniziato la sua carriera, nel 1993 come poeta, pubblicando una serie di poesie nella rivista Letteratura e società.
Dal 2013 insegna scrittura creativa al Seoul Institute of the Arts.
Nel 2007 ha pubblicato La vegetariana, romanzo, estremo, provocatorio e affilassimo, che si incentra sulla figura di una donna resa anonima dalla società che ha intorno, che decide di diventare vegetariana e consumarsi in un turbine violentemente fiabesco che, dal rifiuto della carne, la porta a rifiutare ogni tipo di convenzione fino alla decisione estrema di perdersi nell’indifferenza vegetale. Il libro ha impiegato quasi un decennio prima di arrivare al pubblico internazionale.
Nel 2017 ha vinto il Premio Malaparte per il libro Atti umani che parte dalla durissima repressione di un corteo studentesco avvenuta nel 1980 a Gwangju, in seguito al colpo di stato e alla legge marziale, la cui ferocia descrive senza sconti e con una lingua che è potentemente letteraria e, insieme, realisticamente sanguinosa.
L’ora di greco del 2011 (in Italia nel 2023), accompagna una donna che cerca di recuperare la parola aggrappandosi all’estraneità del greco e a un professore immigrato tempo prima in Germania, riflettendo così sui margini invalicabili delle lingue nel definirci.
In italiano sono stati tradotti anche due racconti raccolti in Convalescenza, storie di due donne diversissime (una che elabora la morte della sorella e l’altra che si trasforma in una pianta), accumunate dalla volontà di riflettere sulla dissoluzione dei corpi, delle anime e delle relazioni.
Il 25 maggio 2019 ha consegnato un suo manoscritto inedito dal titolo Dear Son, My Beloved alla Biblioteca del futuro, un progetto artistico culturale ideato da Katie Paterson che vedrà la pubblicazione nel 2114, cento anni dopo l’avvio dell’iniziativa.
Il 10 ottobre 2024 è stata la prima autrice asiatica insignita del Nobel per la letteratura “per la sua intensa prosa poetica che affronta i traumi storici ed espone la fragilità della vita umana“.
Il suo modo di scrivere, pur nutrendosi delle proprie radici e senza perdere la propria identità, ha il potere di dialogare attraverso il tempo e i luoghi. È capace di far risuonare le corde delle fragilità umane, avvicinare realtà diverse, arricchire e rafforzare nello scambio reciproco delle differenze. La sua opera, con precisione puntuale e con altrettanta fantasmagoria espressiva, si dipana su punti, luoghi e occasioni in cui la nostra cultura e la nostra morale incontrano il limite, l’impossibilità e il crollo.
I suoi temi e personaggi girano attorno alla violenza, al dolore, alle costrizioni patriarcali e in fondo a tutte quelle occorrenze in cui l’umanità si ripiega su se stessa e cerca impreviste soluzioni di sopravvivenza.
La sua ultima fatica, del 2024, è Non dico addio, romanzo doloroso, lucido e poetico che narra la storia di tre donne, unite dal filo invisibile della memoria, che si rifiutano di dimenticare la storia dei massacri compiuti a Jeju, tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949, in cui trentamila persone vennero uccise e molte altre imprigionate e torturate.
Un libro in cui la frontiera tra sogno e realtà, tra visibile e invisibile, sfuma fin quasi a svanire, che ella stessa ha definito «una candela accesa negli abissi dell’animo umano».
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Non dirmi di no", il nuovo singolo di PAR TY dal 21/6
Dal 21 giugno 2024 sarà disponibile su tutte le piattaforme di streaming digitale "Non dirmi di no", il nuovo singolo di PAR TY per Kimura Label.
Si chiama "Non dirmi di no" il nuovo brano di PAR TY, un canzone dalle forti influenze rage rap, che punta a far esplorare l'energia e l'intensità delle notti in città, fatte di colori ed emozioni. Tutto si traduce in un ritmo incessante e un testo coinvolgente: "Non dirmi di no" è un inno alla spensieratezza, il desiderio fatto musica di staccare dalla routine e lasciarsi travolgere dal divertimento.
Commenta l'artista a proposito della canzone: "Questo brano è uno dei più forti e coinvolgenti che io abbia mai fatto. Rappresenta la libertà di esprimersi senza limiti e di godersi ogni istante".
PAR TY invita ad abbandonarsi al ritmo frenetico della notte, lasciando andare ogni inibizione e godendo al massimo dell'attimo presente. Il testo, ricco di slang e riferimenti alla cultura giovanile, dipinge un quadro vivido di un mondo in cui l'unica regola è il divertimento sfrenato.
PRESALVA il brano: https://kimura.lnk.to/nondirmidino
Biografia
PAR TY al secolo Gianmarco Toro è un talentoso rapper di Bologna. Il progetto nasce nel 2022 e le sue radici sono ancorate alla musica rap. Nel corso del tempo ha abbracciato nuove dimensioni musicali tra cui reggaeton, rock e reggae, per dare nuove sfumature alla sua musica.
Negli anni, il rapper bolognese ha collaborato con diversi brand, ampliando la sua espressione artistica anche nel campo del design streetwear. Il 24 marzo 2023 pubblica "PARTY EP" (Kimura Label), etichetta che si dedica alla scoperta e distribuzione di talenti emergenti del rap, dell'R'n'B e della trap. Nel novembre 2023 PARTY pubblica il secondo EP "AFTER PARTY". Nel maggio 2024 viene pubblicata la raccolta di remix "SCHIUMA PARTY".
Nelle sue liriche, l'artista racconta Bologna, esplora le dinamiche delle relazioni umane, riflette sulle delusioni e condivide i suoi momenti più intimi senza mai cadere nella banalità. Nonostante il contenuto spesso profondo dei testi, il suono del progetto rimane fresco e all'avanguardia, offrendo una visione innovativa sulla musica rap contemporanea.
"Non dirmi di no" (Kimura) è il nuovo singolo di PAR TY disponibile sulle piattaforme digitali di streaming dal 21 giugno 2024.
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Non dirmi di no", il nuovo singolo di PAR TY dal 21/6
Dal 21 giugno 2024 sarà disponibile su tutte le piattaforme di streaming digitale "Non dirmi di no", il nuovo singolo di PAR TY per Kimura Label.
Si chiama "Non dirmi di no" il nuovo brano di PAR TY, un canzone dalle forti influenze rage rap, che punta a far esplorare l'energia e l'intensità delle notti in città, fatte di colori ed emozioni. Tutto si traduce in un ritmo incessante e un testo coinvolgente: "Non dirmi di no" è un inno alla spensieratezza, il desiderio fatto musica di staccare dalla routine e lasciarsi travolgere dal divertimento.
Commenta l'artista a proposito della canzone: "Questo brano è uno dei più forti e coinvolgenti che io abbia mai fatto. Rappresenta la libertà di esprimersi senza limiti e di godersi ogni istante".
PAR TY invita ad abbandonarsi al ritmo frenetico della notte, lasciando andare ogni inibizione e godendo al massimo dell'attimo presente. Il testo, ricco di slang e riferimenti alla cultura giovanile, dipinge un quadro vivido di un mondo in cui l'unica regola è il divertimento sfrenato.
PRESALVA il brano: https://kimura.lnk.to/nondirmidino
Biografia
PAR TY al secolo Gianmarco Toro è un talentoso rapper di Bologna. Il progetto nasce nel 2022 e le sue radici sono ancorate alla musica rap. Nel corso del tempo ha abbracciato nuove dimensioni musicali tra cui reggaeton, rock e reggae, per dare nuove sfumature alla sua musica.
Negli anni, il rapper bolognese ha collaborato con diversi brand, ampliando la sua espressione artistica anche nel campo del design streetwear. Il 24 marzo 2023 pubblica "PARTY EP" (Kimura Label), etichetta che si dedica alla scoperta e distribuzione di talenti emergenti del rap, dell'R'n'B e della trap. Nel novembre 2023 PARTY pubblica il secondo EP "AFTER PARTY". Nel maggio 2024 viene pubblicata la raccolta di remix "SCHIUMA PARTY".
Nelle sue liriche, l'artista racconta Bologna, esplora le dinamiche delle relazioni umane, riflette sulle delusioni e condivide i suoi momenti più intimi senza mai cadere nella banalità. Nonostante il contenuto spesso profondo dei testi, il suono del progetto rimane fresco e all'avanguardia, offrendo una visione innovativa sulla musica rap contemporanea.
"Non dirmi di no" (Kimura) è il nuovo singolo di PAR TY disponibile sulle piattaforme digitali di streaming dal 21 giugno 2024.
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Non dirmi di no", il nuovo singolo di PAR TY dal 21/6
Dal 21 giugno 2024 sarà disponibile su tutte le piattaforme di streaming digitale "Non dirmi di no", il nuovo singolo di PAR TY per Kimura Label.
Si chiama "Non dirmi di no" il nuovo brano di PAR TY, un canzone dalle forti influenze rage rap, che punta a far esplorare l'energia e l'intensità delle notti in città, fatte di colori ed emozioni. Tutto si traduce in un ritmo incessante e un testo coinvolgente: "Non dirmi di no" è un inno alla spensieratezza, il desiderio fatto musica di staccare dalla routine e lasciarsi travolgere dal divertimento.
Commenta l'artista a proposito della canzone: "Questo brano è uno dei più forti e coinvolgenti che io abbia mai fatto. Rappresenta la libertà di esprimersi senza limiti e di godersi ogni istante".
PAR TY invita ad abbandonarsi al ritmo frenetico della notte, lasciando andare ogni inibizione e godendo al massimo dell'attimo presente. Il testo, ricco di slang e riferimenti alla cultura giovanile, dipinge un quadro vivido di un mondo in cui l'unica regola è il divertimento sfrenato.
PRESALVA il brano: https://kimura.lnk.to/nondirmidino
Biografia
PAR TY al secolo Gianmarco Toro è un talentoso rapper di Bologna. Il progetto nasce nel 2022 e le sue radici sono ancorate alla musica rap. Nel corso del tempo ha abbracciato nuove dimensioni musicali tra cui reggaeton, rock e reggae, per dare nuove sfumature alla sua musica.
Negli anni, il rapper bolognese ha collaborato con diversi brand, ampliando la sua espressione artistica anche nel campo del design streetwear. Il 24 marzo 2023 pubblica "PARTY EP" (Kimura Label), etichetta che si dedica alla scoperta e distribuzione di talenti emergenti del rap, dell'R'n'B e della trap. Nel novembre 2023 PARTY pubblica il secondo EP "AFTER PARTY". Nel maggio 2024 viene pubblicata la raccolta di remix "SCHIUMA PARTY".
Nelle sue liriche, l'artista racconta Bologna, esplora le dinamiche delle relazioni umane, riflette sulle delusioni e condivide i suoi momenti più intimi senza mai cadere nella banalità. Nonostante il contenuto spesso profondo dei testi, il suono del progetto rimane fresco e all'avanguardia, offrendo una visione innovativa sulla musica rap contemporanea.
"Non dirmi di no" (Kimura) è il nuovo singolo di PAR TY disponibile sulle piattaforme digitali di streaming dal 21 giugno 2024.
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Il progetto fotografico "MCV in MARTINI" trascende i confini della mera rappresentazione fotografica per sondare le profondità delle dinamiche relazionali umane, l'identità individuale e collettiva, nonché le mutazioni culturali in atto.
L'impulso creativo alla base del progetto affonda le sue radici in un'ispirazione di carattere intimamente personale, derivante dall'interazione con due figure di spicco nella mia vita: Andreina Martini, psicologa e linguista nata nel 1927, e Maria Chiara Valacchi, critica d'arte di rilievo nel panorama contemporaneo. Queste personalità hanno impresso un marchio indelebile sul mio percorso vitale e artistico, spingendomi verso l'esplorazione delle intricate maglie relazionali che intercorrono tra noi, mediante il linguaggio della fotografia.
Il mio interesse nel ritrarre MariaChiara Valacchi trova origine non solo nella sua innata bellezza e predisposizione al dialogo attraverso l'immagine, ma intende altresì sondare l'interazione dinamica tra persona e ambiente, all'interno degli spazi vissuti da Andreina Martini. Tali ambienti, saturi di storia e di significati latenti, si configurano come lo sfondo su cui si dipanano le nostre reciproche interazioni, con gli abiti di entrambe a fungere da emblemi di identità e metafore delle complesse relazioni interpersonali sempre in evoluzione.
L'omonimia del cognome "Martini" con l'azienda di superalcolici Martini aggiunge un ulteriore strato di significato al progetto, facendo emergere una complessa rete di connessioni culturali e linguistiche.
L'immagine delle bottiglie di Martini e dei cocktail con il loro caratteristico nome impresso non è semplicemente un elemento decorativo, ma piuttosto una porta d'ingresso a un ulteriore riflessione sulla permeabilità delle nostre vite al linguaggio commerciale e alla cultura di consumo.
In un contesto sociale sempre più influenzato dalla presenza onnipervasiva del marketing e della pubblicità, è inevitabile che anche i marchi commerciali si insinuino nelle nostre interazioni quotidiane, diventando parte integrante del nostro lessico familiare e del nostro immaginario collettivo. Questo fenomeno, tuttavia, non è semplicemente una questione di assimilazione passiva dei prodotti commerciali, ma piuttosto una manifestazione più ampia delle interazioni complesse tra individui, cultura e economia.
Le fotografie che incorporano il marchio Martini offrono una finestra su questo processo, mostrando come gli oggetti di consumo possano entrare a far parte del tessuto delle nostre relazioni personali e influenzare la nostra identità e il nostro senso di appartenenza. Questo dialogo tra il personale e il commerciale, tra l'individuo e il marchio, si manifesta in una serie di connessioni visive e grafiche che arricchiscono ulteriormente il significato delle fotografie nel contesto del progetto.
La similitudine di Maria Chiara Valacchi con le figure femminili delle pubblicità dell'azienda Martini aggiunge un intrigante strato di significato. Questa connessione visiva e simbolica crea un ponte tra il mondo dell'arte e della pubblicità, invitando a riflettere sul potere dell'immaginario visivo e sulle influenze culturali nel plasmare le nostre percezioni e relazioni.
