#psychic detective yakumo fanfic
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fantastic-rambles · 1 month ago
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Title: Darkness
Rating: Teen And Up Audiences
Archive Warning: No Archive Warnings Apply
Category: Gen
Fandom: Shinrei Tantei Yakumo/Psychic Detective Yakumo
Characters: Saitou Yakumo, Nanase Miyuki
Additional Tags: Torture, Psychological Torture, Physical Abuse, Emotional/Psychological Abuse, Manipulation, Mind Manipulation, Emotional Manipulation, Cold Weather, Face Slapping, Sleep Deprivation, Delusions, Jealousy, Self-Esteem Issues, Self-Doubt, Sadism, Electrocution
Word Count: 515
Summary: While imprisoned in the very cabin where his mother once was, Yakumo finds himself at the mercy of a woman who insists on calling him her brother.
Read it on AO3 here!
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calimesblog · 5 years ago
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When you’ll call my name (ITA)
Fandom: Psychic Detective Yakumo Characters/Pairing: Yakumo Saito, Haruka Ozawa, Yakumo/Haruka Rating: G Summary: Haruka ormai chiama per nome Yakumo, ma lui non ha mai fatto lo stesso. AO3
«Yakumo-kun!» Chiamò Haruka infastidita dal fatto che lui non stesse minimante cercando di andare al suo passo, dopo esser uscito dall���ufficio di Gotou-san senza darle il tempo di salutare i due poliziotti. «Ehi! Aspettami!» protestò. Proprio non accennava a rallentare e lei non aveva certo intenzione di corrergli dietro solo per dargliela vinta. D’altronde, era stata lei ad invitarlo a prendere qualcosa alla caffetteria lì vicino prima di tornare a casa. «Okay!» sbottò. Testone! Si arrese, sorridendo. Magari avesse avuto il potere di farsi obbedire da lui… Aumentò il passo e riuscì finalmente a raggiungerlo. Lo afferrò dalla camicia, sul braccio, per non essere più lasciata indietro. «Potresti anche ringraziarmi, sai?» attaccò. «”Grazie, Haruka. La tua gentilezza mi tocca il cuore!”» Haruka vide gli angoli delle labbra di lui alzarsi in un sorrisetto. «Visto che offro io, non mi merito neanche un “grazie”?» continuò imperterrita, contenta del fatto che era lei – lei – il motivo di quello. Raramente lui l’assecondava o esprimeva apertamente ciò che sentiva; perciò doveva tirarglielo, ogni volta, a forza. Yakumo la fissò con la coda dell’occhio per un momento, poi distolse lo sguardo puntandolo nuovamente innanzi. «Grazie.» Haruka s’illuminò in un sorriso: «E non ti sembra di aver dimenticato qualcosa?» «No.» «Uffa! Quando ti deciderai a chiamarmi per nome?» sbuffò, imbronciandosi. «Ha-ru-ka.» sillabò in modo chiaro. «Non è difficile.» «Conosco il tuo nome.» si limitò a ribattere lui. «Be’, non ne sarei così sicura; visto che tu ti limiti a chiamarmi: “lei”, “quella”, “idiota” o, quando sei in vena di darmi un’identità più precisa, “porta guai”.» Haruka si strinse nelle spalle. In fondo era riuscita già a tirargli fuori un “grazie” e lui non l’aveva allontanata, limitandosi a lasciare che la sua mano stringesse il cotone della camicia senza fare commenti o accennare a bruschi strattoni per liberarsi. Era un bel passo avanti. Sorrise. «Vedrò di accontentarmi.» scrollò le spalle. Era sicura che prima o poi sarebbe successo. Quel giorno sarebbe arrivato. Aspetterò.
