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#ormai non si capisce più niente qui ragazzi
pgfone · 2 years
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Fungo in giardino.
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corallorosso · 3 years
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“Ragazzi scuoiati vivi, bambine abusate. Io piango e vomito”… – Sacchi pieni di morti, ragazzini scuoiati vivi, bimbi morti di fame, e le donne tutte violentate. Difficile persino riconoscere questi corpi: molti non hanno più nemmeno le impronte digitali. Questi sono i “pazienti” del dottor Pietro Bartolo, medico di Lampedusa, che da decenni ormai accoglie i migranti stremati dalla traversata, quelli vivi e quelli morti. Il racconto di quanto ha vissuto nei suoi anni di servizio lo ha fatto Virginia Di Vivo, una studentessa di Medicina dell’Università di Modena. Questo il suo post su Facebook. “Mi reco molto assonnata al congresso più inflazionato della mia carriera universitaria, conscia che probabilmente mi addormenterò nelle file alte dell’aula magna. Mi siedo, leggo la scaletta, la seconda voce è “sanità pubblica e immigrazione: il diritto fondamentale alla tutela della salute”. Inevitabilmente penso “e che do bali”. Accendo Pokémon Go, che sono sopra una palestra della squadra blu. Mi accingo a conquistarla per i rossi. Comincia a parlare il tale Dottor Pietro Bartolo, che io non so chi sia. Non me ne curo. Ero lì che tentavo di catturare un bulbasaur e sento la sua voce in sottofondo: non parla di epidemiologia, di eziologia, non si concentra sui dati statistici di chissà quale sindrome di lallallà. Parla di persone. Continua a dire “persone come noi”. Decido di ascoltare lui con un orecchio e bulbasaur con l’altro. Bartolo racconta che sta lì, a Lampedusa, ha curato 350mila persone, che c’è una cosa che odia, cioè fare l’ispezione cadaverica. Che molti non hanno più le impronte digitali. E lui deve prelevare dita, coste, orecchie. Lo racconta: “Le donne? Sono tutte state violentate. TUTTE. Arrivano spesso incinte. Quelle che non sono incinte non lo sono non perché non sono state violentate, non lo sono perché i trafficanti hanno somministrato loro in dosi discutibili un cocktail estroprogestinico, così da essere violentate davanti a tutti, per umiliarle. Senza rischi, che le donne incinte sul mercato della prostituzione non fruttano”. Mi perplimo”. A quel punto la studentessa si domanda: “Ma non era un congresso ad argomento clinico? Dove sono le terapie? Perché la voce di un internista non mi sta annoiando con la metanalisi sull’utilizzo della sticazzitina tetrasolfata? Decido di mollare bulbasaur, un secondino, poi torno Bulba, devo capire cosa sta dicendo questo qua. “Su questi barconi gli uomini si mettono tutti sul bordo, come una catena umana, per proteggere le donne, i bambini e gli anziani all’interno, dal freddo e dall’acqua. Sono famiglie. Famiglie come le nostre”. Mostra una foto, vista e rivista, ma lui non è retorico, non è formale. È fuori da ogni schema politically correct, fuori da ogni comfort zone. “Una notte mi hanno chiamato: erano sbarcati due gommoni, dovevo andare a prestare soccorso. Ho visitato tutti, non avevano le malattie che qualcuno dice essere portate qui da loro. Avevano le malattie che potrebbe avere chiunque. Che si curano con terapie banali. Innocue. Alcuni. Altri sono stati scuoiati vivi, per farli diventare bianchi. Questo ragazzo ad esempio”, mostra un’altra foto, tutt’altro che vista e rivista. Un giovane, che avrà avuto 15/16 anni, affettato dal ginocchio alla caviglia. Mi dimentico dei Pokémon. “Lui è sopravvissuto agli esperimenti immondi che gli hanno fatto. Suo fratello, invece, non ce l’ha fatta. Lui è morto per essere stato scuoiato vivo”. Metto il cellulare in tasca. ”Qualcuno mi dice di andare a guardare nella stiva, che non sarà un bello spettacolo. Così scendo, mi sembrava di camminare su dei cuscini. Accendo la torcia del mio telefono e mi trovo questo..”. Mostra un’altra foto. Sembrava una fossa comune. Corpi ammassati come barattoli di uomini senza vita. “Questa foto non è finta. L’ho fatta io. Ma non ve la mostrano nei telegiornali. Sono morti li, di asfissia. Quando li abbiamo puliti ho trovato alcuni di loro con pezzi di legno conficcati nelle mani, con le dita rotte. Cercavano di uscire. Avevano detto loro che siccome erano giovani, forti e agili rispetto agli altri, avrebbero fatto il viaggio nella stiva e poi, con facilità, sarebbero usciti a prendere aria presto. E invece no. Quando l’aria ha cominciato a mancare, hanno provato ad uscire dalla botola sul ponte, ma sono stati spinti giù a calci, a colpi in testa. Sapeste quanti ne ho trovati con fratture del cranio, dei denti. Sono uscito a vomitare e a piangere. Sapeste quanto ho pianto in 28 anni di servizio, voi non potete immaginare”. Ora non c’è nessuno in aula magna che non trattenga il fiato, in silenzio. “Ma ci sono anche cose belle, cose che ti fanno andare avanti. Una ragazza. Era in ipotermia profonda, in arresto cardiocircolatorio. Era morta. Non avevamo niente. Ho cominciato a massaggiarla. Per molto tempo. E all’improvviso l’ho ripresa. Aveva edema, di tutto. È stata ricoverata 40 giorni. Kebrat era il suo nome. È il suo nome. Vive in Svezia. È venuta a trovarmi dopo anni. Era incinta” ci mostra la foto del loro abbraccio”. Di Vivo spiega la preoccupazione di Bartolo: “La gente non capisce. C’è qualcuno che ha parlato di razza pura. Ma la razza pura è soggetta a più malattie. Noi contaminandoci diventiamo più forti, più resistenti. E l’economia? Queste persone, lavorando, hanno portato miliardi nelle casse dell’Europa. E io aggiungo che ci hanno arricchito con tante culture. A Lampedusa abbiamo tutti i cognomi del mondo e viviamo benissimo. Ci sono razze migliori di altre, dicono. Si, rispondo io. Loro sono migliori. Migliori di voi che asserite questo”. Fa partire un video e descrive: “Questo è un parto su una barca. La donna era in condizioni pietose, sdraiata per terra. Ho chiesto ai ragazzi un filo da pesca, per tagliare il cordone. Ma loro giustamente mi hanno risposto “non siamo pescatori”. Mi hanno dato un coltello da cucina. Quella donna non ha detto bau. Mi sono tolto il laccio delle scarpe per chiudere il cordone ombelicale, vedete? Lei mi ringraziava, era nera, nera come il carbone. Suo figlio invece era bianchissimo. Si perché loro sono bianchi quando nascono, poi si inscuriscono dopo una decina di giorni. E che problema c’è, dico io, se nascono bianchi e poi diventano neri? Ha chiamato suo figlio Pietro. Quanti Pietri ci sono in giro!”. Sorridiamo tutti. “Quest’altra donna, invece, è arrivata in condizioni vergognose, era stata violentata, paralizzata dalla vita in giù… Era incinta. Le si erano rotte le acque 48 ore prima. Ma sulla barca non aveva avuto lo spazio per aprire le gambe. Usciva liquido amniotico, verde, grande sofferenza fetale. Con lei una bambina, anche lei violentata, aveva 4 anni. Aveva un rotolo di soldi nascosto nella vagina. E si prendeva cura della sua mamma. Tanto che quando cercavo di mettere le flebo alla mamma lei mi aggrediva. Chissà cosa aveva visto. Le ho dato dei biscotti. Lei non li ha mangiati. Li ha sbriciolati e ci imboccava la mamma. Alla fine le ho dato un giocattolo. Perché ci arrivano una montagna di giocattoli, perché la gente buona c’è. Ma quella bimba non l’ha voluto. Non era più una bambina ormai.” (…) “Ci mostra un altro video. Dei sommozzatori estraggono da una barca in fondo al mare dei corpi esanimi. “Non sono manichini” ci dice. Il video prosegue. Un uomo tira fuori dall’acqua un corpicino. Piccolo. Senza vita. Indossava un pantaloncino rosso. “Quel bambino è il mio incubo. Io non lo scorderò mai”. Non riesco più a trattenere le lacrime. E il rumore di tutti coloro che, alternandosi in aula, come me, hanno dovuto soffiarsi il naso. “E questo è il risultato” ci mostra l’ennesima foto. “368 morti. Ma 367 bare. Si. Perché in una c’è una mamma, arrivata morta, col suo bambino ancora attaccato al cordone ombelicale. Sono arrivati insieme. Non abbiamo voluto separarli, volevamo che rimanessero insieme, per l’eternità”. Il post si conclude con le parole della Di Vivo: “Penso che possa bastare così. E questo è un estratto. Si, perché il Dottor Bartolo ha parlato per un’ora. Gli altri relatori hanno lasciato a lui il loro tempo. Nessuno ha osato interromperlo. E quando ha finito tutti noi, studenti, medici e professori, ci siamo alzati in piedi e abbiamo applaudito, per lunghi minuti. E basta. Lui non ha bisogno di aiuto, “non venite a Lampedusa ad aiutarci, ce l’abbiamo sempre fatta da soli noi lampedusani. Se non siete medici, se non sapete fare nulla e volete aiutare, andate a raccontare quello che avete sentito qui, fate sapere cosa succede a coloro che dicono che c’è l’invasione. Ma che invasione!”… (ninofezzacinereporter)
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ad-ovest-della-luna · 5 years
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Generalmente non mi espongo su questi fatti, perché non sono informata a modo, ma questa cosa ve la devo troppo raccontare. Mi reco molto assonnata al congresso più inflazionato della mia carriera universitaria, conscia che probabilmente mi addormenterò nelle file alte dell’aula magna. Mi siedo, leggo la scaletta, la seconda voce è “sanità pubblica e immigrazione: il diritto fondamentale alla tutela della salute”. Inevitabilmente penso “e che do bali”. Accendo Pokémon Go, che sono sopra una palestra della squadra blu. Mi accingo a conquistarla per i rossi. Comincia a parlare il tale Dottor Pietro Bartolo, che io non so chi sia. Non me ne curo. Ero lì che tentavo di catturare un bulbasaur e sento la sua voce in sottofondo: non parla di epidemiologia, di eziologia, non si concentra sui dati statistici di chissà quale sindrome di *lallallà*. Parla di persone. Continua a dire “persone come noi”. Decido di ascoltare lui con un orecchio e bulbasaur con l’altro. Bartolo racconta che sta lì, a Lampedusa, ha curato 350mila persone, che c’è una cosa che odia, cioè fare il riconoscimento cadaverico. Che molti non hanno più le impronte digitali. E lui deve prelevare dita, coste, orecchie. Lo racconta:”Le donne? Sono tutte state violentate. TUTTE. Arrivano spesso incinte. Quelle che non sono incinte non lo sono non perché non sono state violentate, non lo sono perché i trafficanti hanno somministrato loro in dosi discutibili un cocktail antiprogestinico, così da essere violentate davanti a tutti, per umiliarle. Senza rischi, che le donne incinte sul mercato della prostituzione non fruttano”. Mi perplimo. Ma non era un congresso ad argomento clinico? Dove sono le terapie? Perché la voce di un internista non mi sta annoiando con la metanalisi sull’utilizzo della sticazzitina tetrasolfata? Decido di mollare bulbasaur, un secondino, poi torno Bulba, devo capire cosa sta dicendo questo qua. “Su questi barconi gli uomini si mettono tutti sul bordo, come una catena umana, per proteggere le donne, i bambini e gli anziani all’interno, dal freddo e dall’acqua. Sono famiglie. Famiglie come le nostre”. Mostra una foto, vista e rivista, ma lui non è retorico, non è formale. È fuori da ogni schema politically correct, fuori da ogni comfort zone. “Una notte mi hanno chiamato: erano sbarcati due gommoni, dovevo andare a prestare soccorso. Ho visitato tutti, non avevano le malattie che qualcuno dice essere portate qui da loro. Avevano le malattie che potrebbe avere chiunque. Che si curano con terapie banali. Innocue. Alcuni. Altri sono stati scuoiati vivi, per farli diventare bianchi. Questo ragazzo ad esempio”, mostra un’altra foto, tutt’altro che vista e rivista. Un giovane, che avrà avuto 15/16 anni, affettato dal ginocchio alla caviglia. Mi dimentico dei Pokémon. “Lui è sopravvissuto agli esperimenti immondi che gli hanno fatto. Suo fratello, invece, non ce l’ha fatta. Lui è morto per essere stato scuoiato vivo”. Metto il cellulare in tasca. ”Qualcuno mi dice di andare a guardare nella stiva, che non sarà un bello spettacolo. Così scendo, mi sembrava di camminare su dei cuscini. Accendo la torcia del mio telefono e mi trovo questo..” Mostra un’altra foto. Sembrava una fossa comune. Corpi ammassati come barattoli di uomini senza vita. “Questa foto non è finta. L’ho fatta io. Ma non ve la mostrano nei telegiornali. Sono morti li, di asfissia. Quando li abbiamo puliti ho trovato alcuni di loro con pezzi di legno conficcati nelle mani, con le dita rotte. Cercavano di uscire. Avevano detto loro che siccome erano giovani, forti e agili rispetto agli altri, avrebbero fatto il viaggio nella stiva e poi, con facilità, sarebbero usciti a prendere aria presto. E invece no. Quando l’aria ha cominciato a mancare, hanno provato ad uscire dalla botola sul ponte, ma sono stati spinti giù a calci, a colpi in testa. Sapeste quanti ne ho trovati con fratture del cranio, dei denti. Sono uscito a vomitare e a piangere. Sapeste quanto ho pianto in 28 anni di servizio, voi non potete immaginare”. Ora non c’è nessuno in aula magna che non trattenga il fiato, in silenzio. “Ma ci sono anche cose belle, cose che ti fanno andare avanti. Una ragazza. Era in ipotermia profonda, in arresto cardiocircolatorio. Era morta. Non avevamo niente. Ho cominciato a massaggiarla. Per molto tempo. E all’improvviso l’ho ripresa. Aveva edema, di tutto. È stata ricoverata 40 giorni. Kebrat era il suo nome. È il suo nome. Vive in Svezia. È venuta a trovarmi dopo anni. Era incinta” ci mostra la foto del loro abbraccio. “..Si perché la gente non capisce. C’è qualcuno che ha parlato di razza pura. Ma la razza pura è soggetta a più malattie. Noi contaminandoci diventiamo più forti, più resistenti. E l’economia? Queste persone, lavorando, hanno portato miliardi nelle casse dell’Europa. E io aggiungo che ci hanno arricchito con tante culture. A Lampedusa abbiamo tutti i cognomi del mondo e viviamo benissimo. Ci sono razze migliori di altre, dicono. Si, rispondo io. Loro sono migliori. Migliori di voi che asserite questo”. Fa partire un video e descrive:”Questo è un parto su una barca. La donna era in condizioni pietose, sdraiata per terra. Ho chiesto ai ragazzi un filo da pesca, per tagliare il cordone. Ma loro giustamente mi hanno risposto “non siamo pescatori”. Mi hanno dato un coltello da cucina. Quella donna non ha detto bau. Mi sono tolto il laccio delle scarpe per chiudere il cordone ombelicale, vedete? Lei mi ringraziava, era nera, nera come il carbone. Suo figlio invece era bianchissimo. Si perché loro sono bianchi quando nascono, poi si inscuriscono dopo una decina di giorni. E che problema c’è, dico io, se nascono bianchi e poi diventano neri? Ha chiamato suo figlio Pietro. Quanti Pietri ci sono in giro!”. Sorridiamo tutti. “Quest’altra donna, invece, è arrivata in condizioni vergognose, era stata violentata, paralizzata dalla vita in giù... Era incinta. Le si erano rotte le acque 48 ore prima. Ma sulla barca non aveva avuto lo spazio per aprire le gambe. Usciva liquido amniotico, verde, grande sofferenza fetale. Con lei una bambina, anche lei violentata, aveva 4 anni. Aveva un rotolo di soldi nascosto nella vagina. E si prendeva cura della sua mamma. Tanto che quando cercavo di mettere le flebo alla mamma lei mi aggrediva. Chissà cosa aveva visto. Le ho dato dei biscotti. Lei non li ha mangiati. Li ha sbriciolati e ci imboccava la mamma. Alla fine le ho dato un giocattolo. Perché ci arrivano una montagna di giocattoli, perché la gente buona c’è. Ma quella bimba non l’ha voluto. Non era più una bambina ormai.” Foto successiva. “Questa foto invece ha fatto il giro del mondo. Lei è Favour. Hanno chiamato da tutto il mondo per adottarla. Lei è arrivata sola. Ha perso tutti: il suo fratellino, il suo papà. La sua mamma prima di morire per quella che io chiamo la malattia dei gommoni, che ti uccide per le ustioni della benzina e degli agenti tossici, l’ha lasciata ad un’altra donna, che nemmeno conosceva, chiedendole di portarla in salvo. E questa donna, prima di morire della stessa sorte, me l’ha portata. Ma non immaginate quanti bambini, invece, non ce l’hanno fatta. Una volta mi sono trovato davanti a centinaia di sacchi di colori diversi, alcuni della Finanza, alcuni della polizia. Dovevo riconoscerli tutti. Speravo che nel primo non ci fosse un bambino. E invece c’era proprio un bambino. Era vestito a festa. Con un pantaloncino rosso, le scarpette. Perché le loro mamme fanno così. Vogliono farci vedere che i loro bambini sono come i nostri, uguali”. Ci mostra un altro video. Dei sommozzatori estraggono da una barca in fondo al mare dei corpi esanimi. “Non sono manichini” ci dice. Il video prosegue. Un uomo tira fuori dall’acqua un corpicino. Piccolo. Senza vita. Indossava un pantaloncino rosso. “Quel bambino è il mio incubo. Io non lo scorderò mai”. Non riesco più a trattenere le lacrime. E il rumore di tutti coloro che, alternadosi in aula, come me, hanno dovuto soffiarsi il naso. “E questo è il risultato” ci mostra l’ennesima foto. “368 morti. Ma 367 bare. Si. Perché in una c’è una mamma, arrivata morta, col suo bambino ancora attaccato al cordone ombelicale. Sono arrivati insieme. Non abbiamo voluto separarli, volevamo che rimanessero insieme, per l’eternità”. Penso che possa bastare così. E questo è un estratto. Si, perché il Dottor Bartolo ha parlato per un’ora. Gli altri relatori hanno lasciato a lui il loro tempo. Nessuno ha osato interromperlo. E quando ha finito tutti noi, studenti, medici e professori, ci siamo alzati in piedi e abbiamo applaudito, per lunghi minuti. E basta. Lui non ha bisogno di aiuto, “non venite a Lampedusa ad aiutarci, ce l’abbiamo sempre fatta da soli noi lampedusani. Se non siete medici, se non sapete fare nulla e volete aiutare, andate a raccontare quello che avete sentito qui, fate sapere cosa succede a coloro che dicono che c’è l’invasione. Ma che invasione!”. E io non mi espongo, perché non so le cose a modo. Ma una cosa la so. E cioè che questo è vergognoso, inumano, vomitevole. E non mi importa assolutamente nulla del perché sei venuto qui, se sei o no regolare, se scappi dalla guerra o se vieni a cercare fortuna: arrivare così, non è umano. E meriti le nostre cure. Meriti un abbraccio. Meriti rispetto. Come, e forse più, di ogni altro uomo.
Virginia Di Vivo
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Boom!
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01.09.2076
[...]
I: le tocca aprire la bocca e boccheggiare tipo cagnolino. Il tutto mentre il tappeto vibra, lei tossicchia e la cameriera li invita ad essere coraggiosi. Se fosse ancora viva tornerebbe a rivolgersi a Katrine. «Via Warren, sarò buona» sarà colpa del peperoncino. «Raccontaci la tua prima volta: dove, quando, come e con chi» un grande classico, no? Con tanto di ammicc al seguito e aggiunta finale. «E soprattutto...che cosa cambieresti?» Si sa, c`è sempre da cambiare qualcosa.
K: le iridi fissano Ilary in modo quasi glaciale, deglutisce per poi mordersi le labbra sembra quasi raggelare tutta la stanza, ma poi torna di botto «Un grifondoro di un`anno più grande di me, io ero al sesto anno..in una stanza abbandonata o in disuso del castello non ricordo precisamente quale delle due fosse o forse era abbandonata perché non più usata...insomma ero ubriaca perché non mi avevano preso per la coppa, o forse era perché Adam aveva pomiciato con un`altra... non ricordo» parla a macchinetta «insomma questo grifondoro del settimo anno campione tre maghi... sai quando si dice " ti do un dito e ti prendi il braccio..." beh lui ha preso tutto il pacchetto completo e fine..»pausa e un grosso respiro per poi aggiungere «Quella che ricordo bene, e che per me vale come prima, è invece stata qualche mese dopo con Adam, dopo avergli fatto un balletto di burlesque per il suo compleanno, mi ha portato a casa sua, nella casa sull`albero e anche li...mi sono presa tutto il pacchetto»ride, ride davvero.
BOOM, un’altra esplosione. E questa volta proprio in faccia a KATRINE. Il cocktail le inonda il volto, macchiandole tutta la parte frontale della maglia e gocciolandole lungo il corpo. Le goccioline negli occhi sono decisamente fastidiose per via del peperoncino. «Oh, non vale mentire.» sogghigna la cameriera, «Prego, di qua.» deve abbandonare il campo, «Può continuare a godersi le altre attrazioni, non vada via, mi raccomando.»
I: la reazione di Katrine non se la poteva immaginare perché no, ovviamente NON SA, ma dal modo in cui sgrana le iridi di riflesso si direbbe che abbia capito al volo. Deglutisce a vuoto «...» e non fa in tempo a partorire una battuta per sciogliere la tensione che lei prende parola, beccandosi uno sguardo confuso e due occhi sbarrati carichi di mortificazione. Che poi si fanno lucidi, mentre lei annuisce lentamente, tanto per farle capire che capisce. Oh, se capisce. «Credo di sapere cosa cambieresti, allora» un timido tentativo di sdrammatizzare, con una dolcezza tanto lieve che rischia di stonare coi toni accesi e vivaci di quel luna park. Quanto il sorriso acquoso e genuino che le incurva le labbra al secondo racconto. Allunga una manciata di zucchero in direzione di Kat «Lo sai che la mia prossima domanda si trasformerà in un obbligo, vero? MI DEVI UN BALLETTO DI BURLESQUE, WARREN!» Perché buttarla in caciara le sembra tanto la cosa migliore e speriamo che lo sia anche per Kat, a cui scocca un`ultima occhiata attenta.Sobbalza, e il tappeto con lei, costringendola ad aggrapparsi al tavolo per non cappottarsi, mentre parte del drink di Kat le finisce addosso, facendola scoppiare inevitabilmente a ridere. «Merlino, che spreco di drink!» la rimbecca con le lacrime agli occhi, affrettandosi a recuperare dalla propria borsetta il piccolo bauletto del kit. «Ehi ehi, prendi questo!» provando a lanciarlo a Kat prima che scenda dal tappeto. «Ingrandiscilo, dentro ci trovi sicuro delle gocce di ruta. Per gli occhi» mica scema, è arrivata preparata. «Sentiti libera di medicare chi capita, ti cedo l`abilitazione per una sera».