Attraverso questa sovrapposizione di immagini e significati, il progetto sfida lo spettatore a esplorare il complesso intreccio di significati che caratterizza il mondo contemporaneo, offrendo nuove prospettive sulle relazioni tra arte, cultura e società.
Andreina Martini e Maria Chiara Valacchi possono non essere famose nel senso tradizionale del termine, ma sono donne di grande valore e significato nella mia vita come in quella di molte altre persone nel contesto della comunità in cui operano. Sono intellettuali rispettate e influenti nei rispettivi campi, e le loro vite e contributi sono preziosi e significativi nonostante non abbiano raggiunto una fama globale.
La scelta di ritrarre queste donne è quindi un atto di riconoscimento e celebrazione delle esperienze e delle relazioni umane che possono avere un impatto profondo sulle nostre vite anche senza essere amplificate dai riflettori mediatici, si invita a guardare oltre la superficie della fama e a riconoscere il valore intrinseco di ogni individuo, indipendentemente dal suo grado di notorietà pubblica.
Nell'approccio tecnico adottato, ho armonizzato metodologie fotografiche di stampo tradizionale a tecniche di elaborazione digitale, al fine di forgiare un'estetica che bilanci la tradizione con una prospettiva deliberatamente contemporanea. Questa dicotomia tra passato e presente, tra analogico e digitale, incarna la dialettica delle relazioni umane e delle espressioni artistiche nel fluire del tempo.
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"A Bari tutto il mondo è paese": presentata la campagna antirazzismo promossa dall'assessorato al Welfare e casa delle culture
"A Bari tutto il mondo è paese": presentata la campagna antirazzismo promossa dall'assessorato al Welfare e casa delle culture. Si è svolta nella mattina di mercoledì 20 marzo, presso la sala consiliare di Palazzo di Città, in occasione della giornata mondiale contro il razzismo, la conferenza stampa di lancio di "A Bari tutto il mondo è paese", la campagna permanente contro le discriminazioni razziali e per una città accogliente promossa dall'assessorato al Welfare del Comune di Bari e dal centro comunale Casa delle Culture. Sono intervenuti Francesca Bottalico, assessora al Welfare, Carmine Spagnuolo, presidente della cooperativa sociale Medtraining, Roberta Cagnetta, vicepresidente di Camera a Sud impresa Sociale, e Joachim Agnakan Elom, uno dei cittadini baresi testimonial della campagna. Presenti anche Emanuele Marinelli, coordinatore di Casa delle Culture, Nicola D'Onchia, il direttore del settore Osservatorio per l'inclusione sociale e contrasto alla povertà del Comune di Bari, e altri cittadini baresi di prima e di seconda generazione che hanno scelto di essere testimonial della campagna. "A Bari tutto il mondo è paese" è una campagna multipiattaforma che, attraverso foto, podcast e brevi video, ritrae sedici cittadine e cittadini baresi migranti di prima e seconda generazione, che hanno accettato l'invito di raccontare un pezzetto della propria storia per offrire uno sguardo autentico sulla diversità che arricchisce Bari, nel segno dell'inclusione. La campagna prevede, inoltre, taccuini, cartoline e totem che verranno distribuiti sul territorio della città, con un QR Code che rimanda all'homepage della campagna sul sito di Casa delle Culture. "Oggi, giornata internazionale contro il razzismo, abbiamo presentato una campagna permanente con la quale vogliamo ribaltare la narrazione che sempre più spesso si fa dell'immigrazione - ha dichiarato Francesca Bottalico -. Con questa campagna vogliamo parlare di una città, Bari, accogliente e inclusiva; una città nella quale nessuno è straniero e in cui tutti possono costruire una nuova vita. Vogliamo parlare di storie vere, di incontri, di progetti e identità. Di una città dove tutti si sentano cittadini, anche chi purtroppo formalmente non ha la cittadinanza a causa di leggi assurde e anacronistiche: non a caso alcuni di loro sono qui seduti oggi tra i banchi del Consiglio comunale. Una città dove esistono luoghi come Casa delle Culture, uno dei progetti più innovativi che in questi anni abbiamo voluto, progettato e realizzato. Un luogo dove, contemporaneamente, si accoglie, si sostiene e si promuove una cultura non discriminatoria. Un luogo dove migranti, richiedenti, donne, giovani, famiglie vivono, crescono e imparano insieme. Un progetto riconosciuto a livello nazionale ed europeo, che mette in atto una visione nuova di inclusione e accoglienza, passando dall'incontro, dalla conoscenza e dalle relazioni. Bari inclusiva, infatti, non è uno slogan ma è un insieme di azioni, scelte politiche, dialoghi comuni. Sono tante le storie che con questa campagna racconteremo, storie vere di chi ha scelto Bari come suo approdo di vita, conservando le proprie radici ma anche aprendosi a contaminazioni umane, sociali e culturali. A Bari, in questi anni, abbiamo lavorato, infatti, affinché nessuno rimanesse indietro, ma anzi diventasse patrimonio umano indispensabile di questa nostra bellissima città". "Ringrazio l'amministrazione comunale e tutte le persone presenti qui con noi oggi - ha proseguito Carmine Spagnuolo -. Come cooperativa sociale Medtraining teniamo davvero moltissimo ai servizi che stiamo gestendo a Casa delle Culture. Sin dall'inizio, l'abbiamo vissuta come uno spazio speciale, perché ha in sé un elemento di cambiamento molto importante. Casa delle Culture, infatti, non è solo inclusione e accoglienza, ma mette al centro della propria attività il dialogo tra le persone e le esperienze. E questo è il segno di un cambiamento di prospettiva molto importante: perché proprio con l'incontro tra le persone si promuove la convivenza multiculturale. La campagna che presentiamo oggi mette in risalto le storie delle persone che vivono il territorio della nostra città, e questo ci rende ancora più orgogliosi di gestire questo spazio. Continueremo a fare tutto il possibile per promuovere politiche di dialogo che rompano la rappresentazione dell'immigrazione come mero problema. L'integrazione, infatti, avviene nel quotidiano, negli incontri tra le persone. Favorirli e renderli sempre più generativi è un atto molto importante". "Siamo felici di aver realizzato questo progetto, e ringraziamo l'assessora Bottalico e Casa delle Culture per la fiducia - ha dichiarato Roberta Cagnetta -. Quando ci stato chiesto di immaginare questa campagna abbiamo pensato di partire dall'espressione "tutto il mondo è paese", che di solito significa che tutti i luoghi sono accomunati dagli stessi problemi. Abbiamo ribaltato lo sguardo e siamo andati alla ricerca del senso positivo di questa espressione, trovandolo nella volontà di sottolineare che gli esseri umani hanno tutti gli stessi bisogni, a prescindere dalla loro provenienza geografica. Tra questi, il desiderio di trovare un senso di appartenenza e protezione nel territorio in cui si sceglie di abitare. Questo è un desiderio che ci accomuna davvero tutti. A Bari tutto il mondo è paese è, quindi, un incentivo a guardare all'intercultura oltre gli stereotipi, perché è già un dato di fatto: nelle piazze, negli uffici, nelle scuole e per le strade di Bari. Quindi, con le 16 cittadine e cittadini baresi di prima e di seconda generazione che hanno accolto il nostro invito, abbiamo raccontato piccoli frammenti della loro storia, per avere uno sguardo che partisse dalle loro stesse parole e dimostrasse che Bari, per loro, è già casa". "Bari, come mi capita di ripetere spesso, non è solo una città bellissima ma è anche una città di accoglienza, che possiede un melting pot di culture davvero straordinario - ha concluso Joachim Agnakan Elom -. Ho raccontato la mia storia in questa campagna: ora mi occupo di inserimento lavorativo di altre persone, sono un tutor. Negli anni scorsi, qui a Bari, ho frequentato l'università, laureandomi, e poi proseguendo la mia formazione con un master. Ho avuto delle possibilità e degli strumenti importanti che hanno fatto la differenza. Poter studiare e poi imparare un mestiere, infatti, è fondamentale per l'integrazione delle persone. Per me, Bari, ha significato davvero accoglienza. Qui mi sono sempre sentito e mi sento sempre di più a casa mia, è ormai la mia città". La campagna intende, quindi, essere un'occasione per incoraggiare l'incontro e lo scambio tra cittadine e cittadini, valorizzando la casa comune che è diventata Bari per molte persone provenienti da diverse parti del mondo. Tutto questo, anche per smentire gli stereotipi legati alla multiculturalità, evidenziando la normalità di questa realtà nella vita quotidiana della città, nel segno dell'impegno costante dell'amministrazione per promuovere in misura permanente una visione inclusiva e aperta di Bari. La Giornata contro il razzismo verrà celebrata anche con il flash mob "Il passo sospeso", in piazza Umberto, alle ore 16, a cura dell'associazione "Il Teatro delle Bambole", e con il banchetto etnico in programma alle ore 18.30, presso Casa delle Culture nel quartiere San Paolo. Casa delle Culture è finanziata, con fondi PN Metro Plus e Città Medie Sud 2021-2027, dall'assessorato al Welfare del Comune di Bari, ed è gestita dalla cooperativa sociale Medtraining in ati con la Cooperativa Sociale San Giovanni di Dio. Offre servizi di accoglienza residenziale temporanea per 25 persone adulte, uno sportello per l'integrazione socio culturale e sanitaria degli immigrati e uno sportello di orientamento al lavoro e di orientamento legale. La struttura rappresenta un presidio per accogliere, orientare, integrare, sostenere ed educare al dialogo, alla solidarietà e alla reciprocità. Un luogo in cui cittadini italiani e migranti, adulti e minori, possono incontrarsi e condividere insieme esperienze significative e storie di vita per costruire ponti culturali, solidali, inclusivi. Attraverso laboratori, iniziative, attività, presentazioni, spettacoli e mostre, "Casa delle Culture" vuole essere punto d'incontro tra la realtà migrante e la cittadinanza.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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LE CAUSE DELLA MANCANZA DI FIDUCIA NELLE RELAZIONI: SCOPRI LE RADICI DELLA DIFFIDENZA
Le sfide della diffidenza nelle relazioni umane: un'indagine psicologica.
Nella complessità delle relazioni umane, la diffidenza può aleggiare come un'ombra oscura. Che si tratti di amicizie, legami familiari o il rapporto con il partner, la diffidenza può gettare un'ombra lunga, portando a sospetti, dubbi e incertezze. Ma cosa significa esattamente diffidare❓
Iniziamo dalla base: la diffidenza è un sentimento radicato in sospetti, perplessità e paure verso una persona o una situazione. In una certa misura, la diffidenza è adattativa poiché ci tiene vigili e ci protegge dal metterci in pericolo. Tuttavia, quando questa diffidenza diventa costante e generalizzata, può diventare un ostacolo alle relazioni sane.
Per comprendere appieno la diffidenza, dobbiamo esaminare le sue radici. Spesso, la fiducia inizia a svilupparsi fin dall'infanzia, con la famiglia come contesto d'apprendimento primario. I genitori modellano le nostre convinzioni, i nostri sentimenti e la nostra fiducia. Non sorprende, quindi, che le persone diffidenti possano provenire da famiglie altrettanto diffidenti.
Mentre cresciamo, iniziamo a sperimentare il mondo al di fuori della famiglia, con le sue situazioni e le sue persone. L'abuso, il maltrattamento e la mancanza d'amore possono generare diffidenza. Ad esempio, un bambino maltrattato o uno che non ha ricevuto amore materno potrebbero avere difficoltà a fidarsi degli altri.
Ma come possiamo superare la diffidenza e riportare la fiducia nelle relazioni❓
Approfondisci le tue relazioni: cerca di avvicinarti agli altri. Non limitarti a concedere spazio ai tuoi pensieri negativi senza conoscere appieno una situazione o una persona. Ogni individuo e ogni storia sono unici. Evita di generalizzare, poiché questo non fa bene a te stesso né al tuo benessere emotivo.
Focalizzati sul positivo: se hai difficoltà a fidarti di qualcuno, cerca di elencare le azioni positive compiute da quella persona. Questi pensieri ti aiuteranno a sfatare dubbi e paure basati su esperienze passate.
Interroga te stesso: metti in discussione i tuoi pensieri e cerca di comprendere meglio il meccanismo alla base della diffidenza. Chiediti cosa ti preoccupa di più e se i tuoi timori si basano su fatti concreti o solo su percezioni distorte.
Evita l'isolamento: la diffidenza può rinforzarsi quando ti isoli. Esci, divertiti e concediti momenti di leggerezza. Talvolta, una prospettiva più positiva può allontanare i pensieri negativi.
La diffidenza può essere una sfida, ma con consapevolezza, sforzo e supporto, è possibile riportare la fiducia nelle relazioni umane.
Pronto per riaccendere la fiducia nelle tue relazioni❓Inizia oggi a superare la diffidenza e a creare legami più sani. Scopri come migliorare le tue relazioni❗️
Tito Bisson
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È strano. Lo so bene.
[ ... ]
"È strano. Lo so bene.
Eppure è così che succede.
Io continuo a nutrire un'infinita fiducia nelle tue potenzialità, nelle qualità che ti fanno unica.
Ti stimo in un modo che non ha paragoni con nulla di conosciuto.
Perchè fin dall'inizio, ti ho percepito come un giacimento di ricchezza inespressa.
Qualcosa connesso all'aggettivo "raro". Avessi dovuto definirti "per associazione", probabilmente, avrei scelto l'aggettivo "prezioso" e le mille sfumature, che questa parola, produce nel nostro immaginario percettivo.
Oggi, ne sono consapevole, forse più e meglio, di allora.
Tu sei un seme di futuro, momentaneamente sepolto in un terreno arido e ostile che è questo tempo presente.
Sei subacquea. Sei un silenzio che risale dal fondo. Una presenza in attesa di un tempo finalmente suo, un tempo positivo in cui esprimere la tua persona.
Ma io ti conosco? Ti conosco, sì, ma non nel modo che nel linguaggio comune corrisponde a questa espressione.
Ti conosco in una accezione del tutto insolita e originale, e, no... non chiedermi, in quale modo questo, sia potuto accadere.
In che modo l'impossibile, talvolta, si faccia possibile.
Io ti ho intuito, ti ho presentito.
Ancora oggi, ti "so" in un modo oscuro.