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calimesblog · 5 years ago
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Nelle grinfie dell’orso
Fandom: Psychic Detective Yakumo Characters: Yakumo Saito, Kazutoshi Gotou Rating: T Summary: Un giovane Yakumo viene portato alla stazione di polizia in cui lavora un altrettanto "giovane" Goto. Il ragazzino è malconcio e parecchio restio ad aprirsi con il poliziotto che, tuttavia, gli impone di fermarsi fino alla fine del proprio turno per poter accompagnarlo di persona a casa. AO3
La stazione di polizia non era certo il suo posto preferito, non che lo fosse il tempio e nemmeno la scuola - ovvio. Se avesse avuto libertà di scelta sarebbe partito per l’Antartide: in fondo la compagnia dei pinguini doveva essere di certo più piacevole di… «Oh, chi non muore si rivede!» sghignazzò una voce roca. «Cosa hai combinato questa volta, Yakumo?» «Niente.» rispose il ragazzo evasivo con una scrollata di spalle. «E stai seduto dritto su quella sedia o cadi, stupido moccioso!» «Signor Goto, la smette di darmi ordini? Mi hanno portato a forza qui, io stavo tornando al tempio.» Yakumo iniziò a dondolarsi con la sedia. «Tutta colpa del suo collega che mi ha riconosciuto…» si lamentò. «Mi stai forse provocando?!» digrignò i denti il poliziotto, rompendo la sigaretta che teneva. Imprecando, buttò il mozzicone nel posacenere. «Posso andarmene adesso?» «No! Prima spiegami che diavolo è successo e poi forse ti lascerò andare.» Yakumo sospirò, si sistemò in modo composto sulla sedia e restio alzò il viso tenuto fino a quel momento fuori dalla visuale del poliziotto. Goto rilasciò un sibilo: l’occhio sinistro presentava una brutta macchia violacea, mentre sul labbro inferiore c’era del sangue ormai rappreso. Comprese subito perché la signora e il collega, che lo avevano portato lì, volevano chiamare un’ambulanza al più presto: l’iride rossa era ben visibile nonostante il gonfiore nascente della palpebra; perciò i due avevano supposto una qualche emorragia. «Accidenti! Chi è stato?» sbottò avvicinandosi per osservare meglio. «Hai messo del ghiaccio sopra?» Yakumo scosse la testa. «Te lo vado a prendere. Tu non muoverti, chiaro?!» se ne andò senza aspettare risposta. Yakumo si strinse nelle spalle, ripensando a ciò che era successo poco prima. Non era stata la prima volta, né sarebbe stata l’ultima, di questo ne era certo. La gente, semplicemente, non capiva. Perciò, non aveva senso che prima la signora che l’aveva portato lì e poi il signor Goto si preoccupassero così tanto delle sue condizioni. Per non pensare poi a come l’avrebbe presa lo zio! In ogni caso, sarebbe stato meglio tornare al tempio che stare lì: non gli piacevano le stazioni di polizia… «Toh! Chiudi l’occhio e metticelo sopra.» ritornò Goto con del ghiaccio sintetico e una pezzuola. «Ahio!» si lasciò sfuggire Yakumo per il dolore, quando sentì freddo sull’occhio pesto. «Che dice tuo zio Isshin?» Il ragazzo ignorò la domanda del poliziotto, interessato più a tastarsi il labbro per verificare se la ferita stesse ancora sanguinando e quanto effettivamente si fosse gonfiato. Il verdetto fu che le aveva prese, ma di questo ne era già consapevole. Forse aveva anche qualche livido… Sulla coscia destra di sicuro, dove l’avevano colpito con un calcio per farlo cadere rovinosamente a terra, e perciò anche sul sedere. Ma non era importante che il signor Goto lo sapesse, no? Smise di concentrarsi sulle ferite di guerra quando si sentì strattonare per il colletto della maglietta. Premette involontariamente col ghiaccio sull’occhio contuso. «Accidenti, signor Goto!!» sibilò protestando per la violenza con cui l’aveva afferrato. Ammutolì quando fissò i suoi occhi fiammeggianti di ira e di preoccupazione malcelata. «Non provare mai più a ignorarmi, Yakumo Saito.» Yakumo sapeva che quando il signor Goto usava il suo nome completo di cognome c’era poco da scherzare. Lo zio Isshin forse aveva ragione a dire