#portuali
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bigarella · 5 months ago
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Guido Rossa era stato lasciato troppo isolato
La folla presente in piazza De Ferrari a Genova durante i funerali di Guido Rossa. Fonte: Ludovico Crepaldi, Op. cit. infra L’agguato mortale a Guido Rossa avveniva prima dell’alba, intorno alle 6.30, proprio nei momenti in cui la classe operaia – non di certo quella borghese – doveva raggiungere il posto di lavoro per il turno giornaliero o rientrava dallo stesso dopo quello notturno. Egli,…
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adrianomaini · 5 months ago
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Guido Rossa era stato lasciato troppo isolato
La folla presente in piazza De Ferrari a Genova durante i funerali di Guido Rossa. Fonte: Ludovico Crepaldi, Op. cit. infra L’agguato mortale a Guido Rossa avveniva prima dell’alba, intorno alle 6.30, proprio nei momenti in cui la classe operaia – non di certo quella borghese – doveva raggiungere il posto di lavoro per il turno giornaliero o rientrava dallo stesso dopo quello notturno. Egli,…
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bagnabraghe · 5 months ago
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Guido Rossa era stato lasciato troppo isolato
La folla presente in piazza De Ferrari a Genova durante i funerali di Guido Rossa. Fonte: Ludovico Crepaldi, Op. cit. infra L’agguato mortale a Guido Rossa avveniva prima dell’alba, intorno alle 6.30, proprio nei momenti in cui la classe operaia – non di certo quella borghese – doveva raggiungere il posto di lavoro per il turno giornaliero o rientrava dallo stesso dopo quello notturno. Egli,…
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collasgarba · 5 months ago
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Guido Rossa era stato lasciato troppo isolato
La folla presente in piazza De Ferrari a Genova durante i funerali di Guido Rossa. Fonte: Ludovico Crepaldi, Op. cit. infra L’agguato mortale a Guido Rossa avveniva prima dell’alba, intorno alle 6.30, proprio nei momenti in cui la classe operaia – non di certo quella borghese – doveva raggiungere il posto di lavoro per il turno giornaliero o rientrava dallo stesso dopo quello notturno. Egli,…
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mucillo · 3 months ago
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Dedicata ai miei amici genovesi
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A distanza di pochi giorni, di quel maledetto 14 agosto 2018, una poesia anonima iniziò a rimbalzare sui social, diventando virale in poche ore.
"Tutto crolla tranne noi"
Crolla un ponte, 
Crolla una strada, 
Crollano i nervi di chi, 
Consapevolmente, 
Pensa: 
Avrei potuto essere li.
Crolla una città,
Ora più isolata, 
Crolla la sua economia, 
Fragile ed insicura.  
Crolla la fede
Nel cielo, 
Nel destino, 
Nella vita.  
Crollano le braccia 
Di chi sta spalando, 
Crolla, pesante, 
Lo sconforto 
Sulle nostre spalle.  
Tutto crolla, 
Tranne noi.  
Gente dura,
Inospitale, 
Musoni e 
Testardi.
Per chi non ci conosce…
Lavoratori, 
Camalli, 
Portuali,
Carbonai.
Artigiani, 
Banchieri, 
Capitani e Marinai.  
Agricoltori sulle rocce.  
Superbi, 
Orgogliosi.  
Fieri.  
Insiste,
Inutilmente, 
Il cielo
Sulla nostra città.
Che da acqua, 
Fango, 
Macerie e
Bombe, 
Ne è sempre uscita.
E allora che cominci, 
Genova, 
Domani sarai ancor più bella.
--------------------------
"Tutto crolla tranne noi, in genovese"
Derûa un pónte,
Derûa unn-a stradda,
Derûan i nervi de chi, 
Segûo,
O pénsa:
Poéivo êse la.
Derûa unn-a çitæ,
Oua ciú izolà,
Derûa a sò economía,
Frágile e insegûa.
Derûa a fêde,
Ne-o çè,
Ne-o destìn,
Ne-a vitta.
Derûan e brássa
De chi o spála,
Derûa, pezánte,
O magón,
In sce nòstre spalle.
Tûtto derûa, 
Fêua che noiâtri.
Génte dûa,
Inospitále,
Morciónna e 
Con a tèsta cömme un mazabécco.
Pe chi o no ne conosce.
Génte che travaggia, 
Camálli,
Portoâli,
Carbounée.
Artexánn-i,
Banchiêri,
Capitann-i e Mainè.
Villan in scie prie.