A pezzetti, a frammenti, a tenerezze improvvise, a temporali, a mors, a uragani di dolcezza.
Ad azzurro di vene ai polsi, a trasalimenti, a silenzi, a corse nel buio, a echi della tua voce dentro i tramonti, a colori arancio e azzurro dentro il cielo di marzo, a carezze lente, a battiti notturni, a risvegli improvvisi, a nodi in gola, a slanci insondabili, ad ansimare di onde del mare contro gli scogli, a intuizioni mute, così e solo così, io ti ho conosciuto. E fu molto più che sufficiente. Molto di più di quanto accadeva ad altri che hanno incrociato la tua vita.
Ti so.
E so anche, che non c'è spiegazione. Non esiste spiegazione logica o razionale, a tutto questo. Poichè io, ti conosco in modo empatico. Subliminale. Creativo.
Come se la mia conoscenza appartenesse più all'arte che alle comuni relazioni umane.
Per questo e per altro ancora, ... io oggi, continuo a parlarti, nel più completo apparente silenzio.
Ed è per lo stesso motivo, per questo mio inspiegabile, "saperti", che mi soffermai allora a parlare con Te. Nonostante i veleni immeritati [ e tuttavia inevitabili ] coi quali più tardi, tentasti giustamente di annientarmi. Ma erano il prezzo più che adeguato da pagare e su questo mai ebbi a recriminare.
Malgrado tutto questo, io sono certo del tuo futuro e del tuo riuscire. Di quel tempo che arriverà e ti vedrà realizzata.
In quel tempo futuro troverai la tua reale dimensione, la tua vera altezza umana, quella che ancora nessuno conosce. Quella stessa altezza che nemmeno io, da qui e da ora, posso aver la presunzione di saper quantificare o prevedere .
Ma a differenza d'altri, io percepisco la tua evoluzione, la portata della persona che sei e la sfida che tu, col solo fatto di vivere, di essere sopravvissuta, hai lanciato e lanci all'Esistenza.
La tua intera storia è una sfida.
Dall'inizio lo è stata, e puoi esserne fiera, malgrado le ricorrenti fasi di sfiducia e paralisi emotiva subite.
In questi anni, stai semplicemente rincorrendo la "te stessa" del futuro, in un consapevole cercarti, di cui ho avuto la premonizione, quando eri ancora un pugno chiuso. Un grumo di oscurità e diffidenza che restava muto, a guardare ciò che sappiamo essere "gli altri".
Quando ti nascondevi, e come un gatto, sbirciavi il mondo di fuori, incerta se uscire dalla tua assenza, dal tuo mancare a te stessa, continuando a restare nel tuo bunker-nascondiglio.
Quale nascondiglio? - dici -
Quella depressione strisciante in cui prendevi tempo e mettevi distanze fra te e i rapporti in cui più non ti riconoscevi.
Quando capivi di dover cominciare l'opera di scavo, per disseppellire le tue antiche radici, la tua vera voce, il tuo sguardo sul mondo.
Le cento e più ere di solitudine, attraversate in punta di piedi, sulle punte, in leggerezza, come per paura di disturbare, ti fanno onore.
È stato questo il segno del tuo cammino, il tuo incedere lento, invisibile, quasi sonnambulo.
Di prova in prova.
Di terrore in terrore.
Di buio in buio, pur senza vivere dentro una perenne notte, ma percorrendo con pazienza e coraggio, anni di apparente grigia quotidianità.
Senza farti schiacciare.
Pochi lo capirono allora. Non tutti lo capiscono ora. Molti ti presero per un contenitore vuoto che, percosso, nei modi più diversi, restituiva solo cupi rumori, suoni sordi, segnali incomprensibili, provenienti da una inspiegabile lontananza.
Tu appartenevi alla lontananza.
All'altrove di un remoto paese, prossimo al nero di un mare chiuso.
Al buio, d'un infanzia rubata all'indifferenza degli adulti.
Coltivavi in segreto una tua insospettabile e nobile anima al riparo dal disincanto e dalla disperazione.
Avevi un compito. Una impresa da portare a termine: la tua anima da difendere.
Tu. Nascosta nell'aspetto d'una bambina precocemente ossessionata dalla parola scritta.
Parcheggiata in nascondigli precari che altri, e non Tu, chiamavano " la tua casa ".
Lo seppi da piccoli frammenti della tua Storia, come seppi che la "tua stanza" che tardava ad arrivare, nelle tue mille finte case, cresceva invece solida, in vetro e cemento, nella tua mente.
Perchè tu la edificavi senza tregua. Incessantemente. Con tenacia e cura, rialzandoti ogni volta dalle cadute che rallentavano il tuo cammino.
Nonostante il lato oscuro della Luna, che fissavi la sera, ti venisse a trovare dentro disturbanti sogni e visioni notturne.
Lo vedi? A volte afferriamo certezze senza merito. Consapevolezze che si rivelano esatte, a distanza di mesi o di anni. Il conoscere non sempre è un processo lineare, graduale o armonico.
Talvolta è qualcosa che procede per lampi, per strappi, per salti...per illuminazioni improvvise.
Così io ti conobbi.
Così mi accostai a te, al tuo nucleo vitale. E questo resterà, ben oltre le parole e le situazioni contingenti, come fulcro, come nocciolo duro e mai scalfito del nostro reciproco avvicinamento.
Continuo ad avere fiducia in te, oltre quel che da me, ti è giunto, durante il nostro dialogo di mesi, da paesi stranieri.
Tu vivevi e vivi nel tuo pianeta.
Quanto dista il tuo, dal mio?
- un giorno me lo chiesi, e risposi soltanto a distanza di settimane, mesi, stagioni intere.
I nostri due pianeti, distano dell'esatta distanza che c'è fra il linguaggio e la volontà-bisogno di comprendersi.
L'esigenza di avere uno scambio positivo con l'Altro. E ciò che è accaduto finora, è stato solo un mio goffo tentativo, di misurare quella distanza. Quasi a voler superare di slancio, lo spazio oscuro e muto fra due pianeti dalle orbite ellittiche che, inizialmente in un punto soltanto, potevano intersecarsi.
Tentai io - sbagliando - di correggerne l'orbita e questo fu rovinoso per entrambi.
Eppure non ti ho rimosso. Non ti ho cancellata. Non ti ho tolto il diritto di frequentare il mio spazio.
Al contrario.
Sei l'occasione, lo spazio, il motivo per andare oltre, per comprendere di più, per afferrare fino in fondo, addirittura oltre il reciproco dolore, le dinamiche umane e gli errori d'orgoglio che continuamente facciamo.
Quei limiti che ogni individuo, per il fatto già solo, d'essere nato avrebbe il compito di spostare più avanti e di superare.
Noi attraversiamo entrambi il buio del Reale, con la curiosità, quale propellente indispensabile del nostro viaggiare.
Per questo navigheremo ancora. Navigheremo sempre. Di costellazione in costellazione. Di dubbio in dubbio. Attraverseremo anche le consapevolezze che nascono sul terreno del dolore.
Quello che subiamo e quello che infliggiamo all'altro.
Saremo sempre in viaggio. Attraversare nuovi spazi è un destino, per un determinato tipo di persone. Ciascuno di noi percorrerá ancora questo infinito che chiamiano "notte", questo orizzonte che chiamiamo "sguardo", questa fragile ragnatela che chiamiamo "dialogo".
Questo "non capirsi" che chiamiamo comprensione.
Attraverseremo ancora questo infinito Universo di dubbi.
Questa inspiegabile densità, popolata da così tanti interrogativi e oscurità da sembrarci vuota.
Questo immenso che ci chiama e ci atterrisce.
Tutto questo buio acceso.
Questo fitto di stelle, stupore, bellezza, buchi neri ed errori, che è l'Umano. "
[... ]
da bozze di "Dialoghi con l'umano" - K. Klingsor
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{scritto il 13 novembre 2021, a tarda sera}
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La fragilità fa parte della vita, ne è una delle strutture portanti, una delle radici ontologiche. Cosa sarebbe la condition humaine stralciata dalla fragilità e dalla sensibilità, dalla debolezza e dalla instabilità, dalla vulnerabilità e dalla finitudine, e insieme dalla nostalgia e dall’ansia di un infinito anelato e mai raggiunto? La fragilità come grazia, come linea luminosa della vita, che si costituisce come il nocciolo tematico di esperienze fondamentali di ogni età della vita, della fragilità come ombra, come notte oscura dell’anima, che incrina le relazioni umane e le rende intermittenti e precarie, incapaci di tenuta emozionale e di infedeltà. La coscienza della nostra fragilità, della nostra debolezza e della nostra vulnerabilità rende difficili e talora impossibili le relazioni umane: siamo condizionati dal timore di non essere accettati, e di non essere riconosciuti nelle nostre insicurezze e nel nostro bisogno di ascolto e di aiuto. (...) è importante distinguere il silenzio che nasce dal desiderio di solitudine da quello che nasce invece dalla profonda tristezza; e ancora distinguere il silenzio che sgorga dalla nostra incapacità di creare una relazione interpersonale dotata di senso, da quello che ha in sé scintille, o gocce, di speranza. Ma dovremmo sapere che nella vita non tutto è dicibile, e non tutto è esprimibile; e non dovremmo illuderci di potere spiegare i pensieri che abbiamo, e le emozioni che proviamo, con le sole parole chiare e distinte.La parola che tace è talora più importante della parola che parla. Solo nel silenzio si possono ascoltare voci segrete, voci che giungono da un altrove misterioso, voci dell’anima che sgorgano dalla più profonda interiorità, e che portano con sé nel nostro mondo, e nell’autre monde del dolore e dell’angoscia, della malattia e della follia, risonanze emozionali palpitanti di vita.
Eugenio Borgna, da La fragilità che è in noi
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...racconto delicato ed etereo, nel quale natura, colori e tessuti si mescolano nei rapporti interfamiliari e interpersonali di una giovane ventenne di Kyoto...e' poesia in prosa...La penna soffice e delicata, unita allo stile cristallino di Kawabata accompagnano il lettore in un viaggio dal fascino quasi “ultraterreno”. Lo scrittore giapponese compone un autentico gioiellino della letteratura nipponica ambientato nella Kyoto post imperiale, una città brulicante di festività e cerimonie tipiche della tradizione, in cui i personaggi affondano le proprie radici personali e culturali prendendo vita con incredibile sensibilità...Le azioni, i pensieri, le descrizioni dei luoghi e degli eventi sono semplici e limpidi eppure dietro a questa studiata e magnifica semplicità si intuisce tutta la profondità e la complessità della vita e delle relazioni umane....Kawabata...una lietissima scoperta...uno scrittore geniale e raffinato del quale spolverare con pazienza tutta la sua opera...#ravenna #booklovers #instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #consiglidilettura #librerieaperte #narrativa #yasunarikawabata (presso Libreria ScattiSparsi Ravenna) https://www.instagram.com/p/CmTGarHowiO/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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[✎ ITA] Articolo : Weverse Magazine Gli Artisti Partecipanti a 'Indigo' di RM 2a parte __Kang Ilkwon | 26.11.22 ⠸ ita : © Seoul_ItalyBTS⠸
Gli Artisti Partecipanti a 'Indigo' di RM : 2a parte
Ecco a voi gli artisti che hanno collaborato all'album solista di RM: Erykah Badu, Anderson .Paak, Tablo, Mahalia e Paul Blanco
ARTICOLO by Kang Ilkwon @ Weverse Magazine
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Erykah Badu (“Yun – ft. Erykah Badu”)
Da cosa si può iniziare a parlare di un'artista grande quanto Erykah Badu? Iniziamo dal suo nome, unico nel suo genere. Come la sua musica, il nome di Erykah Badu è profondo ed affascinante, e comprende sia la parola egiziana “kah”, che indica l' “io interiore”, che il suo stile di improvvisazione jazz preferito, il “badu”. Dire che i suoi lavori sono un mix eclettico di vari generi non è affatto un'esagerazione, passano infatti per l'R&B e soul, il jazz, l'hip-hop e la musica alternativa. Talvolta le sue canzoni precorrono i tempi, altre vanno a ripescare nel passato, permettendole di mostrare e sperimentare sia con le radici che con il futuro del genere.
È la capolista del movimento neo soul, una nuova tendenza R&B nata a metà anni '90, e si è dunque meritata il titolo di Regina del Neo Soul. Badu è, sotto ogni aspetto, inimitabile. Se le sirene dell'antica mitologia greca fossero reali, potreste star certi che le loro voci suonerebbero come quella di Badu, solo non altrettanto piene di sentimento—la sua voce è davvero ammaliante e misteriosa. La sua estensione canora è come una fiamma che sfarfalla e poi torna a levarsi ancor più vivida. Ve ne accorgerete ascoltando “On & On” (1996), ad esempio, uno dei suoi brani più noti.
D'altro canto, però, abbiamo anche canzoni come “Then” e “Woo” (2003) in cui l'artista rappa con un suo ritmo personale, e, sicuramente, gli ascoltatori ricorderanno che Badu si era creata e faceva parte di un gruppo rap, prima del suo debutto ufficiale. Il suo timbro vocale e senso del ritmo sono unici e non hanno paragoni, così come la sua concezione della musica.
Ha sempre avuto a cuore la forza che risiede nella musica nera e valorizzato i messaggi che vi si possono trasmettere, piuttosto che preoccuparsi della performance e dei passaggi radio dei suoi singoli, merito che fa di lei un ottimo esempio non solo per il suo pubblico, ma anche per i suoi colleghi artisti. I messaggi contenuti nei brani della Badu sono tanto eterogenei quanto ascetici, come le sue riflessioni sull'amore e le relazioni umane, le preoccupazioni per i problemi sociali della sua comunità di provenienza - droga, armi e ineguaglianza economica -, ed i suoi appassionati tributi alla musica e cultura hip hop.
Tutti i suoi dischi, compreso l'introspettivo album di debutto, Baduizm (1997), sono dei capolavori. Se dovete scegliere quale album ascoltare, vi consiglio quest'ultimo, ma fatevi un favore ed esplorate quanto più possibile la sua discografia. Nonostante sia da parecchio che non rilascia un nuovo album, Badu continua ad essere un'artista prominente. Non oso nemmeno immaginare come sarà la collaborazione tra RM e quest'artista dal talento incommensurabile.