che era piuttosto maturo per i suoi undici anni, ma il signor Goto lo trattava sempre come un moccioso – anche in quel momento. Agli occhi del poliziotto non era più il bambino che aveva salvato appena in tempo dalla follia della madre, ma uno dei tanti complessati ragazzi fermati per uso di droga che capitavano lì di tanto in tanto. Si sentiva come uno di loro: se fosse riuscito a giocarsela bene, avrebbe evitato lo strizzacervelli. «Ti ho chiesto cosa pensa tuo zio Isshin di tutto questo.» scandì il signor Goto a pochi centimetri dal suo volto, liberandolo. Yakumo ricadde sulla sedia più contuso e dolorante di quanto lo fosse stato pochi minuti prima. Potevano anche punzecchiarsi a vicenda con battutine anche piuttosto acide e scorbutiche, ma mai quando si trattava di argomenti seri e delicati. «Ti hanno picchiato di nuovo.» continuò il poliziotto in tono serio con le braccia incrociate al petto. Yakumo non si premurò neanche questa volta di rispondergli: era più che evidente. «Non è niente. A parte l’occhio nero, il labbro sta già guarendo.» disse calmo dopo qualche minuto di silenzio. Goto bofonchiò un’imprecazione sulla sua stupidità. «Cosa devo fare con te?!» si esasperò poi. «Niente. Si preoccupi piuttosto di sua moglie che lo ha abbandonato, signor Goto.» sviò Yakumo, sapendo che lui avrebbe colto la provocazione. «E tu come lo sai, piccolo impiccione che non sei altro?!» abboccò infatti Goto. «Le notizie arrivano e gli uccellini cantano.» sogghignò il ragazzo. «Adesso posso tornare al tempio?» «Adesso ti porto nel mio ufficio, ti metti a fare i compiti e aspetti che finisca il turno. Poi ti riaccompagno al tempio.» rispose alzando appena il pollice della mano in direzione dell’ufficio. Yakumo sospirò con irritazione. «Non sono più un bambino! E lei non è mio padre!» protestò con veemenza. S’incupì, abbassando la mano con cui teneva ancora il ghiaccio sintetico. «Non è neanche mio zio! Ma insomma, che avete tutti quanti??» scoppiò. Goto rimase ad osservarlo in silenzio, tranquillo, nonostante Yakumo si fosse alzato barcollando per un giramento di testa che non aveva previsto. Lasciò che gli si avvicinasse, che afferrasse il tessuto della maglietta della divisa, che lo stringesse con violenza nei pugni chiusi e sudati, che lo guardasse con disprezzo – No, con disperazione. Furioso come un animale in gabbia, ferito troppo profondamente, appesantito dal fardello di un “dono” non voluto. Quant’altra sofferenza, dolore, oscurità, avrebbero visto quell’occhio rosso? «La signora e il poliziotto che hanno voluto portarmi qui a forza, lei, mio zio!!» stava ancora urlando. «Io volevo soltanto essere lasciato in pace! Non è colpa mia se nello scantinato della scuola c’è l’anima di un bambino morto!! Che mi picchino pure, non mi interessa!! Loro non capiscono e neanche mio zio capisce!» Yakumo s’interruppe, sgranò gli occhi sgomento e indietreggiò, lasciando andare la maglietta del poliziotto. «Io sto bene. Sto bene!» tremò. «E… è inutile che vi preoccupiate per me!! Siete tutti degli stupidi!!» afferrò lo zaino ai piedi della sedia e con il ghiaccio ancora in mano corse a chiudersi nell’ufficio del poliziotto. Goto lo seguì con lo sguardo fino a quando non vide altro che la porta rovinata dall’usura e dallo sporco del proprio ufficio, – ufficio era comunque un eufemismo, perché uno sgabuzzino delle scope sarebbe risultato sicuramente più spazioso al suo confronto. Abbassò gli occhi sul pavimento incrostato qua e là di macchie di caffè, nicotina e altra sporcizia. Be’, l’indomani sarebbe stato giorno di pulizie, ma non era quello il punto. Si accarezzò il mento pungente di un accenno di barba con aria pensierosa. Cosa poteva fare lui se non quello che stava già facendo? Yakumo era ancora un bambino, troppo giovane e ottuso, nonché scostante e scontroso. Un ragazzo difficile l’avrebbero definito i colleghi – ed anche lui , ma prima di essere un poliziotto era un essere umano e in quanto