Superbi,
Òrgogliôzi.
Fêi!
Inscìste, 
Inutilmente,
O çê,
In scia nóstra çitæ.
Che da ægua,
Brátta,
Róvinn-e e
Bombe,
A l’é sempre sciortìa.
E alua che l’inse,
Zena,
Domán ti saiè ancún ciú bella!
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anchesetuttinoino · 2 months ago
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Il problema della "latitanza sindacale" non c'è solo in Banca del Mezzogiorno, è generalizzato.
Spiace ammetterlo ma i sindacati firmatari ormai sono una certezza solo a parole. Per i fatti si stanno attrezzando. Ricordate il 2021 ed il certificato vaccinale per accedere ai luoghi di lavoro? Furono i portuali di Trieste a scendere in campo per difendere il lavoro ed i lavoratori, a fare cioè quello che i sindacati non vogliono più fare. Quindi perchè scandalizzarsi? Noi che siamo inclini a…
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abr · 2 years ago
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Josep "el mona" Borrell approva (la temperatura bassa). Ai dipendenti in sciopero raccomanda un "TRATTAMENTO TIPO PORTUALI DI TRIESTE".
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pedrop61 · 2 years ago
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"Ecco cosa contiene la nave che era prevista per il 25 febbraio a Genova.
Da oggi sappiamo che il fronte si sta allargando, se deve essere escalation che sia una escalation Popolare."
Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali CALP
2 Marzo
Come il Porto di Trieste ieri, così il Porto di Genova oggi. Dalla pandemia alla guerra, la lotta parte dalla logistica.
Sosteniamola!
#fuorilitaliadallaguerra
#nonnelmionome
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ilblogdellestorie · 1 year ago
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Alla voga o armati alla vela, per il salvataggio, l’addestramento e i servizi portuali: sono i palischermi di nave Amerigo Vespucci. Sotto il cocente sole del mar dei Caraibi, allievi ed equipaggio, si addestrano al governo di queste piccole imbarcazioni
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ambrenoir · 7 months ago
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Un knocker-upper era una persona il cui compito principale era svegliare le persone sparando piselli secchi alle loro finestre. Negli anni '30, Mary Smith guadagnava sei penny alla settimana svegliando i portuali di Limehouse, Londra. Questa famosissima fotografia catturata da John Topham è stata la prima che abbia mai concesso in licenza. Lo vendette per cinque sterline (all'epoca la paga di una settimana) al Daily Mirror, e decise di abbandonare la sua carriera di poliziotto e diventare un fotografo freelance per il resto della sua vita
*didascalia e immagine dal web
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viendiletto · 10 months ago
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[...] “Assassini!”: così tuonava allora l’Eco di Pola, giornale conservato presso la Biblioteca universitaria di Pola, subito dopo il cataclisma, perché tre ondate di sganci, eseguite nell’arco di poche, ma lunghissime ore di terrore e ansia, portarono a Pola la morte. L’attacco ebbe le sue ragioni più tassative: distruggere le installazioni portuali e le unità di marina presenti, ma, colpa dell’imprecisione della vecchia tecnologia aeronautica, il cuore della città con i suoi rioni più popolati e più storici subirono il grande martirio, da vittime collaterali. L’incapacità di superare il trauma oggi, è ben visibile e chiaro persino a chi ha la vista offuscata: era bastata soltanto questa prima incursione aerea (senza contare tutte quelle successive), per ufficializzare 77 morti (di cui 15 militari germanici e 2 italiani), per poi capire che il numero dei morti erano più 100, fino ad aggiungerne altri ancora, in seguito al ritrovamento dei corpi di cui non si riuscì a accertare l’identità e ai decessi dei giorni successivi, dal momento che il numero dei feriti soccorsi fu di almeno 175 persone, di cui soltanto 35 militari. Con chiara evidenza, pur mettendo nel mirino l’impiantistica industriale-militare, i bombardamenti alleati commisero senza dubbio di sorta, la strage dei civili, a tutti gli effetti. [...]