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Anderson .Paak (“Still Life – ft. Anderson .Paak”)
Il pubblico è rimasto molto sorpreso di scoprire che Anderson .Paak era tra gli artisti partecipanti a Compton, l'album stellare rilasciato nel 2015 da Dr. Dre. E alla fine la scelta di quest'ultimo si è rivelata azzeccata, visto l'impareggiabile catalogo musicale costruito in seguito da .Paak.
La sua voce, unica nel suo genere, lascia un segno indelebile in ogni brano cui lavora, e sembra avere un certo talento nello sfumare e sforare i confini tra l'hip hop e l'R&B. .Paak è un cantautore molto espressivo, un autore schietto ed apertamente critico nei confronti dei problemi sociali, un produttore con un piede nella tradizione (musicale) e l'altro nell'avanguardia, nonché un polistrumentista che, talvolta, lavora con altri artisti come musicista di supporto.
L'artista ha a cuore i valori e le caratteristiche fondanti della musica R&B/soul e dell'hip-hop, specialmente la loro storia ed il simbolismo che i due generi hanno in comune, ma non cade in manierismi né è fissato con la tecnica. Prendiamo, ad esempio, “Brother’s Keeper”, una canzone cui ha lavorato insieme all'icona del coke rap, Pusha T. Tesi accordi di chitarra, simili a quelli del classico di Al Green, “Love and Happiness”, sono seguiti dalla toccante voce di .Paak, a metà strada tra canto e rap. Per non parlare della sua dolcissima performance in “Leave the Door Open”, piena di sentimento!
La sua discografia è puro oro dall'inizio alla fine: 4 album solisti, incluso il preferito della critica, Malibu (2016); NxWorries, il duo formato con il produttore hip hop Knxwledge, nonché uno dei crossover più discussi del 2021, vale a dire il progetto Silk Sonic, cui ha lavorato insieme a Bruno Mars. In un'intervista del 2021 con Esquire, gli è stato chiesto cosa ne pensasse di un'eventuale collaborazione con i BTS. “Ci sto provando, amico” ha detto, mezzo scherzando. E ora ha lavorato con il leader del gruppo, RM. Dopo la collaborazione con Erykah Badu, questa è un'altra canzone che non vedo davvero l'ora di ascoltare.
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Tablo (“All Day – ft. Tablo”)
Gli Epik High occupano un posto speciale nella storia dell'hip hop coreano. Il gruppo è tra i responsabili della diffusione dell'hip hop in Corea, avvenuta negli anni 2000, insieme a Drunken Tiger, Leessang e al Dynamic Duo. Fulcro degli Epik High è Tablo, uno dei pochi rapper di prima generazione ancora attivi, forte della sua abilità nel rappare. Mentre la maggior parte dei rapper degli esordi si è lasciata sopraffare dalle nuove tendenze e dall'avvento di nuovi artisti dotati di scioltezza incredibile, Tablo ha saputo difendere il suo territorio.
La sua voce è dolce, in certa misura, ma il suo rap è comunque incredibilmente consistente e sa catturare il beat alternando raffiche incisive e ritmi più soffusi. Ha un range espressivo incredibile: dal pop-rap sentimentale e melodico (“Fly”, “Umbrella”), al boom bap più martellante (“Lesson 3 – MC”, “Nocturne - Tablo’s World”) passando per l'hip hop più lirico (“Airbag”). La musica di Tablo è popolare tra i fan più devoti, ma anche presso il gran pubblico grazie al costante equilibrio tra pop ed altri generi, che gli ha permesso di arrivare ad un ampio spettro di ascoltatori.
Se oggigiorno è considerato uno dei migliori rapper, parte del merito è da attribuirsi al suo stile lirico e letterario nella stesura dei testi, disseminato di metafore poetiche e giochi di parole. Sia che sveli esperienze dolorose, si scagli graffiante contro la tossicità dei media o dia orgogliosa dimostrazione della sua bravura nel rap, ogni suo singolo verso è davvero notevole. Si merita davvero il titolo di poeta. Il suo primo album solista, Fever’s End, rilasciato in due parti nel 2011, è dimostrazione lampante di tutte queste doti. E, ovviamente, la sua eccezionale abilità nel rap continua ad appassionare tutt'ora.
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Mahalia (“Closer – ft. Paul Blanco e Mahalia”)
Diversamente da quanto accade nel resto del mondo, la maggior parte degli artisti R&B e soul britannici non si sono lasciati distrarre dalle tendenze popolarizzate dall'industria musicale americana. Mentre negli Stati Uniti va forte il trap soul, gli artisti del Regno Unito si rifanno maggiormente alle radici retro soul degli anni '60 e '70 o all'R&B degli anni '90, e, anzi, hanno anche creato nuovi generi fusion come il rhythm e il grime. Non c'è che dire, c'è ovviamente qualcosa di speciale in quella scena musicale e quest'originalità non potrebbe essere più evidente che nelle canzoni di Mahalia.
Non si può certo dire l'artista si lasci influenzare dalle tendenze del momento, vista la lista di interpreti musicali cui si rifà: Corinne Bailey Rae, Erykah Badu, Lauryn Hill, Amy Winehouse, Jill Scott.
La sua voce si distingue da quelle degli altri artisti R&B, i quali, ultimamente, sembrano sfociare sempre più nel pop. Laddove la tecnica tipica dei lenti risalenti alla metà degli anni '90 è, per lo più, sparita, Mahalia continua ad ispirarsi all'R&B tradizionale.
Ciò non significa la sua musica sia antiquata. Le sue canzoni ricordano molto il rap melodico di fine anni '90, inizio 2000. Provate ad ascoltare il suo secondo album, LOVE AND COMPROMISE (2019), se volete farvi un'idea di che tipo d'artista sia. Il panorama sonoro e gli arrangiamenti sanno catturare e mantenere l'attenzione e le melodie animano i brani. È quel tipo di album cui ci si può lentamente abbandonare, piuttosto che lasciarsi conquistare a primo impatto. È una delle artiste R&B e soul più notevoli al giorno d'oggi, quindi non stupisce abbia vinto i premi Best Female Act e Best R&B/Soul Act ai MOBO Awards 2020, in Gran Bretagna.
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Paul Blanco (“Closer – ft. Paul Blanco, Mahalia”)
L'hip hop coreano è rinomato per il suo stile rap cantato, in cui si pone molta enfasi sulla scioglievolezza melodica, e, attualmente, Paul Blanco è uno dei migliori artisti di questa scena e genere. È fantastico alla produzione, nel rap e nel canto e si trova a suo agio sia col trap che con l'R&B alternativo. Forse uno degli aspetti più interessanti sono i suoi testi, che parlano della sua infanzia da immigrato in Canada e lo distinguono dagli altri rapper coreani. Ne è un ottimo esempio la sua strofa in “Siren Remix” di Homies, in cui rappa del razzismo che ha dovuto subire.
È dal 2018 che continua ad acquisire sempre maggiore successo, anche grazie alla sua partecipazione a brani di rapper famosi quali CHANGMO, The Quiett e UNEDUCATED KID. Sicuramente la popolarità di questi artisti ha aiutato Blanco, allora ancora sconosciuto, a conquistare le luci della ribalta, ma in fin dei conti sono state le notevoli doti dell'artista ed il suo perfezionismo a condurlo dov'è ora. In altre parole, non ci troviamo di fronte ad un caso di nepotismo hip hop. Blanco ha anche prodotto “Hey Big Head” e “Créme” per la super star Jack Harlow. È evidente il raggio d'azione artistica di Paul Blanco stia crescendo.
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mi sono sempre piaciuti i resoconti di fine anno, ripensare a tutti i momenti dell’anno passato, scorrere le foto, riavvolgere i nastri della memoria, inscatolare i pensieri ormai invecchiati, fare spazio nella biblioteca della mia anima. è stato sempre qualcosa di rituale, inequivocabile e estremamente necessario, quasi come fosse un modo per chiudere una porta per poi aprirne una nuova. se dovessi pensare a quest’anno, mi sembra che certi momenti dei primi mesi siano lontani un’eternità da adesso. sono cambiate così tante cose e sono cambiato così tanto io che nemmeno riconosco più il passato che mi sono lasciato alle spalle. ho iniziato un gennaio un po’ amareggiato e screditato dalla vita e dalle amicizie, sperando però in un anno ricco di cambiamenti e di rivoluzioni interiori. effettivamente, anche se nel suo piccolo, questo 2018 per me è stato una piccola rivoluzione. ho incontrato persone splendide, fatto nuove amicizie, dato valore alle persone che contano. ho imparato che non serve dare importanza a tutti indistintamente, ma che piuttosto il mio tempo è preziosissimo e che voglio darlo e spenderlo con persone con le quali ho veramente qualcosa con cui condividere e che si meritano il mio tempo. a questo proposito, ho iniziato a vedere le persone con luci diverse e scrollarmi di dosso visioni idealizzate sulle relazioni umane (di qualsiasi tipo), imparando a stare un po’ meglio con me stesso e senza lasciarmi offuscare dalle apparenze. ho imparato a piegarmi al cambiamento, a seguire le scie delle rivoluzioni come una cometa, ad accettare gli sviluppi senza perdere energie opponendomi a qualcosa più forte di me. ho lasciato bologna, la mia seconda casa, abbandonato l’appartamento dove ho vissuto per più di due anni, chiuso una fase lunga e abbastanza felice della mia vita. ho iniziato a lavorare, cambiato ambiente, imparato a gestire lo stress sul lavoro e a collaborare con persone diverse da me. ho poi fatto le valigie e sono partito per l’avventura più grande della mia vita: uno scambio erasmus di 9 mesi in inghilterra. sono arrivato a manchester e qui con non poche difficoltà ho cercato casa, mi sono ambientato, mi sono abituato ad un nuovo modo di vedere, pensare, mangiare, vivere, camminare e persino bere. ho conosciuto persone diverse da me per lingua, colore della pelle, origine, colore preferito e modo di vestire. ho stretto amicizie che chissà, magari mi porterò avanti ancora per un bel po’. ho visto posti nuovi, incredibilmente lontani dalla mia terra, ma ricchi di esperienze e avventure. ho poi rifatto nuovamente la valigia per tornare a casa, dai miei punti fermi: la mia famiglia e i miei amici più cari. li ho stretti in un abbraccio forte e mi sono fatto coccolare per un po’ dalle mille portate di mia nonna che mi vede ancora sciupata. se dovessi portare un oggetto con me di questo lunghissimo viaggio di 365 giorni, probabilmente porterei la mia valigia. non soltanto perchè fondamentale in tutti i miei viaggi e trasbordi verso città e mari nuovi, ma perchè in fondo rappresenta un po’ quello che questo anno significa per me. la valigia come modo di essere, a metà tra leggerezza e pesantezza, tra ali e radici, con lo spirito di chi deve irrinunciabilmente calcolare bene cosa mettere dentro, rinunciare a qualcosa, scegliere la camicia adatta e lasciare indietro quello che non serve più. capire quello che conta, se conta e quanto conta per dare a sé stessi il giusto peso interiore, un po’ come una valigia prima di un viaggio. ali e radici, tra leggerezze e pesantezze, eccomi ancora qui. felice di aver imparato a viaggiare dentro e fuori di me.
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Accordare!
di MichaelDavide Semeraro
La parola del Signore Gesù su quella che comunemente chiamiamo “correzione fraterna” porta, in realtà, alla luce il legame indissolubile che la creazione ha istituito tra il cielo e la terra, tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e il cosmo. La parola del Signore rivolta a tutti «i suoi discepoli» risuona forte e chiara:
«tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo» (Mt 18,18).
Si può certamente fondare su questo versetto la necessaria potestà che si esercita competentemente nella Chiesa, ma su questa parola solenne del Signore affonda le sue radici la verità di ogni relazione non solo col «fratello» (18,15) ma col cosmo intero. Ciò che si fa all’altro, ciò che si vive con l’altro, ciò che si affronta per l’altro non si risolve «sulla terra» ma ha la sua conseguenza e, per certi aspetti, raggiunge la sua pienezza di senso «in cielo». Un monaco così commenta l’imprescindibile legame che intercorre tra Cristo e la Chiesa, tra ciascuno e ogni suo simile: «Tutto è comune tra lo Sposo e la sposa: l'onore di ricevere la confessione e il potere della remissione. Come Sposo umile e fedele, non vuole fare niente senza la sposa. Guardati bene dal separare il capo dal corpo; non impedire a Cristo di esistere interamente; perché Cristo non è mai intero senza la Chiesa, e nemmeno la Chiesa lo può essere senza Cristo. Cristo totale, integro è il capo e il corpo» (ISACCO DELLA STELLA, Omelie, 11, 13). Di questa integrità siamo tutti responsabili e artefici attraverso la correzione e il perdono.
Partendo da questo orizzonte, prima che arrogarsi il diritto di ammonire l’altro in tanti modi, è necessario premunirsi dal rischio di pensare che persino le realtà che vanno affrontate «fra te e lui solo» (18,15) hanno una conseguenza «in cielo» e quindi una valenza eterna e che riguarda tutti e tutto, perché aumenta o impoverisce quell’armonia che è principio e condizione della vita piena. Il Signore ci assicura solennemente che
«se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà» (Mt 18,19).
Ac-cordarsi per chiedere nella preghiera non può che essere il segno e il frutto di una con-cordia nel vivere fino a «dare la vita» (Gv 15,13). E questo è possibile solo – come ama ripetere Chiara Lubich – se accettiamo e amiamo di mettere di «mezzo» (Mt 18,20) e al centro assoluto delle nostre relazioni umane il Signore Gesù e la sua logica pasquale. In questa medesima logica: «Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab…» (Dt 34,5) in adempimento sereno della terribile parola:
«Te l’ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!» (Dt 34, 4).
Eppure la morte di Mosé non crea, per molti aspetti, nessun vuoto, ma subito «Giosué figlio di Nun» (34,9) è in grado di prendere il suo posto e di assicurare serenamente la continuazione e il coronamento dell’esodo. Il grande Mosè, «con il quale il Signore parlava faccia a faccia» (34,10), ha vissuto con-cordemente non solo con Dio ma anche con Giosué, il quale «era pieno dello spirito di saggezza, perché Mosè aveva imposto le mani su di lui» (34,9). Mosè occupa interamente il suo posto e onora il suo ruolo ma con la grande capacità di essere serenamente sostituibile, perché assolutamente accordato sulla volontà di Dio come fosse uno strumento musicale nelle mani dell’artista. Forse il grande dramma che si nasconde sotto ogni «colpa» (Mt 18,15) che rompe la comunione è proprio la fatica ad accordare lo strumento del nostro cuore prima di farlo suonare e talora, ahimé, stonare!