tale si rifiutava di lasciarlo andare, di abbandonarlo. Certo, non poteva sostituirsi ai suoi genitori né a suo zio, che rispettava molto come persona. Sapeva che nelle mani di uno come Isshin, Yakumo sarebbe stato al sicuro. Certo, entro le mura del tempio, ma fuori? Fuori era esposto alla curiosità, al disprezzo e alla cattiveria della gente. Il mondo era troppo pieno di sé, le persone troppo egoiste ed egocentriche per curarsi di ciò che dicevano, che facevano, e delle conseguenze che avrebbero potuto provocare in un animo giovane ed ingenuo come poteva essere quello di un ragazzino di appena undici anni. Perché se Yakumo cominciava a capire quanto il mondo fosse crudele, ciò non giustificava il fatto che cadesse vittima di certe situazioni. Come quella appena accaduta: preso a suon di pugni solo per aver detto di aver visto un fantasma. La paura era davvero una brutta bestia. E poi, già a quell’età Yakumo mostrava un secco cinismo e un rifiuto totale di affetto – ne aveva appena data dimostrazione. Non andava per niente bene. Proprio per niente. «Maledizione!» imprecò a denti stretti, sbattendo il pugno sul legno della scrivania. Ci teneva a quel ragazzino. E sapeva che non avrebbe dovuto avere più contatti con lui – chi avrebbe voluto avere quel tipo di legame? Avere accanto la persona che ti ricordava la cosa più atroce che mai sarebbe dovuta succedere ad un bambino... Anche lui sarebbe fuggito disgustato. E invece, eccoli lì, a pochi metri di distanza e con una semplice porta di compensato a separarli. Non era riuscito a lasciarlo in pace, non dopo aver incrociato nuovamente il suo sguardo bicolore e averci visto la disperazione e una muta richiesta di aiuto. Con un sospiro stanco Goto si ricompose, passandosi una mano tra i corti capelli scompigliati. Andò al distributore dell’acqua per dissetare la gola secca e prese in considerazione l’idea di accendersi un’altra sigaretta. Almeno, si rincuorò, non è scappato via. Dalla tasca dei pantaloni tirò fuori il pacchetto di sigarette e ne prese una tra le labbra. «Dannazione!» si lamentò non trovando l’accendino. L’aveva dimenticato nell’ufficio.
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Due colpi secchi. «Ehi, Yakumo! Esci fuori che ti riaccompagno a casa!» gridò Goto per farsi sentire oltre l’ostacolo della porta. Il rumore che avrebbe dovuto sentire attraverso il compensato non arrivò alle sue attente orecchie. Forse era scappato dalla finestra? Naaah… O sì? Senza pensarci un secondo in più si affrettò ad aprire. «Yakumo!!» Subito i suoi occhi lo individuarono sdraiato in modo scomposto sull’unica comodità consentitagli in quella piccola stazione di polizia. La poltrona di un orrendo color marrone – a sentire sua moglie – non era stata sicuramente progettata per dormirci sopra, ma Yakumo doveva averla trovata davvero comoda, oppure era stato così distrutto da quella giornata, che ci si era addormentato così profondamente da non averlo sentito urlare. «Ma tu guarda…» mormorò con un mezzo sorriso. Yakumo era rannicchiato su se stesso: la testa su un bracciolo e le gambe a penzoloni sull’altro. La pezzuola e il ghiaccio sintetico, ormai sciolto e inutilizzabile, erano caduti a terra dove avevano lasciato una piccola pozza d’acqua. Sulla scrivania stavano tutti i rapporti e le carte che avrebbe sistemato l’indomani, perciò suppose che il ragazzo non avesse neanche aperto libro per tutte quelle ore. Gli si avvicinò. «Ehi, stupido moccioso. Svegliati, su!» lo scosse da una spalla. Yakumo mugugnò infastidito, socchiudendo appena gli occhi. Quando andò a sfregarli con una mano chiusa a pugno, si dimenticò di andarci piano con quello pesto e sussultò per il dolore e per la sorpresa di trovarlo più gonfio di quanto si fosse aspettato. Sbadigliò. «Avanti, torniamo a casa. Tutti e due.» Goto gli diede una piccola pacca sulla spalla. «Non è casa mia. È il tempio di mio zio.» puntualizzò Yakumo stiracchiandosi. «È casa