[...] La giornata del 9 gennaio 1944, fu l’inizio del periodo più tragico per la città, dopo l’entrata in guerra del Regno d’Italia, fu la giornata del massacro nel nome delle ragioni politico-militari, ma per tanti anni nel nome del mancato ricordo, si è continuato a commettere violazione del sentimento di pietà, dimostrare mancanza di rispetto nei confronti della storia, forse perché ancora troppo pesante e scomoda. Ci voleva il 79.esimo anniversario dallo sganciamento degli ordigni esplosivi, per smuovere il Municipio, che proprio oggi celebrerà nuovamente la commemorazione. Del cinquantesimo, del sessantesimo e degli altri “esimi” manco ci si è accorti (a parte qualche mass media). Ed è cosa deplorevole, perché non si tratta di difesa, di aver “seppellito” il trauma con la mala strategia della “rimozione” inconscia, ma semplicemente di inerzia, o sentimento di sconvenienza, di chi ha governato la città, rappresentata oggi in gran parte da abitanti, diventati cittadini di Pola, senza radici di vecchia data e come tali liberi da certi gravami, perché inconsapevoli e ignari della storia del territorio che li ha accolti.[...]
Chi ricorda è delle Baracche, uno dei rioni popolari meno risparmiati, reo di essere stato troppo vicino alla zona militare, che per salvarsi doveva precipitarsi giù dalla monumentale gradinata sotto la Chiesa della Marina, con la madre vista cadere col bambino in braccio senza nessuno che aiuti a rialzarsi. Più o meno, il grande fuggi fuggi del popolo della baracche con valigie pesanti e “gamele” di cibo alle mani, si generava passando da queste parti, poi con la distruzione della discesa in bellissima pietra bianca, la via alternativa furono i sentieri tra i cespugli. Con tutte quelle baracche dai tetti divelti e dissestati, la sopravvivenza delle famiglie venne individuata anche mediante sistemazione nell’edificio che chiamavano “mariotica”, oggi inesistente, subito a fianco delle entrate dei rifugi piene di brande militari, oggi mangiati da un incredibile boscaglia colma di rifiuti. Guaio è che verso le ore 11 di quella tragica domenica (guarda caso domenica come per lo scoppio di Vergarolla avvenuto in tempo di pace), le sirene che si fecero sentire, non provocarono esagerata apprensione tra i polesani, convinti che si trattasse di qualche solito falso allarme come quelli precedenti. Invece di precipitarsi in rifugio, moltissimi restarono nelle loro case, ma ben presto i bombardieri diedero prova di forza seminando distruzione e morte facendosi sentire con tutta una serie di spaventose esplosioni. L’incredulità e la scarsa propensione al panico di un certo signor Mario delle Baracche fece sì di fermarsi nel parco dell’Ospedale di Marina per mettersi a contare il numero degli aerei visti sfrecciare con il proprio carico di morte sopra il cielo di Pola, per poi salvarsi per miracolo, buttandosi giù e mettersi a soccorrere, a pochi metri da lui, il povero signor Gasparini colpito agli occhi dalle schegge degli ordigni esplosivi, mentre gemeva “Mario, Mario io, io non ci vedo più!!!”. I bombardamenti su Pola si ripeterono inesorabili, e, questo stesso Mario continuò, cocciuto a riparare la sua casetta di fronte alla Chiesa della Marina. “Lori distrugi e mi riparo, lori spaca tuto e mi rimeto a posto, vedemo chi se stufa prima”. Per fortuna gli Alleati.
[...] Obiettivi militari a parte, duole quello che fu fatto a Pola: colpiti il centro cittadino in largo Oberdan, il clivo Grion, le vie Benussi, Barbacani, Garibaldi, Mazzini, Abbazia, Tradonico, tutta la zona tra Monte Zaro, il Monte Cappelletta fino a Monte Paradiso, comprese le vie Muzio, Tartini, Defranceschi e trasversali; il quartiere popolare delle Baracche e Monte Cane. Qualche bomba isolata cadde pure nei pressi del Mercato e dell’Istituto Tecnico e in via Sergia. Specifica Raul Marsetič: “Gravi furono soprattutto i danni provocati al rione popolare di San Policarpo (Stoia) dove erano concentrate le abitazioni degli operai dell’Arsenale e degli altri stabilimenti cittadini, edifici comunemente chiamati Baracche. Le cronache apparse sugli organi di stampa descrivono San Policarpo come una zona nella quale erano pochissimi gli edifici scampati alle bombe. Furono gravemente colpiti anche il Famedio del Marinaio italiano (Chiesa della Marina), l’area attorno al Cimitero degli Eroi (Cimitero della Marina), nel quale diverse tombe furono distrutte, le vie Premuda, Vettor Pisani, Ottavia, Antonia, Piave e adiacenti”. Nell’elenco delle vittime c’è padre Graziano Zanin, della parrocchia di San Giuseppe in via Carlo Defranceschi, Aldo Fabbro uno dei più noti calciatori di Pola del tempo, ma non vi fu famiglia di Pola senza aver perso un parente, amico o conoscente, mentre 894 di queste risultarono più o meno gravemente sinistrate e bisognose di soccorsi. Il bombardamento, tra l’altro, non aveva risparmiato nemmeno la sede della Guardia di finanza, in via della Specola, il Carcere giudiziario e tra le abitazioni distrutte in molti scavarono disperati per ore tra le rovine in cerca dei propri cari o per recuperare qualche oggetto. Il pronto intervento delle squadre di soccorso si dimostrò molto efficace come le manifestazioni di solidarietà che seguirono. Ma la cicatrice su Pola resta. E, nemmeno oggi si può rimarginare.