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Luigi Manconi torna sulla questione del deterioramento delle pratiche di salute mentale con un suo articolo su La Stampa. La lista delle cattive pratiche riscontrabili in molti servizi di salute mentale riesce davvero impressionante. E dolorosa per chi, come tanti di noi, non hanno mai smesso di pensare le persone, i cittadini con l'esperienza del disturbo mentale, al centro delle cure "umane e gentili" che il cambiamento legislativo di quasi mezzo secolo fa voleva garantire.
Negata l'istituzione, com'è accaduto in tutto il nostro paese, e meglio, nella concretezza delle pratiche territoriali, in tante realtà locali, bisognava da subito interrogarsi sul che fare, su che cosa poteva voler dire dare continuità al lavoro di critica e di distruzione del manicomio. Sta qui il nodo cruciale che non abbiamo potuto evitare e che non finirà mai di interrogarci: come, negata l'istituzione della psichiatria, pensare, progettare, montare le nuove istituzioni della salute mentale. Ecco il compito, direi l'urgenza, che, impreparati, abbiamo dovuto affrontare.
I giovani di Basaglia
Ero un ragazzino in quegli anni, uno dei giovani di Basaglia arrivati a Trieste da mezza Italia. Un ragazzino che capiva poco di manicomi e ancor meno di istituzioni totali e, tuttavia, ero entusiasta, avvertivo nelle quotidiane assemblee l'ansia del che fare, la paura di trovarsi in mezzo al guado, il pensiero di un mondo nuovo possibile (Il sogno di una cosa?). Ogni indecisione, ogni errore poteva segnare il fallimento. Il gruppo che si andava riconoscendo veniva messo alla prova ogni giorno. Avvertivamo voci di sfida: è facile - dicevano - buttare giù una rete, un muro, aprire una porta. E poi?
Non si può negare che rompere è più facile che costruire. Questo vale certamente per le cose, ma quando ci si riferisce alla vita dell'uomo, come stava accadendo, allora il distruggere e il costruire assumono tutta un'altra dimensione: rimandano a scelte di campo profonde, rigorose, difficili da frequentare.
Così Basaglia conclude nella bella intervista di Ernesto Venturini ne 'Il giardino dei gelsi', Einaudi 1979: "Della malattia mentale, sulla sua in/consistenza "scientifica", sulla ragione delle istituzioni totali. Forse bisognerà non stancarsi mai di tornare a rivedere quei percorsi, riascoltare quelle storie.
La trasformazione di Basaglia
Da dove ha potuto avere origine la trasformazione che Basaglia cerca faticosamente di realizzare? Non riesco a pensare ad altro se non ai primi giorni goriziani. È il novembre del 1961. Un giovane medico, non ancora quarantenne, mandato via dall'università di Padova perché troppo filosofo entra nell'ospedale psichiatrico di Gorizia. Sarà il nuovo direttore. Vede la violenza delle porte chiuse, delle contenzioni, delle divise. Vede "con gli occhi del filosofo" una violenza più grande: gli uomini e le donne non ci sono più. Avverte la vertigine del vuoto, la solitudine dell'assenza. È questa la dolorosa condizione che senza tregua lo interroga.
Cosa fare per far tornare i corpi vivi, le voci, le memorie di tutta quella dolente umanità? Deve interrogarsi su cosa è quella psichiatria figlia del positivismo scientifico che costringe ogni respiro a oggetto. La malattia nascondeva ogni cosa. I nomi e le passioni, le storie e i sentimenti, i bisogni e le emozioni non hanno mai abitato quel luogo. E la cura, neanche a pensarci.
Pazienti chiamati per nome
Così, messa tra parentesi la malattia, come svegliandosi da un lungo sonno, tutti cominciarono per incanto a chiamarsi per nome, a raccontare una storia, a ricordare un villaggio, a riprendersi il proprio tempo. A Gorizia si cominciò allora ad aprire le porte, ad abolire tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. Gli internati divennero cittadini, persone, individui. Da allora fu possibile curare e cercare un altro modo per ascoltare, per esserci, per riconoscersi. Fu possibile vedere il malato e non la malattia, le storie singolari e non le diagnosi, vivere la propria vita malgrado tutto. Fu possibile denunciare per la prima volta le torture e la vergogna di due secoli di istituzioni totali.
Con la legge 180 moltissimi pensarono, e continuano a pensare, che una storia anche se eroica ed entusiasmante, si era conclusa. Chiusi i manicomi, dissero, la psichiatria sarebbe stata accreditata nel mondo certo della clinica, avrebbe guadagnato il candore del camice bianco, le promesse della moderna medicina e gli orizzonti miracolosi dei farmaci, delle psicoterapie senza fine. La pericolosità, la deriva sociale, i diritti negati finalmente avrebbero interessato i carabinieri, i servizi sociali, la politica. Finalmente una psichiatria pulita!: così i tanti psichiatri che plaudivano alla nuova legge.
La legge 180
Si andava marcando una frattura (una paradossale continuità, in realtà) tra un prima, il manicomio, e un dopo, le psichiatrie delle diagnosi e del manuale diagnostico statistico. Non era stato il manicomio l'oggetto del lavoro di deistituzionalizzazione ma la sofferenza, la follia che diventa malattia, la negazione dei soggetti e dei diritti, l'esclusione.
L'approvazione della Legge 180 del 1978 dava finalmente inizio al lavoro di deistituzionalizzazione. In molte regioni l'inerzia e la corsa verso i servizi ospedalieri, i fragilissimi e freddi ambulatori e le liste di attesa, la ricerca affannosa di posti dove mettere i matti rallentarono non poco la chiusura (i manicomi chiuderanno 20 anni dopo!) e contribuirono a disperdere le ragioni di quella faticosa trasformazione appena avviata, perdendo di vista la comunità, i contesti e le reti che andavano progettate e ordite.
Fu chiaro allora che bisognava pensare alla cura, al riconoscimento ostinato dell'altro, ai nuovi luoghi dell'incontro che rispondessero a quelle premesse. Abbandonato il manicomio la cura poteva realizzarsi nei contesti, nelle relazioni, nella quotidianità. Potevamo immaginare di incontrare la sofferenza e il bisogno prima che diventi malattia. Un nuovo spazio dove le persone, senza la paura della porta che si chiude alle loro spalle, possono entrare per chiedere aiuto, per dire il proprio male, condividerlo. Un confine aperto che garantisce sempre il ritorno.
Luoghi organizzati
Cominciamo a immaginare e a organizzare luoghi che dovevano accogliere le voci, le identità molteplici, i conflitti: condomini, piazze, mercati, stazioni. Un luogo, penso al centro di salute mentale 24h nella mia esperienza triestina, che vuole vedersi abitato non (soltanto) dai folli. Tra questi luoghi che andiamo immaginando e il fuori (il territorio) si disegna una soglia che definisce lo spazio dell'incontro, dell'ascolto, dell'aiuto, della terapia; che contrasta il rischio della sottomissione e dell'assoggettamento così presente quando ricorre l'esperienza della malattia, della fragilità, del bisogno.
In questi anni è stato possibile dimostrare che possiamo aver cura del folle, del diverso, del vecchio, del bambino in un altro modo. I Centri di salute mentale e i tanti e diversi luoghi di accoglienza, di cura, quando sono attivi, presenti e prossimi quotidianamente a sostegno della vita delle persone; le cooperative sociali, quando veramente sono in grado di stare sul mercato e piegarsi al bisogno singolare; le associazioni delle persone che vivono l'esperienza della fragilità, quando fanno crescere protagonismo e partecipazione; i luoghi dell'abitare e i laboratori, lì dove davvero si coltiva il valore della relazione, la bellezza degli spazi e degli oggetti, la qualità dei lavori e delle produzioni, dimostrano che è possibile curare senza contenzioni, con le porte aperte, con il sostegno puntuale, anche economico, della vita quotidiana, con la possibilità per le persone di abitare diverse e plurali identità. Con la possibilità di guarire.
Porte aperte
Questi luoghi, e le buone pratiche che li abitano, non riescono neanche a immaginare le "porte chiuse" e gli abbandoni colpevoli, contrastano quotidianamente la psichiatria delle distanze, diventano il momento privilegiato dell'ascolto, dell'accoglienza silenziosa e non perdono mai di vista il fuori. Anzi è la attenta valorizzazione di quel fuori (quel territorio di cui oggi tanto si parla) che pretende la cura in una sorta di contiguità tra la casa delle persone, gli spazi del rione, i luoghi collettivi, il centro di salute mentale, il distretto, il centro diurno. Progettare e costruire la cura significa rendere concreta, praticabile, abitabile la soglia.
Abitare la soglia ci costringe a incontrare l'altro nella sua realtà. Prima che il passaggio del confine salute/malattia avvenga. Prima che il disagio, l'isolamento, un profondissimo dolore, una inguaribile ferita si strutturi in malattia. Incontrare la sofferenza nella realtà dove essa accade. La trasformazione di cui vuole parlare Basaglia si muove da qui.
Il punto è che la buona volontà di tanti operatori, giovani e meno giovani, per tenere vivo l'orizzonte del cambiamento viene ostacolata da forme organizzative e dispositivi, leggi regionali e regolamenti aziendali che impediscono singolarità, creatività e complicità. Le culture e le pratiche preziosissime che in questi 40 anni si sono realizzate non riescono più a interrogare sul senso, sulle radici, sulla dimensione etica e politica del lavoro. La dimensione critica dei saperi e delle pratiche della psichiatria va scomparendo dal lessico di tutti gli operatori.
Questo mestiere pretende una radicale e rischiosa scelta di campo, esige di prendere parte, di accettare l'incertezza e di vivere quotidianamente il conflitto. Nella solitudine e nella frammentazione è difficile, specie per i più giovani, scegliere, resistere all'omologazione, al richiamo dell'indifferenza. Infinite volte, alla fine delle assemblee con familiari, operatori, cittadini volenterosi, ci siamo detti, sconsolati, che senza luoghi adeguati e dignitosi, con una endemica carenza di personale e di fronte all'evidente povertà di mezzi e di danari, non si va da nessuna parte.
L'Italia spende troppo poco
Il nostro Paese spende poco meno del 3% del budget nazionale della Sanità per la salute mentale (con differenze notevoli tra le 20 regioni), a fronte del 10-15% di altri Paesi come Francia, Inghilterra, Finlandia. Aspettando le risorse, molti operatori entusiasti invecchiano e, delusi, prendono strade diverse. E ognuno si ritrova a difendere, timoroso, il proprio misero spazio dalla presenza dell'altro, mentre i territori delle aziende sanitarie diventano sconfinati e i dipartimenti e le organizzazioni tra accorpamenti e fusioni si trovano spaesati in circoscrizioni sconosciute, segnate con un tratto di matita sulla carta da amministratori di "alta formazione manageriale".
Come abbiamo potuto non vedere nei fatti gli ostacoli insormontabili allo sviluppo di luoghi di relazioni e di vicinanza, dove sia possibile sostenere visibilità, appartenenza, protagonismo dei soggetti, dei più vulnerabili?
Cominciammo a progettare e lavorare privilegiando la "piccola scala", in circoscritte aree territoriali, anche con la finalità di riconoscere i bisogni, denunciare le diseguaglianze, promuovere malgrado la "malattia" una vita buona. Perché altrimenti, continuiamo a pensare Centro di salute mentale 24 ore? A gruppi di lavoro multidisciplinari dove l'incontro ravvicinato e quotidiano degli operatori garantisse conoscenza, condivisione, reciprocità? La dimensione affettiva, dicemmo! Oggi nelle smisurate terre dei Dipartimenti accade che infermieri, riabilitatori, cooperatori sociali, assistenti sociali, psichiatri, psicologi non si conoscano nemmeno, e ognuno arrangi nella solitudine la sua crescita culturale, le scelte formative o la fine di ogni interesse, impedito a ogni salutare confronto, inchiuso in un'impenetrabile autoreferenzialità.
L'indifferenza
La dimensione amorosa, soggettiva, utopica e un po' sognante si è andata perdendo. E con essa non c'è più traccia del senso di appartenenza di quell'attenzione etica, politica e umana che avrebbe dovuto essere l'interrogazione dominante nei luoghi di questi mestieri.
A nulla serve credere che i fondi europei mobilizzeranno l'apatia e l'indifferenza dominante. La pandemia, che invochiamo a causa e giustificazione di ogni cosa, poco condiziona le questioni di cui cerco di parlare, che vengono da molto più lontano. La distanza e lo sguardo raggelante delle psichiatrie e delle psicologie che condizionano le scelte culturali e operative di tutto il mondo degli operatori domina il campo, e le persone che vivono l'esperienza continuano a essere obbligate a trattamenti, stupidi se non dannosi. La pratica della contenzione non è mai stata abbandonata, anzi i "legatori" vengono allo scoperto e rivendicano con parole gentili dignità alle loro orrende pratiche. La presa in carico delle singole persone e delle vastità dei loro bisogni, che pure abbiamo sperimentato con successo, dovrebbe rappresentare la potente alternativa alle modalità burocratiche e de-soggettivanti che dominano le (cattive) pratiche nella quasi totalità dei dipartimenti di salute mentale.
Non c'è più tempo
Basterà continuare a parlare di budget di salute, di Lea, di fondi europei e così via? Penso che non basterebbe. Non c'è più tempo. È il momento di denunciare con parole chiare, anche se dolorose, le distorsioni, le regressioni e i crimini di pace quotidiani che continuano ad accadere. La ingovernabilità delle differenti e contrastanti politiche regionali, delle inutili formazioni accademiche, delle povertà di cultura e di risorse delle aziende sanitarie in ordine alla salute mentale, sono evidenti. Un gruppo di operatori, del quale ho fatto parte, ha compilato un progetto di legge, con l'intenzione di dare unitarietà alle politiche di salute mentale, portato in Parlamento dalla Senatrice Nerina Dirindin e ripreso in questa legislatura alla Camera dall'On. Elena Carnevale e al Senato da Paola Boldrini (DDL 11 luglio 2018,). Forse bisognerebbe ricominciare da lì.