K: Tra la risposta di Eileen e la domanda successiva si perde un secondo nei suoi pensieri giusto qualche secondo, prima che gli scoppi il drink in faccia, e lei non se lo aspetta proprio; è stata sincera, avrebbe potuto mentire, o bere e saltare la domanda, invece ha cercato nei suoi ricordi quello che ricordava davvero.. e non tanto della prima volta con Ade, quella è incisa nella sua mente, quanto la prima volta con il grifondoro. Ma non importa quello che lei sa, il cocktail è esploso erroneamente alla domanda peggiore tra tutte; perché per quanto alcuni di loro sappiano la verità più scomoda, gli altri presenti penseranno che lei abbia mentito su qualcosa, suo marito e Harry nei tavoli vicini, vedendola, penseranno che lei abbia mentito su una delle domande; persino Ilary potrebbe pensare di non conoscerla davvero. Si alza di scatto mentre le goccioline sugli occhi le pizzicano davvero, si alza cercando di pulirsi, per poi alzare le iridi verso Ilary serrando la mascella, poco prima di lasciarsi accompagnare nei tavolini vicini; Ilary le lancia il kit ma sbadatamente(?) Kat lo lascia cadere e rimbalzare sul tappeto ancora per un po`. Se non fosse per Adam ancora li, sarebbe davvero andata via.. e si sta maledicendo per non aver bevuto, pare dunque che quel grifondoro maledetto sia ancora nonostante tutto sempre la sua maledizione peggiore. Melodrammatica?! forse, ma comprendetela un pochino anche voi, in fondo voleva solo divertirsi, e quello non è stato per niente divertente.
[...]
I: Buffo, poi, come si possa passare tanto velocemente dall`allegra ilarità di un drink esploso che avrebbe dovuto mandare tutto in caciara (almeno per chi sa come funziona) e l`atterrimento più totale nel rendersi conto che -per chi non lo sa- è un brutto colpo. Non può fare altro che ricambiare lo sguardo di Kat con occhi umidi e allargati di un dispiacere che non riesce a mettere in parole. Qui le cose si sono fatte serie e lei spera solo di poter salvare almeno le apparenze con qualche battuta e il lancio di un kit. Che invece rimbalza a vuoto su quel tappeto elastico, mentre la Warren si allontana.  «KAT!» Un urlo ci prova a lanciarlo, per sovrastare la confusione, sgomitando e sgusciando fra un cappello e un mantello per provare a raggiungerla...prima di Adam.
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K: la raggiunge Harry e per quanto vorrebbe essere infantile e esplodere si trattiene, si trattiene tutto che forse è ancora peggio, fa spallucce al suo dire, ma le uniche parole che proferisce dopo tempo sono «Puoi farne due?» riferendosi alla barista quasi in richiesta d`aiuto; non vuole parlare e attualmente l`unica cosa che vuole fare è concludere la serata in un modo o nell`altro, viene raggiunta da Adam poco prima di Ilary e si lascia coccolare in modo del tutto naturale -o glaciale- ad ogni modo sta al gioco e gli sorride seppur non dica nulla di troppo o di troppo poco «Ne vuoi uno?!»indica lo scotch probabilmente appena arrivato, prima di buttarlo giù tutto d`un fiato «Son qui» fa una pausa «siamo tutti qui»aggiunge guardandosi intorno, non la guarda del tutto, non la scruta perché non sa neanche lei cosa possa dire o fare e Ilary non se lo merita, non si merita quella parte di lei, quindi la lascia li in disparte per un po` rivolgendosi a tutti «Direi che la serata è andata bene no?!»domanda retoricamente rivolta verso Harry. Abbraccia Adam tenendolo a se quasi a voler marcare un territorio che per troppi anni l`è scivolato dalle mani, piccoli gesti che per lei in quel momento sono terra ferma, un`ancora ben salda...trovate voi la metafora «Facciamo un giro di qualcosa di più classico?!»domanda verso tutti spostando le iridi da Harry, ad Adam a Ilary infine.
I: si sistema fra lui e Kat; ��Super alcolici» sente di poter ordinare per entrambi, ora abbastanza vicina a Kat da poterle parlare. Sebbene non esattamente in privato. L`unico contatto che cerca è quello dello spalla contro spalla, il tono il più possibile disinvolto. E` il suo turno di Imperio o Veritaserum, solo che solo Kat lo sa. «E` successo anche a me, sai?» Cose da gioco, non sarà difficile immaginarselo per Harry e Adam. Nulla di cui preoccuparsi. «Cioè, non ero ubriaca ma non si può nemmeno dire che fossi proprio proprio lucida» incomincia. «E... beh, anche io sono rimasta sola dopo. E anche se me lo aspettavo, non è stato comunque il mio momento migliore» arricciando il nasino e allungando le manine nella speranza si sia palesato nel frattempo chissà quale drink a cui rubare un sorso.
K: «no.» la ferma, la ferma subito prima che si facciano male entrambe «non qui» una pausa a guardarsi intorno mentre intorno a loro la serata prosegue «non ora» continua parlando come se fossero delle piccole spacciatrici che si organizzano senza farsi beccare «non così..» lascia il braccio di Adam accarezzandoglielo e girandosi in modo da dare le spalle ai ragazzi per qualche istante ma rimanendo udibile per Ilary «non deve essere questo, non si aggiusta raccontando di forza una cosa così importante..» fa una pausa voltandosi nuovamente quasi ad aver cercato fazzolettini, noccioline, non lo sa neanche lei «avremo modo..ma non stasera» scuote la testolina portando nuovamente quel sorriso da bambolina che tiene da ormai una buona mezz`ora; «sto bene» oooh se solo il drink potesse scoppiare adesso, ma è giusto così, the show must go on, e non è giusto rovinare la serata a Harry, non è giusto per una cosa di poca importanza, per una cosa passata, per una persona..
I: «Beh» arriccia il naso, abbassando ancora di più il tono della voce, in barba ai sospetti che potrebbero suscitare. «Non è a forza se te la dico perché voglio» autentica, nell`occhiata vitrea e intensa che le rifila, perché sicuro non glielo avrebbe detto controvoglia, nemmeno per rimediare. Glielo ha detto perché si fida, perché «lo avrei fatto comunque...prima o poi» giocherellando appena con le dita del Signor Duffany. «E poi ho ricordi peggiori, te lo assicuro» tragicomica, eppure è la verità, tanto che nell`intercettare lo sguardo altrui rischia quasi di scapparle un risolino. Che si deve fare tanto? Riderci e berci sù. «Se vuoi possiamo montarci un altro gioco sopra...uno coi controbolidi però, tanto alcol. Si dorme insieme» propone solenne, interpretando così le battute finali della Warren.«No, non è vero» calma e tranquilla, almeno tanto quanto sincera. «Ma va bene così» cercando di darle una piccola spintarella di spalla e di rubarle un bacetto a caso fra la chioma scura.
K: Annuisce seria «lo faremo»fa una pausa teatrale quasi «ma saremo solo noi e nessun`altro»annuisce a se stessa e alle parole successive di Ilary «Voglio esserci quando lo faremo..»stringe gli occhi cercando di capire se il senso si sia capito «Forse ci ubriacheremo dopo, ma voglio esserci quando racconteremo, voglio ricordare ogni gesto, sensazione e racconto..almeno finché si possa babbanamente sopportare». Si rivolta dando le spalle al bancone e tornando con la mancina a cercare Adam «ma per il dormire ci sto»; Fa spallucce e un mezzo sorriso in risposta al "non è vero" di Ilary, e lascia cadere il discorso senza troppi pensieri,
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chiamatemefla · 5 years
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A novembre già nessuno gioca più nel campetto dietro al supermercato, l’erba è di nuovo a chiazze e qualcuno ha portato via le reti dalle porte, pronti a rimontarle con l’arrivo della bella stagione. Non è neanche il freddo, a dir la verità, a scoraggiare i ragazzi che ogni estate si radunano in quella macchia verde, ché negli ultimi anni il tempo è diventato via via più clemente e giornate di grosse nuvole innocue ed umidità hanno sostituito le lunghe ore di pioggia della sua infanzia,.
È forse solo una sorta di rito di passaggio che porta tutta al gioventù di quel buco di mondo a transumare verso il campetto coperto in cima alla collina non appena si supera il quindici ottobre, una piccola tradizione che porta il bar della palestra accanto al campetto coperto a fare affari d’oro sei mesi l’anno.
Infila le mani nelle tasche del giacchetto e salta un po’ sul posto, non tanto per scaldarsi quanto più per svegliarsi, i libri nello zaino che si muovono su è giù contro la sua schiena e le chiavi di casa che suonano nella tasca della tuta.
Di Antonio ancora nessuna traccia, constata, dando un’occhiata all’orologio a cui deve decidersi a cambiare il cinturino - è un regalo di suo zio e gli costa fatica pensare che potrebbe non essere più com’era quando glielo ha regalato cinque anni prima, ognuno ha i suoi problemi
Può darsi che quello di Antonio sia, un po’ come al solito, il tizio delle ripetizioni di matematica che non lo lascia andare e che poi pretende anche di farsi pagare le mezz’ore in più che lui si prende senza che nessuno glielo chieda.
«Dovresti cambiare tizio delle ripetizioni.» è il modo in cui si salutano ogni giovedì intorno alle cinque e mezzo, quando finalmente Simone lascia andare il suo amico e possono farsi due tiri in porta senza che nessuno si metta tra il pallone e la cornice di ferro.
«In paese c’è solo lui, io non mi faccio venti minuti di autobus per sentirmi dire che so fare le cose e poi prendere tre e mezzo ai compiti.» è la risposta di Antonio mentre appoggia lo zaino contro gli scalini di cemento a bordo campo e controlla che il piede non gli faccia troppo male per giocare.
Flavio l’ha conosciuto due estati fa, saltellante su un piede solo, l’altro ingessato e, a suo dire, dolorante, mentre se ne stava seduto su quegli stessi gradini di cemento a guardarli giocare sotto alla calura di un fine agosto stranamente spensierato anche per Giacomo che, per la prima volta, non si era portato a settembre neanche una materia.
Avrebbe scoperto solo a settembre che era il figlio della nuova preside delle scuole medie, che si era rotto il piede trasportando il tapis roulant che sua madre aveva comprato, e che abitava nell’appartamento proprio accanto a quello di Gabriele - il quale, dal canto suo, non l’aveva visto che due volte perché passava la maggior parte delle sue giornate a casa di Flavio.
Quell’agosto di un anno fa Antonio era una persona diversa: più silenzioso, quasi imbronciato, troppo preso dal suo telefonino per essere al cento percento dentro alle conversazioni.
«Sto avendo un po’ di problemi con una persona che ho lasciato giù.» aveva ammesso, mesi dopo, lanciando il telefono sul divano di casa di Giacomo mentre tutto il resto della ciurma è nella stanza accanto a torturare il microfono di un Canta Tu ad un volume improponibile, il festeggiato che urla più degli altri, qualcuno che va fuori tempo.
«Hai lasciato la spasimante a Napoli e questa ancora pressa?» s’era sentito in dovere di chiedere, con aria da gran rubacuori, da Dottor Stranamore che se ne intende di storie e sentimenti e poi non ha mai avuto una ragazza come si deve.
Ricorda ancora il modo in cui aveva arricciato le labbra, quasi infastidito, prima di annuire e rispondere con un vago «Sì, una cosa del genere.» che lo aveva poi portato ad alzarsi con la scusa di andare ad unirsi al coro stonato in sala da pranzo.
Di quella serata ricorda solo la forza di volontà che gli era servita per non provare a vedere il nome della tizia ossessionata da quello che stava, lentamente, diventando il suo amico e lo strisciante senso di invidia che gli aveva fatto prudere le mani e lo aveva portato ad andarsene che non era neanche mezzanotte e senza aver mangiato la torta di mamma Silvia.
C’erano voluti mesi interi per capire che quell’invidia, che avrebbe dovuto in realtà chiamare gelosia ma certo non sta qui a formalizzarsi sui termini, non era minimamente legata al fatto che Antonio avesse una ragazza e lui no.
Anche perché poi era arrivata Francesca, e qualsiasi cosa loro due abbiano insieme, e quella brutta sensazione ogni volta che Antonio si eclissa per rispondere al telefono non la riesce comunque a superare.
Torna a sedersi sui gradini di cemento, le mani ancora ostinatamente in tasca, la coda dell’occhio che registra l’altro avvicinarsi con passo svogliato, addosso la felpa che usa per starsene in panciolle sul divano, nessuno zaino sulle spalle e nessun telefonino stranamente in vista.
«Scusa se ho fatto tardi.» esordisce, scavalcando la rete bassa e già rovinata che dovrebbe fungere da limite invalicabile «È che non mi andava di venire.» continua, senza il suo solito sorriso, tanto che quello sulle labbra di Flavio si era spegne con una velocità disarmante perfino per lui.
«Non eri obbligato.»
«Lo so. Ma se restavo a casa mi spaccavo anche l’altro piede prendendo a calci le cose.» borbotta, salendo un gradino per sedersi dietro di lui, fissando un punto indefinito sullo scheletro di quel palazzo in costruzione da almeno dieci anni.
«Hai intenzione di spaccare qualcosa anche qui? Perché ci sono solo le porte e mi sembrano abbastanza resistenti. Magari dopo il piede ti giochi un braccio.»
Antonio sembra pensarci un attimo, arriccia un angolo della bocca nell’ennesima smorfia del pomeriggio, sembra quasi non gradire la solita dose di umorismo da due soldi che si rifilano a vicenda. 
«Nelle prossime due ore hai intenzione di farti vedere molto innamorato di qualcuno per poi dirgli che la distanza uccide il sentimento?» chiede, a bruciapelo, e Flavio si ricorda di aver spento il telefono proprio perché non voleva davvero sentire nessuno in quelle due ore che si prende per lui una volta a settimana, che a fare quello innamorato di qualcuno non c’è ancora mai riuscito e probabilmente mai ci riuscirà
«Non penso.»
«Allora non spacco niente.» ribatte Antonio, con lo stesso tono secco che ha caratterizzato le ultime due settimane e a cui Flavio riesce a far caso solo ora che sono in due, senza il vocione di Gabriele che sovrasta le loro chiacchiere, senza Giacomo che urta cose a caso ed inizia ad imprecare, senza tutti gli altri.
« Se vuoi non dico più niente e ci mettiamo a dare du’ calci. Io in porta e tu tiri. »
« Poi le spese del dentista te le devo pagare io, però. »
« Se riesci a non spaccarmi di nuovo l’incisivo già spaccato facciamo che offro io, lo so che le ragazze ti fanno diventare scemo, bisogna in qualche modo sfogarsi. » 
Il «Già, le ragazze…» di Antonio si perde nel ma vaffanculo! che urla mentre gli tira una pallonata intimandogli di borbottare meno e giocare di più.                                                         *
Sono seduti ai due lati opposti del tavolo ovale di casa sua, Antonio che continua a sfogliare avanti e indietro il dizionario di latino alla ricerca di quella specifica frase già tradotta.
«È Tacito, no? Io non l’ho mai tradotto davvero Tacito: sta tutto già fatto, che fatico a fare?» ripete ogni dieci minuti, ormai da mezz’ora, continuando a stropicciare la carta sottilissima di cui sono fatte le pagine di quel librone già piuttosto fatiscente.
Più che quello di sua madre, sembra venire direttamente dall’Unità d’Italia.
La maturità è ancora lontana eppure i due giorni consecutivi di sole in un febbraio altrimenti terribile, gli fanno sentire giugno sempre più prossimo e la consapevolezza del loro non aver assolutamente voglia di uscire con un voto di merda ancora più forte. Cicerone starnutisce, acciambellato sulla poltrona, facendoli sussultare e rompendo il silenzio teso che si è creato in quella stanza piena di soprammobili a cui neanche il gatto ha il coraggio di avvicinarsi.
Alza, con non poco imbarazzo, gli occhi su Antonio e nota come abbia spostato gli occhiali un po’ più giù sul naso perché non riesce a trovare una posizione in cui non gli diano fastidio a quel maledetto nervetto sul lato destro; a come stia facendo e disfacendo la stessa frase, il foglio del quaderno quasi consumato a forza di cancellare i segni a matita.
L’ultima volta che si è proposto di aiutarlo, che, per inciso, è stata anche l’ultima volta in cui hanno studiato insieme, risale alla settimana prima delle vacanze di natale, ed è finita così male da spingerli a non provarci più per almeno qualche mese, a lasciar passare le vacanze senza parlarsi.
Se lo ricorda ancora quel pomeriggio, ricorda che si erano chiusi in camera per ordine di sua nonna, troppo presa in una fitta discussione con sua zia per aver voglia di disturbarli con quell’incessante blaterare di parenti morti e figli sposati, che avevano tirato fuori i libri e che, per un discreto numero di minuti, avevano anche tentato effettivamente di studiare. Ricorda poi che avevano cominciato a ridere per una cazzata, e già a partire da qui inizia a dimenticare e non sa dire quale fosse effettivamente la parola che li aveva distratti, che aveva portato ad un discorso che era poi degenerato.
Ricorda bene Antonio che gesticola, tanto e con i suoi soliti gesti ampi, e ad un certo punto aveva perso la concentrazione ed il filo del discorso perché, ad un certo punto, non sono più le mani dell’altro che sta fissando ma la sua bocca.
E la porta chiusa.
Gli occhi che saettavano dall’una all’altra cosa e, no, non capisce come da una versione di latino si sia finiti a parlare di biciclette e telescopi, ma sa che quel pensiero è così semplice e gli ronza in testa da così tanto tempo che un po’ lo blocca e un po’ lo riempie di adrenalina, nello stomaco la stessa sensazione di quando ti fanno battere il rigore decisivo.
Ricorda gli occhi di Antonio che lo avevano inchiodano sulla sua sedia con le rotelline non appena aveva avuto il coraggio di tornare a guardare lui e non le sue labbra, o le sue mani, o la porta della camera chiusa, e ricorda come lo aveva scrutato con aria quasi afflitta.
«Io non so se ho capito quello che vuoi fare » aveva esordito, appoggiando il gomito contro la sedia della cucina che avevano trascinato in camera, continuando a fissarlo anche se con meno sicurezza nonostante la posa disinvolta, lo sguardo di sfida «Però se è quello, tu sappi solo che non è che poi devi invitarmi a cena o cose del genere.» 
Erano finiti a baciarsi contro l’armadio a ponte di camera sua, portandosi via con la schiena un poster con la formazione della Roma di un paio d’anni prima, ad un certo punto Antonio aveva dato una capocciata al muro tale da farli fermare, immobili, aspettandosi i passi di sua nonna lungo il corridoio, ricominciando a respirare, o meglio baciarsi, solo dopo averla sentita ridere due stanze più in là.
E per questo ora, con gli esami di maturità che non sono così vicini ma con lui che fa comunque schifo in matematica e Antonio che ancora, dopo cinque anni di classico, non digerisce il latino, Flavio ha paura di alzare di nuovo lo sguardo e vederlo di nuovo fissarlo con la stessa espressione negli occhi, i pensieri che, ormai da due ore, non vanno che in una sola direzione. Possibilmente una direzione in cui sono entrambi sulla poltrona da cui Cicerone è appena sceso con aria scocciata e riprendono il discorso da dove lo hanno lasciato qualche mese prima, questa volta magari senza gli imprevisti annessi e connessi.
Senza Francesca e la sua sfuriata assolutamente fuori luogo, senza che lui si senta una merda.
«Francesca che dice di questa cosa che sono tornato a studiare da te? Intende venire a mandarmi a fanculo di nuovo davanti a tutti o…?» Antonio posa la matita una volta per tutte, si appoggia al dizionario con aria annoiata.
Ricorda come era arrivata sul piazzale, la sua Seicento nera parcheggiata storta, ed come era scesa senza neanche chiuderla solo per raggiungere Antonio, seduto a fumare su un gradino delle scale antincendio, e davanti a tutta la cricca sputargli uno sprezzante «Vai a fare in culo lontano dalla mia vita.» che alludeva a qualcosa di cui un po’ tutti sembravano ignari, lasciare un libro a Flavio, ed andare via come se niente fosse sgommando sulla discesa che portava alla piazza.
«Boh? Niente? Non gliel’ho detto, mica deve sapere ogni cosa che faccio, mica stiamo insieme.»
«Verso ottobre mi sembravi meno sicuro di questa cosa. »
«Te l’ho già detto che abbiamo rotto non appena se n'è partita per l'università.»
«Sì, me lo hai già detto. Ma mi ha comunque mandato a fanculo davanti a tutti. Cioè, ci è scesa da Bologna per farmi quella scenata?»
Flavio abbassa lo sguardo, sposta un po’ il piede mentre il suo gatto decide che i lacci delle sue scarpe sono esattamente ciò con cui vuole giocare al momento.
«Comunque Gabriele e Giacomo non hanno fatto domande…»
«Mica è detto che non le faranno, però. E in quel caso che dovremmo dirgli?»
Gli dà fastidio il tono di Antonio, così pacato e semplicemente curioso, gli dà fastidio il modo in cui non sa esattamente cosa rispondere e come rispondere - lui ha sempre detto la verità, a dicembre era già tutto finito, non è uno che mette sottosopra la sua esistenza a sei mesi dall'Esame di Stato per niente, senza essersi rosicchiato lo stomaco a suon di rimuginare.
Al contempo, però, sa che Antonio ha ragione.
Lo sente sospirare, chiudere il dizionario, e la mano dell'altro è sulla sua con discrezione, gli dà una pacca perché la apra quel che serve per poterla stringere.
«Io non lo so dove andrò dopo giugno, però.» ammette l'altro, ed ha le sopracciglia un po' inarcate di chi cerca di capire la reazione della persona che ha di fronte.
«Intanto devi riuscire a diplomarti anche sei fai schifo di latino.» 
«Io più ti conosco più capisco perché quello di religione ti voleva sospendere in secondo.»  
                                                              *
Gabriele lo chiama che fuori è ancora notte, sono le quattro ed è l’undici agosto solo da poche ore. Il mondo è ancora lo stesso, il suo gatto sonnecchia sulla sua scrivania e il suo migliore amico è appena diventato padre di una bambina che sarebbe dovuta arrivare tra due settimane è si e presentata all'improvviso.
Come ogni cosa nella vita di Gabriele, anche sua figlia è arrivata cogliendolo di sorpresa e lui, con la resilienza di chi ne ha viste tante e le ha raccontate tutte trasformandole in aneddoto, ha vissuto il tutto con quella calma che agita gli altri.
Ha la voce concitata, probabilmente i capelli legati sulla nuca come ogni volta che è preso in qualcosa e deve pensare lucidamente, e può sentire distintamente i passi che fa mentre, sottovoce, gli dà la lieta novella, gli chiede per favore di dirlo anche a Giacomo e agli altri, risponde “arrivo subito” a qualcuno che gli dice di raggiungerlo appena ha fatto.
Gabriele è il primo a diventare padre, la pancia di Rosa che sembrava crescere con esasperante lentezza, la strana convinzione che il tempo sarebbe rimasto sempre così, immobile, niente sarebbe cambiato: i suoi amici sempre quasi genitori senza mai diventarlo davvero. Un'eterna età adulta senza tutti i doveri che questo comporta.
Si passa una mano sulla faccia per cercare di portarsi via il sonno strofinandosi gli occhi, cerca a tastoni il telefono per scrivere a Giacomo, un messaggio breve a cui sicuramente riceverà subito risposta, e poi a Lorenzo, a Chiara, a Francesca - non ha senso non scriverle in questo caso, si dice, dopotutto Gabriele e Rosa sono ancora amici suoi.
Le spunte blu non tardano ad arrivare, il telefono che vibra di messaggi sulla chat di gruppo che non ha usato per educazione nei confronti di quei pochi fortunati che di notte hanno tempo per dormire.
Vede Lorenzo inviare l’ennesimo vocale che nessuno ascolterà con grande delusione del suo animo narcisista, toglie anche la vibrazione prima di buttare il telefono da qualche parte sul materasso e si ritrova ad avere un solo pensiero in mente: è come l’ultima puntata di Friends e lui è Joey.
Antonio sbadiglia alla sua sinistra, si alza a sedere con il telefono in una mano mentre, con l’altra, tasta il comodino alla ricerca degli occhiali e dell’interruttore dell’abat-jour.