tua, invece, testone. E farai bene a tenertela cara.» replicò Goto, aiutandolo ad alzarsi. Yakumo allontanò la sua grande e callosa mano, troppo orgoglioso per ammettere di aver bisogno di quella piccola gentilezza. Goto abbozzò un mezzo sorriso, alzandosi per mettere a posto il ghiaccio sintetico nel freezer e la pezzuola sulla scrivania. «Cosa fa adesso? È passato alla compassione?» chiese Yakumo in modo brusco, ricordandosi di cosa fosse successo qualche ora prima. «Ah, quanto fai il difficile, ragazzino!» Per ripicca Goto gli si avvicinò nuovamente e lo afferrò con entrambe le mani dalla vita sollevandolo di peso. Yakumo lanciò un urlo preso alla sprovvista e si affrettò a tenersi dalle forti braccia del poliziotto. Tenendolo sospeso sopra di sé e guardandolo dal basso verso l’alto, Goto sghignazzò. «Sei ancora uno scricciolo!» rise per la leggerezza del suo peso. «Mangi abbastanza?» «Eh?!» si indignò Yakumo, scalciando per obbligarlo a farlo scendere. «Mi metta giù! Signor Goto!!» Goto se lo caricò in spalla come un sacco di patate, prese la giacca della divisa e lo zaino di Yakumo e uscì dall’ufficio, chiudendo la porta a chiave. «Prima di andare al tempio, passiamo a mangiare qualcosa. Ho già avvertito tuo zio, mentre tu ronfavi nel mio ufficio.» rise. «Che ne dici di un bel cheeseburger? Con tante patatine e un bel gelato!» si entusiasmò ignorando palesemente le proteste e i pugni di Yakumo. «Un giorno la denuncerò per maltrattamenti!!» lo minacciò. Goto lo ignorò nuovamente, continuando a camminare con un ghigno divertito. Eh sì, voleva davvero bene a quel moccioso.
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calimesblog · 5 years ago
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When you’ll call my name (ENG)
Fandom: Psychic Detective Yakumo Characters/Pairing: Yakumo Saito, Haruka Ozawa, Yakumo/Haruka Rating: G Summary: Haruka always calls Yakumo by his first name, but will he ever do the same? AO3
«Yakumo-kun!» Haruka called, annoyed by him. Yakumo hadn't even tried to walk following her steps since they left Gotou-san’s office, nor he gave her the time to say goodbye to both officers. «Hey! Wait!» She complained. He didn’t want to walk slowly, neither she want to run to grant him the victory. Besides, it was her who invited him out to the near coffee-shop before coming back home. «Okay!» She burst out. Knucklehead! She surrendered smiling. If she would have the power to control him… She walked faster to approach him. Then she grabbed his arm by the shirt to assure herself that he didn’t leave her back no more. «You should thank me, shouldn’t you?» She asked him forcefully. «”Thank you, Haruka. Your kindness touches my heart!”» Haruka saw his mouth curved up in a little smile. «It’s me who offers, so you don't grant me even a “thank you”?» She continued to challenge him, nonetheless she was heavenly happy: it was her – her – who caused his smile. He barely was accommodating with her, nor he liked speaking openly on how he felt, so she had to bring out of him everything everytime. Yakumo looked at her out of the corner of his eye for a moment, then he turned away staring ahead again. «Thanks». Haruka’s smile lighted up: «And are you sure you didn’t forget nothing?» «Yes». «Ugh! When will you call me by my name?» She snorted. «It’s Ha-ru-ka». She spelled clearly. «It’s not so complicated». «I know what’s your name». He answered back, composed. «Well, I don’t think so. You always call me like “she”, “that”, “idiot” or, when you want to specify, “troublemaker”». Haruka hunched her shoulders. Sure, she was able to bring out of his mouth a “thanks” and he didn’t push away from her grip but let her grasp his shirt without a word or pulling out. It was a huge step ahead. She smiled. «Then, this could be enough for me». She shrugged. She was sure that one day or another it would happen. That day will come.
I’ll be waiting.
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