Arletta Fonio Grubiša
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fattidifavole · 2 years ago
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Quando iniziava a fare un po' più caldo, a volte facevamo "filone" a scuola. Tutti insieme, ci portavamo pure la Catapano che voleva sempre entrare.Ma siccome in città non si poteva camminare, si poteva incontrare uno zio, un amico di papà, sai che figura? Allora ci andavamo a nascondere giù al Lungomare. Non c'erano ancora le scale, si doveva scavalcare, e ci andavamo a mettere il più possibile vicino alla banchina dove vedevamo il porto mercantile e la rotonda, il faro di san Vito e a volte pure san Paolo, san Pietro e le montagne della Calabria, dall'altra parte del mondo. 
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Era bello perché c'era questo vecchio attracco di cemento, mezzo sprofondato e spaccato dal tempo. Alcuni prendevano la rincorsa e saltavano fino in punta e poi chiamavano "un, due, tre, stella!" e si faceva a chi arrivava prima senza bagnarsi. Qualcuno cadeva sempre nell'acqua e ridevamo. E intanto il mare ci brillava intorno, alcune navi militari sullo sfondo. Un giorno, lì seduti sulla punta dell'attracco, rimanemmo in silenzio per qualche minuto. Guardavamo il riflesso del sole sulle onde salate, immaginavamo il ritmo delle correnti e quasi si potevano sentire viaggiare sulla superficie dell'acqua i sussurri delle città portuali di mari lontani. Era intensissimo sentirsi così presi da quel potere salmastro, percepirne la storia e la forza ed il mistero, che quasi ci dissociavamo e davvero nessuno parlò per un bel pezzo. Poi all'improvviso vedemmo tutti una luce strana, come un abbaglio.  Scomparve praticamente subito, ma credo che in quel momento pensammo tutti la stessa cosa :"Stella Maris!" Lo sapevamo che era lei che ci salutava: la Madonnina che protegge i naviganti, i pescatori e tutti i bambini nati vicino al mare, ed anche noi Tarantini, per sempre cullati dal suo canto e guidati dalla luce di mille fari. Fu un momento mistico. Poi Basile fece un rutto e tutti ridemmo forte e sguaiatamente. E mi ricordo solo questo.
#mare #stellamaris #ricordi #scuola #religione #sud #margrande #lungomareN.d.A. : ogni riferimento a persone esistenti, luoghi o fatti accaduti è puramente casuale.
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sottileincanto · 1 year ago
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Quanto mi manca Trieste... Una delle città più belle che si possano visitare, secondo me. La piazza centrale (Piazza Unità d'Italia) affaccia direttamente sul mare, con il Molo Audace che poco più avanti si protende a sfidare l'acqua. Ha tutto il fascino delle città portuali, disseminate di chiese, patrocinate nei secoli dalle più varie corporazioni al fine di ottenere fortuna e protezione nei commerci. Il quartiere del porto vecchio è fatto di vicoli stretti e a volte bui, che si aprono poi in piazzette adorabili, silenziose e assolate. Ci si può trovare anche il Pedocin, l'ultima spiaggia dove la zona femminile è separata da quella maschile da un muro. E poi il castello di Miramare, bello come quelli delle favole, con accanto la sua riserva marina ai cui margini si può fare il bagno in un'acqua limpidissima, anche se non proprio calda. E vogliamo parlare del cibo? La sera nelle osmizze si possono trovare salumi, vini e formaggi di qualità eccellente a prezzi più che popolari oppure, salendo un po' più su in Carso, piatti della tradizione da fare leccati baffi a chiunque. E i triestini sono definiti "i terroni del nord", gente a volte un po' burbera ma affettuosa, ospitale e dal cuore grande.