«Se mi sbrigo riesco ad arrivare all’ospedale una decina di minuti prima di te.» e deve fermarsi ogni due parole per sbadigliare, i movimenti rallentati dal sonno mentre scende dal letto e fa per infilarsi i pantaloni che ha appoggiato sul davanzale poche ore prima, cerca con gli occhi le scarpe sotto al letto.
È tornato da poco nella sua vita, in un giorno qualsiasi ha ricevuto una sua chiamata a cui non ha fatto in tempo a rispondere e l’ha poi ritrovato seduto sotto ad uno degli alberi della passeggiata con un husky al guinzaglio e l’aria annoiata.
«Non vivevi in Spagna, tu?» 
Antonio aveva sorriso, annuito con poco entusiasmo, tirando appena il guinzaglio del cane fin troppo preso dall’annusare il nuovo arrivato.
«In teoria sì. In pratica mi è scaduto il contratto ed eccomi di nuovo qui a cercare lavoro a Roma senza vivere a Roma.»
«Se sei tornato per i supplì di Dina devo darti una brutta notizia...»
«Ha chiuso, lo so, me l’ha detto Rosa. Era l’unica a sapere che, sai no?, sarei tornato. Sono atterrato l’altroieri, oggi è la prima volta che esco.»
Flavio aveva annuito, Antonio si era alzato dalla panchina, aveva dato uno sguardo intorno come se stesse ancora prendendo le misure di quel che è cambiato in quel paese da quando l’ha lasciato più di dieci anni prima.
«Mi dispiace per la storia...io e Lucia, tutto il resto» aveva detto, giocando col guinzaglio.
«Non stavamo insieme, potevi fare quel che ti pareva.» 
«Non cambia il fatto che mi dispiace.»  
Glielo aveva ripetuto ogni giorno negli ultimi dieci mesi. Glielo aveva ripetuto mentre si davano appuntamento “per caso” nel bar vicino al capolinea dell’autobus, mentre andavano da qualche parte in macchina, a cena in quella casa in cui doveva entrare di nascosto per non farsi vedere dai genitori del suo migliore amico.
Ed ora è in piedi dall’altra parte del letto a cerca di sistemarsi i capelli mentre cerca di decidere se la maglietta che sta per indossare sia sua o meno, se ha voglia di sentire lo sguardo di Rosa perforargli la nuca mentre cerca di capire se ha qualcosa da dirgli o se, almeno per questa volta, può passare la mano.
«Statte bono.» ha appena la forza di dire, gli occhi ancora chiusi e la mano stesa ad aspettare quella dell’altro perché torni a stendersi accanto a lui, possa rinunciare a tutto quel teatrino che continuano a montare su da quando hanno ricominciato a frequentarsi dopo la grande crisi del post diploma, quella di cui nessuno sa niente ma di cui tutti erano al corrente
«Dieci minuti e mi alzo, mi sveglio, e andiamo all’ospedale.»
«Si sono rotte le acque anche a te? Devo sbrigarmi? Diventerò padre? Hai avvertito Aniello che avrà un fratellino?»
«Sì, sì per tutto, quindi guidi chiaramente tu.»
«Strada tutti tornanti, sarà divertente, tu ami la mia guida.» 
Il telefono continua a vibrare sul letto, la sveglia segna le quattro e venti dell’undici agosto di dodici anni dopo, il campetto dietro al supermercato è stato smantellato e Gabriele è appena diventato padre, Francesca presto sposerà Giacomo e lui sta cercando il modo di capire quando, e soprattutto come, gli ultimi undici anni siano passati lasciandoli immutati in quel che conta, cambiandogli solo i connotati, il colore dei capelli, la taglia dei vestiti.
Per il resto è come avere di nuovo diciassette anni ed aspettarsi sugli scalini di cemento del campetto, pronti a togliersi i segreti dalle tasche e a dire che del futuro si può parlare più tardi. ________________________________________________ Come ogni anno, in ritardo e vagamente spettinata, eccomi con il consueto TANTI AUGURI ANNA !!!! Latito ormai da mesi e lo so, questo è il pensierino che riesco a farti tra una corsa in macchina e l’altra per ringraziarti 1) di esistere 2) di aver creato gli unici personaggi su cui riesco a scrivere in questo brutto periodo della mia vita. BOH, ENJOY, SPERO CHE TI PIACCIA, QUESTO È SEMPRE PARTE DEL GRANDE PIANO (o piano ineffabile) (a te la scelta) @blogitalianissimo ma anche @pomodorotiamo
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calimesblog · 4 years
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Nelle grinfie dell’orso
Fandom: Psychic Detective Yakumo Characters: Yakumo Saito, Kazutoshi Gotou Rating: T Summary: Un giovane Yakumo viene portato alla stazione di polizia in cui lavora un altrettanto "giovane" Goto. Il ragazzino è malconcio e parecchio restio ad aprirsi con il poliziotto che, tuttavia, gli impone di fermarsi fino alla fine del proprio turno per poter accompagnarlo di persona a casa. AO3
La stazione di polizia non era certo il suo posto preferito, non che lo fosse il tempio e nemmeno la scuola - ovvio. Se avesse avuto libertà di scelta sarebbe partito per l’Antartide: in fondo la compagnia dei pinguini doveva essere di certo più piacevole di… «Oh, chi non muore si rivede!» sghignazzò una voce roca. «Cosa hai combinato questa volta, Yakumo?» «Niente.» rispose il ragazzo evasivo con una scrollata di spalle. «E stai seduto dritto su quella sedia o cadi, stupido moccioso!» «Signor Goto, la smette di darmi ordini? Mi hanno portato a forza qui, io stavo tornando al tempio.» Yakumo iniziò a dondolarsi con la sedia. «Tutta colpa del suo collega che mi ha riconosciuto…» si lamentò. «Mi stai forse provocando?!» digrignò i denti il poliziotto, rompendo la sigaretta che teneva. Imprecando, buttò il mozzicone nel posacenere. «Posso andarmene adesso?» «No! Prima spiegami che diavolo è successo e poi forse ti lascerò andare.» Yakumo sospirò, si sistemò in modo composto sulla sedia e restio alzò il viso tenuto fino a quel momento fuori dalla visuale del poliziotto. Goto rilasciò un sibilo: l’occhio sinistro presentava una brutta macchia violacea, mentre sul labbro inferiore c’era del sangue ormai rappreso. Comprese subito perché la signora e il collega, che lo avevano portato lì, volevano chiamare un’ambulanza al più presto: l’iride rossa era ben visibile nonostante il gonfiore nascente della palpebra; perciò i due avevano supposto una qualche emorragia. «Accidenti! Chi è stato?» sbottò avvicinandosi per osservare meglio. «Hai messo del ghiaccio sopra?» Yakumo scosse la testa. «Te lo vado a prendere. Tu non muoverti, chiaro?!» se ne andò senza aspettare risposta. Yakumo si strinse nelle spalle, ripensando a ciò che era successo poco prima. Non era stata la prima volta, né sarebbe stata l’ultima, di questo ne era certo. La gente, semplicemente, non capiva. Perciò, non aveva senso che prima la signora che l’aveva portato lì e poi il signor Goto si preoccupassero così tanto delle sue condizioni. Per non pensare poi a come l’avrebbe presa lo zio! In ogni caso, sarebbe stato meglio tornare al tempio che stare lì: non gli piacevano le stazioni di polizia… «Toh! Chiudi l’occhio e metticelo sopra.» ritornò Goto con del ghiaccio sintetico e una pezzuola. «Ahio!» si lasciò sfuggire Yakumo per il dolore, quando sentì freddo sull’occhio pesto. «Che dice tuo zio Isshin?» Il ragazzo ignorò la domanda del poliziotto, interessato più a tastarsi il labbro per verificare se la ferita stesse ancora sanguinando e quanto effettivamente si fosse gonfiato. Il verdetto fu che le aveva prese, ma di questo ne era già consapevole. Forse aveva anche qualche livido… Sulla coscia destra di sicuro, dove l’avevano colpito con un calcio per farlo cadere rovinosamente a terra, e perciò anche sul sedere. Ma non era importante che il signor Goto lo sapesse, no? Smise di concentrarsi sulle ferite di guerra quando si sentì strattonare per il colletto della maglietta. Premette involontariamente col ghiaccio sull’occhio contuso. «Accidenti, signor Goto!!» sibilò protestando per la violenza con cui l’aveva afferrato. Ammutolì quando fissò i suoi occhi fiammeggianti di ira e di preoccupazione malcelata. «Non provare mai più a ignorarmi, Yakumo Saito.» Yakumo sapeva che quando il signor Goto usava il suo nome completo di cognome c’era poco da scherzare. Lo zio Isshin forse aveva ragione a dire che era piuttosto maturo per i suoi undici anni, ma il signor Goto lo trattava sempre come un moccioso – anche in quel momento. Agli occhi del poliziotto non era più il bambino che aveva salvato appena in tempo dalla follia della madre, ma uno dei tanti complessati ragazzi fermati per uso di droga che capitavano lì di tanto in tanto. Si sentiva come uno di loro: se fosse riuscito a giocarsela bene, avrebbe evitato lo strizzacervelli. «Ti ho chiesto cosa pensa tuo zio Isshin di tutto questo.» scandì il signor Goto a pochi centimetri dal suo volto, liberandolo. Yakumo ricadde sulla sedia più contuso e dolorante di quanto lo fosse stato pochi minuti prima. Potevano anche punzecchiarsi a vicenda con battutine anche piuttosto acide e scorbutiche, ma mai quando si trattava di argomenti seri e delicati. «Ti hanno picchiato di nuovo.» continuò il poliziotto in tono serio con le braccia incrociate al petto. Yakumo non si premurò neanche questa volta di rispondergli: era più che evidente. «Non è niente. A parte l’occhio nero, il labbro sta già guarendo.» disse calmo dopo qualche minuto di silenzio. Goto bofonchiò un’imprecazione sulla sua stupidità. «Cosa devo fare con te?!» si esasperò poi. «Niente. Si preoccupi piuttosto di sua moglie che lo ha abbandonato, signor Goto.» sviò Yakumo, sapendo che lui avrebbe colto la provocazione. «E tu come lo sai, piccolo impiccione che non sei altro?!» abboccò infatti Goto. «Le notizie arrivano e gli uccellini cantano.» sogghignò il ragazzo. «Adesso posso tornare al tempio?» «Adesso ti porto nel mio ufficio, ti metti a fare i compiti e aspetti che finisca il turno. Poi ti riaccompagno al tempio.» rispose alzando appena il pollice della mano in direzione dell’ufficio. Yakumo sospirò con irritazione. «Non sono più un bambino! E lei non è mio padre!» protestò con veemenza. S’incupì, abbassando la mano con cui teneva ancora il ghiaccio sintetico. «Non è neanche mio zio! Ma insomma, che avete tutti quanti??» scoppiò. Goto rimase ad osservarlo in silenzio, tranquillo, nonostante Yakumo si fosse alzato barcollando per un giramento di testa che non aveva previsto. Lasciò che gli si avvicinasse, che afferrasse il tessuto della maglietta della divisa, che lo stringesse con violenza nei pugni chiusi e sudati, che lo guardasse con disprezzo – No, con disperazione. Furioso come un animale in gabbia, ferito troppo profondamente, appesantito dal fardello di un “dono” non voluto. Quant’altra sofferenza, dolore, oscurità, avrebbero visto quell’occhio rosso? «La signora e il poliziotto che hanno voluto portarmi qui a forza, lei, mio zio!!» stava ancora urlando. «Io volevo soltanto essere lasciato in pace! Non è colpa mia se nello scantinato della scuola c’è l’anima di un bambino morto!! Che mi picchino pure, non mi interessa!! Loro non capiscono e neanche mio zio capisce!» Yakumo s’interruppe, sgranò gli occhi sgomento e indietreggiò, lasciando andare la maglietta del poliziotto. «Io sto bene. Sto bene!» tremò. «E… è inutile che vi preoccupiate per me!! Siete tutti degli stupidi!!» afferrò lo zaino ai piedi della sedia e con il ghiaccio ancora in mano corse a chiudersi nell’ufficio del poliziotto. Goto lo seguì con lo sguardo fino a quando non vide altro che la porta rovinata dall’usura e dallo sporco del proprio ufficio, – ufficio era comunque un eufemismo, perché uno sgabuzzino delle scope sarebbe risultato sicuramente più spazioso al suo confronto. Abbassò gli occhi sul pavimento incrostato qua e là di macchie di caffè, nicotina e altra sporcizia. Be’, l’indomani sarebbe stato giorno di pulizie, ma non era quello il punto. Si accarezzò il mento pungente di un accenno di barba con aria pensierosa. Cosa poteva fare lui se non quello che stava già facendo? Yakumo era ancora un bambino, troppo giovane e ottuso, nonché scostante e scontroso. Un ragazzo difficile l’avrebbero definito i colleghi – ed anche lui , ma prima di essere un poliziotto era un essere umano e in quanto tale si rifiutava di lasciarlo andare, di abbandonarlo. Certo, non poteva sostituirsi ai suoi genitori né a suo zio, che rispettava molto come persona. Sapeva che nelle mani di uno come Isshin, Yakumo sarebbe stato al sicuro. Certo, entro le mura del tempio, ma fuori? Fuori era esposto alla curiosità, al disprezzo e alla cattiveria della gente. Il mondo era troppo pieno di sé, le persone troppo egoiste ed egocentriche per curarsi di ciò che dicevano, che facevano, e delle conseguenze che avrebbero potuto provocare in un animo giovane ed ingenuo come poteva essere quello di un ragazzino di appena undici anni. Perché se Yakumo cominciava a capire quanto il mondo fosse crudele, ciò non giustificava il fatto che cadesse vittima di certe situazioni. Come quella appena accaduta: preso a suon di pugni solo per aver detto di aver visto un fantasma. La paura era davvero una brutta bestia. E poi, già a quell’età Yakumo mostrava un secco cinismo e un rifiuto totale di affetto – ne aveva appena data dimostrazione. Non andava per niente bene. Proprio per niente. «Maledizione!» imprecò a denti stretti, sbattendo il pugno sul legno della scrivania. Ci teneva a quel ragazzino. E sapeva che non avrebbe dovuto avere più contatti con lui – chi avrebbe voluto avere quel tipo di legame? Avere accanto la persona che ti ricordava la cosa più atroce che mai sarebbe dovuta succedere ad un bambino... Anche lui sarebbe fuggito disgustato. E invece, eccoli lì, a pochi metri di distanza e con una semplice porta di compensato a separarli. Non era riuscito a lasciarlo in pace, non dopo aver incrociato nuovamente il suo sguardo bicolore e averci visto la disperazione e una muta richiesta di aiuto. Con un sospiro stanco Goto si ricompose, passandosi una mano tra i corti capelli scompigliati. Andò al distributore dell’acqua per dissetare la gola secca e prese in considerazione l’idea di accendersi un’altra sigaretta. Almeno, si rincuorò, non è scappato via. Dalla tasca dei pantaloni tirò fuori il pacchetto di sigarette e ne prese una tra le labbra. «Dannazione!» si lamentò non trovando l’accendino. L’aveva dimenticato nell’ufficio.
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Due colpi secchi. «Ehi, Yakumo! Esci fuori che ti riaccompagno a casa!» gridò Goto per farsi sentire oltre l’ostacolo della porta. Il rumore che avrebbe dovuto sentire attraverso il compensato non arrivò alle sue attente orecchie. Forse era scappato dalla finestra? Naaah… O sì? Senza pensarci un secondo in più si affrettò ad aprire. «Yakumo!!» Subito i suoi occhi lo individuarono sdraiato in modo scomposto sull’unica comodità consentitagli in quella piccola stazione di polizia. La poltrona di un orrendo color marrone – a sentire sua moglie – non era stata sicuramente progettata per dormirci sopra, ma Yakumo doveva averla trovata davvero comoda, oppure era stato così distrutto da quella giornata, che ci si era addormentato così profondamente da non averlo sentito urlare. «Ma tu guarda…» mormorò con un mezzo sorriso. Yakumo era rannicchiato su se stesso: la testa su un bracciolo e le gambe a penzoloni sull’altro. La pezzuola e il ghiaccio sintetico, ormai sciolto e inutilizzabile, erano caduti a terra dove avevano lasciato una piccola pozza d’acqua. Sulla scrivania stavano tutti i rapporti e le carte che avrebbe sistemato l’indomani, perciò suppose che il ragazzo non avesse neanche aperto libro per tutte quelle ore. Gli si avvicinò. «Ehi, stupido moccioso. Svegliati, su!» lo scosse da una spalla. Yakumo mugugnò infastidito, socchiudendo appena gli occhi. Quando andò a sfregarli con una mano chiusa a pugno, si dimenticò di andarci piano con quello pesto e sussultò per il dolore e per la sorpresa di trovarlo più gonfio di quanto si fosse aspettato. Sbadigliò. «Avanti, torniamo a casa. Tutti e due.» Goto gli diede una piccola pacca sulla spalla. «Non è casa mia. È il tempio di mio zio.» puntualizzò Yakumo stiracchiandosi. «È casa tua, invece, testone. E farai bene a tenertela cara.» replicò Goto, aiutandolo ad alzarsi. Yakumo allontanò la sua grande e callosa mano, troppo orgoglioso per ammettere di aver bisogno di quella piccola gentilezza. Goto abbozzò un mezzo sorriso, alzandosi per mettere a posto il ghiaccio sintetico nel freezer e la pezzuola sulla scrivania. «Cosa fa adesso? È passato alla compassione?» chiese Yakumo in modo brusco, ricordandosi di cosa fosse successo qualche ora prima. «Ah, quanto fai il difficile, ragazzino!» Per ripicca Goto gli si avvicinò nuovamente e lo afferrò con entrambe le mani dalla vita sollevandolo di peso. Yakumo lanciò un urlo preso alla sprovvista e si affrettò a tenersi dalle forti braccia del poliziotto. Tenendolo sospeso sopra di sé e guardandolo dal basso verso l’alto, Goto sghignazzò. «Sei ancora uno scricciolo!» rise per la leggerezza del suo peso. «Mangi abbastanza?» «Eh?!» si indignò Yakumo, scalciando per obbligarlo a farlo scendere. «Mi metta giù! Signor Goto!!» Goto se lo caricò in spalla come un sacco di patate, prese la giacca della divisa e lo zaino di Yakumo e uscì dall’ufficio, chiudendo la porta a chiave. «Prima di andare al tempio, passiamo a mangiare qualcosa. Ho già avvertito tuo zio, mentre tu ronfavi nel mio ufficio.» rise. «Che ne dici di un bel cheeseburger? Con tante patatine e un bel gelato!» si entusiasmò ignorando palesemente le proteste e i pugni di Yakumo. «Un giorno la denuncerò per maltrattamenti!!» lo minacciò. Goto lo ignorò nuovamente, continuando a camminare con un ghigno divertito. Eh sì, voleva davvero bene a quel moccioso.
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"Caro Antonio, questa sera sento il bisogno di dirti parole che vorrei fossero nuove, ma so per certo di non dirti nulla che tu non sappia già! Sarà una sorpresa per te ascoltare queste mie righe, scritte in una fresca serata di silenzio di un periodo di emergenza sanitaria, inattesa e drammatica, che ha costretto tutti noi a fermarci, che ha ridotto il nostro spazio di movimento e di azione e ci ha obbligato a vivere uno stile di vita nuovo. Ho riaperto un cassetto, uno di quelli che si tiene chiusi per anni. Sai, ho sempre creduto che tra le cose più belle della nostra vita ci siano i ricordi, credo siano persino più belli dei sogni, perché nei ricordi resistono frammenti di realtà. Certo, i ricordi possono essere neri, tristi, ma senza di essi non siamo nulla e a volte possono diventare per noi un regalo da aprire quando desideriamo riempirci di gioia. È una sera senza luna questa, c’è una nuvola che disegna strane figure nel cielo scuro, ed io con in mano vecchi giornali e qualche foto riavvolgo il nastro della nostra vita. Il mio pensiero va a quando da bambini quei disegni ci portavano a immaginare di affrontare belve strane e sconosciute e tu t’imponevi il coraggio di combattere battaglie per liberare il mondo. Quelle belve che da bambini immaginavamo, poi hanno preso corpo e tu hai dovuto affrontarle davvero un giorno di maggio. “Fiore di maggio" cantava una delle tue canzoni preferite e a noi, da bambini, in un’infanzia semplice, ma piena di vita, quel mese, forse per il risveglio completo della natura che vivevamo spensierati nel nostro giardino, ci trasmetteva forti emozioni. Mai, e dico mai, avrei immaginato, che col tempo, questo mese avrebbe assunto un “colore" diverso e che quelle emozioni avrebbero lasciato il posto alla tristezza, al dolore alla rabbia.Il 23 maggio del ‘92 caro, Antonio, ha cambiato la vita e, forse, anche la storia di questo Paese.La strage di Capaci. È così, sai, che è passata alla storia. Ha fatto capire anche ai più riottosi sostenitori della tesi avversa che la mafia esisteva, era pericolosamente attiva e viveva di collusioni, omicidi, stragi e di un rapporto con una politica corrotta che le aveva permesso di sopravvivere, anzi prosperare, in 50 anni di Repubblica. Quei 600kg di tritolo, esplosi sotto l’autostrada che collega Punta Raisi a Palermo e che tu, Rocco, Vito, il dott. Falcone e la dott.ssa Morvillo, percorrevate, sono entrati violentemente in casa nostra e da allora niente, dico niente, è stato più come prima. Osservando nostra madre negli anni in cui è sopravvissuta alla tua assenza, ho capito che il dolore straziante non ha data di scadenza: quel dolore ha continuato a scavarle dentro, diventando nel tempo suo compagno di vita. Quello che abbiamo vissuto è stato un momento fortissimo, ma, nonostante ciò, abbiamo cercato ogni giorno di onorare il tuo coraggio provando anche a farlo nostro conservando la memoria di quella tragedia. E lo facciamo ogni giorno, prendendoci cura del tuo ricordo, cercando di essere la tua voce, riportando al cuore di tanti la tua storia, che racconta di violenza ma che ci restituisce anche la speranza, il bisogno di pace, di democrazia e di giustizia. La tua, Antonio, è la storia di un giovane del sud della Puglia che ha vissuto i sogni, le speranze, le preoccupazioni e i dubbi della sua età. È la vita di un ragazzino con una inconsapevole “profondità", ritrovata poi, in una professione che hai vissuto con autentica Etica, diventando “eroe" tuo malgrado. La tua una scelta che ti è costata la vita ma che non ha tradito il tuo senso del dovere. Senso del dovere che non ha ceduto il passo nemmeno di fronte alla paura di morire, senso del dovere che trapela ancora oggi in una tua intervista che io considero il tuo testamento morale: “Chiunque fa questa attività, - dicevi- ha la capacità di scegliere tra la paura e la vigliaccheria. La paura è qualcosa che tutti abbiamo: chi ha paura sogna, chi ha paura ama, chi ha paura piange. È la vigliaccheria che non si capisce e non deve rientrare nell’ottica umana [...]". Oggi avresti 58 anni e, per i tanti ragazzi che ti hanno conosciuto attraverso i nostri racconti, sei come un papà: pensa che molti di loro hanno cominciato a “camminare"a partire da un’emozione accesa in loro dalla tua storia. Il tuo sogno, quello di Antonio Montinaro, è diventato per loro impegno, memoria operante per costruire una società migliore. Quello che è successo appartiene ormai alla storia di questo nostro Paese e, se mi soffermo un attimo a riflettere, mi rendo conto che sono passati 28 anni, ma la tua immagine per me è ferma lì, a quell’età in cui la tua vita è stata spezzata, a 29 anni. Ma io so, che, nonostante la tua breve esistenza, è come se tu avessi vissuto tante vite. I tuoi anni sono valsi almeno il doppio o il triplo, e allora mi piace immaginarci, oggi “diversamente giovani", come direbbero i nostri figli, seduti qui a guardare, in una serata silenziosa senza luna, una nuvola che disegna strane figure nel cielo scuro. E tu a raccontare di te, con la tua ironia e la tua chiacchiera, e io a dirti come quando eravamo ragazzi: “Antonio, statti zitto un pochino… riposati, fumati una sigaretta". E pensare, però, in quello stesso istante, che essere tua sorella è stata sempre una sfida difficile, ma anche un orgoglio e un onore che mi ha portato a fare del tuo esempio il mio impegno". Ciao Antonio. Matilde Montinaro
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pollockdipoesie · 5 years
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Generalmente non mi espongo su questi fatti, perché non sono informata a modo, ma questa cosa ve la devo troppo raccontare.