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Il mio Benvenuto Brunello 2018, ossia l’elogio della lentezza.
Il mio quint'anno a Benvenuto Brunello; e ci son voluti quasi 5 mesi per metterlo nero su bianco: il tempo di una lentezza per decantare idee, sensazioni, emozioni vecchie e nuove, profonde e molto intime; un sentimento rarefatto che ha pervaso anche quelle mie giornate montalcinesi: non solo, ormai, dedicate all'assaggio di vini -sia detto- buonissimi, ma al godere calmo e adagio delle relazioni umane dei silenzi notturni, dell'aria pura, delle passeggiate mattutine odorando i profumi della campagna e rifacendomi lo sguardo su quel paesaggio benedetto dal Signore. Beata solitudo, sola beatitudo. Tuttavia mi rimase l'esigenza quest'anno di tornare di lì ad una dozzina di giorni, per vivere Montalcino e respirarla, approfondendone territori e aziende che avevo da tempo nel cuore, vedendo visi e stringendo mani, passeggiando le vigne e gli uliveti. Vino, olio e pane: elementi sacri della vita e, guarda caso, del cristianesimo, che qui trovano consacrazione eccelsa (ho in mente ancora il profumo intensissimo e quasi floreale dell'olio giovane di Fattoi, sul pane fresco e soffice del forno Lambardi). Perciò ritorno a Montalcino fu soprattutto un'occasione privatissima, voluta e cercata, di condivisione; e una messa mattutina a Sant'Antimo, seppure orfana dei canti gregoriani che un tempo ne risuonavano le arcate, assunse un carattere di profondità particolare. Gioia e dolore, sole e nuvole, colle e piano: l'armonia della vita è una ricomposizione di dualismi.
Quindi, se la mia presenza a Benvenuto Brunello 2018 si è ridotta, in realtà, a una giornata di assaggi ai Chiostri del Museo Civico e Diocesano, in realtà si è estesa idealmente per una ventina di giorni; e si riverbera nella memoria ad ogni sorso del Sangiovese di quelle zone fino al prossimo anno.
Finalmente, ora che inizio a scrivere guardando l'immensità marina del Tirreno, ho la serenità per chiudere gli occhi e ricordare.
“ È sera, ma sembra già quasi notte per il buio di quest'inverno che sembra quasi non finire mai. Giungo a Montalcino per il mio quinto Benvenuto Brunello. La città giace sotto il cielo nero, nel quale nubi gravi si intuiscono minacciose; eppure essa è sospesa, magicamente silenziosa e deserta, malgrado simultaneamente si tenga la cena di gala della manifestazione; specie lassù dove ho preso stanza, intorno al solitario Duomo ottocentesco, col suo protiro di colonne di ordine tuscanico, possenti e slanciate, che ripara i colombi; dove i pochi lecci maestosi fan da sipario ai tetti di cotto delle case, digradanti a cascata verso la Val d'Orcia. Là in alto, isolato, mi beo dove il vento gioca sul crinale del colle.
Il quint'anno: quando andavo alle scuole elementari, quello preludeva all'esamino che doveva introdurci alle classi delle medie: chiudeva un ciclo, ci insegnava a dire la signora maestra. Similmente alle superiori: cinque anni in totale, col bienno del ginnasio seguito dal liceo propriamente detto, il glorioso classico; poi c'era la maturità. Me ne accorgo forse all'ultimo, ma per tanti motivi il mio Benvenuto Brunello 2018, rientra in questa regola. Ripenso - mentre percorro nel freddo della sera, verso l'Albergo il Giglio, le rughe familiari- al mio stato dello scorso anno e lo paragono all'attuale: quanto cammino e quanta salita!
Ho studiato a lungo quest'anno, ho letto e ascoltato su Montalcino e sul sangiovese, tanto ho assaggiato: oggi posseggo miglior cognizione delle terre, dei versanti, dei microclimi; e dell'uva conosco meglio le bizze e il capriccio e l'espressione, secondo la mano di chi lo coltivi e lo vinifichi, e secondo il territorio; perché, a Montalcino il Sangiovese venga diverso rispetto alle terre del Morellino, ed ancora differente nel Chianti, alla Rufina, in Romagna e, naturalmente, a Montepulciano dirimpettaia. C'è insomma in me una maturità nuova nel mio modo di rapportarmi alla manifestazione, ed una mia, nuova, personale disposizione di spirito. Anche la formula di Benvenuto Brunello è cambiata, aprendosi al pubblico appassionato, ferme restando le necessarie sale separate per la critica: così si promuovono il territorio e il vino, sottolineando come siano intrinsecamente legati.
Parla da sé quel territorio; però, perché lo capisca e fino in fondo l'apprezzi, il pubblico bisogna portarlo fin qui: basta affacciarsi da uno dei numerosi balconi panoramici della città, dal lato della chiesa della Madonna del Soccorso, ad esempio, oppure dagli spalti della Fortezza, per restare senza fiato. Risalga il colle e i suoi tortuosi tornanti, il viaggiatore, traversi i boschi, veda e tocchi con mano le vigne, respiri l'aria delle nuvole che corrono sopra la torre del comune; scenda nei fondi, scorra i menù, scega una fiorentina di chianina perfettamente frollata che abbondi l'etto, o una terrina di fagiano, o una selezione di caci locali, assaggi un Brunello di almeno una quindicina d'anni; solo allora potrà intimamente capire.
Come s'è fatto il mio amico Stefano ed io, al Giglio. Due bottiglie di Brunello in due. Prima il 2003 di Fuligni, poi il 2003 di Conti Costanti: ampio, avvolgente e maestoso il primo, composto splendente e solenne il secondo; entrambi finissimi, elegantissimi, superbi, caratterizzati da un frutto sì molto maturo, ma anche da una freschezza ed un'equilibrio sorprendente, sin nelle più minute trame della tessitura: ecco la tenuta del Sangiovese di Montalcino, anche in un'annata caldissima (tanti scommisero che l'annata 2003 avrebbe dato dato vini stanchi, cotti, non longevi).
E tuttavia, per stupire l'ipotetico viaggiatore che passasse di qui nei giorni di Benvenuto Brunello, basterebbe la qualità espressa dal buffet della manifestazione, allietato dai prodotti locali e da tradizionalissime preparazioni, acconciato vieppiù da una dozzina di oli e grappe montalcinesi, (ecco, magari un po’ più di riflettori li avrebbero meritati i mieli, per i qual Montalcino va famosa). Peraltro, malgrado la notevole affluenza di visitatori, ci sono aria e spazio per tutti, anche ai banchi d'assaggio: ottima organizzazione.
Poi c'è la passeggiata sentimentale e suggestiva che snoda attraverso il meraviglioso museo cittadino, con la scenografica disposizione di statue lignee, terrecotte robbiane, tele e pale d'altare, Madonne, santi, angeli, Cristi, a formare un'unica danza spiraliforme di pose e colori, come se le opere d'arte prendessero vita, gesto, favella. Solo dopo un colloquio muto con esse si può iniziare a discorrere col vino e sul vino.
E sul Brunello e sul Rosso di Montalcino, ce ne sarebbero discorsi: "territorialità” e “maturità” i termini che ricorrono nella mia mente, intrinsecamente legati: maturità dei vigneti, che più in profondità affondano le radici nella terra; maturità dei produttori. Ecco, pur col caveat di assaggiare in piedi ai banchetti, in chiacchiera rilassata come mai prima, mi formo a poco a poco l'idea che una larga parte dei produttori abbia raggiunta la consapevolezza stilistica, perché nel calice parlano soprattutto territorio e sangiovese, tra trasparenze visive e profondità aromatiche e strutturali. Persino certi produttori che per semplificare chiamerò “modernisti” e “internazionali” , mostrano nelle ultimissime annate un benvenuto ripensamento di rotta verso una tipicità più autentica, evidente - per motivi anagrafici e fors'anche per una più misurata ambizione- soprattutto nel più giovane Rosso, 2015 o 2016 che sia.
Quest'anno si presentano annate favorevolissime: il 2013 ha propiziato Brunello di compostezza e proporzione classica, spesso da attendere perché si raggiunga il picco di equilibrio e complessità, come è giusto per la tipologia; i Rosso 2015 (in uscita ritardata) sono vini di forza, polpa, spalle larghe: giustificano ambizioni da piccoli Brunello; i Rosso 2016, sono golosissimi: potenti anch'essi, snob più eleganti, profumati, freschi e beverini; i Brunello di Montalcino Riserva 2012, spesso, giustificano appieno la denominazione: perché l'annata calda, ma relativamente equilibrata, ha generato nei casi migliori vini ricchi, di carattere deciso, avvolgenti e signorili.
Procedendo con gli assaggi penso che l'equilibrio dell'annata 2013 -insieme magari all'accresciuta consapevolezza produttiva- abbia in qualche modo ridotto la diversità tra i Brunello di un produttore o dell'altro: piuttosto si può discriminare i vini raggruppandoli per area di provenienza: quelli del nord della denominazione, ad esempio (con molte ottime riuscite), rispetto a quelli del quadrante sud, o quelli di Tavernelle e de “La villa”. Perciò gli assaggi richiedono un ascolto assai attento, giacché il gioco è tutto nel cogliere le sfumature; gioco difficile, se svolto in piedi tra i banchetti. Mi scuserai pertanto, amica o amico che mi leggi, se sarò qui e là un po’ generico nelle mie descrizioni.
Vorrei cominciare a raccontarti i miei assaggi (l'ordine dei quali segue pedissequamente quello proposto dal quadernuccio di appunti offerto dal Consorzio) proprio da un vino che trae la sua bellezza dalle sfumature: il Brunello di Montalcino 2013 di Fuligni, sicuramente tra i miei preferiti. Un vino di gran classe, ispirato: netto il profumo tra fiori, ciliegie e richiami boschivi; pieno al sorso, caldo, ampio, potente, ma soprattutto setoso, soffice addirittura, dai tannini finissimi, con una lunghezza gustosa e intensa. L'azienda, che come molte altre realtà storiche si trova poco fuori le mura di Montalcino, in questo caso sul lato orientale, ha prodotto 23.000 bottiglie di questo vino: anno dopo anno, per la mia esperienza, una rara costanza nell'eccellenza.
Un filo rosso unisce i tutti i vini presentati oggi da Gianni Brunelli - Le Chiuse di Sotto; qualcosa che definirei “stile aziendale”, propiziato forse dal possesso di appezzamenti in zone diametralmente opposte della denominazione: l'uno nel più fresco quadrante di nord-est, l'altro nel più caldo sud-ovest, dai quali consegue una possibilità piuttosto ampia di bilanciare i vini con tagli opportuni, secondo l'annata. Sia il Rosso di Montalcino 2016 che il Brunello di Montalcino 2013 si porgono con precisione, sulla frutta e su una struttura importante, quasi nervosa in questa fase. Nelle mie note segno “scheletro”, ad significare un'ossatura tannico-acida forte e in evidenza. In realtà rimango quasi sorpreso, perché in precedenza i vini di questa firma mi erano sembrati più risolti, più riposati e in equilibrio, al debutto; magari è solo una mia sensazione o, semplicemente, debbono affidarsi ancora un po’ in bottiglia. Viene presentato anche il Brunello di Montalcino Riserva 2012, dove rintraccio il filo rosso aziendale. Mi piace perché più fresco di altri di pari tipologia, anche se mi sembra di sentirvi qualche nota un po’ amara sul finale.
Si vola alto, coi vini de Il Marroneto. Il Rosso di Montalcino 2015 ha un colore che tende all'aranciato e il suo profumo, se non particolarmente intenso, è tuttavia raffinato; al pari del sorso, che potenza ne ha, eccome, con un tannino superiore alla media ed un'alta acidità. Il Brunello di Montalcino 2013 è bellissimo; ha una grande personalità: nel suo profumo, erbe e spezie fini, mineralità, note sottilmente evolute ed eleganti, quali arancia e corbezzolo, senza rinunciare alla fragranza; gode al sorso del sostegno di una decisa acidità. La selezione, il celebre Brunello di Montalcino “Madonna delle Grazie”, anche nell'annata 2013 è all'altezza della sua fama: esemplare per raffinata concentrazione, aromi terziari, sensazione tattile, in bocca, nobilmente soffice. Fosse un quadro, sarebbe un primitivo su fondo oro, richiamare così una vecchia e celebre descrizione che il Principe Boncompagni Ludovisi inviò a Tancredi Biondi Santi a proposito di un Brunello Riserva di quest'ultimo.
La mia affinità verso i vini de Il Paradiso di Manfredi è stata nel tempo altalenante, perché li ho trovati spesso scontrosi (mentre la famiglia Guerrini, a cominciare dal Signor Florio, sono persone deliziose, garbate e gentili); quest'anno, però, mi conquistano: mi avvisa il produttore che andranno in commercio qualche anno dopo la presentazione, secondo la filosofia della firma, ma io li trovo già buonissimi . Il Rosso di Montalcino 2016 è succosissimo: tutto fiori, fragole, ciliegie; pieno ed estremamente fresco; con un gran tannino, un'acidità verticale ed un'anima minerale che lo rende elegantissimo. Il Brunello di Montalcino 2013, che andrà in commercio tra due anni, mi sorprende: pieno, concentrato, fresco, futuribile per la sua forza pervasiva, già oggi si distende in una notevole eleganza; con un gran carattere, così marcato dal sale sulla bocca, che ne contrappunta il gusto; infine la speziatura, il tannino importante. A mio vedere, il miglior Brunello de Il Paradiso di Manfredi che ho assaggiato in questi 5 anni di Benvenuto Brunello.