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discursci · 2 years ago
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carmenvicinanza · 2 years ago
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Eva Besnyő
https://www.unadonnalgiorno.it/eva-besnyo/
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Eva Besnyő, fotografa e giornalista che ha fatto parte di quella schiera di apolidi ungheresi che tra gli anni 20 e 30 del ‘900 hanno girato l’Europa alla ricerca di una libertà  civile e artistica.
Si è occupata di reportage, ritrattistica, si è specializzata in fotografia di architettura, è stata la reporter ufficiale del movimento femminista dei Paesi Bassi.
La sua fotografia, realista e militante, l’ha resa una professionista indipendente che è riuscita a scegliere di vivere come sentiva di fare, nonostante fosse una donna, ebrea, attiva politicamente durante la seconda guerra mondiale e dopo. Ha viaggiato, frequentato importanti circoli artistici formandosi con grandi maestri, sperimentato stili e tematiche differenti.
Nacque a Budapest il 29 aprile 1910 da una famiglia ebrea benestante, da madre ungherese e padre ebreo che, nonostante avesse cambiato il suo cognome ebraico, Blumgrund, in quello ungherese Besnyő, morì a Auschwitz, nel 1944.
Suo amico d’infanzia e vicino di casa era Endre Friedmann che, ispirato da lei, che lo portava in giro a fotografare con la sua prima Kodak Brownie, sarebbe poi diventato il celeberrimo Robert Capa. La loro amicizia è durata per tutta la vita.
Dopo il liceo è andata ad apprendere il mestiere nello studio di József Pécsi, specializzato in ritratti e fotografia pubblicitaria, un importante luogo di ritrovo per i futuri artisti visivi degli anni ’20 e ’30.
La sua visione e tecnica fotografica è scaturita dal libro Die Welt ist schön (Il mondo è bello) di Albert Renger-Patzsch, precursore della Nuova oggettività in fotografia, che prevedeva un atteggiamento asettico verso la vita e l’arte, accentuando solo alcuni particolari per aumentarne l’effetto espressivo. Da quel momento in poi le sue fotografie hanno scrutato il mondo senza sentimentalismi o accenti lirici, guardando la realtà in maniera diretta e senza fronzoli.
Trasferitasi a Berlino nel 1930, allora centro dell’avanguardia e della sperimentazione artistica, vendeva le sue foto a riviste che le firmavano con nomi maschili.
Entrata a far parte della cerchia di artisti e intellettuali impegnati socialmente e politicamente, ha frequentato i corsi serali della Scuola marxista per lavoratori, conosciuto il teatro sperimentale, il cinema russo, la Bauhaus e le nuove correnti di architettura, facendo propria l’estetica della Neue Sehen, basata sulla sperimentazione tecnica, sull’uso di inquadrature inconsuete, diagonali, angoli di ripresa dall’alto verso il basso e viceversa, contrasti di luci e ombre, costruzione geometrica della scena.
Alla fine del 1931 era riuscita ad aprire il proprio studio fotografico, continuando a lavorare su reportage giornalistici commissionati da agenzie di stampa. La famosa fotografia del bambino che cammina lungo una strada, portando sulla schiena un violoncello, Boys with Cello, risale a quel periodo, così come la serie di foto dei portuali sulla Sprea, dei carbonai in strada, degli operai ad Alexanderplatz, allora il più grande cantiere in Europa.
Nell’autunno del 1932, per l’ondata crescente di antisemitismo, si vide costretta a lasciare Berlino per trasferirsi ad Amsterdam, dove era entrata a far parte della schiera di artisti che ruotavano intorno alla pittrice Charley Toorop (dedita a sviluppare lo stile pittorico del realismo sociale).
Le immagini di quel tempo includono molte iconiche fotografie su temi sociali. Il suo lavoro diventava sempre più politico, mentre si consolidava anche la sua reputazione come fotografa di architettura secondo l’idea di Nuova costruzione funzionalista, edifici creati dando priorità all’utilità funzionale, anziché all’estetica.
Ha fatto parte del Vereeniging van Arbeiders Fotografen (VAF), associazione di fotografi affiliata all’allora Partito Comunista dei Paesi Bassi, collaborato con la rivista socialista illustrata Noi. Il nostro lavoro, la nostra vita e fatto parte della BKVK (Associazione delle arti per la protezione dei diritti culturali) con cui ha organizzato la mostra di protesta del 1936 contro i Giochi Olimpici di Berlino “D-O-O-D” (De Olympiade onder Diktatuur).
Nel 1937 è stata fautrice della mostra internazionale Foto ’37, allo Stedelijk Museum di Amsterdam, a cui parteciparono i più noti fotografi del tempo.