#MoreMed2019
Mi reco molto assonnata al congresso più inflazionato della mia carriera universitaria, conscia che probabilmente mi addormenterò nelle file alte dell’aula magna. Mi siedo, leggo la scaletta, la seconda voce è “sanità pubblica e immigrazione: il diritto fondamentale alla tutela della salute”. Inevitabilmente penso “e che do bali”. Accendo Pokémon Go, che sono sopra una palestra della squadra blu. Mi accingo a conquistarla per i rossi. Comincia a parlare il tale Dottor Pietro Bartolo, che io non so chi sia. Non me ne curo. Ero lì che tentavo di catturare un bulbasaur e sento la sua voce in sottofondo: non parla di epidemiologia, di eziologia, non si concentra sui dati statistici di chissà quale sindrome di *lallallà*. Parla di persone. Continua a dire “persone come noi”. Decido di ascoltare lui con un orecchio e bulbasaur con l’altro. Bartolo racconta che sta lì, a Lampedusa, ha curato 350mila persone, che c’è una cosa che odia, cioè fare il riconoscimento cadaverico. Che molti non hanno più le impronte digitali. E lui deve prelevare dita, coste, orecchie. Lo racconta:”Le donne? Sono tutte state violentate. TUTTE. Arrivano spesso incinte. Quelle che non sono incinte non lo sono non perché non sono state violentate, non lo sono perché i trafficanti hanno somministrato loro in dosi discutibili un cocktail antiprogestinico, così da essere violentate davanti a tutti, per umiliarle. Senza rischi, che le donne incinte sul mercato della prostituzione non fruttano”. Mi perplimo.
Ma non era un congresso ad argomento clinico? Dove sono le terapie? Perché la voce di un internista non mi sta annoiando con la metanalisi sull’utilizzo della sticazzitina tetrasolfata? Decido di mollare bulbasaur, un secondino, poi torno Bulba, devo capire cosa sta dicendo questo qua.
“Su questi barconi gli uomini si mettono tutti sul bordo, come una catena umana, per proteggere le donne, i bambini e gli anziani all’interno, dal freddo e dall’acqua. Sono famiglie. Famiglie come le nostre”.
Mostra una foto, vista e rivista, ma lui non è retorico, non è formale. È fuori da ogni schema politically correct, fuori da ogni comfort zone.
“Una notte mi hanno chiamato: erano sbarcati due gommoni, dovevo andare a prestare soccorso. Ho visitato tutti, non avevano le malattie che qualcuno dice essere portate qui da loro. Avevano le malattie che potrebbe avere chiunque. Che si curano con terapie banali. Innocue. Alcuni. Altri sono stati scuoiati vivi, per farli diventare bianchi. Questo ragazzo ad esempio”, mostra un’altra foto, tutt’altro che vista e rivista. Un giovane, che avrà avuto 15/16 anni, affettato dal ginocchio alla caviglia.
Mi dimentico dei Pokémon.
“Lui è sopravvissuto agli esperimenti immondi che gli hanno fatto. Suo fratello, invece, non ce l’ha fatta. Lui è morto per essere stato scuoiato vivo”.
Metto il cellulare in tasca.
”Qualcuno mi dice di andare a guardare nella stiva, che non sarà un bello spettacolo. Così scendo, mi sembrava di camminare su dei cuscini. Accendo la torcia del mio telefono e mi trovo questo..”
Mostra un’altra foto.
Sembrava una fossa comune. Corpi ammassati come barattoli di uomini senza vita.
“Questa foto non è finta. L’ho fatta io. Ma non ve la mostrano nei telegiornali. Sono morti li, di asfissia. Quando li abbiamo puliti ho trovato alcuni di loro con pezzi di legno conficcati nelle mani, con le dita rotte. Cercavano di uscire. Avevano detto loro che siccome erano giovani, forti e agili rispetto agli altri, avrebbero fatto il viaggio nella stiva e poi, con facilità, sarebbero usciti a prendere aria presto. E invece no. Quando l’aria ha cominciato a mancare, hanno provato ad uscire dalla botola sul ponte, ma sono stati spinti giù a calci, a colpi in testa. Sapeste quanti ne ho trovati con fratture del cranio, dei denti. Sono uscito a vomitare e a piangere. Sapeste quanto ho pianto in 28 anni di servizio, voi non potete immaginare”.
Ora non c’è nessuno in aula magna che non trattenga il fiato, in silenzio.
“Ma ci sono anche cose belle, cose che ti fanno andare avanti. Una ragazza. Era in ipotermia profonda, in arresto cardiocircolatorio. Era morta. Non avevamo niente. Ho cominciato a massaggiarla. Per molto tempo. E all’improvviso l’ho ripresa. Aveva edema, di tutto. È stata ricoverata 40 giorni. Kebrat era il suo nome. È il suo nome. Vive in Svezia. È venuta a trovarmi dopo anni. Era incinta” ci mostra la foto del loro abbraccio.
“..Si perché la gente non capisce. C’è qualcuno che ha parlato di razza pura. Ma la razza pura è soggetta a più malattie. Noi contaminandoci diventiamo più forti, più resistenti. E l’economia? Queste persone, lavorando, hanno portato miliardi nelle casse dell’Europa. E io aggiungo che ci hanno arricchito con tante culture. A Lampedusa abbiamo tutti i cognomi del mondo e viviamo benissimo. Ci sono razze migliori di altre, dicono. Si, rispondo io. Loro sono migliori. Migliori di voi che asserite questo”.
Fa partire un video e descrive:”Questo è un parto su una barca. La donna era in condizioni pietose, sdraiata per terra. Ho chiesto ai ragazzi un filo da pesca, per tagliare il cordone. Ma loro giustamente mi hanno risposto “non siamo pescatori”. Mi hanno dato un coltello da cucina. Quella donna non ha detto bau. Mi sono tolto il laccio delle scarpe per chiudere il cordone ombelicale, vedete? Lei mi ringraziava, era nera, nera come il carbone. Suo figlio invece era bianchissimo. Si perché loro sono bianchi quando nascono, poi si inscuriscono dopo una decina di giorni. E che problema c’è, dico io, se nascono bianchi e poi diventano neri? Ha chiamato suo figlio Pietro. Quanti Pietri ci sono in giro!”.
Sorridiamo tutti.
“Quest’altra donna, invece, è arrivata in condizioni vergognose, era stata violentata, paralizzata dalla vita in giù... Era incinta. Le si erano rotte le acque 48 ore prima. Ma sulla barca non aveva avuto lo spazio per aprire le gambe. Usciva liquido amniotico, verde, grande sofferenza fetale. Con lei una bambina, anche lei violentata, aveva 4 anni. Aveva un rotolo di soldi nascosto nella vagina. E si prendeva cura della sua mamma. Tanto che quando cercavo di mettere le flebo alla mamma lei mi aggrediva. Chissà cosa aveva visto. Le ho dato dei biscotti. Lei non li ha mangiati. Li ha sbriciolati e ci imboccava la mamma. Alla fine le ho dato un giocattolo. Perché ci arrivano una montagna di giocattoli, perché la gente buona c’è. Ma quella bimba non l’ha voluto. Non era più una bambina ormai.”
Foto successiva.
“Questa foto invece ha fatto il giro del mondo. Lei è Favour. Hanno chiamato da tutto il mondo per adottarla. Lei è arrivata sola. Ha perso tutti: il suo fratellino, il suo papà. La sua mamma prima di morire per quella che io chiamo la malattia dei gommoni, che ti uccide per le ustioni della benzina e degli agenti tossici, l’ha lasciata ad un’altra donna, che nemmeno conosceva, chiedendole di portarla in salvo. E questa donna, prima di morire della stessa sorte, me l’ha portata. Ma non immaginate quanti bambini, invece, non ce l’hanno fatta. Una volta mi sono trovato davanti a centinaia di sacchi di colori diversi, alcuni della Finanza, alcuni della polizia. Dovevo riconoscerli tutti. Speravo che nel primo non ci fosse un bambino. E invece c’era proprio un bambino. Era vestito a festa. Con un pantaloncino rosso, le scarpette. Perché le loro mamme fanno così. Vogliono farci vedere che i loro bambini sono come i nostri, uguali”.
Ci mostra un altro video. Dei sommozzatori estraggono da una barca in fondo al mare dei corpi esanimi. “Non sono manichini” ci dice.
Il video prosegue.
Un uomo tira fuori dall’acqua un corpicino. Piccolo. Senza vita. Indossava un pantaloncino rosso. “Quel bambino è il mio incubo. Io non lo scorderò mai”.
Non riesco più a trattenere le lacrime. E il rumore di tutti coloro che, alternadosi in aula, come me, hanno dovuto soffiarsi il naso.
“E questo è il risultato” ci mostra l’ennesima foto. “368 morti. Ma 367 bare. Si. Perché in una c’è una mamma, arrivata morta, col suo bambino ancora attaccato al cordone ombelicale. Sono arrivati insieme. Non abbiamo voluto separarli, volevamo che rimanessero insieme, per l’eternità”.
Penso che possa bastare così. E questo è un estratto. Si, perché il Dottor Bartolo ha parlato per un’ora. Gli altri relatori hanno lasciato a lui il loro tempo. Nessuno ha osato interromperlo. E quando ha finito tutti noi, studenti, medici e professori, ci siamo alzati in piedi e abbiamo applaudito, per lunghi minuti. E basta. Lui non ha bisogno di aiuto, “non venite a Lampedusa ad aiutarci, ce l’abbiamo sempre fatta da soli noi lampedusani. Se non siete medici, se non sapete fare nulla e volete aiutare, andate a raccontare quello che avete sentito qui, fate sapere cosa succede a coloro che dicono che c’è l’invasione. Ma che invasione!”.
E io non mi espongo, perché non so le cose a modo. Ma una cosa la so. E cioè che questo è vergognoso, inumano, vomitevole. E non mi importa assolutamente nulla del perché sei venuto qui, se sei o no regolare, se scappi dalla guerra o se vieni a cercare fortuna: arrivare così, non è umano. E meriti le nostre cure. Meriti un abbraccio. Meriti rispetto. Come, e forse più, di ogni altro uomo.
#fuocoammare
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Abbi Cura Di Me
Sono di nuovo Milena e sono qui di nuovo ad ammorbarvi con le mie cazzate. Premettendo che la sere dei duetti mi sono addormentata male prima di vedere Ermal (poi ho guardato da YouTube e che magia ragazzi, pura magia) e che al momento dovrei star facendo tutt'altro, ringrazio quella buona anima di Cristicchi per averci detto che Ermal e Fabrizio si sono abbracciati ieri e mi appropinquo ad usare questa bellissima canzone come titolo per una cazzatina che pensavo di dover assolutamente scrivere dato l’anniversario. E quindi, con la mia cioccolata al caramello salato e il mio panda mug heater, il cuor non si spaura e sono pronta! Colgo inoltre l’occasione per ringraziare le 324 persone che sono qui a leggere le mie stronzate. Vi voglio bene. Buona lettura!
Ermal sta cercando Fabrizio.
Gira per i camerini di Sanremo, guardando le facce degli ospiti e dei partecipanti, in cerca di degli specifici lineamenti che però non ritrova in nessuno dei visi che incontra con lo sguardo
Alcuni di loro gli fanno quasi tenerezza, particolarmente i più giovani: si aggirano per le stanze con i visi smunti e le labbra strette, le mani strette a pungi per non farle tremare. Non che altri siano messi meglio: chi più chi meno, avvertono tutti la tensione della competizione, lo stress e la stanchezza di quei giorni dove il sonno è un lusso che non possono concedersi a lungo.
Ad Ermal viene quasi da sorridere al ricordo dell’anno prima, quando era lui che girellava come una bestia in trappola in tondo in quel camerino che gli sembrava opprimente e soffocante, quasi claustrofobico, le pareti che si stringevano attorno a lui come alla sua gola, impedendogli di respirare. L’ansia e la paura che l’avevano preso allo stomaco insieme alla rabbia per le accuse di plagio e che l’avevano fatto rimettere mentre Fabrizio gli scostava i capelli dal viso e gli accarezzava la schiena, preoccupato; gli sguardi altrui sul suo viso stanco e smunto, gli amici che gli davano una pacca sulla spalla e lo rassicuravano e altri che non osavano fare molto di più che guardarli da lontano come se fossero un disonore per la competizione o come se provassero pena per loro
Ma era tutto passato e alla fine avevano vinto ed ora, ad un anno di distanza, si trovano lì per accompagnare altri amici sul palco.
E’ un peccato che Fabrizio non canterà con lui e Simone, ma capisce il suo bisogno di stare vicino a Niccolò. Se ci fosse stato Cordio su quel palco, avrebbe avuto una bella gatta da pelare a sua volta dato che probabilmente l’altro gli avrebbe fatto la stessa richiesta.
Con quel pensiero si avvia verso il camerino di Niccolò, in cerca dei due romani. 
Bussa delicatamente alla porta e quando ottiene il consenso del più giovane-che mormora “avanti” con voce sottile e tremula-apre delicatamente l’uscio, sporgendovi il capo. 
“Ciao” lo saluta, sorridendogli appena, anche se i suoi occhi volano a percorrere la stanza rapidamente e non è senza delusione che si rende conto che Fabrizio non c’è “Bizio?” chiede, guardando il ragazzo che si sta nervosamente passando una mano tra i capelli scuri, scompigliandogli, con già addosso un completo bianco. Non sembra particolarmente nervoso a primo impatto, ma il piede che tamburella senza sosta sul pavimento e le mani incapaci di stare ferme in grembo dicono in realtà il contrario: è in ansia e come dargli torto. E’ il palco di Sanremo, quello, ed è in gara con i big e canterà con Fabrizio quella sera. Da quel che ha potuto vedere è stato bravo a gestire il palco dell’Ariston fino a quel momento, ma ciò non toglie che l’agitazione pre performance sia legittima e totalmente normale da parte sua. Una parte di lui si sente quasi in colpa per non avergli nemmeno chiesto come sta.
“Sta fuori” gli risponde lui dopo essersi schiarito la voce e essersi leccato le labbra secche “E’ venuto a cercarti” gli fa presente Niccolò ed Ermal annuisce, sorridendo appena
“Grazie” gli mormora in risposta “Scusa se ti ho disturbato” aggiunge e poi si avvicina. L’altro lo guarda, curioso, e rimane sorpreso quando gli posa una mano sulla spalla, annuendo “Sta’ tranquillo, che sei bravo” lo rassicura “Andrai bene. Sali sul paco, fai un respiro e canta. C’è Bizio lì, e ci sono tutti quelli che ti vogliono bene con te, anche se non fisicamente. Dai su” dice, dandogli un’altra piccola pacca “In bocca al lupo” 
“Grazie” replica Niccolò con qualche secondo di ritardo, mentre lui si è già avviato verso l’uscita “E...ermal?” lo richiama, cosa che lo fa voltare con curiosità “Fabbrì... voglio dire... Fabrizio” balbetta il ragazzo “Era contento, di vederti. Io... insomma m’ha detto che...ecco. Cioè un po’ ‘o pensavo già però m’ha proprio spiegato e... E... cioè... niente te volevo dire che... so contento. Cioè non che io c’entri qualcosa ma sembra felice con te per cui... ecco” tartaglia, imbarazzato, improvvisamente rosso in viso, cosa che fa sorridere ancora di più Ermal, che gli fa un leggero cenno d’assenso, riconoscente “A dopo. Vai e spacca, mi raccomando” lo saluta, uscendo e riprendendo la sua esplorazione.
Prosegue, sempre più frustrato di non trovarlo
Dove mai puo’ essere finito? 
Si avvicina circospetto a Drigo, provando a chiedergli se l’ha visto, ma l’altro scuote il capo in segno negativo e rispondendogli che no, non ha visto Fabrizio 
Continua a girellare, sempre più nervoso: scorge un sacco di persone, ma non lui. C’è Motta, gli Zen Circus, Arisa, ma di lui nemmeno l’ombra.  Gli viene il sospetto che sia uscito a fumare, ma quando riesce a sporgere il capo dalla porta non lo trova tra i volti di chi, appoggiato al muro, fuma nervosamente o pacificamente le proprie sigarette. Nei visi avvolti dal fumo e dalla luce pallida del pomeriggio, Fabrizio non c’è.
E’ non senza una punta di delusione che ricaccia la capoccia dentro, sospirando e ricominciando a gironzolare in cerca del compare.
Alla fine, dopo altri dieci minuti decide di tornarsene in camerino dato che Simone lo sta aspettando e non è nemmeno giusto da parte sua abbandonarlo con un “Scusami un attimo, vado a salutare Fabrizio e torno” e sparire mezz’ora senza, per altro, ottenere nulla. Si vedranno dopo, gli tocca. 
“Ermal”
Ecco, a proposito di Simone, lo sta chiamando. Con il viso già contrito nella richiesta di perdono per il ritardo dietro a cui maschera il proprio fastidio e la propria delusione si volta, ma le parole gli muoiono in gola nel momento stesso in cui pronuncia la prima s delle sue scuse
Infatti, non appena si è voltato i suoi occhi hanno colto due cose: la prima sono stati i capelli di Simone, sempre voluminosi, e la seconda è stata la sagoma della persona che gli camminava a fianco, tenendo quella sua tipica andatura
E’ già vestito, con i pantaloni neri che gli avvolgono perfettamente le gambe, la maglia con gli inserti scuri che sembra essergli dipinta addosso da quanto gli calza a pennello e la giacca che sembra essersi stata cucita direttamente su di lui tanto è perfetta e gli sta bene. Quel colore gli dona, pensa, ma non ha troppo tempo di farci caso perché Fabrizio si apre in un sorriso che, lo sa, è palese specchio di quello che sente formarsi sul proprio viso, luminoso e enorme
Ermal sente il cuore acceleragli bruscamente nel petto: vorrebbe corrergli incontro, urlare il suo nome e gettargli le braccia al collo; posare le sue labbra sulle sue, sentire le sue mani stringerlo e le sue braccia circondarlo, ma si tiene fermo sul posto usando tutta la forza di volontà che ha, ondeggiando appena sui talloni mentre gli altri due gli si avvicinano
“Ermal” lo saluta Fabrizio mentre cammina verso di lui. Sorride, Ermal, notando come gli occhi altrui gli stiano scorrendo addosso con maliziosa fretta ma anche lenta delizia, felice di vederlo quanto probabilmente lo è lui. E poi, mentre lo guarda e si fa sempre più vicino, alza le braccia, lentamente, allargandole in una richiesta chiara come il sole a cui adempie subito, colmando quei pochi passi con un piccolo sprint e gettandosi in quell’abbraccio che lo stringe non appena si ritrova con il petto premuto contro quello altrui e il viso al lato del suo, il mento posato sulla sua spalla e le braccia strette attorno a quel corpo che più di una notte ha circondato con le proprie membra e stretto a sé
“Bizio” saluta di rimando, senza nemmeno più fare caso al fatto che ormai usa sempre quel soprannome
Si abbracciano, stringendosi in silenzio, godendo solo l’uno della presenza dell’altro e di quello scudo di intimità fatto dai loro corpi uniti che si sono costruiti attorno, immuni a chiunque, intorno a loro, li guardi
Si stringono e respirano un po’ meglio, sentendo l’aria espandere comunque i loro polmoni compressi dalla presa e pure se non riescono a farlo decentemente è meglio del solito perché stare insieme fa sembrare tutto più facile e l’ossigeno non è solo ossigeno, ma anche aria permeata dal loro profumo, e respirare non è solo un atto fisico e meccanico, ma anche un atto del cuore e della mente
Stanno meglio, quando sono insieme, e questo è quanto
Non possono fare molto altro davanti a tutti, ma quel contatto è sufficiente perché si dicano tutto quello che dovevano
La mano di Fabrizio gli accarezza dolcemente la schiena, scorrendo sul tessuto della sua giacca, mentre le dita di Ermal rimangono arpionate alla stoffa, che stringono come se avesse paura di sentirlo svanire sotto al suo tocco
Sospira Ermal, e chiude gli occhi, appoggiandosi meglio a lui, sfregando appena il viso contro la sua spalla
“Mi sei mancato” bisbiglia e subito la voce di Fabrizio accarezza il suo orecchio con un bisbiglio dolce, basso e roco che ha la forma delle parole “anche tu”
“Era venuto a cercarti nel nostro camerino” sorride Cristicchi che, nel rispetto loro, si è tenuto a un paio di passi di distanza, senza invadere la privacy da quel momento tanto pubblico quanto intimo “te l’ho portato non appena ho capito dove fossi andato” 
Ermal annuisce, ringraziandolo con un sorriso e uno sguardo che gli lancia da sopra la spalla di Fabrizio. 
Anche Simone sorride, le dita incrociate davanti a sé e lo sguardo che indugia verso il basso, probabilmente per non disturbarli troppo anche se, discretamente, non può fare a meno di osservarli di sottecchi ogni tanto
Rimangono lì per qualche minuto, dondolandosi appena sul posto, senza dire nulla, in quella stretta che agli occhi altrui ora sta diventando anche fin troppo lunga e imbarazzante ma a loro non importa perché, lo sanno, hanno bisogno di sentirsi e quando sarà sufficiente lo decideranno solo loro
Alla fine, Fabrizio scivola piano all’indietro, ma non si tira su a sufficienza per guardarlo in faccia, almeno non prima di avergli stampato un bacio leggero e discreto, ma comunque sentito, in quel punto dietro l’orecchio che è solo suo e che ha rivendicato tutto per sé.
Un brivido lo attraversa appena a quel gesto mentre si tira leggermente indietro, rendendosi conto solo in quel momento di essersi teso verso di lui più che poteva, quasi sforzandosi per stargli il più vicino possibile, annullando così quello spazio tra loro che, seppur esiguo, faceva sempre male come quando si componeva di chilometri
Non erano mai abbastanza vicini, mai, non con i vestiti addosso e senza essere uniti e anche in quel modo a volte gli sembrava di essere distante anni luce da lui, di trovarsi vicino a un universo bellissimo ma per lui inaccessibile
Tira appena su con il naso a quel pensiero e all’idea che hanno un’intera serata davanti prima di potersi concedere ancora qualche ora di totale e profonda intimità, ma nonostante ciò sorride a Fabrizio, guardandolo adorante e sa che deve essere quasi imbarazzante visto dall'esterno ma il fatto che lui ricambi quello sguardo da sottone basta ad annullare tutto il resto e a fargli ignorare chiunque abbiano attorno
È solo allora, dopo qualche altro secondo, che Simone si schiarisce appena la voce, per richiamare la loro attenzione mentre, cautamente e appena ingombrante nella sua imbarazzata tenerezza, si avvicina per posare una mano sulla spalla di ermal, cautamente. Un tocco leggero e delicato, quasi timoroso 
“Io vado un attimo...” mormora, facendo un generico cenno verso un indefinito punto “Puoi tornare in camerino, se vuoi. Starò via una decina di minuti” 
Ermal sorride, grato, annuendo appena: lo sa che quello è il modo di Simone di lasciargli un po’ di intimità in uno spazio nascosto agli occhi del mondo in cui possono, finalmente, salutarsi a dovere e il fatto che l’altro gli offra così spontaneamente quella possibilità gli scalda il cuore nel petto. 
“Va bene” annuisce, posando piano la mano sulla schiena di Fabrizio mentre si volta, spingendolo appena verso il camerino “Ci vediamo tra poco” asserisce, iniziando già ad allontanarsi mentre Cristicchi annuisce, facendo ondeggiare la massa riccioluta di capelli che ha sulla sommità della testa.