Coi vini di Fattoria il Pino, invece, la mia immedesimazione è stata immediata ai primi assaggi di qualche anno addietro ed è anzi cresciuta anno dopo anno. Credo questa sia oggi tra le più belle realtà artigiane di Montalcino ed i vini presentati ne mostrano continuità qualitativa. Rossi passionali, dalla timbrica scura, dall'espressività profonda e calda; figli del nord del comune, mantengono però un profilo slanciato . Il Rosso di Montalcino 2015 è squillante: profumi centratissimi di ciliegia e amarena, circonfusi di spezie; con corpo medio, tannino finissimo, acidità a sufficienza, sul palato è setoso, addirittura soffice. Il Brunello di Montalcino 2013 possiede, oltre alle caratteristiche timbriche ed espressive tipiche della firma, un equilibrio declinato in finezza, nitore, misura, rotondità, ed una personalità quasi viscerale.
L'assaggio dei vini de La Fiorita è sintomatico di un certo cambiamento in atto in azienda e in tutto il comprensorio, che io reputo benvenuto. I vini, coprendo lo spazio di 5 annate, lo testimoniano bene: inizialmente paradigmatici di un certo stile internazionale, modernista e interventista, disegnati per svolgere una certa tesi, piuttosto che per esprimere in trasparenza il territorio, evolvono verso uno stile più sciolto, misurato, puro. Difatti il Brunello di Montalcino Riserva 2012 è molto marcato dai toni del legno di invecchiamento e da una certa ricerca di concentrazione. Il Brunello di Montalcino 2013 sembra già ispirato da un cambiamento di rotta: permangono i toni boisè, ma è ben evidente la bellezza della materia di base, che riesce quasi a sovrastarli. Il Rosso di Montalcino 2016, invece, ha già tutto un altro passo: caratterizzato da un certo elegante profumo agrumato, è più caldo di altri Rosso dell'annata, ma più liberamente espressivo dei precedenti: sapido, rotondo, fitto più che sussurrato, ma spaziato, riesce un vino equilibrato e piacevole. Bene: spero che si continui su questa linea.
Le Chiuse si è distinta negli anni per il rispetto di una certa ortodossia tradizionale: rossi severi, talvolta severissimi quelli della firma, che ha - com'è noto - vigne che erano utilizzate da Biondi Santi nel taglio per le Riserve: ogni anno un bel bere, accettandone la maestosa introversione. Il Rosso di Montalcino 2016, in realtà, balza subito incontro con profumi aperti, netti di ciliegia e floreali; e poi conquista con una succosità che mimetizza appena una struttura ed una potenza notevoli: sorprendente e davvero buono. D'altra parte il Brunello di Montalcino 2013, benché abbia anch'esso similmente note di frutta, principalmente è composto, rigoroso, austero, verticale, di saldissima struttura. Molto completo nelle sensazioni olfattive e gustative, dispiega un carattere da Sangiovese senza compromessi. Buonissimo.
C'è sempre la fila davanti al banchetto de Le Ragnaie; a ragione: secondo me, qui si trovano alcuni tra gli assaggi più personali e identitari della manifestazione, che individuano perfettamente la peculiarità delle annate e del genius loci, articolato su corpi vitati molto alti e freschi, ed altri più bassi e caldi, di età assai differenti. Si spazia dalla zona elevata del Passo del Lume Spento, a quella intermedia e boschiva di Petroso, fino a quella meridionale di Castelnuovo dell'Abate. Ne risultano vini diversissimi, tutti però di gran classe, eleganza, rifinitura. Il Rosso di Montalcino 2015 - uscita ritardata- ha un gran profumo: sfaccettato, speziato; mentre al sorso si giova di un bellissimo e vivido contrasto acido-tannico. Il Brunello di Montalcino 2013 è simile, ma ha dalla sua una maggior concentrazione, che vieppiù risalta la speziatura aromatica e gustativa, la finezza tannica, l'acidità notevolissima. Il Brunello di Montalcino “Vecchie Vigne” 2013 non deflette dai capisaldi di eleganza espressi dagli altri vini, ma ha un frutto assai più scuro, un tannino di diversa e maggiore imponenza, un fiato più più profondo, a costo di essere, ancora un po’ contratto e di richiedere presumibilmente tempo per dispiegare davvero le ali. Gioca, per così dire, un altro campionato: lo stesso del Brunello di Montalcino “Fornace” 2013, che ha un frutto ancora più scuro, se possibile quasi nero, e si impone anch'esso per presenza tannica.
Per limiti di tempo e di resistenza dei miei organi sensoriali, assaggio di Mastrojanni soltanto il Brunello di Montalcino “Vigna Loreto” 2013. Sarà stata appunto la mia stanchezza, ma lo trovo al di sotto delle mie aspettative: il suo frutto scuro, il suo tannino importante e in evidenza, mi sembrano frenati da una confezione enologica assai pensata. Vista anche la sua fama, meriterebbe un riassaggio a palato riposato, ma purtroppo non ne ho modo.
Assaggio per la prima volta - con grande curiosità- i vini di Padelletti, un produttore storico, perché tra quella manciata di nomi che incominciarono a produrre ed imbottigliare Brunello tra la fine dell'Ottocento ed i primi del Novecento. La firma negli anni si è mantenuta ipertradizionale, al punto che è l'unica (per quel che so) ad avere ancora la cantina di vinificazione all'interno delle mura del borgo in un edificio storico, con tutte le difficoltà produttive immaginabili. C'è fermento, però, perché si sta predisponendo una nuova cantina e si nota un certo nuovo corso anche nella comunicazione. Bisognerà tenerla d'occhio, quest'azienda. Intanto, il Rosso di Montalcino 2015 presentato quest'anno (un'uscita ritardata), è classicissimo, trasparente alla vista, molto profumato, tra fiori, frutta e vernice. Un po’ scomposto ancora all'assaggio, scisso tra un tannino ed un'acidità piacevolmente decisi, che si ricompongono in un finale lungo e di bell'equilibrio. Piacevole, a mio gusto. Il Brunello di Montalcino 2013 del mio assaggio, invece, si offre ancora poco decifrabile: non nitidissimo, un po’ chiuso, marca il ricordo per una mineralità spiccata, per forza salina e per una certa decisione acido-tannica. Il Brunello di Montalcino Riserva 2012 si pone con un profilo d'antan, non per tutti forse, ma assai affascinante: etereo, con profumi classici di frutta rossa e spezie, insieme e paralleli a quelli più evoluti di solvente, di pellami, di bosco, di castagne; con un sorso molto asciutto e sorretto da un tannino potente.
Pietroso produce vini ch'io trovo sempre affascinanti ed affidabili, nel senso che colgono in qualunque annata il segno di uno stile tipico, tradizionale, accurato, con un'identificazione netta del loro territorio di provenienza, consistente in alcune parcelle alte subito ad ovest del borgo, contornate di boschi. Sarà anche suggestione, ma quei sentori boschivi a me pare di ritrovarli nei loro vini, come nel Rosso di Montalcino 2016, che dispiega un profumo di media intensità dove la frutta rossa di sposa a sentori nettamente balsamici, di sempreverdi, e di terra umida. Un vino fresco, succoso, contrastato, con un bel tannino ed un'acidità notevole. Qualche sbuffo d'alcol sul finale disegna forse una piccola ruga nella sua bella armonia. Il Brunello di Montalcino 2013 è molto elegante, con profumi profondi, ancora centrati su frutta rossa e bosco, ma vi si sovrappongono note di solvente e minerali, come di pietra focaia. La mineralità ritorna al sorso sotto forma di sale, che è assai presente e contribuisce a renderlo un vino fresco ed equilibratissimo nelle sue componenti, più morbide e più dure.
Ritorno ad assaggiare i vini di un mio vecchio amore: Poggio di Sotto. Sono cambiate tante cose in questa azienda, ma si continuano a produrre vini eccellenti. Ecco, manca loro quella antica magia, direi; la vita però va avanti, bisogna farsene una ragione. Apprezzo perciò il Rosso di Montalcino 2015, un'uscita ritardata: un vino eccezionale, della statura di un Brunello, com'è tradizione per questa firma: complessità e struttura ottime, e possiede quella caratteristica tattile impalpabile che io trovo tipica di tanti vini di Castelnuovo dell'Abate. Il Brunello di Montalcino 2013 è molto bello fin dal colore, con un profilo aromatico elegante, assai agrumato, speziato e ricco di umori della terra. Al sorso l'acidità è vivida ed il tannino eccezionale per quantità e qualità.
Salvioni: anno dopo anno, sempre eccellenza. Il Brunello di Montalcino 2013: sulle prime il suo profumo mi pare un po’ ritroso, ma è come se ribollisse sottile sotto la superficie, toccando tutti i registri, compreso quello ematico e speziato, da norcineria. Il vino al sorso è classico: proporzionato, strutturato, composto, con un'acidità notevolissima.
San Giacomo non è magari tra le firme più note, ma la seguo da qualche anno e credo che abbia raggiunto una certa maturità interpretativa, con una bella progressione: i vini presentati quest'anno parlano da soli. È un nome, credo, da segnarsi per gli anni a venire. Il Rosso di Montalcino 2015 (un'uscita ritardata, a dimostrare che ci sono certe ambizioni, qui) ha un profumo puro, con una bella ciliegiona in evidenza, e spezie: a gran voce canta: “Sangiovese”! Al sorso è polposo più che teso, ma ha nerbo a sufficienza ed un finale piacevole dove scorgo note di terra e e cenni di ruta. Il Brunello di Montlacino 2013 mi pare un bel vino elegante che al naso già prelude alla sapidità del sorso, con fiori, frutti e sentori ematici. Al palato è gustoso, originale rispondente ai profumi: mi ricorda il mallegato con l'uvetta. Non è equilibratissimo, però: credo che sia in cerca di una definizione che verrà col tempo e mi sento di scommettere su di lui. Il Brunello di Montalcino Riserva 2012 è anch'esso molto buono: profumi puliti di frutta e di vernice, un sorso setoso, pieno, sentito, capace di un intimo melodiare malgrado forza e corpo.
L'assaggio dei vini di Sanlorenzo, ossia del mio caro amico Luciano Ciolfi, è sempre un bell'esercizio, perché; sono quelli che conosco meglio, avendoli incontrati relativamente spesso ed in tempi diversi, dalla botte alla bottiglia al…bicchiere; anche dopo diversi anni dall'uscita in commercio. Ho imparato qualche cosa del loro percorso nel tempo e di come abbiano fotografato l'annata. Il suo Rosso di Montalcino 2015 è un miracolo di equilibrio: ha un profumo intenso, accattivante, caloroso, con frutta rossa e fiori in evidenza; ma già baluginano, discretamente, i terziari figli dell'evoluzione. Guarda, amica o amico che mi leggi, il grado alcolico in etichetta: 15,5 gradi; il sorso però è fresco e con un'acidità vivida e ben integrata. È un vino di sferica proporzione; chissà che cosa sarà il Brunello di quell'annata! Il Brunello di Montalcino 2013 di Luciano è un vino essenzialmente verticale: un po’ chiuso forse in questa fase, è raffinato, con profumi di fiori che si alternano all'eleganza dell'arancia, del melograno, del corbezzolo. La medesima classe si trova al sorso: amalgamato, setoso, col tannino potente ed un'acidità importante, ben mascherata nella fittezza del suo corpo.
Santa Giulia è un'azienda che non conoscevo, situata a Torrenieri, all'estremo nord-ovest della denominazione. Nella zona i terreni sono, per quel che ne so, tendenzialmente argillosi, tuttavia alcuni vini ultimamente stanno riuscendo interessanti. Il Rosso di Montalcino 2016 è molto profumato (anche se - ma posso sbagliarmi- sento forse un po’ di tannino enologico in evidenza), sorprendentemente maturo all'olfatto, con tanta frutta rossa e cenni di fieno. Il sorso è largo e morbido, con un'acidità discreta. Il Brunello di Montalcino 2013 mi pare abbia un profumo con striature verdi, di erbe officinali, ed al sorso lo direi pieno, tannico, tendenzialmente morbido, ma con un'acidità più che buona. Mi sembrano vini riusciti, forse più da bersi nell'immediato che per una lunga vita di virtuosa evoluzione.
Non conoscevo nemmeno Sassodisole, anch'essa è di Torrenieri. Mi pare che lo stile della casa si orienti sulla rotondità o, magari, è caratteristica dei loro vigneti. Il Rosso di Montalcino 2016 profuma con intensità armoniosa, di incenso e spezie. Al sorso è cremoso, con un alcool un po’ aggressivo ed un'acidità di intensità media, che me ne suggerisce un consumo piuttosto immediato. Il Brunello di Montalcino 2013 mi pare più riuscito, perché arioso e più contrastato, coniugando la morbidezza con un'acidità notevole. Il Brunello di Montalcino Riserva 2012 ha un profumo più maturo, evoluto e sfaccettato, su note di solvente, di arancia e di menta; al sorso, non rinuncia ad una certa rotondità.
Si cambia scenario con i vini di Sesti, perché da Torrenieri, superando idealmente a volo d'aquila il colle cittadino e le sue torri, ci si spinge quasi all'estremo opposto della denominazione, verso zone più classiche, un'area mediana tra quelle più calde, meridionali, e quelle più fresche a settentrione della città. Il Rosso di Montalcino 2016 porge subito una notevole apertura di profumi, che arriva già a toccare tutti i registri, compresi i terziari, indugiando sulle spezie. In bocca sembra più giovanile che al naso: è intenso, croccante, con un bel contrasto tannico-acido. Il Brunello di Montalcino 2013 mi sembra un conseguimento raro: un vino splendente, dai profumi finissimi e completissimi, intensissimo al sorso, radioso, in un contrasto caldo-fresco estremamente appagante. Richiama certi esempi borgognoni per finezza, ma declinati secondo le forme della struttura forte del Sangiovese. Inoltre, benché si offra già oggi piacevolissimo alla beva, credo che abbia ottime prospettive di invecchiamento. Il Brunello di Montalcino Riserva “ Phenomena ” 2012, invece, mi delude un poco: sarà il mio palato, ma in questa fase lo trovo assai frenato dal legno di affinamento, però ha tantissima materia e molto probabilmente sarà in grado di riassorbirlo in un disegno coerente.