Per la resistenza olandese produceva fototessere per carte d’identità di persone appartenenti a gruppi clandestini.
L’invasione tedesca del maggio 1940, la costrinse, come ebrea, a vivere in clandestinità.
Dopo il Decreto Giornalistico del maggio 1941, non poté più pubblicare con il proprio nome a causa delle sue origini ebraiche e venne costretta a usare uno pseudonimo, Wim Brusse.
Attratta da una visione del mondo plasmata dall’umanesimo, negli anni del dopoguerra, le sue fotografie divennero stilisticamente decisive per il neorealismo.
Ha partecipato a mostre collettive al MoMa di New York e ricevuto la medaglia d’oro alla Prima Biennale della Fotografia di Venezia, nel 1957.
Negli anni ’70 è stata la “portavoce visiva” del movimento femminista marxista olandese Dolle Mina partecipando, come attivista, alle performance di strada che mescolavano umorismo e provocazione in un’atmosfera giocosa.
Nel 1980 rifiutò il Ritterorden (cavalierato) che le avrebbe voluto conferire la Regina dei Paesi Bassi.
Nel 1982 c’è stata la sua prima retrospettiva all’Amsterdam Historical Museum, dove era esposto circa mezzo secolo del suo lavoro.
Nel 1999, a Berlino, ha ricevuto il premio Dr. Erich Salomon per il lavoro svolto nella sua carriera e alla fine dello stesso anno il Museo Stedelijk le ha dedicato una mostra.
Si è spenta a Laren, in Olanda, il 12 dicembre 2003.
Gran parte delle sue foto sono conservate al Maria Austria Instituut di Amsterdam.
Nel 2021 una mostra online in corso al Museo Kassák di Budapest ha esplorato i punti di vista e di svolta della sua vita, dai primi autoritratti e fotografie sociali in Ungheria, agli anni esteticamente formativi a Berlino, fino al successo e alle prestigiose commissioni nei Paesi Bassi.
Eva Besnyo: 1910-2003: Fotografin / Woman Photgrapher: Budapest. Berlin. Amsterdam è il libro che racconta il suo percorso artistico.
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tso-party · 2 years ago
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La mia buona stella si è schiantata a terra, è iniziata un’altra piccola era delle tenebre. c’è ghiaccio che copre ogni cosa, disegna dei piccoli arabeschi sulle auto parcheggiate. a volte mi rilassa pensare alla precisione con cui le punte dei suoi capelli arrivano alla sua mascella. i festeggiati al funerale di ieri eravamo noi, mi faceva sorridere l’atmosfera che c’era al locale, mi sembravano tutti lavoratori portuali sfiniti a fine giornata. aveva un senso anche l’assenza del verso dei gabbiani o del fragore delle onde contro la battigia. quella aveva più senso con il funerale surreale a cui si arriva sulle proprie gambe. come al solito ho aggredito il tappo della birra e ho grattato con le unghie il rivestimento interno fino a staccarlo. le tue espressione smarrite le provocavo io. la tristezza che vedevo nei suoi occhi, che mi faceva pensare che in fondo quella maledetta famiglia del Mulino Bianco non lo aveva allontanato troppo da me, era la mia tristezza, non una uguale, ma proprio la mia. la mia angoscia che pesa come un macigno su 23 anni di cattolicissima, indipendente e con una vergognosa etica del lavoro, sanità mentale. sono lo spettro sbiadito che piscia in un parcheggio dopo essersi fatta scopare da uno che sarà così gentile da non ricontattami mai più così che io possa diventare una musa dal trucco colato. s. non mi piaceva ma a lui io piacevo davvero. ha scritto una canzone su di me, una canzone semplice per descrivere la manic pixie dream girl che da piccola sognavo di diventare. ci si sta quasi comodi in una canzone di 3 minuti in cui ci si specchia nella pozza del proprio piscio, sedotta e abbandonata. una bottiglia di plastica come unica compagna. sto più scomoda sulla mia poltrona reclinabile. RIDICOLO. ma immagino che lo sapesse di essere ridicolo con i suoi sentimenti non ricambiati. al locale ci volevo andare per guardare i suoi fianchi perfetti volteggiare tra i tavoli e quel collo da cigno da mille e una angolazione diversa. perché prima che l’inverno cadesse impietoso e portasse con sé marce funebri e livelli di litio troppo bassi nel sangue, lo amavo. non c’è mai stato nessun parcheggio fra di noi ma lo amavo malissimo come so fare solo io.
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