Percorrere quei pochi metri lentamente gli costa fatica. 
Ermal vorrebbe correre, verso quel camerino. Vorrebbe fiondarcisi dentro trascinandosi Fabrizio appresso, per poter così arrivare subito alle sue labbra, ma sa che non possono farsi vedere mentre se la danno a gambe ridendo come due ragazzini ebbri d’amore per andare a chiudersi dentro a un camerino. Sarebbe troppo ovvio, il perché.
Per cui si costringe a mantenere un’andatura dignitosa, rilassata, anche se per ogni secondo in più che bruciano in quella sorta di passeggiata di fuoco gli fa accelerare il cuore nel petto e aumenta la bruciante urgenza di avere ciò che sta aspettando 
Lanciando un’occhiata a Fabrizio, si rende conto che anche lui non è messo esattamente meglio: cammina con fare appena impacciato, guardandosi mestamente attorno e posando saltuariamente lo sguardo su di lui.
Incrocia gli occhi con i suoi nocciola lucidi e ardenti, colmi di un qualcosa di indefinibile che però è capace di smuovere ogni sua più piccola e microscopica parte e che ritrova sempre ogni volta che fissa lo sguardo nel suo 
Stringe appena la presa delle dita sulla stoffa della sua giacca, arricciandole, mentre finalmente scorge la porta del loro camerino
Suo e di Simone, certo
L’anno scorso, invece, era loro loro, suo e di Fabrizio, ma ora che quello può esserlo anche solo per qualche minuto gli va bene lo stesso
Non appena posa la mano sulla maniglia sospira, spalancando la porta e quasi spingendovi dentro Fabrizio, che si volta per guardarlo appena accigliato da quella foga, per poi entrare a sua volta e chiudersela alle spalle
Il tonfo che fa quando la sbatte con un po’ troppa veemenza forse non ha ancora finito di risuonare che già a colmare il silenzio è il rumore del leggero sospiro che ha la forma del nome di Fabrizio e che Ermal emette mentre, subito, gli afferra i bordi della giacca e lo attira verso di sé, posando finalmente le labbra sulle sue.
C’è una certa irruenza in quel gesto, ma non per questo vi manca una agrodolce e disperata dolcezza, una sorta di agognata tenerezza che si accompagna alla felicità del rivedersi e al bisogno di sentirsi 
Fabrizio non ci pensa un attimo a stringerlo a sé, una mano che corre sulla sua schiena e premervi fermamente contro e l’altra che si infila nei suoi ricci, le dita che vi si incastrano e stringono, tirandoli appena, il dolore che gli attraversa il capo che è gradito quanto la forma delle sue labbra stampata sulle proprie.
Le loro bocche si muovono dolcemente l’una sull’altra, fameliche quanto appaganti, avide nel chiedere ma generose nel donare, e non appena Fabrizio schiude la propria Ermal fa lo stesso, concedendogli accesso nella propria e cercandolo nella sua, le loro lingue che si intrecciano subito, quasi a volersi accarezzare anche loro.
Anche una mano di Ermal è finita tra i corti capelli castani di Fabrizio, alla base della nuca, e le sue dita lunghe e sottili si muovono appena, grattando con affetto il suo cuoio capelluto, come se invece di un uomo fosse un grosso gatto 
Sospirano piano, rubandosi e restituendosi l’aria, riluttanti perfino all’idea di allontanarsi per respirare e in quei sospiri nascondono sussurri che hanno la forma del nome altrui, di un dolce chiamarsi e di un rassicurarsi sul fatto che sì, si sono mancati in egual misura, di quella mancanza che ti toglie il fiato e che ti fa dolere il petto ad ogni battito. Quella che anche quando sei circondato da persone ti fa sentire sempre un po’ solo, che non sai scrollarti di dosso in un abbraccio amico quanto in un letto vuoto per metà; quella che fa sembrare ogni spazio un’immensità, pure quel mezzo millimetro che intercorre tra i loro corpi il più possibile premuti insieme 
Si mormorano che non vedevano l’ora di rivedersi e che sì, l’attesa infine vale sempre la pena di essere sopportata se poi porta a quel momento e per quanto dura diventi ogni giorno di più l’importante è che ora sono lì, l’uno tra le braccia dell’altro.
Si spiegano che si vogliono bene e si riconfermano che si amano e tutto questo non se lo dicono semplicemente a voce, ma se lo imprimono addosso, sulla pelle, con le mani che accarezzano e stringono, che dolcemente percorrono ogni spazio dell’altro a volerlo reimparare a memoria per l’ennesima volta, pure se in mezzo, questa volta, ci sono i vestiti a fargli d’ingombro.
Se lo dicono con le bocce che baciano quella altrui quanto il suo viso, le labbra di Fabrizio che stanno posando infiniti baci sulle sue guance, sul suo mento, sul suo collo; dietro le orecchie, sulla fronte corrugata, perfino sulla punta del naso.
Se lo dicono senza dirselo, perché tra loro è sempre stato così e spesso le parole sono state più un intralcio che un aiuto perché non hanno bisogno di tirar fuori certi concetti vocalmente quando basta uno sguardo o un tocco per capirsi
Come quando Fabrizio l’aveva rassicurato passandogli una mano sulla schiena o quando gli aveva stretto la mano alla vittoria. Quando l’aveva abbracciato, quando l’aveva sostenuto. Quando c’era, semplicemente c’era, nel bene e nel male. 
Ed Ermal aveva fatto lo stesso, toccandolo piano con fare rassicurante quando a Lisbona sapeva che era nervoso, facendolo ridere nel momento in cui gli aveva posato la mano sul ventre, in segno di scherzoso ma sincero affetto. 
Come quando avevano fatto l’amore la prima volta e allora si erano scritti sulla pelle in punta di dita ogni cosa che non avevano avuto le parole per dirsi, percorrendosi, imparandosi e amandosi, imprimendosi addosso ogni sentimento provato, ogni grazie e ogni scusa, sussurrandosi sui corpi baci e sospiri che valevano più di ogni superflua parola. 
Si sono sempre presi cura l’uno dell’altro in quel periodo e hanno continuato a farlo anche poi, ogni giorno sempre di più, ed Ermal sapeva quanto Fabrizio si fosse preso cura della sua anima e del suo cuore, di quanto li avesse risanati e rimessi insieme, alleviando il dolore, medicando quelle ferite che vi si erano aperte fino a quando non avevano smesso di sanguinare e si erano, pian piano, richiuse, lasciando solo delle immaginarie cicatrici che a volte pizzicavano un po’ ma che comunque non erano più fonte di un costante e profondo dolore, debilitanti quanto difficili da chiudere.
Si erano presi cura l’uno dell’altro in quel percorso, abbracciando le paure e le sicurezze altrui, placandole quando potevano o semplicemente restandogli accanto in sostegno. Si erano curati a vicenda e si erano fatti bene, tanto bene e questo era innegabile a chiunque li conoscesse. Insieme avevano accettato ciò che avevano davanti, passo dopo passo, imparando ad accettarsi anche a vicenda e facendo di tutto per sostenersi e supportarsi, per aiutarsi e incoraggiarsi, gioendo ad ogni traguardo, facendosi forza ad ogni sconfitta e quando il loro viaggio professionale era finito avevano continuato a farlo da amici e da amanti, senza mai lasciarsi andare.
Fabrizio lo spinge lentamente indietro ed Ermal si lascia guidare fino a quando la sua schiena non tocca il muro, una mano di Fabrizio che si posa sul suo fianco mentre l’altra tira appena i ricci scuri per fargli inclinare la testa e baciarlo meglio, potendo così anche raggiungere il suo collo, cosa che lo fa sospirare 
Ma Ermal non accetta a lungo quelle attenzioni perché subito lo riporta alle sue labbra, quasi con la stessa disperazione di un assetato che vuole bere alla fonte che ha a portata di mano
Scorre la mano più in basso, fino alle sue natiche, cosa che fa ridacchiare Fabrizio mentre, con fare piuttosto sbrigativo e bucchino, gli infila una gamba tra le sue, facendolo sussultare e gemere appena.
E’ solo quando devono staccarsi per forza di cose per respirare che aprono gli occhi, guardandosi, aprendosi immediatamente in due sorrisi luminosi quanto tremuli per le lacrime che sentono pizzicare negli occhi e che tentano in ogni modo di rimandare indietro.
Ermal tira appena su con il naso, prendendogli il viso tra le mani e carezzandolo con i pollici, tirandosi appena indietro dalla sua gamba contro la quale, in realtà, vorrebbe invece sfregarsi, ma c’è luogo e tempo per ogni cosa
“Simone starà per tornare” mormora, tirando appena su con il naso “E non possiamo traumatizzarlo così come non possiamo sparire a lungo” soffia, posandogli un leggero bacio sulla guancia ruvida per la barba
Fabrizio lo guarda ma, dopo qualche istante, annuisce, comprensivo, tirandosi indietro con la gamba
“C’hai ragione” mormora, carezzandogli dolcemente il fianco e portandogli l’altra mano sul viso
E’ con un sorriso che Ermal si appoggia al suo palmo ruvido e caldo della sua mano, sospirando leggermente
“Ci rifacciamo appena finiamo, va bene?” chiede, sorridendo ancora di più quando lo vede annuire “mi eri mancato così tanto” sussurra poi 
“Anche tu” mormora Fabrizio in risposta, la voce bassa e roca mentre i suoi occhi gli scorrono dolcemente sul viso, donandogli un abbraccio che va oltre al fisico e che ha più a che fare con l’anima 
“Ermal” mormora poi, con gli occhi lucidi, più di prima, e il tono che trema appena “Io voglio-” soffia, tirando su con il naso.
“Lo so” lo interrompe, carezzandolo più energicamente “Stanotte” mormora Ermal “Stanotte ce ne prendiamo cura, di questa cosa. Promesso. Tiriamo via tutto quello che fa ancora male” gli promette, baciandolo poi piano piano
Dopo un istante Fabrizio si tira su, annuendo, guardandolo quasi con gratitudine per la sua rassicurazione
Ermal ricambia dolcemente quello sguardo, continuando ad accarezzarlo 
Lo sanno entrambi che hanno bisogno, ancora una volta, di prendersi cura l’un dell’altro, di levarsi di dosso quel dolore schiacciante e di ritrovarsi uniti del tutto, una volta di più.
Se lo aspettavano, certo, ma quando la porta si apre timidamente e delicatamente, sobbalzano tutti e due, voltandosi, incapaci però di staccarsi a dovere e per fortuna è solo Simone che scivola nel camerino, sorridendogli impacciato 
“Mi spiace interrompervi” mormora lui, tormentandosi appena le mani “Ma Fabrizio, ti stanno cerando” ammette, guardandoli con un sorriso che trasuda scuse
Ermal sorride appena di rimando, sospirando stancamente ma comunque annuendo 
“Va bene” mormora “Grazie Simone” soffia, mentre anche Fabrizio annuisce
“Grazie. Mo’ sarà meglio che vada” mormora, guardando Ermal che, di nuovo, compie un leggero cenno d’assenso
Esita un attimo, lanciando un’occhiata a Simone che sta guardando insistentemente una lampadina rotta sul soffitto come se fosse la cosa più interessante del mondo, e poi si china in avanti per posare un’ultima volta le labbra sulle sue, in un bacio casto e leggero ma ricolmo di così tanto significato che probabilmente pure l’altro può sentirlo.
Ermal sospira, socchiudendo gli occhi mentre accetta quel bacio, sentendo un brivido che non ha nulla a che fare con l’eccitazione percorrerlo, e quando Fabrizio scivola indietro lo accompagna nel movimento, le sue mani che lo accarezzano mentre si allontana e lui che sembra volerlo seguire per non staccarsi da lui 
Ma alla fine Fabrizio si allontana e lui lo lascia fare, sospirando pesantemente, quel macigno che aveva addosso che torna a pesargli parzialmente sulle spalle
“Ci vediamo dopo” promette Fabrizio, guardandolo un’ultima volta prima di scivolare via.
Quando la porta si chiude dolcemente alle sue spalle, Ermal si lascia andare a un leggero singhiozzo, che è quasi stupito lui stesso di sentirsi uscire dalla gola
“Scusa” mormora, all’indirizzo di Simone che, seppur un po’ stupito, scuote il capo e si affanna per tendergli un fazzoletto
“Non preoccuparti” dice rassicurante “E’ stato bello vedervi riabbracciarvi è stato... emozionate” mormora a mezza voce “Si capisce che vi volete bene e... non lo so, mi avete smosso qualcosa dentro. Fare parte di quell’istante, anche se da esterno, è stato più di quanto avrei immaginato” gli mormora, carezzandogli piano una spalla, mentre Ermal si soffia il naso e ricaccia indietro le lacrime “Penso che voi siate l’esempio migliore di quel che intendo con cura” mormora poi dopo un istante di silenzio, ed Ermal volta il capo nella sua direzione, stupendosi quando lo trova con gli occhi appena lucidi 
“Si vede che ci siete sempre l’uno per l’altro, anche quando non siete lì fisicamente” mormora a mo’ di spiegazione Simone “Si percepisce, il vostro affetto, e in quell’abbraccio si percepivano tante cose... tutte molto belle. Vedi per me la cura non è solo una cosa fisica, ma anche una cosa dell’anima e non è fatta da grandi gesti, quanto da piccoli particolari. Semi, che si piantano e coltivano con piccoli gesti d’amore che gli consentono però di sbocciare e prosperare. Questo intendo, quando dico che niente è più grande delle piccole cose: non servono cose eclatanti, per prendersi cura di un’altra persona. Basta un sorriso, un gesto d’affetto. Basta esserci, sia fisicamente che non. Questo, è il vero miracolo. Ho la sensazione che siate quel tipo di persone che capiscono a fondo cosa vuol dire che non esiste giorno che sia uguale a ieri e che per questo siate davvero capaci di dare valore a ogni singolo attimo. Come in quell’abbraccio di prima: in un istante, ci avete messo un universo intero” gli sorride, prima di tirasi su “Si capisce che avete coltivato la vostra amicizia, insieme a tutto il resto. Che avete superato le difficoltà che avete trovato insieme e insieme siete andati oltre. Oltre alle.. come dite voi? le vostre stupide guerre” cita “Avete costruito un ponte tra i vostri due mondi e tra i vostri cuori, riuscendo a costruirne uno ancor più grande tra voi e le persone. Le avete unite come vi siete uniti voi. Siete un bell’esempio di cosa sia l’amore, in qualsiasi forma lo si voglia guardare” asserisce prima di sospirare
“Comunque, ora dobbiamo andare” osserva “Ce la fai?” gli chiede dolcemente
Ermal annuisce, gettando il fazzoletto nel cestino e raddrizzandosi a sua volta, commosso dalle parole rivoltegli “Sì, grazie” mormora, prima di ricomporsi, regalandogli poi un sorriso mentre si avvicina “Adesso” afferma, mettendogli le mani sulle spalle con fare solenne “tocca a me prendermi cura di te e  della tua canzone, per cui andiamo” afferma, guardando Simone sorridergli di rimando mentre mette piano le mai sulle sue braccia
“E di questo, io ti ringrazio. So che lo farai bene” lo rassicura “E sarei onorato di dire di aver trovato un nuovo amico” gli rivela, guardandolo annuire e mormorare “anche per me sarebbe un onore” prima di sistemarsi appena la giacca, togliendo le mani da lui
“Andiamo allora” mormora, uscendo dal camerino con Ermal a seguito 
E mentre camminano in silenzio l’uno affianco all’altro, Ermal sa che prima tocca a Simone e che deve resistere solo qualche ora prima di potersi prendere cura anche di Fabrizio 
Ma come sempre, varrà la pena aspettare.
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Io piango e vomito”…
Il dottor Pietro Bartolo, medico di Lampedusa, da decenni ormai accoglie i migranti stremati dalla traversata, quelli vivi e quelli morti. Il racconto di quanto ha vissuto nei suoi anni di servizio lo ha fatto una studentessa di Medicina dell’Università di Modena:
“Mi reco molto assonnata al congresso più inflazionato della mia carriera universitaria, conscia che probabilmente mi addormenterò nelle file alte dell’aula magna. Mi siedo, leggo la scaletta, la seconda voce è “sanità pubblica e immigrazione: il diritto fondamentale alla tutela della salute”. Inevitabilmente penso “e che do bali”. Accendo Pokémon Go, che sono sopra una palestra della squadra blu. Mi accingo a conquistarla per i rossi. Comincia a parlare il tale Dottor Pietro Bartolo, che io non so chi sia. Non me ne curo. Ero lì che tentavo di catturare un bulbasaur e sento la sua voce in sottofondo: non parla di epidemiologia, di eziologia, non si concentra sui dati statistici di chissà quale sindrome di lallallà. Parla di persone. Continua a dire “persone come noi”. Decido di ascoltare lui con un orecchio e bulbasaur con l’altro. Bartolo racconta che sta lì, a Lampedusa, ha curato 350mila persone, che c’è una cosa che odia, cioè fare l’ispezione cadaverica. Che molti non hanno più le impronte digitali. E lui deve prelevare dita, coste, orecchie. Lo racconta: “Le donne? Sono tutte state violentate. TUTTE. Arrivano spesso incinte. Quelle che non sono incinte non lo sono non perché non sono state violentate, non lo sono perché i trafficanti hanno somministrato loro in dosi discutibili un cocktail estroprogestinico, così da essere violentate davanti a tutti, per umiliarle. Senza rischi, che le donne incinte sul mercato della prostituzione non fruttano”. Mi perplimo. 
A quel punto la studentessa si domanda: “Ma non era un congresso ad argomento clinico? Dove sono le terapie? Perché la voce di un internista non mi sta annoiando con la metanalisi sull’utilizzo della sticazzitina tetrasolfata? Decido di mollare bulbasaur, un secondino, poi torno Bulba, devo capire cosa sta dicendo questo qua. “Su questi barconi gli uomini si mettono tutti sul bordo, come una catena umana, per proteggere le donne, i bambini e gli anziani all’interno, dal freddo e dall’acqua. Sono famiglie. Famiglie come le nostre”. Mostra una foto, vista e rivista, ma lui non è retorico, non è formale. È fuori da ogni schema politically correct, fuori da ogni comfort zone. “Una notte mi hanno chiamato: erano sbarcati due gommoni, dovevo andare a prestare soccorso. Ho visitato tutti, non avevano le malattie che qualcuno dice essere portate qui da loro. Avevano le malattie che potrebbe avere chiunque. Che si curano con terapie banali. Innocue. Alcuni. Altri sono stati scuoiati vivi, per farli diventare bianchi. Questo ragazzo ad esempio”, mostra un’altra foto, tutt’altro che vista e rivista. Un giovane, che avrà avuto 15/16 anni, affettato dal ginocchio alla caviglia. Mi dimentico dei Pokémon. “Lui è sopravvissuto agli esperimenti immondi che gli hanno fatto. Suo fratello, invece, non ce l’ha fatta. Lui è morto per essere stato scuoiato vivo”. Metto il cellulare in tasca. ”Qualcuno mi dice di andare a guardare nella stiva, che non sarà un bello spettacolo. Così scendo, mi sembrava di camminare su dei cuscini. Accendo la torcia del mio telefono e mi trovo questo..”. Mostra un’altra foto. Sembrava una fossa comune. Corpi ammassati come barattoli di uomini senza vita. “Questa foto non è finta. L’ho fatta io. Ma non ve la mostrano nei telegiornali. Sono morti li, di asfissia. Quando li abbiamo puliti ho trovato alcuni di loro con pezzi di legno conficcati nelle mani, con le dita rotte. Cercavano di uscire. Avevano detto loro che siccome erano giovani, forti e agili rispetto agli altri, avrebbero fatto il viaggio nella stiva e poi, con facilità, sarebbero usciti a prendere aria presto. E invece no. Quando l’aria ha cominciato a mancare, hanno provato ad uscire dalla botola sul ponte, ma sono stati spinti giù a calci, a colpi in testa. Sapeste quanti ne ho trovati con fratture del cranio, dei denti. Sono uscito a vomitare e a piangere. Sapeste quanto ho pianto in 28 anni di servizio, voi non potete immaginare”. Ora non c’è nessuno in aula magna che non trattenga il fiato, in silenzio. “Ma ci sono anche cose belle, cose che ti fanno andare avanti. Una ragazza. Era in ipotermia profonda, in arresto cardiocircolatorio. Era morta. Non avevamo niente. Ho cominciato a massaggiarla. Per molto tempo. E all’improvviso l’ho ripresa. Aveva edema, di tutto. È stata ricoverata 40 giorni. Kebrat era il suo nome. È il suo nome. Vive in Svezia. È venuta a trovarmi dopo anni. Era incinta” ci mostra la foto del loro abbraccio”.Di Vivo spiega la preoccupazione di Bartolo: “La gente non capisce. C’è qualcuno che ha parlato di razza pura. Ma la razza pura è soggetta a più malattie. Noi contaminandoci diventiamo più forti, più resistenti. E l’economia? Queste persone, lavorando, hanno portato miliardi nelle casse dell’Europa. E io aggiungo che ci hanno arricchito con tante culture. A Lampedusa abbiamo tutti i cognomi del mondo e viviamo benissimo. Ci sono razze migliori di altre, dicono. Si, rispondo io. Loro sono migliori. Migliori di voi che asserite questo”. Fa partire un video e descrive: “Questo è un parto su una barca. La donna era in condizioni pietose, sdraiata per terra. Ho chiesto ai ragazzi un filo da pesca, per tagliare il cordone. Ma loro giustamente mi hanno risposto “non siamo pescatori”. Mi hanno dato un coltello da cucina. Quella donna non ha detto bau. Mi sono tolto il laccio delle scarpe per chiudere il cordone ombelicale, vedete? Lei mi ringraziava, era nera, nera come il carbone. Suo figlio invece era bianchissimo. Si perché loro sono bianchi quando nascono, poi si inscuriscono dopo una decina di giorni. E che problema c’è, dico io, se nascono bianchi e poi diventano neri? Ha chiamato suo figlio Pietro. Quanti Pietri ci sono in giro!”. Sorridiamo tutti. “Quest’altra donna, invece, è arrivata in condizioni vergognose, era stata violentata, paralizzata dalla vita in giù… Era incinta. Le si erano rotte le acque 48 ore prima. Ma sulla barca non aveva avuto lo spazio per aprire le gambe. Usciva liquido amniotico, verde, grande sofferenza fetale. Con lei una bambina, anche lei violentata, aveva 4 anni. Aveva un rotolo di soldi nascosto nella vagina. E si prendeva cura della sua mamma. Tanto che quando cercavo di mettere le flebo alla mamma lei mi aggrediva. Chissà cosa aveva visto. Le ho dato dei biscotti. Lei non li ha mangiati. Li ha sbriciolati e ci imboccava la mamma. Alla fine le ho dato un giocattolo. Perché ci arrivano una montagna di giocattoli, perché la gente buona c’è. Ma quella bimba non l’ha voluto. Non era più una bambina ormai.”(…)“
Ci mostra un altro video. Dei sommozzatori estraggono da una barca in fondo al mare dei corpi esanimi. “Non sono manichini” ci dice. Il video prosegue. Un uomo tira fuori dall’acqua un corpicino. Piccolo. Senza vita. Indossava un pantaloncino rosso. “Quel bambino è il mio incubo. Io non lo scorderò mai”. 
Non riesco più a trattenere le lacrime. E il rumore di tutti coloro che, alternandosi in aula, come me, hanno dovuto soffiarsi il naso. “E questo è il risultato” ci mostra l’ennesima foto. “368 morti. Ma 367 bare. Si. Perché in una c’è una mamma, arrivata morta, col suo bambino ancora attaccato al cordone ombelicale. Sono arrivati insieme. Non abbiamo voluto separarli, volevamo che rimanessero insieme, per l’eternità”. 