Con i vini di Tenuta Le Potazzine siamo nel solco dei vini classici, che preferiscono il sussurro, l'agilità e la sveltezza alla pura forza, che tuttavia non manca. Vini donatelliani, se pensiamo al tipo di energia espressa dal David bronzeo del Maestro fiorentino. Il Rosso di Montalcino 2016 è fresco, con profumi di arancia, lampone, spezie fini, toni ematici e minerali. Al palato è succoso, saldo di struttura, ma delicato nelle sue movenze, come danzante. Il Brunello di Montalcino 2013 è semplicemente buonissimo. I suoi profumi ariosi, molto intensi, con fiori, frutta, spezie in evidenza, trascolorano l'uno nell'altro con naturalezza estrema. Pur strutturato, al sorso è comunicativo, invitante. La riprova concentrandosi sul calice vuoto: quel che rimane è un profumo pulitissimo, floreale, l'ultimo bacio di questo vino seducente.
Terre Nere di Campigli Vallone è un'azienda che meriterebbe più rinomanza: rientra nel gruppo di quelle locate a Castelnuovo dell'Abate, giovandosi della particolare tessitura che, a mio avviso, la zona regala ai vini; inoltre, la coscienza produttiva è notevole: si lascia parlare il territorio, originando vini precisi ed equilibrati. Il Rosso di Montalcino 2016 è complessissimo: tocca tutti i registri, ma in primo piano pone l'evocazione degli spazi aperti di un campo d'estate, ed i fiori macerati. Al sorso, è salato, fresco, lungo, con un tannino rotondo. Il Brunello di Montalcino 2013 è in qualche misura simile: fresco e complesso, è più strutturato e, pur con la frutta rossa in evidenza, si declina su sfumature maggiormente minerali, al limite di un tocco austero. Nel Brunello di Montalcino Riserva 2012 c'è più polpa ed una struttura ancora più imponente, mentre gli spunti di frutta rossa si fanno imperiosi. Indubbiamente c'è qui tanta materia, ma modellata elegantemente.
Di fronte Enzo e Monica Tiezzi, mi tolgo sempre il cappello: padre e figlia, anime di un'azienda che lavora secondo un'artigianalità vera e con tecniche di minimo intervento, ottenendo vini rigorosi e senza rete: significa che certe bottiglie vanno attese diversi minuti dall'apertura nel calice, mentre altre risultano subito perfette e smaglianti: sono vini vivi, imprevedibili, ma sanno ripagare chi ha la pazienza di capirli. Ciò detto, il Rosso di Montalcino “Poggio Cerrino” 2016 mi pare ancora offuscato da note fermentative, ma se ne distingue già il disegno asciutto, lieve, essenziale, sospinto da una certa bella acidità (lo riassaggerò in verità qualche mese dopo al Vinitaly, è già sarà trasfigurato e più compiuto). Il Brunello di Montacino “Poggio Cerrino” 2013 ha già al naso un profumo stupendo, puro, dove convivono ciliegie, amarene, spezie dolci, i segreti del bosco e le aldeidi. Al sorso è accogliente e essenziale insieme: ha la stessa grazia minuta ed elegante di certi schizzi leonardeschi ed è, si può dire, già pronto per essere gustato con piacere. Il Brunello di Montalcino “Vigna Soccorso” 2013 è senz'altro meno pronto, ma è radioso, luminoso, con una notevolissima qualità tannica, quasi mozzafiato al sorso. Il Brunello di Montalcino “Vigna Soccorso” Riserva 2012, richiede un po’ di ossigenazione per dispiegare il suo straordinario potenziale: ha una bocca soffice e potente e un allungo straordinario verso un finale a coda di pavone, dove balugina, come lumeggiatura, persino il cioccolato.
Lo scorso anno avevo assaggiato per la prima volta i vini di Ventolaio, rimanendone favorevolissimamente impressionato. La medesima impressione nell'autunno passato a Sangiovese Purosangue, a Siena; tuttavia con l'assaggio delle annate in presentazione a Benvenuto Brunello sono completamente conquistato. Il Rosso di Montalcino 2016 è piccola gemma. Molto aromatico e puro, sfaccettato: ciliegia, erbe aromatiche da cucina, persino fieno; ed è assai fresco al sorso, soffice, setoso, glicerico, con un'acidità alta e ottimamente integrata. Il Brunello di Montalcino 2013 ha un bellissimo colore, quasi corallo: forse la veste più bella di tutta la manifestazione. Ha tanto aroma, e variegato: in ordine sparso, spezie dolci, fiori appassiti, più sfumata sta la frutta rossa. Vista ed olfatto invogliano decisamente al sorso, bellissimo anch'esso: puro, fresco, lungo, equilibrato, risolto e quintessenziale: una giusta misura lo regola sovrano. Il Brunello di Montalcino Riserva 2012 ha un colore più nettamente rubino. Meno definito olfattivamente, gioca maggiormente sui toni della frutta matura, più scuri e carnali. Più potente, più alcolico del Brunello 2013, al momento è contratto e rivendica l'attesa.
Fattoria dei Barbi presenta ancora una volta una batteria di vini classici e di alto livello, nei quali la cura artigianale si sposa con numeriche produttive importanti. Che riesca ogni anno nell'impresa basterebbe a far notizia, tuttavia ogni anno c'è qualche acuto ragguardevolissimo del quale compiacersi. Il Rosso di Montalcino 2016 è estremamente profumato e ammiccante, perché già suggerisce di essere saporitissimo: in effetti, tocca tutti i registri aromatici, a ventaglio. Al sorso mantiene quasi tutte le promesse; è rotondo, con un'acidità e forza tannica discrete. Il Brunello di Montalcino 2013 (quello con la mitica etichetta blu) incarna una certa idea di classicità, sul filo di un'evoluzione controllata e col passo sicuro al palato che esprime la calma dei forti. Il Brunello di Montalcino "Vigna del Fiore" 2013, al confronto, ha più polpa, più struttura, più tannino ed una maggiore integrità, nel senso che è meno evoluto. Il vero asso della batteria, però, è il Brunello di Montalcino Riserva 2012: campione di uno stile antico, è un vino estremamente signorile, possente ma più ancora posato, di grande sostanza: vigorosamente chiaroscurato all'olfatto, dove lascia emergere note di frutta, vincontrappone un sorso setoso, lungo e profondo, con un'alta acidità a sostenerlo.
L'unica azienda che a mio parere possa accostarsi a Fattoria dei Barbi in termini di stile tradizionale, cura e costanza qualitativa nell'ambito delle numerosissime bottiglie prodotte è Col d'Orcia. Io, per risparmiare un po’ i miei sensi, che ad un certo punto della giornata di assaggi risentono della fatica, assaggio solo il celebre Brunello di Montalcino Riserva Poggio al Vento 2010: ancora una volta lascia me (e l'amico Stefano) senza parole. Profumo di eccezionale forza e concentrazione; prestanza statuaria: tannini, acidità, corpo, alcol “eroici”; eppure riesce infiltrante, godibile, quasi - mi verrebbe da dire - leggero. A trovargli un difetto, forse ancora un po’ in fieri rispetto ad altre annate che ho precedentemente assaggiate.
Per la prima volta ho occasione di assaggiare la proposta completa dei vini di Corte dei Venti, un produttore del quale si è fatto un certo parlare recentemente. Il Rosso di Montalcino 2016 mi è sembrato buonissimo: da un altopiano posto a circa 300 metri sul livello del mare, all'estremità più meridionale della denominazione, ma rinfrescato da venti continui, si ottiene questo Sangiovese paradigmatico, che sa di sale persino al naso, e dispiega profumi campestri, di paglia e di fieno. Lo assaggio, ed al sorso è lieve e salino, saporito e pulitissimo. Il Brunello di Montalcino 2013 ha eleganti profumi di arancia, ma trovo l'espressione un po’ frenata dal legno di affinamento, almeno in questa fase; un peccato, perché al sorso è bello, gustoso, carezzevole, equilibrato. Mi pare più riuscito il Brunello di Montalcino Riserva “Donna Elena” 2012: racconta la larghezza dell'annata calda, ma riesce comunque fresco, dinamico e molto succoso. A margine, l'assaggio del Sant'Antimo “Poggio ai Lecci”, un taglio di Syrah, Cabernet Sauvignon e Merlot. Viene da una vigna affacciata sulla Val d'Orcia, soggetta al l'influsso del Monte Amiata. L'apprezzo, pur non amando particolarmente il genere: con profumi giocati tra frutta nera e rossa e nitidi spunti minerali, in bocca è ben teso tra una più che discreta acidità ed un tannino di buon livello.
Che meraviglia, anche quest'anno, gli assaggi di Fattoi: nella mia piccola esperienza sempre tra i migliori, se si apprezzano vini appassionati e di spirito artigiano. Quello, difatti, sono. A partire dal Rosso di Montalcino 2016: “divino”, segno per l'entusiasmo e la foga della sintesi nelle mie note. È profumato, con note nitidissime ed evocative di ciliegia. Al sorso è succoso, caldo-fresco, vivido, dal tannino fine ed acidità decisa. Un vino di bellezza viscerale. Nel Brunello di Montalcino 2013 ritrovo quei toni gravi e baritonali che tanto amo in questa firma. I profumi di frutta, in lui, già trascolorano evolvendo nelle spezie e negli incensi. Un vino di struttura potente, apparentemente morbido, ma con le giuste durezze nascoste: quelle che rendono il sorso narrativo e rilevante. Di fronte al Brunello di Montalcino Riserva 2012 per un attimo taccio. Il profumo è molto intenso, dipinge composizioni di frutta matura; ma la bocca è potentissima, carnosissima, quasi una bestia selvaggia che aspetta ancora di essere domata. Stefano, l'amico che assaggia con me, commenta: “È una pornostar”; ridiamo, ma credo che colga nel segno.
Non avevo mai assaggiato prima i vini di Ferrero ed è forse un peccato che io li accosti solo quest'anno, viste le recenti e tristi vicissitudini familiari. Però è l'occasione di rendere merito a chi questi vini pensava e faceva. Il Rosso di Montalcino 2016 è molto integro, anche al colore, rubino e luminoso. Ha un profumo definitissimo di amarena matura e scura, che ritorna anche all'assaggio: elegante, con un'acidità viva ed un tannino raffinato. Il Brunello di Montalcino 2013 ha un profilo diverso: un po'aranciato alla vista, più viscerale, con note terrose di farmyard (come dicono gli inglesi) al naso. L'assaggio ed è equilibrato, rinfrescato da una buona acidità, con un tannino importante ma fine, maturo, e lungo su un retrogusto ematico e terroso.
Qui finiscono gli assaggi: sono le 5 e mezzo, la mia bocca e il mio naso satolli di bellezza non rispondono più. Eppure chissà quanti altri vini meravigliosi potrei assaggiare oggi, in questo Benvenuto Brunello dal livello medio altissimo, vetrina di annate assai diverse, ma tutte fortunate. Stasera ci sarà la cena con gli amici produttori, debbo recuperare lucidità per i miei sensi. Pausa. Posso ripensare ai calici e ai volti di oggi. Già la mente però va lontana, vola al prossimo anno: immagina e sogna i futuri regali della terra di Montalcino".
La cena ci fu: andammo da “Il Pozzo”, celebre trattoria di Sant'Angelo in Colle. Amici e conoscenti: Luciano, Stefano, Jessica, Alessia, Raffaella. Buon cibo rustico di tradizione Toscana e tanti buoni vini, che ciascun commensale aveva portato: vini locali e vini foresti, annate vecchie e recenti. Molti, splendidi. La mia bottiglia fu il Nebbiolo d'Alba Valmaggiore di Marengo, rifinito e gustoso. Però la sorpresa venne con le vecchie annate di Rosso di Montalcino, ancora scattanti eppure tanto complessi. Il 2006 di Luciano, che vino! Resta di allora nella memoria soprattutto il clima rilassato, allegro, conviviale, umano; il rientro a Montalcino nella notte fonda, arrampicando l'auto sui fianchi bruni del colle, con la pioggia e la nebbia ad avvolgerci in una dimensione conclusa, intima.
Rientrai a Milano con il nome di Montalcino già segnato sul l'agenda e la prenotazione in tasca, per tornarvi di lì a due settimane e rivedere gli amici e stringerne di nuovi; per camminare ancora quella terra e meglio conoscerla . Ne visitai il nord, fresco e cristallino nelle sue geometrie, a Montosoli, da Baricci; là trovai vini che hanno la grazia essenziale e composta della primavera fiorita di un maestro del Quattrocento o della prosa lirica di Idilio dell'Era, quando racconta dei Santi eremiti e fanciulli, come fossero novelle popolari. Là trovai giovinezza e sapienza insieme unite, un'anello orgoglioso tra le generazioni. Di lì si vede il Montalcino ergersi imperiosa sul suo colle -visto di sotto, drammatico e ripido come una balza - visione grifagna e quasi dantesca. Poi andai a sud-ovest, percorrendo i fianchi del colle come quelli di una grande madre, godendomi l'apertura assolata delle colline che stanno dove il bosco cede il passo alle colture e guarda - come dovesse tuffarsi in mare, la fronte battuta dal vento - la calma distesa ondeggiante, gialla e verde di spighe e di fieno, che sta tra l'Orcia e l'Ombrone. Finalmente passeggiai le vigne di Fattoi, toccai la terra, respirai l'aria, vidi la cantina: ecco la culla di quei vini viscerali, terrestri e splendenti. Là trovai l'orgoglio contadino in una dimensione distesa, schietta, confidenziale. Poi restai dipresso le mura antiche della città, da Tiezzi: là trovai l’antico che guarda al futuro, i vecchi attrezzi e la nuovissima cantina, i vecchi Cru con le viti giovani, e l’equilibrio sovrano dei vini. Poi andai a sud, sotto un cielo grigio e nero ed aria di tempesta, vento forte che scuoteva le nubi, gli alberi, le erbe; salendo sempre più in alto una lunga sterrata, traversando un paesaggio di pascoli verdi e colli deserti, solitari, tenebrosi nel loro silenzio; fino a giungere tra le vigne di Ventolaio, che pare scivolino a precipizio verso Sant'Antimo, piccola di lassù come un giocattolo e candida come una pietra preziosa. Là trovai vini profumati come quelli di montagna ed un'ospitalità calda, familiare: la sensazione immediata di sentirsi a casa.
Queste, però, sono altre storie, che un loro tempo e un loro spazio vogliono per essere narrate: l'avranno. Intanto, mentre scrivo queste ultime righe, già la nostalgia di Montalcino mi chiama: poche ore, e vi ritornerò.
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