Penso che possa bastare così. E questo è un estratto. Si, perché il Dottor Bartolo ha parlato per un’ora. Gli altri relatori hanno lasciato a lui il loro tempo. Nessuno ha osato interromperlo. E quando ha finito tutti noi, studenti, medici e professori, ci siamo alzati in piedi e abbiamo applaudito, per lunghi minuti. E basta. Lui non ha bisogno di aiuto: “non venite a Lampedusa ad aiutarci, ce l’abbiamo sempre fatta da soli noi lampedusani. Se non siete medici, se non sapete fare nulla e volete aiutare, andate a raccontare quello che avete sentito qui, fate sapere cosa succede a coloro che dicono che c’è l’invasione. Ma che invasione!”…
_ Virginia Di Vivo
C’é chi mi dice leggendo i miei tweet, post, il mio blog... che il potere ha altri intenti che salvare queste vite, mi dicono: restiamo con gli occhi aperti... io dico che resisto per non chiudere il cuore alla vita e al suo diritto insopprimibile.  RossellaRò
Qui il video della relazione all’Università del Dott. Bartolo...
Video:https://www.youtube.com/watch?v=di7nkfqXpVc
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goodbearblind · 5 years
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"Facevo il medico. Non bastava.
Facevo il medico e lo scrittore. Non bastava.
Facevo il medico, lo scrittore, il regista. Non bastava ancora.
Allora mi sono messo in viaggio per raccontare la verità ai ragazzi e son venuto qui".
Ha scelto il Congresso Studentesco MoReMED il Dott. Pietro Bartolo, Dirigente Medico del presidio Sanitario di Lampedusa , per raccontare la vita dei migranti sull'isola. Di tutta risposta, gli oltre 800 giovani spettatori presenti al MoReMED, primo Congresso in Italia organizzato e rivolto a studenti di medicina, ha ringraziato il Dott. Bartolo per la preziosa testimonianza, con una sentita standing ovation di diversi minuti, che ha commosso lo stesso Bartolo.
Il feedback di una studentessa che ha assistito all'evento:
Questo è un post di Virginia di Vivo. Studentessa di medicina.
#MoreMed2019
Mi reco molto assonnata al congresso più inflazionato della mia carriera universitaria, conscia che probabilmente mi addormenterò nelle file alte dell’aula magna. Mi siedo, leggo la scaletta, la seconda voce è “sanità pubblica e immigrazione: il diritto fondamentale alla tutela della salute”. Inevitabilmente penso “e che do bali”. Accendo Pokémon Go, che sono sopra una palestra della squadra blu. Mi accingo a conquistarla per i rossi. Comincia a parlare il tale Dottor Pietro Bartolo, che io non so chi sia. Non me ne curo. Ero lì che tentavo di catturare un bulbasaur e sento la sua voce in sottofondo: non parla di epidemiologia, di eziologia, non si concentra sui dati statistici di chissà quale sindrome di *lallallà*. Parla di persone. Continua a dire “persone come noi”. Decido di ascoltare lui con un orecchio e bulbasaur con l’altro. Bartolo racconta che sta lì, a Lampedusa, ha curato 350mila persone, che c’è una cosa che odia, cioè fare il riconoscimento cadaverico. Che molti non hanno più le impronte digitali. E lui deve prelevare dita, coste, orecchie. Lo racconta:”Le donne? Sono tutte state violentate. TUTTE. Arrivano spesso incinte. Quelle che non sono incinte non lo sono non perché non sono state violentate, non lo sono perché i trafficanti hanno somministrato loro in dosi discutibili un cocktail antiprogestinico, così da essere violentate davanti a tutti, per umiliarle. Senza rischi, che le donne incinte sul mercato della prostituzione non fruttano”. Mi perplimo.
Ma non era un congresso ad argomento clinico? Dove sono le terapie? Perché la voce di un internista non mi sta annoiando con la metanalisi sull’utilizzo della sticazzitina tetrasolfata? Decido di mollare bulbasaur, un secondino, poi torno Bulba, devo capire cosa sta dicendo questo qua.
“Su questi barconi gli uomini si mettono tutti sul bordo, come una catena umana, per proteggere le donne, i bambini e gli anziani all’interno, dal freddo e dall’acqua. Sono famiglie. Famiglie come le nostre”.
Mostra una foto, vista e rivista, ma lui non è retorico, non è formale. È fuori da ogni schema politically correct, fuori da ogni comfort zone.
“Una notte mi hanno chiamato: erano sbarcati due gommoni, dovevo andare a prestare soccorso. Ho visitato tutti, non avevano le malattie che qualcuno dice essere portate qui da loro. Avevano le malattie che potrebbe avere chiunque. Che si curano con terapie banali. Innocue. Alcuni. Altri sono stati scuoiati vivi, per farli diventare bianchi. Questo ragazzo ad esempio”, mostra un’altra foto, tutt’altro che vista e rivista. Un giovane, che avrà avuto 15/16 anni, affettato dal ginocchio alla caviglia.
Mi dimentico dei Pokémon.
“Lui è sopravvissuto agli esperimenti immondi che gli hanno fatto. Suo fratello, invece, non ce l’ha fatta. Lui è morto per essere stato scuoiato vivo”.
Metto il cellulare in tasca.
”Qualcuno mi dice di andare a guardare nella stiva, che non sarà un bello spettacolo. Così scendo, mi sembrava di camminare su dei cuscini. Accendo la torcia del mio telefono e mi trovo questo..”
Mostra un’altra foto.
Sembrava una fossa comune. Corpi ammassati come barattoli di uomini senza vita.
“Questa foto non è finta. L’ho fatta io. Ma non ve la mostrano nei telegiornali. Sono morti li, di asfissia. Quando li abbiamo puliti ho trovato alcuni di loro con pezzi di legno conficcati nelle mani, con le dita rotte. Cercavano di uscire. Avevano detto loro che siccome erano giovani, forti e agili rispetto agli altri, avrebbero fatto il viaggio nella stiva e poi, con facilità, sarebbero usciti a prendere aria presto. E invece no. Quando l’aria ha cominciato a mancare, hanno provato ad uscire dalla botola sul ponte, ma sono stati spinti giù a calci, a colpi in testa. Sapeste quanti ne ho trovati con fratture del cranio, dei denti. Sono uscito a vomitare e a piangere. Sapeste quanto ho pianto in 28 anni di servizio, voi non potete immaginare”.
Ora non c’è nessuno in aula magna che non trattenga il fiato, in silenzio.
“Ma ci sono anche cose belle, cose che ti fanno andare avanti. Una ragazza. Era in ipotermia profonda, in arresto cardiocircolatorio. Era morta. Non avevamo niente. Ho cominciato a massaggiarla. Per molto tempo. E all’improvviso l’ho ripresa. Aveva edema, di tutto. È stata ricoverata 40 giorni. Kebrat era il suo nome. È il suo nome. Vive in Svezia. È venuta a trovarmi dopo anni. Era incinta” ci mostra la foto del loro abbraccio.
“..Si perché la gente non capisce. C’è qualcuno che ha parlato di razza pura. Ma la razza pura è soggetta a più malattie. Noi contaminandoci diventiamo più forti, più resistenti. E l’economia? Queste persone, lavorando, hanno portato miliardi nelle casse dell’Europa. E io aggiungo che ci hanno arricchito con tante culture. A Lampedusa abbiamo tutti i cognomi del mondo e viviamo benissimo. Ci sono razze migliori di altre, dicono. Si, rispondo io. Loro sono migliori. Migliori di voi che asserite questo”.
Fa partire un video e descrive:”Questo è un parto su una barca. La donna era in condizioni pietose, sdraiata per terra. Ho chiesto ai ragazzi un filo da pesca, per tagliare il cordone. Ma loro giustamente mi hanno risposto “non siamo pescatori”. Mi hanno dato un coltello da cucina. Quella donna non ha detto bau. Mi sono tolto il laccio delle scarpe per chiudere il cordone ombelicale, vedete? Lei mi ringraziava, era nera, nera come il carbone. Suo figlio invece era bianchissimo. Si perché loro sono bianchi quando nascono, poi si inscuriscono dopo una decina di giorni. E che problema c’è, dico io, se nascono bianchi e poi diventano neri? Ha chiamato suo figlio Pietro. Quanti Pietri ci sono in giro!”.
Sorridiamo tutti.
“Quest’altra donna, invece, è arrivata in condizioni vergognose, era stata violentata, paralizzata dalla vita in giù... Era incinta. Le si erano rotte le acque 48 ore prima. Ma sulla barca non aveva avuto lo spazio per aprire le gambe. Usciva liquido amniotico, verde, grande sofferenza fetale. Con lei una bambina, anche lei violentata, aveva 4 anni. Aveva un rotolo di soldi nascosto nella vagina. E si prendeva cura della sua mamma. Tanto che quando cercavo di mettere le flebo alla mamma lei mi aggrediva. Chissà cosa aveva visto. Le ho dato dei biscotti. Lei non li ha mangiati. Li ha sbriciolati e ci imboccava la mamma. Alla fine le ho dato un giocattolo. Perché ci arrivano una montagna di giocattoli, perché la gente buona c’è. Ma quella bimba non l’ha voluto. Non era più una bambina ormai.”
Foto successiva.
“Questa foto invece ha fatto il giro del mondo. Lei è Favour. Hanno chiamato da tutto il mondo per adottarla. Lei è arrivata sola. Ha perso tutti: il suo fratellino, il suo papà. La sua mamma prima di morire per quella che io chiamo la malattia dei gommoni, che ti uccide per le ustioni della benzina e degli agenti tossici, l’ha lasciata ad un’altra donna, che nemmeno conosceva, chiedendole di portarla in salvo. E questa donna, prima di morire della stessa sorte, me l’ha portata. Ma non immaginate quanti bambini, invece, non ce l’hanno fatta. Una volta mi sono trovato davanti a centinaia di sacchi di colori diversi, alcuni della Finanza, alcuni della polizia. Dovevo riconoscerli tutti. Speravo che nel primo non ci fosse un bambino. E invece c’era proprio un bambino. Era vestito a festa. Con un pantaloncino rosso, le scarpette. Perché le loro mamme fanno così. Vogliono farci vedere che i loro bambini sono come i nostri, uguali”.
Ci mostra un altro video. Dei sommozzatori estraggono da una barca in fondo al mare dei corpi esanimi. “Non sono manichini” ci dice.
Il video prosegue.
Un uomo tira fuori dall’acqua un corpicino. Piccolo. Senza vita. Indossava un pantaloncino rosso. “Quel bambino è il mio incubo. Io non lo scorderò mai”.
Non riesco più a trattenere le lacrime. E il rumore di tutti coloro che, alternadosi in aula, come me, hanno dovuto soffiarsi il naso.
“E questo è il risultato” ci mostra l’ennesima foto. “368 morti. Ma 367 bare. Si. Perché in una c’è una mamma, arrivata morta, col suo bambino ancora attaccato al cordone ombelicale. Sono arrivati insieme. Non abbiamo voluto separarli, volevamo che rimanessero insieme, per l’eternità”.
Penso che possa bastare così. E questo è un estratto. Si, perché il Dottor Bartolo ha parlato per un’ora. Gli altri relatori hanno lasciato a lui il loro tempo. Nessuno ha osato interromperlo. E quando ha finito tutti noi, studenti, medici e professori, ci siamo alzati in piedi e abbiamo applaudito, per lunghi minuti. E basta. Lui non ha bisogno di aiuto, “non venite a Lampedusa ad aiutarci, ce l’abbiamo sempre fatta da soli noi lampedusani. Se non siete medici, se non sapete fare nulla e volete aiutare, andate a raccontare quello che avete sentito qui, fate sapere cosa succede a coloro che dicono che c’è l’invasione. Ma che invasione!”.
E io non mi espongo, perché non so le cose a modo. Ma una cosa la so. E cioè che questo è vergognoso, inumano, vomitevole. E non mi importa assolutamente nulla del perché sei venuto qui, se sei o no regolare, se scappi dalla guerra o se vieni a cercare fortuna: arrivare così, non è umano. E meriti le nostre cure. Meriti un abbraccio. Meriti rispetto. Come, e forse più, di ogni altro uomo.
#fuocoammare
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anjalightwoodyoga · 5 years
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E’ bastato leggere il mittente dell’e-mail per farla uscire rapidamente dall’appartamento. Ha portato dietro di sé delle birre, un cavatappi e il pad oltre che poche cose. Ha visto il messaggio, lo ha bloccato sul nascere mentre la sua casa improvvisamente è diventata stretta. Via per le stradine scomode e strette, una dannata corsa mentre l’aria fredda della sera le ha ferito la pelle del volto. Via sulle scale secondarie di una palazzina e poi fino ad un tetto, già visitato in passato. Uno dei suoi posti preferiti, silenziosi, alti, isolati. Da lì la città è ai suoi piedi, il panorama non è niente male. Si muove in direzione del cornicione, le gambe esili e toniche coprono quei pochi metri. Si siede e le lascia lì a ciondolare nel vuoto. Le birre in attesa di Rhys. Il resto è solo quel suo corpo tremante, le dita sottili che con trepidante attesa accende quel tablet. Stringe dentro la sua felpa lunga, le gambe che si protendono nel vuoto, i piedi avvolti in delle converse chiare ma sporche per l’usura. I capelli riversi in avanti, privi di piega ma profumati. Il resto sono lunghi secondi avvolti nel silenzio, rotti solo da qualche miagolio lontano o dalle sirene che attraversano le vie del South. Aziona il video che è stato inoltrato da Constantine Scott, il fratello maggiore di Brendan. Prende un grosso respiro la telepate un po' come se stesse per andare in apnea. I suoi occhi sono già gonfi da tutto il giorno, perciò basta vedere quella faccia per renderli ferocemente lucidi ancora una volta.
 Si vede Brendan con dietro di sé quello che sembra un muro spoglio di cemento, sembra quasi uno scantinato. È sempre il solito, male in arnese, maglietta grigia e jeans, dall'abbigliamento il video deve essere stato girato da poco. Durante il discorso fuma un paio di sigarette nel solito modo avido ed è seduto su una sedia di plastica, sembra sereno, fiducioso e beffardo allo stesso tempo. Tutto il modo di fare trasuda la solita serenità incoraggiante.
 Stinge le labbra ancora una volta, corruga la fronte e fa diverse smorfie e l’arcata dentale scivola contro il labbro inferiore, tormentandolo ancora una volta, fino ad arrossarlo. Non capisce molto, non capisce che cosa sia quel video ed è piena di punti di domande al momento ma vederlo così, vivo, sorridente come lo era il giorno precedente quando si erano sentiti per telefono, per chiederle come stava. Ed ora l’idea che sia morto, le mette su il magone ancora una volta, non vede più nulla. Si passa il braccio sulla faccia, il mascara le crolla nella palpebra inferiore come una patina. Cerca di non piangere ma manda via tutto, con ostinazione, con rabbia e dolore. Finalmente ascolta, guarda.
 «Se mio fratello vi ha mandato questo messaggio allora vuol dire che sono morto. Un bel modo di cominciare, vero? Non è il primo video di questo tipo che giro da quando sono Preside, e onestamente spero di fare come faccio ogni giorno, tornare qui e cancellarlo. Se Andrea mi becca sono un uomo morto, ma per altri motivi» segue una risata sentita e rauca del Preside.
 Anja rimane incredula ad ascoltare le sue parole, il volto è ancora indurito e forse un poco arrabbiato al momento. Confusa mentre la voce di Brendan le riempie le orecchie, così come la sua vista la consola.
 «Avrei potuto onestamente scrivere un messaggio, ma come Rory dice e Simmons ama ripetere, parlo troppo. Così ho pensato di sfruttare questa cosa. Allora, torniamo al campo base e ricapitoliamo. Se qualcuno o qualcosa è riuscito ad uccidermi faccio loro i complimenti. Magari sono morto per la famosa cornice del quadro in testa. Dei dell''Olimpo, sarebbe il colmo.» ennesima risata beffarda.
 “Non ci sta nulla da ridere!” lo dice, inveisce con il pad, contro quel qualcuno che ormai non le può rispondere. Ed il primo input è quello di lanciare via il dispositivo o semplicemente dargli fuoco con la sua mano sebbene poi, si controlli e non lo fa. Torna ad ascoltare.
 «Comunque, qualunque cosa sia successa, non dovete preoccuparvi. I'll be back come Terminator. Quello che mi preme dire è ben altro. Il nostro compito è difficilissimo, è come far partire una scintilla. Non lasciate che brucino i roghi senza controllo, ma con questa scintilla accendete il fuoco della speranza, siate un faro per tutti quelli che credono in noi e per le anime più sperdute. Portate avanti il nostro ideale ragazzi, perché gli ideali non muoiono mai. Ricordate, non lo facciamo per noi stessi.
[…] Fatemi vedere quanto posso essere orgoglioso di voi, e lo sono già molto.
Voglio che siate coraggiosi e non perdiate mai, mai, mai la speranza che tutto possa cambiare. Ma veniamo a noi.»
 Ascolta ancora una volta con trepidazione, i denti che tartassano il labbro inferiore, la schiena incurvata, i capelli che le scivolano in avanti, i piedi che ciondolano nel vuoto, gli occhi arrossati e addolorati. E’ il suo momento di inbruttirsi prima di tornare attiva e sorridente a Scuola.  Ascolta le parole di Brendan, elencano nomi, consigli, uno dopo l’altro. Alcuni strappano sorrisi, altri piccoli mugugni o lamentele.
 «E arriviamo a voi due...Anja e Adam.»
 Mantiene lo guardo ancora sullo schermo, la vista annebbiata. Certa che romperà la diga ancora quando toccherà a lei. Respira a fondo, poi posa gli occhi stanchi verso il panorama offerto, sulle case silenziose lontane. “Ha ragione, Matt. Parli troppo”. Scuote il capo, un altro pensiero che vola verso il telecineta, ancora vivo grazie al cielo e che le strappa una forte stretta allo stomaco. Prende un altro grosso respiro mentre il cuore le martella forte nel petto. Torna al presente solo quando il suo nome viene di nuovo menzionato.
 «Quello che ho da dirti è molto importante, Anja Lightwood, e vorrei che ti fidassi come hai fatto fino a questo momento. Ti abbiamo vista arrivare e cambiare, da giovane telepate spaventata a quello che sei ora: un'Assistente modello, intraprendente e speranzosa. Hai trasformato i tuoi dubbi in punti di forza, hai ascoltato e hai appreso, hai studiato i casi che abbiamo e vi hai dato il tuo contributo. È giusto ora che tu inizi a dare quello che hai preso e che anche il tuo percorso continui: se vorrai c'è un posto da Professoressa per te. Ci saremo sempre intorno a darti una mano, non avere paura. Sono fiero di te, cerca di esserlo anche tu. Sono fiero di tutti voi.» Un sospiro, guarda qualcosa fuori campo, probabilmente un orologio «Ho parlato fin troppo, come previsto. Ora direi basta. Non abbiate paura: curate quella scintilla, fatela vostra. So che potete farlo.» Brendan si alza e si avvicina, il video si chiude subito dopo.
 Anja se ne rimane in silenzio, il dorso della mano che ricaccia via ogni possibile lacrima, non ha permesso nemmeno ad una di quelle di scendere. Tira su con il naso e poi annuisce con un certo vigore, decidendo di alzarsi in piedi dopo aver poggiato il pad sul cornicione. Stringe i pugni, fa ancora freddo ma cerca sostegno in quel calore che proviene da dentro. Respira a fatica, gli occhi però questa volta sono carichi, non è solo il dolore, la tristezza, la rabbia ma anche determinazione, speranza che mai l’ha abbandonata. Pare respirare a pieni polmoni, corruga la fronte e poi, dopo un grosso respiro, tira fuori tutto parla, grida contro il vuoto “SIII!” stringe i pugni, scalpita appena mentre il South è ai suoi piedi “ACCETTOOO! MI HAI SENTITO MALEDETTO YODA! ACCETTOOOO!” sfiata aria calda “Maldetto… mi devi un tavolino nuovo”  a cui ha dato fuoco appena ha scoperto ciò che era accaduto. Si calma un poco, torna a sedersi. Ormai Rhys sarebbe arrivato da un momento ad un altro. 
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mydemonicas · 6 years
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VARESE!AU PARTE 3
CE L’ABBIAMO FATTA. Questa terza parte della AU ambientata al lago di Varese è stata un vero parto perché io e @Iriennevaplusl (che non riesco ancora a taggare per motivi sconosciuti) siamo prolisse e Tumblr con i suoi blocchi limitati ci ha messe davvero alla prova per la pubblicazione.
Come avrete notato questa cosa si sta davvero sviluppando e se tutto va bene il totale sarà di 5 parti, in parte (scusate il gioco di parole) già scritte e plottate. Quindi il prossimo aggiornamento arriverà davvero a breve!
Nelle puntate preceprima (cit):
PARTE 1
PARTE 2
Eravamo rimasti con i nostri piccioncini separati dopo un venerdì decisamente intenso, con Ermal che torna in camera e Fab che se ne va. Appena varcata la soglia si ritrova Marco, Vige e Dino che si zittiscono e lo fissano e Ermal che “Avete visto l’apparizione della madonna?”
Vige: “Se la madonna si è fatta la permanente... beh si”
Ermal: “Ma non dovreste, che so, stare in giro a rimorchiare gente invece di star qua chiusi in camera? Da quando i nerd siete diventati voi?”
Dino: “Sai com’è, sei sparito da dopo pranzo e a momenti chiamavano la polizia pensando alle cose più tragiche che potevano esserti capitate”
Marco: “Io ho puntato sul rapimento”
Ermal: “Esistono i messaggi”
Vige: “Se tu rispondessi”
Marco: “In realtà era solo lui quello preoccupato, io sono solo stanco”
Vige: “Era più preoccupato dalle spiegazioni da dare a Mira comunque”
Dino: “Begli amici che siete!”
Vige e Marco in contemporanea: “Ma è la verità!” seguiti da attimi di pausa in cui si lanciano delle occhiate di sfida e poi tornano a guardare Ermal
Ermal: “Ero in giro”
Vige: “Da solo, per tutto ‘sto tempo”
Ermal che sbuffa e: “...con Fabrizio”
Dino e Vige che ???????
Marco: “Il tipo che ci ha aperto la porta?” e Ermal che tace e inizia a spogliarsi per mettersi il pigiama togliendosi la camicia e le scarpe, ma quando si toglie la cintura si ricorda di aver limonato con Fabrizio per 20 minuti nel retro dell’albergo e si rende conto che forse ha bisogno di un’altra doccia fredda
Vige: “Ah quello... A H” Marco e Vige che si scambiano un’occhiata che dice tutto
Dino: “E?”
Ermal: “E cosa?”
Dino: “Com’è andata?”
Ermal: “È un pigiama party e ci dobbiamo confidare tutti i nostri segreti?”
Vige: “Potresti” con Ermal che gli lancia uno sguardo truce e: “Vado a farmi una doccia”, si prende il pigiama e si chiude in bagno e immaginate i ragazzi sui letti a spettegolare come delle 70enni AHAHAHAH, Vige e Dino in particolare
Vige: “Secondo te ci dirà qualcosa?”
Dino: “Ah boh, vallo a capire”
Vige: “Ma siamo i suoi amici! Qui è l’unico che rimorchia effettivamente qualcuno, ci servono i dettagli” Marco che esce dal silenzio con un: “Ma parla per te!”
Dino: “Buona fortuna”
Vige: “Marco che ne pensi?” e Macco se ne esce con un’alzata di spalle. Quando Erma esce dal bagno ormai hanno abbandonato in un angolo l’argomento e mentre Ermal prende il tabacco per farsi una sigaretta sentenzia con un “vado a fumare” aprendo la finestra del balcone “Aspè vengo anch’io” dice Marco prima di alzarsi dal letto per prendere il pacchetto delle sigarette. Fatto sta che si ritrovano Ermal e Marco sul balcone appoggiati con i gomiti alla ringhiera con le finestre socchiuse mentre gli altri parlano di musica e cose varie.
Ermal: “Mi piace davvero, sai? -Marco che si gira verso di lui alzando le sopracciglia- Fabrizio. Sono stato bene oggi, non mi capitava da un po’”
Marco: “Suona? Ho visto la chitarra” ad Ermal si illuminano gli occhi e sorride d’istinto: “Si, ha una voce spettacolare. Dovresti sentirlo, è... graffiante, calda. È molto bella.” Marco che lo guarda e fa un mezzo sorriso, bastava quello per capire che Ermal era già sotto un treno per il tipo
Ermal, dopo qualche secondo di silenzio: “E se stessi sbagliando? A provarci, intendo”
Marco: “Pensi che lui non ci starebbe?” e Ermal che si gira a guardarlo ridendo: “Oh ci starebbe eccome, credimi, anche troppo” e Marco solo ora si rende conto di un leggero livido succhiotto che viene nascosto dai riccioli e quasi si soffoca facendo un tiro alla sigaretta “E allora che problemi ci sono?”
Ermal: “Sai come sono, dovrebbe essere una vacanza” e Marco che capisce, è il suo migliore amico e sa che se qualcuno lo prende ci investe anima e corpo e questa vacanza finita, non durerà in eterno e non può permettersi di perdere la testa per una persona che tra tot giorni non rivedrà più
Marco: “Non ti fasciare la testa prima di cadere, vedi come va e non ti privare di nulla finché puoi, poi si vedrà” dice subito dopo aver spento definitivamente la sigaretta girandosi verso Ermal che sta spegnendo anche la sua
Ermal che sussurra un “Grazie Macco” mentre appoggia per un attimo la testa sulla spalla di Marco mentre lui gli mette un braccio sulla spalla stringendola un po’ e Ermal che trattiene a stento il “E se stessi già cadendo?” che ha sulla punta della lingua (In inglese poi è tutto più bello perché cadere=fall=fall in love=innamorarsi e AAAAAAAAAA E CHE CAZZO)
La sveglia, la mattina successiva, suona dopo quello che gli sembra troppo poco tempo. Ad Ermal sembra di aver dormito due ore. E con tutto il tempo che ha passato a girarsi e rigirarsi nel letto probabilmente non ha tutti i torti.
Per ore ha rimuginato su quello che ha detto a Marco, e i dubbi, la confusione cosmica dei suoi sentimenti e i ricordi dei giorni precedenti l'hanno tenuto mezzo sveglio, lasciandolo riposare in una sorta di dormiveglia solo di tanto in tanto. Fatto sta che Andrea sta già facendo casino e tutti gli altri si stanno arrendendo all'incombere di un nuovo giorno, Ermal compreso, il quale ancora mezzo rimbambito si conquista il primo posto in bagno
Va a finire che, mezzo addormentato o meno, è il primo ad uscire e no, non è assolutamente di cattivo umore a causa della carenza di riposo e, soprattutto, dell'assenza di Fabrizio per la buona parte del weekend
Passa la colazione a pensare a tutte le diverse attività con cui si terrà occupato il suo Bizio quel giorno, mentre lui passerà la giornata a non fare niente e quasi sicuramente a peggiorare il suo stato d'animo esponenzialmente E ASPETTA ASPETTA N'ATTIMO CHE ERA QUEL SUO? "ERMAL RIPIGLIATI" pensa, prima di alzarsi da tavola e andare a raccattare velocemente le sue cose, mandare un messaggio sul gruppo per avvisare gli altri e uscire in fretta e furia da quell'hotel. Gli altri non si stupiscono nemmeno più di sto atteggiamento a parte Vige che "un po' insofferente il ragazzo", ma dopo un'occhiata di Macco, una delle sue, si rassegna pure lui
Il fresco del mattino e le rive verdi del lago sono una boccata d'aria fresca per Ermal, deciso a camminare sulla ciclabile fino a perdersi (per una volta si trova a ringraziare gli dei per la tecnologia). Non passano nemmeno venti minuti che si ritrova fermo a fissare affascinato un locale dall'altro lato della strada. La pizzeria è un gioiello di posto: un ampio giardino che lo circonda, lanterne, lucine e mobili di vimini a ornare il patio esterno, vetrate luminose e camerieri elegantissimi nella loro divisa nera, già indaffarati in vista del pranzo. Ermal immagina Fabrizio con una divisa nera, poi l'immagine lascia spazio a un Fabrizio con giacca e cravatta, le mani tatuate e i capelli sparati in aria che fanno da contrasto, e sinceramente è una delle cose più belle che gli abbia mai servito la sua mente così, su un piatto d'argento.
Mancano non tantissimi giorni alla fine della vacanza e fanculo, buttiamoci. La passeggiata gli ha tirato su il morale molto più del previsto, ed Ermal torna vittorioso in hotel con il foglietto della prenotazione per due  per la sera dopo stretto nella mano.
Sto cambiamento di umore non passa inosservato agli altri, ma nessuno commenta, e Vige si sente libero di sfidarlo, sorridendo maleficamente, a una seconda gara di tuffi convintissimo di vincere e guess what: Ermal si prende la sua rivincita battendolo su tutta la linea, ahh, sweet revenge
Ora non resta che aspettare il pomeriggio successivo. Ermal sorride, rendendosi conto che sarà effettivamente il loro primo appuntamento.
Ermal ha osservato Andrea autodistruggersi nella sua competitività, e nonostante Marco tifasse palesemente per Vige, alla fine persino lui non ha potuto fare altro che ammettere che la tecnica di Ermal nelle ultime due settimane è leggermente migliorata. Andrea dal canto suo ha accettato la sconfitta con un "certo che ce ne metti di impegno per far colpo sul tuo amico laggiù" al che il cuore di Ermal balza allegramente un battito, mentre il suo proprietario gira i tacchi un tantino troppo velocemente e ah già, è sabato pomeriggio
Ermal era sicuro che non avrebbe rivisto Fabrizio almeno fino a quella sera, sicuramente sarà di turno al bar, Ermal ne era certo grazie alle sue doti da stalker e ai calcoli intricati riguardanti i turni di bizio, 100% confirmed e invece guarda un po' chi gli sta facendo l'occhiolino da dietro il bancone
Ed Ermal non può far a meno che sorridergli e pensare "oh sto infame sempre a fare occhiolini e mandare bacetti sta", more like "okay fai finta di nulla mi raccomando non pensare a cose troppo porno, come per esempio quelle labbra stirate in un sorriso un po' troppo furbo, o i muscoli delle braccia tesi mentre finisce di preparare i Campari per le due bionde sedute sugli sgabelli di fronte a lui, o lo sguardo un po' troppo penetrante per uno che sta ancora lavorando e contemporaneamente sembra ul punto di andare a sollevarlo e sbatterlo al muro malamente-"
"Oh Ermal ma sei ancora tra noi o no?" la voce di Dino lo riporta nel regno dei vivi e buongiornissimo Gigi
“Ma sì, sempre a rompere le palle state, mi ero perso un attimo nei miei pensieri" al che gli torna in mente la prenotazione per la cena dopo e non può fare a meno che sorridere come un bimbo felice
Fatto sta che Ermal getta un'occhiata verso il bar di soppiatto, e Fabrizio non si vede più da nessuna parte. Un bambino gli passa vicino strillando qualcosa del tipo "SONO GIÀ LE CINQUE E ANCORA NON MI HAI PRESO IL GELATO MAMMAA" e oddio come le cinque, Ermal ha solo un paio d'ore per docciarsi, cambiarsi, decidere quello che si metterà quella sera, un dilemma esistenziale vero e proprio, e prendere il solito aperitivo al piano di sopra. Fabrizio avrà finito il turno, per forza è sparito nel nulla che manco Luke Skywalker.
Ermal si dilegua e dopo aver passato tre quarti d'ora buoni in bagno (sti capelli non stanno da nessuna parte diobó) eccolo là, impalato a torso nudo davanti a tre appendini che sorreggono le rispettive camicie a dir poco eccentriche.
Dopo aver rimuginato per un'altro quarto d'ora (gli altri erano praticamente già pronti, e dire che li ha preceduti di una mezz'ora buona), mette via tutto e tira fuori la camicia più sobria che si è portato dietro, tinta unica turchese. Sopra ci piazza un bel giubbotto dorato e oh yes, ora ci siamo
Aperitivo e cena passano velocemente tra battute e risate (e non mancano le lamentele di Andrea perché hai barato, non ci si allea contro un avversario onesto come me E VIA ALLE DISPUTE PURE A TAVOLA IN MEZZO ALLA GENTE) mentre di Bizio, nemmeno l'ombra, non sarà mica caduto da una scala un soppalco un albero un tetto?
Ermal finisce di bere il suo caffè (è il quarto che prende quel giorno l'iperattività inizia a farsi sentire)A un certo punto si rende conto che sta davanti al bar, a fare avanti e indietro come un forsennato, perso nei suoi pensieri. Fabrizio lo sta fissando e manco cerca più di trattenere le risate ormai e “Me stai a scavà na fossa ner pavimento.. tutto bene??"
“Mmh mi sa che ho esagerato con i caffè oggi" Ermal fa per sedersi sullo sgabello, appoggiandosi con i gomiti al bancone, quando Fabrizio gli prende la mano e ci lascia su un bacio sonoro. Ermal.exe che più .exe nun se pò.
"Me sei mancato, sai" e il rossore di Ermal passa inosservato all'orda di ragazzi ventenni che si affollano per prendersi il primo drink e farsi fighi con le ragazze inglesi già sedute sui divanetti. Un po' meno inosservato a Bizio, che arrossisce leggermente a sua volta, ma allo stesso tempo guarda Ermal con una scintilla indecifrabile negli occhi e un sorriso che non tradisce alcun imbarazzo
Sti pischelli finalmente se ne vanno ed ecco, è il momento giusto, nessuno sta facendo caso a loro. "Devo dire-" attacca Ermal "che mi sei mancato un bel po' pure te" e Fabrizio nota il bracciale al polso di Ermal "Pure io non l'ho tolto, me sa che dà proprio n'influsso positivo, nun te so dì il perché"
“Non ho intenzione di toglierlo molto presto nemmeno io" e sì vanno avanti cosi per dieci minuti, tra sorrisi dolci che evviva il diabete e ammiccamenti da sedicenni. Ed Ermal tra un po' si dimentica della cena ma per fortuna la divisa nera dell'altro cattura la sua attenzione e dai ora o mai più
“Ho pensato di farti una specie di sorpresa" Fabrizio alza le sopracciglia, colto alla sprovvista "sì, insomma, dopo che mi hai sopreso in quel modo sul lungolago regalandomi questo" riprende, accennando al bracciale, "mi sono sentito in dovere di fare qualcosa per te"
“Qualsiasi cosa sia-" lo interrompe Fabrizio avvicinandosi ancora di più "direi che ho ricevuto un ringraziamento più che soddisfacente"
La sua voce è troppo bassa e roca ed Ermal seve deglutire un attimo per riprendersi prima di mettere in ordine i pensieri e continuare
Lasciamo un attimo da parte quello" [inserire occhiata MOLTO eloquente di Bizio] "stavo pensando-" e un signore di mezza età li interrompe, seppur molto gentilmente, per chiedere a Fabrizio due drink. Ermal tira giù tredici santi nella sua mente.
“Stavi pensando...?" Lo incalza Fabrizio- “Sei libero domani a cena?" Ermal sputa fuori quelle parole come fossero un insulto e woah, easy tiger, mentre Fabrizio scoppia a ridere di fronte alla faccia costernata e ai gesti nervosi di Ermal (si è sistemato i ricci almeno cinque volte negli ultimi dieci minuti) e "sì, certo che so libero"
“Meno male perché ho già prenotato, cena, io e te, rimaniamo per le otto, fai anche otto e un quarto va" Ermal è sollevato, e si rende conto di sembrare un rincoglionito ma non riesce a levarsi il sorriso dalla faccia. Fabrizio nel frattempo è rimasto di stucco, qualcosa nel suo cuore è andato a posto e ora sente solo un calore strano in mezzo al petto, e guarda ammirato il ragazzo stupendo che ha davanti. "Sei ancora più luminoso co' sta giacca" gli dice con un mezzo sorriso "e grazie dell'invito, non mancherei per nulla ar mondo"
“Ti do il mio numero di telefono, nel caso ci fosse qualche imprevisto” e Bizio sgrana un attimo gli occhi perché ah già il telefono e fatto sta che appena gli scrive il numero su un foglietto inizia ad arrivare una marea di gente ed è costretto a tornare a lavorare seriamente
Tra l’altro i ragazzi lo trascinano via perché la serata karaoke e Bizio che osservando da lontano la scena pensa almeno lo sentirò cantare mentre lavoro
Il problema è che non sapeva COSA gli avrebbero fatto cantare
Aka la compilation di Canzoni imbarazzanti, canzoni che vanno da Cicale della Carrà a I migliori anni della nostra vita, passando per Sarà perché ti amo con tanto di balletto e Vige canta con lui, Dino si scompiscia dalle risate e prontamente Montanari riprende tutto perché “Vi ricatterò a vita con tutto ‘sto materiale”
A few hours later Vige è più di la che di qua a causa dell’alcol ingerito aka sta male e ha davvero bisogno di vomitare perché raramente si prendeva sbronze simili e per punizione, visto che il giorno prima erano stati brutalmente abbandonati, quello che si dovrà occupare di lui per il resto della serata è proprio Ermal che in versione fratellone che gli regge il capo e gli bagna la testa con una bottiglietta ghiacciata rubata a una signora sorry Vige, tvb
Ermal si accorge tipo alle 3 di notte del messaggio che gli aveva mandato Fabrizio all’una con scritto “Buonanotte infermiere!” Perché aveva visto tutta la scena da lontano mentre lavorava e ovviamente trattiene a stento le risate quando spiando il suo profilo si accorge che ha come stato ancora l’”Hi there! I’m using WhatsApp!”
La Mattina dopo Ermal si sveglia con un mal di testa assurdo, solo a vedere del cibo gli viene il voltastomaco e opta per un thè+moment accompagnato solo da due biscotti perché non si prendono i medicinali a stomaco vuoto.
La soluzione è passeggiare e non possono mancare i millemila film mentali e ripensamenti sull’appuntamento di quella sera perché non usciva seriamente con qualcuno da un po’, flirtava o andava con gente random conosciuta in maniera random semplicemente perché era una persona e ne aveva bisogno, neanche si impegnava. Era da quando stava con la sua ex che non si organizzava davvero per qualcosa e questa cosa lo turbava perché anche con lei era stato tutto molto graduale essendo prima di tutto compagni di classe, ma Fabrizio lo conosceva da quanto, 4 giorni???
D’altro canto, lui non lo sapeva, ma anche Bizio ci teneva tantissimo che andasse tutto bene perché nonostante sia molto fisico è quasi più attratto dalla connessione mentale con lui e la cosa lo sconvolge perché l’essere attratto per uomini e donne gli era già capitato, sapeva di essere bisessuale, ma un coinvolgimento mentale/emotivo così non lo aveva da una vita
“Stavo diventando quasi l’ombra dei miei anni” dal nuovo inedito e cazzo Aveva 32 anni e si sentiva così stanco emotivamente che si stava un po’ lasciando andare, prendeva le cose come capitavano senza impegnarsi e Ermal è stato letteralmente una luce, che nel giro di poche ore gli aveva fatto venir voglia di fare qualcosa, di non stare fermo ad aspettare che la vita passi
DETTO QUESTO, Ermal deve pur annunciare la sua non-presenza a cena alla truppa, quindi decide di dire la cosa a pranzo e “Stasera non contate su di me, esco a cena con Fabrizio" lo sentenzia proprio cosi senza infamia né lode, in qualche modo doveva dirlo e via il dente e via il dolore
Marco proprio not impressed e annuisce mentre Vige che lo guarda come a dire MA TU SAI QUALCOSA E NOI NO, ferito nell’anima proprio
“Ma siete amici o amici amici?” Manco alle elementari Vige
“Siamo io e lui, punto.” grazie Ermal ora è tutto più chiaro
Vige fissa ancora un attimo Ermal e poi ci rinuncia definitivamente perché dovreste vergognarvi, dopo tutto quello che faccio per voi e Ermal lo guarda e mangia come a dire “Ma stat citt”
Vige fa il finto offeso e decide di consumare quel che era rimasto dal post-sbornia sotto il sole cocente, seguito da Dino, mentre Marco che da protective mama si gira e “Oh se hai bisogno di qualcosa chiama me mi raccomando, non sparire” perché è ancora in fase soft dalla chiacchierata di ieri sera e in fondo anche due anni fa è stato l’unico a vedere come stava di merda Ermal e non vuole vederlo di nuovo ridotto a uno straccio
E non si sa mai che questo non sparisca a caso e certo Macco lui penserà a te durante la serata
Poi arriva il momento in cui poco dopo pranzo Ermal va a prendere una cosa al bar mentre c’è Fabrizio e Vige sotto l’ombrellone col binocolo a vedere la scena perché voglio sapere
Ermal che si appoggia al banco con gli occhi a cuoricino mentre Bizio a un certo punto ha due secondi di numero liberi e mentre sistema dei bicchieri gli mette una mano sulla fronte per spostargli i capelli dagli occhi perché “ma non hai caldo??? Fosse per me girerei nudo”
Vige si gira a guardarli proprio mentre Bizio si sporge e gli dà un bacio a stampo CHE MANCO NEI FILM, SOTTOOOONI
Vige ha capito e facciamo tutti un applauso di supporto per sto poretto pls
“Ma allora come me devo vestì stasera, me lo vuoi dare 'n mezzo indizio o no??" e Ermal.exe che manco sa lui che mettersi e "è un posto molto carino, ma non ti sto portando a teatro tranquillo, vestiti come preferisci" GLI PASSANO DAVANTI VISIONI CELESTIALI DI FABRIZIO IN CAMICIA E BASTA PENSA AD ALTRO ERMALÌ
FATTO STA CHE questi si devono pur preparare
Fab alla fine opta per la camicia nera mezza sbottonata per mettere in mostra la croce + via delle girandole con le maniche arrotolate sulle braccia e dei pantaloni neri che gli fasciano le cosce e collane random, coronando il tutto con il suo fidato cappello nero
Mentre Ermal è da 20 minuti con un asciugamano alla vita davanti a 3 grucce attaccate all’armadio indeciso su cosa mettersi
Alla fine opta per una maglia nera semplice sui pantaloni di pelle nera e una giacca nera con i fiori blu (per intenderci: quella della finale di Sanremo)
FINALMENTE, dopo aver sistemato alla bella e meglio la sua matassa di capelli, va verso la hall dove si doveva incontrare con Fabrizio e non può mancare il selfie in ascensore che manda prontamente alla sorella
E per oggi finisce così! Vi ringraziamo come sempre per i commenti bellissimi che ci lasciate e speriamo che il continuo vi piaccia
La prossima parte di questa AU sarà una vera bomba, vi posso anticipare solo questo. <3
Alla prossima!
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lalupabianca · 6 years
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Dedica al ragazzo più importante della mia vita
"Era un lunedi,
era un giorno come tutti gli altri, però era un giorno diverso, perché ricominciava l'oratorio estivo, un semplice oratorio, quattro settimane a correre dietro ai bambini, ballare, cantare... le solite cose, organizzare i giochi, niente di che, solo nuovi animatori da conoscere e sopportare.
Sono entrata in oratorio, ho rivisto molte persone, amici, amiche, bambini, ragazzi...
Non li vedevo da un anno, un lunghissimo e tristissimo anno.
Ho rivisto la mia migliore amica, abbiamo parlato tanto, di tutto quello che ci era successo in questo anno che non ci eravamo viste...
Poi però non ricordo come si è presentato, come è successo, non ricordo come abbiamo iniziato...
Ricordo solo che due giorni dopo eravamo insieme, abbracciati, che ci prendavamo in giro e alla fine della settimana, il venerdì (solo in 5 giorni) , siamo andati a prendere il gelato insieme...
La seconda settimana mi confidavo con lui tutti i giorni, eravamo inseparabili, dove andavo io, veniva lui, dove andava lui... andavo anch'io, ci cercavamo, ci aiutavamo, mi ha aiutata quando ho avuto il primo attacco di panico dell'oratorio di quell'anno 2018, penso me lo ricorderò per sempre, i suoi occhi, il suo respiro preoccupato, le sue mani, faceva di tutto per calmarmi... Per tre settimane siamo stati insieme, poi lui è partito, quando ci siamo salutati... "ci rivedremo l'anno prossimo, poi magari ogni tanto ci sentiamo"... sempre le stesse cose e poi non ci si sente mai, solo per gli auguri (se ci si ricorda)...
Dentro di me pensavo "come tutti gli altri e poi ci si rivede l'anno dopo senza mai esserci sentiti, amici per quattro settimane e poi basta..." Invece, lui è stato l'eccezione, ci scrivavamo almeno una volta alla settimana, poi sempre di più, tre giorni, 5 giorni.... di notte... ora ci scriviamo tutti i giorni, se non scrivo io, mi chiama lui, anche solo per sapere com'è andata la giornata, per avvisarmi che non ci sarà e di non preoccuparsi se non lo vedo...
Mi accompagna a casa, si preoccupa per me, mi fa mille scherzi, mi cerca, mi protegge....
Molti pensano che siamo fidanzati, ma non è così, siamo solo ottimi amici, purtroppo, ma se un domani ci dovesse essere qualcosa di più, ne sarò felice...
È l'unico ragazzo di cui mi sono fidata subito in pochissimo tempo, non solo l'unico ragazzo, ma l'unica persona tra tutte quelle che ho conosciuto che mi sopporta, mi sostiene, che mi capisce quando c'è qualcosa che non va, che mi rompre le scatole finché non gli dico la verità, capisce che c'è un problema anche da un messaggio o dalla mia voce durante una telefonata, ogni tanto fa il freddo, mi fa incazzare, mi sgrida, ma lo so che mi vuole bene e che lo fa per me...
Ultimamente è cambiato, non so perché, non so cos'abbia, non si apre molto con me, so che è molto timido, come a mio solito non lo farò sentire a suo agio...
Questo suo cambiamento mi preoccupa, tanto, non riesco a capirne il motivo... È cambiato anche con me, sembrerebbe soprattutto con me...
So che non lo devo stressare, perché a differenza mia, che può farmi piacere, a lui potrebbe dare fastidio.
So che è molto sensibile, cerca sempre di nascondere tutto dentro, di ridere e scherzare per non farmelo capire, ma purtroppo per lui non riesce sempre, me ne accorgo cerco di fargli capire che può parlare con me... evidentemente è ancora presto.
Mi dispiace sentire il suo doloroso silenzio, fa male anche a me...
Ma sa che se dovesse aver bisogno io per lui ci sarò sempre.
Mi ha insegnato a fregarmene di ciò che dice la gente, perché l'importante è che noi sappiamo la verità, il resto non conta.
Mi ha salvato la vita più volte, anche se non glil'ho mai detto, anche se è per colpa sua che i miei genitori mi hanno beccata a fare ciò che non dovevo fare.
Amo parlare di tutto e di più con lui, argomenti vari senza nessun problema, senza pensare che mi possa giudicare o guardare male...
È l'unico che sa veramente tutto di me e di cui mi fiderei ciecamente, mi fido al punto di potergli affidare la mia vita... Mettere le mani sul fuoco...beh non saprei, ma penso di si.
È veramente l'unica persona che ho paura di perdere e che non voglio perdere mai per nessun motivo al mondo...
È la persona più importante della mia vita...
Ho sempre odiato il fatto di essere finita qui, in questo posto, in questa famiglia, in questo oratorio... ma ora, ora che ho conosciuto lui, l'unica persona che non mi ha mai detto di volermi bene, ma che me lo ha sempre semplicemente dimostrato, al posto di gente che mi diceva di volermi bene e di volermi aiutare e alla prima difficoltà ha girato le spalle e se n'è andato.
Ringrazio il Destino che ha fatto tutto questo solo per farci incontrare.
Non ci avevo mai pensato me lo ha fatto notare proprio lui, un giorno che era venuto a casa mia, eravamo andati sull'argomento adozione, il fatto che io non l'avessi acetato.... me lo disse come battuta "ma non sei contenta di aver incontrato una persona fantastica come me? di aver conosciuto me?!" Li per li non ci ragionai molto, non capii molto, non ho dormito una settimana per pensare a questa cosa!
Ripenso anche quando mi stava facendo volare in camera, che io mi ero già vista perterra, all'ospedale, con una gamba ingessata... mi ritrovai invece al sicuro sul letto con lui che mi teneva... "cosa urli?" "mi sono vista perterra" gli ho risposto con l'ansia, "ma se ti tengo io, non ti fidi di me?!" "No, non mi fido ti te" gli ho risposto in modo scherzoso... Non so se l'ha presa molto bene
La verità è che mi fido solo di lui, non c'è nessun altra persona di cui mi fidi così tanto come con lui!
Sento di poter essere me stessa, cerco di tirare fuori quella parte migliore di me quando sono con lui, voglio che conosca anche il lato felice di me, quella parte ormai nascosta dentro di me, rinchiusa da troppo tempo ormai, una storia vecchia e sepolta chissà dove, una parte dimenticata, vorrei poter tornare quella che ero un tempo, felice e spensierata, quando mi arrabbiato non rischiava di svenire, quando ero triste o delusa non mi tagliavo, non avevo attacchi di panico quando avevo paura, quando qualcuno mi urlava contro contro urlava contro qualcun'altro, sapevo difendermi, un morso, un calcio un pugno e mi rialzavo... ora dico che ce la posso fare... ma quando ne avevo bisogno, le mie gambe non hanno retto, tremavano come foglie, a malapena riuscivo a parlare e muovere la testa, non sono forte come una lupa, come mi faccio chiamare... sono una stupida ragazzina che non ha più voglia di combattere da sola e forse sente la necessità di qualcuno al suo fianco che le impedisca di cadere ancora.
Ho voglia di tornare come prima, quando non conoscevo la tristezza e il dolore, la depressione e la delusione, ma solo la felicità, quando sentivo che potevo aiutare tutti, come so, che posso ancora fare, so che riuscirei ad iutare gli altri, se solo non fossi legata a queste catene...
Da quando l'ho conosciuto però ho sentito che le catene si sono allentate, o forse si sono semplicemente allungate, sono riuscita ad andare a Milano, di nascosto dai miei, con lui, anche se poi siamo tornati a casa come due pulcini bagnati...
Ho fatto una figuraccia quando sono stata rimproverata davanti a lui da papà... un attimo prima libera, felice...un attimo dopo triste e legata
Mi ha permesso di fidarmi ancora, ha permesso al mio cuore di affezionarmi ancora una volta, come ormai da tempo avevo deciso di non far più accadere, dopo la grande delusione datami da quelli che sarebbero "i miei educatori", non ho avuto il tempo di rifletterci...
Nonostante tutto ho ancora paura, ho sempre paura che possa riaccendere, di nuovo, l'ennesima volta
Ho capito che ho sofferto troppo per ricevere un altra pugnalata alle spalle, un'altra pugnalata al petto...
È l'unico ingrado di farmi ridere per davvero, l'unico che mi tiene testa, l'unico che mi fa piangere per aiutarmi a sfogarmi, l'unico che sa domare quei maledetti attacchi di panico, l'unico he nonostante abbia visto la parte peggiore di me, ancora non se n'è andato."
- LaLupaBianca (3/3/2019)
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staipa · 3 years
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Sul Bullismo e sul Cyberbullismo
Un nuovo post è stato pubblicato su https://www.staipa.it/blog/sul-bullismo-e-sul-cyberbullismo/
Sul Bullismo e sul Cyberbullismo
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Il bullismo è un tema sempre di moda. Aggiungendoci poi l’uso pericoloso o sconsiderato della tecnologia il cyberbullismo ne è la naturale estensione. Si tratta di un tema che ho a cuore da sempre e che tratto periodicamente nei miei articoli e praticamente in qualsiasi occasione debba parlare di tecnologia con dei ragazzi.
Se devo parlarne in termini generici, e non legati alla tecnologia mi piace sempre ricordare il monologo sul Bullismo fatto da una ragazzina che ho conosciuto tanti anni fa durante l’attività di capo scout, è già nell’articolo Il bullismo visto da dentro e come una vittima può cambiare il mondo. (https://short.staipa.it/qgte8) dove racconto un po’ di più le mie emozioni a vivere l’esperienza di sentire il monologo ma lo riporto anche qui.
Ecco… Allora, io inizio.
Insomma… Immaginate di essere su un aereo. L’aereo precipita.
Dovete lanciarvi con il paracadute.
Il paracadute però si rompe (si stringe nelle spalle come a dire… “capita”, vuole far sorridere) E voi precipitate.
Precipitate nell’acqua per fortuna. Ma poi vi guardate attorno e siete in mezzo ad un branco di squali. (Improvvisamente è seria, non si capisce bene se stia ancora scherzando)
Siete entrati alle medie.
Le scuole medie non sono un posto facile dove vivere. Voi entrate e vi trovate con tante persone che non conoscete. Conta come vi vestite, cosa dite, cosa vi piace e tutti sono lì a guardarvi e giudicarvi. Un giorno arrivi vestito sbagliato, che non sei alla moda o che non hai le scarpe giuste e sei finito.
E poi non importa più chi sei, quello che fai, cosa pensi. Conta come ti vesti, se segui la moda oppure no, se guardi le cose che guardi e cosa no.
Poi un giorno, tu sei fan di un gruppo di cinque ragazzini che cantano, sì insomma, li conoscerete tutti gli One Direction. Beh, ecco, insomma succede che un giorno Zayn lascia il gruppo, tu arrivi in classe e qualcuno ti sbatte in faccia il giornale. Capisci? Non è che ti dicono qualcosa, che ti rivolgono la parola. Entri in classe e ti sbattono in faccia il giornale letteralmente. Niente altro.
E così vai avanti. Tra quelli che ti sbattono il giornale in faccia, quelli che ti prendono in giro, quelli che ti ignorano perché non ti piacciono le cose che piacciono a loro. E ti rendi conto che sei in una vasca di squali. Tutti pronti a mangiarti.
Poi dopo tre anni finalmente le medie finiscono. A quel punto devi fare un altro salto. Un salto enorme. Fate un salto enorme e poi siete nella vostra nuova classe, in prima superiore. Entrate e vi trovate con tante persone che non conoscete.
Viviamo in un mondo in cui sembrare forti è l’obbiettivo principale, lo dimostrano molti dei nostri politici (La narrazione della prepotenza (e dell’ignoranza) https://short.staipa.it/n1jbn) che invece di collaborare passano il tempo a offendere e fare schermaglie, lo dimostrano i film che vanno per la maggiore in cui grandi eroi invincibili raramente hanno fragilità psicologiche (si lo so che alcuni più di nicchia ne hanno a pacchi), lo dimostrano le pubblicità, lo dimostrano i social in cui ognuno cerca di mostrare il lato bellissimo della propria normalissima.
Ma perché ci siano i forti devono esserci i deboli. Perché i forti possano mostrare la loro forza, devono esserci deboli su cui mostrarla. Già solo lo sfoggio di vite fintamente bellissime sui social finisce per creare ansia e depressione a chi non sopporta tutta questa -finta– bellezza concentrata nella vita degli altri (https://short.staipa.it/4lek6).
I tempi in cui Ulisse, forse il più grande eroe di tutti i tempi, poteva permettersi di piangere regolarmente (Sull’Odissea, su Ulisse, sull’uomo moderno https://short.staipa.it/4uizb) sono andati ormai nel dimenticatoio. I tempi in cui per essere uomo, non serviva essere bullo ma bastava essere intelligente, sensibile, coraggioso di un coraggio che non era non avere paura ma tentare di affrontarla con i mezzi che si ha, sono andati.
Lo sono per sempre? Mi auguro di no.
Mi auguro che nel tempo, leggendo quello che sul bullismo le persone scrivono, tornino i veri eroi. Quelli che non sono i bulli. Perché è in quello spazio che oggi forse le persone considerano mediocrità che stanno gli eroi. L’eroe sei tu che quando vedi una situazione di bullismo scegli di fermarla, di denunciare, di parlare con chi può fermare quella situazione. L’eroe è quello che fa una carezza alla vittima e gli chiede come sta, l’eroe è chi fa gruppo e dice basta senza usare una risposta violenta. L’eroe è chi affronta la paura di schierarsi e prova a farlo con i mezzi che ha.
Conclusione per il genitore
Non sono di quelli che danno a priori la colpa ai genitori di quello che fanno i figli, so perfettamente che il mondo è più complesso di così, tuttavia c’è un altro punto di vista che è bene conoscere, non tanto perché sia di aiuto ai ragazzini bullizzati, quanto forse a scopo di convincere i genitori a buttare un’occhio in più sol mondo dei propri figli. Lo trovate nell’articolo: Social e internet. Cosa rischia il genitore? (https://short.staipa.it/x3bs5)
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larrystylynson28 · 4 years
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Adore you (capitolo 6)
Mi addormento con fatica e quando lo faccio sogno due occhi azzurri e dei capelli lisci castano chiaro.
La notte è passata tranquilla. Non c'è stato un minimo accenno di incubi o qualunque altra cosa. Ho dormito come un sasso, comodamente e, cosa più importante, tranquillamente.
Per strada non c'era molto traffico e lo scuolabus è arrivato prima del solito.
Arrivato davanti scuola vedo i miei migliori amici appoggiati ad una macchina e li raggiungo. Niall non mi guarda, al contrario di Liam che lo fa in modo apprensivo.
<Cosa succede? Perché mi guardate così?> chiedo confuso.
<Scherzi? Sabato sera mi ha chiamato Tomlinson dicendomi che eri ubriaco marcio e chiedendomi l'indirizzo di casa tua, e tu ieri sei sparito. Non ti sei degnato ne di chiamarci ne di scriverci. E per di più non ti eri mai ubriacato, perciò eravamo entrambi preoccupati!> conclude, alzando leggermente la voce.
È bello sapere che si preoccupano per me, però non hanno il diritto di arrabbiarsi. È vero, era la prima che mi ubriacavo, e credo che sia anche l'ultima, ma non possono avercela con me perché non li ho chiamati. Non ho voglia di litigare con loro, quindi mi limito a chiedergli scusa e a raccontargli quel poco che ricordo della festa. Niall ci racconta dell'appuntamento con Olympia e dei suoi genitori. Ha detto che all'inizio è stato parecchio imbarazzante, perché il padre lo continuava a fissare in modo strano, e la madre non faceva altro che chiedergli dei suoi voti. Ha detto che se Olympia non avesse fatto cadere un bicchiere di vino sul vestito del padre probabilmente la cena sarebbe andata malissimo.
<Il vestito gli è piaciuto?> chiede Liam.
<Olympia è andata letteralmente fuori di testa. La madre ha detto che stavo bene in camicia e il padre mi ha semplicemente squadrato da capo a piedi. Suppongo che non sia una persona particolarmente loquace>
<Quando la farai conoscere ai tuoi migliori amici?>
<L'ho invitata al ballo. Tu inviterai la ragazza che ti piace, e Harry verrà con Kendall>
Nel sentir nominare Kendall mi si gela il sangue. Dopo la festa non l'ho più sentita e ricordo che fosse parecchio ubriaca. Faccio vagare lo sguardo tra tutte le persone presenti nel cortile, ma di lei nemmeno l'ombra. Solitamente a quest'ora è già arrivata da un pezzo. Prendo il telefono e le scrivo un messaggio.
Ehy scusami se sono sparito ieri. Come stai? Come mai non sei a scuola? È successo qualcosa?
Invio il messaggio e infilo il telefono nella tasca della tuta. I ragazzi continuano a parlare del ballo e delle loro ragazze, ma quando vedo Louis uscire dalla macchina, smetto di ascoltare la conversazione. Indossa una felpa bianca e una tuta grigia. Chiunque sembrerebbe essere uscito in pigiama vestito in quel modo, ma a lui sta benissimo. I capelli perfettamente lisci sono spostati verso destra e i suoi occhi, che riesco a vedere anche da lontano, sono sempre bellissimi. Lo vedo avvicinarsi ai suoi amici e seguo ogni suo movimento finché una ragazza alta, magra, dai capelli lunghi e castani non gli posa un leggero bacio sulle labbra. Distolgo lo sguardo leggermente ferito e provo a concentrarmi sulla conversazione dei miei amici. "Comincio ad odiare quella Eleanor" penso tra me e me.
<Harry stamattina hai il compito di matematica vero?>
Annuisco sbuffando e loro scoppiano a ridere.
<Sai qualcosa?>
<In realtà so tutto>
<Ma se fino a venerdi non sapevi nulla!> mi canzona Liam.
<Ho studiato> con Louis, aggiungo mentalmente.
Non credo gli faccia piacere sapere che ho passato tutto il giorno con Louis Tomlinson ieri, e sinceramente sarebbe anche abbastanza inutile dirglielo. Non è un'informazione importante. Non per loro. Per me invece è importantissima. Più che altro per me è importantissimo quello che ha detto. Mi ha creato nuove domande e nuovi dubbi che non ho intenzione di raccontare a Liam. Gli ho detto di essere attratto da Louis e questo può bastare. Non ha bisogno di sapere che sono svenuto tra le sue braccia e che mi ha chiesto scusa per come si è comportato in questi anni. Sicuramente direbbe di non fidarmi e che non basta un semplice "scusa" per cancellare tutto quello che mi ha fatto, e sono d'accordo con lui. Veramente. Solo che non riesco ad esserci arrabbiato. Tentavo di esserlo ma non ci riuscivo nemmeno quando mi picchiava, figuriamoci dopo che mi aveva chiesto scusa. Sospiro ed entrambi i miei amici portano l'attenzione su di me. Fortunatamente la campanella suona e dopo averli salutati allungo il passo verso l'entrata.
Il compito l'ho trovato molto semplice e per questo devo ringraziare Louis, che non vedo da stamattina. Prima di raggiungere lo scuolabus controllo il telefono, con la speranza che Kendall mi abbia risposto, ma niente. Le ho inviato svariati messaggi, e a pranzo l'ho anche chiamata, ma lei non ha mai risposto. Le invio un'altro messaggio e cammino verso la fermata, finché una mano non mi afferra il polso. Sobbalzo e mentre mi giro per capire di chi fosse la mano due occhi blu si impossessano dei miei. Davanti a me c'é Louis con un sorriso stampato in faccia.
<Scusami, non volevo farti spaventare> dice con un sorriso amichevole.
<Hai fallito nel tuo intento allora> rispondo ricambiando il sorriso.
<Ho fallito anche nell'intento di farti andare bene al compito?>
Scuoto la testa e lui sorride compiaciuto.
<Andiamo a festeggiare?>
<Ma io non so se è andato effettivamente bene>
<Ma sono certo che hai fatto tutti gli esercizi e li sapevi fare. Giusto?>
Non rispondo e lui capisce di aver ragione. Con la testa mi fa cenno di seguirlo e senza farmelo ripetere due volte lo faccio. Raggiungiamo il parcheggio e lui sale in macchina, dopodiché abbassa il finestrino e mi invita ad entrare. Non me ne intendo molto di macchine, anzi per niente, però la sua è molto bella e sembra costosa. I sedili sono in pelle ed è molto spaziosa. Accende la macchina e tutto l'abitacolo viene invaso da una melodia che riconosco subito. Si affretta a spegnarla, ma ormai è troppo tardi. Riconoscerei quella canzone tra mille: let it out.
<È il cd di mia sorella> borbotta imbarazzato per giustificarsi.
Ha una sorella? Non sapevo ne avesse una. Non so praticamente niente di lui, quindi perché me ne stupisco? Senza dire una parola abbandona il parcheggio e imbocca una stradina. Tutte le volte che ne ho l'occasione lo guardo di sottecchi. È bello da togliere il fiato, e quando guida sembra veramente rilassato.
<Dove stiamo andando?> chiedo interrompendo il silenzio.
<A prendere il gelato>
<Perché non siamo andati da pop's?>
<Non ha il mio gusto preferito>
Scoppio a ridere e lui sorride. Arriviamo davanti una piccola gelateria, e dopo aver parcheggiato scendiamo ed entriamo nel locale. Subito un'odore di caffè mi invade le narici. Louis si avvicina al bancone e pochi secondi dopo un signore grassottello, con i baffi bianchi e non molto alto si alza e ci sorride.
<Che gelato volete?>
<Un cono grande, vaniglia con maltesers>
Vaniglia con maltesers? Non l'ho mai sentito, ma da come si lecca le labbra mentre lo prende intuisco che deve piacergli veramente tanto.
<Per te cosa posso fare piccoletto?>
Mi giro per vedere se c'è qualcuno alle mie spalle, ma c'è solo Louis che trattiene a fatica le risate.
<Ce l'ho con te ricciolino> specifica sorridendo.
<Io vorrei un cono piccolo, cioccolato e panna>
<Banale> borbotta Louis.
Lo ignoro e prendo il gelato. Questa volta, dopo aver avuto un battibecco con Louis, sono riuscito a pagare. Mentre pagavo mi ha dato un pugno scherzoso sulla spalla e ha fulminato la cassiera per avermelo lasciato fare. Devo dire che sono rimasto scioccato dall'indifferenza della ragazza. Se Louis Tomlinson ti guarda in quel modo è difficile rimanere tranquilli e indifferenti. Quando un gruppo di bambini, troppo rumorosi per i gusti di Louis, entra nella piccola gelateria usciamo e ci appoggiamo alla sua macchina.
<Sei veramente banale nei gusti>
<O forse sei tu che sei troppo particolare?>
<Vuoi assaggiarlo?> dice avvicinandomi il gelato alle labbra.
Annuisco timidamente e guardandolo negli occhi lecco il cono. Lo vedo arrossire ed io lo seguo a ruota. Non ha mollato nemmeno per un momento i miei occhi e io non riuscivo a distogliere lo sguardo dai suoi. Se devo essere onesto non ho badato molto al gusto del gelato. Ero troppo occupato ad ammirare i suoi occhi, che non hanno osato riportare l'attenzione su di me. Continuiamo a mangiare in silenzio e sfrutto il momento per controllare il cellulare: niente, Kendall non mi ha risposto nemmeno questa volta. Se domani non torna a scuola e non mi risponde ai messaggi l'andrò a trovare per capire cos'è successo. Sospiro e spengo il telefono.
<Ti porto in un posto> dice improvvisamente.
Si gira ed inizia a camminare su una strada sterrata. Lo seguo e restiamo in silenzio. Entriamo in un bosco. Lui cammina molto più velocemente di me, perciò rimango qualche metro indietro.
<Certo che sei lento!> dice, e mi tira accanto a lui prendendomi per mano.
Non appena capisce il gesto che ha fatto scioglie le nostre mani ed io mi mordo il labbro. Ci fermiamo davanti un'albero con un enorme arco nel centro, e Louis ci entra e si siede. Mi guarda e con la mano tocca lo spazio accanto a lui, incoraggiandomi a fare lo stesso. Scuoto la testa disgustato e lui scoppia a ridere.
<Non fare la femminuccia Styles!>
<Non la faccio...solo che lì dentro sarà pieno di insetti e a mi fanno schifo>
<Non ci sono insetti te l'assicuro> vedendo la mia faccia contrariata aggiunge <fidati>
Guardo lui e poi lo spazio vuoto al suo fianco. Sospiro ma alla fine cedo ed entro. Lui si sposta leggermente per farmi spazio e quando le nostre spalle si sfiorano trattengo il respiro. So che è stato un gesto involontario però è così piacevole avere un contatto con lui, mi fa sentire al sicuro.
<Perché siamo qui?> chiedo.
Lui non risponde e lo sento irrigidirsi. Merda sono un'idiota! È talmente ovvio che non gli piacciono le domande che mi maledico per avergliene fatta una. "Probabilmente se ne andrà come ha fatto ieri" penso. Prendo una foglia davanti a me e inizio a giocarci imbarazzato. Per quale motivo gliel'ho chiesto? Sono sicuro che da un momento a l'altro si alzi e se ne vada, ma quando sospira ed inizia a parlare lascio la foglia a terra e gli rivolgo tutta la mia attenzione.
<In questo posto non ci viene mai nessuno. Senti che tranquillità?> chiede, non volendo ricevere veramente una risposta. Fa una piccola pausa e dopo aver fatto un sospiro continua <vengo qui da quando ho dieci anni. Solitamente ci vengo quando ho voglia di pensare o sono triste o semplicemente voglio allontanarmi dal mondo esterno. Mi aiuta a schiarirmi le idee. Sei la prima persona che porto in questo posto> conclude con gli occhi bassi.
Gli rivolgo un sorriso che non vede, dato che è occupato a guardarsi le scarpe.
<Perché hai deciso di portare proprio me?>
Passano alcuni minuti, ma della sua risposta nemmeno l'ombra.
<Oggi per quale motivo sei venuto?> chiedo, con la speranza che almeno a questa domanda risponda.
Passano altri minuti e quando ormai ho iniziato a perdere le speranze risponde con un semplice <non lo so>
Sospira ed alza lo sguardo, incontrando i miei occhi. Le sue labbra si allargano in un mezzo sorriso e anche le mie. Sposta lo sguardo sulla mia bocca. Sento i battiti accelerare e sono sicuro che riesca a sentirli anche lui. Riporta i suoi occhi nei miei solamente per qualche secondo e poi si riconcentra sulla mia bocca. Vorrei veramente baciarlo in questo momento, ma se lo facessi rovinerei quel minimo di rapporto che stiamo instaurando. Non so se riuscirò a controllarmi, soprattutto perché la sua vicinanza non mi aiuta. Il groppo in gola aumenta sempre di più, così come la stretta allo stomaco. Fatico a respirare e l'unica cosa che riesco a fare è guardarlo negli occhi. Cosa mi prende? Non ho mai provato niente del genere prima d'ora, e non so cosa significhi, e soprattutto non ho intenzione di scoprirlo adesso. Ci sono centinaia di domande e sensazioni nuove che non so come interpretare. L'unica cosa che so per certo in questo momento è che vorrei posare le mie labbra sulle sue. Vedo che si avvicina pericolosamente a me. "Sta per succedere veramente? Ci stiamo per baciare?" penso, schiudendo le labbra. Si avvicina sempre di più e quando il suo telefono squilla, si blocca e prende immediatamente le distanze, per quanto possibile dentro un'albero.
Prima di rispondere sbuffa fortemente irritato e impreca talmente a voce bassa, che credo non volesse farsi sentire.
<Cosa vuoi?....Ti avevo detto che non sarei venuto oggi...Perché l'hanno fatto?......Va bene arrivo> dice concludendo la telefonata.
<Devo andare a casa di Eleanor, la mia ragazza> specifica prima di continuare. Abbasso lo sguardo deluso e lui continua <ha detto che Zayn e gli altri sono a casa sua e mi stanno aspettando>
Esce dall'albero, seguito da me.
Arrivano alla macchina in silenzio e per tutto il tragitto nessuno dei due osa parlare. Non so a cosa stia penando lui, ma so a cosa sto penando io. Sto pensando alle nostre spalle che si sfiorano, i miei occhi persi nei sui, le sensazioni che mi ha provocato la sua vicinanza, la sua faccia a pochi centimetri dalle mie labbra e alla sua irritazione quando il telefono ha squillato. Vorrei urlare per la frustrazione. Non sono impazzito, sono sicuro che ci saremmo baciati se non fossimo stati interrotti. Cazzo! Mi sento come una ragazzina in piena crisi ormonale. Non sopporto l'effetto che mi fa, però mi piace averlo intorno.
<Grazie per avermi riaccompagnato> dico scendendo dall'auto.
<Nessun problema. Ciao>
Lo saluto ed entro in casa. Vado a letto e ripensando al pomeriggio passato con Louis mi addormento con migliaia di domande per la testa.
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