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Comprendere il tradimento in una relazione con un narcisista
Il tradimento in una relazione con un narcisista ha una funzione unica e perversa rispetto ad altre situazioni. Non si tratta semplicemente di cercare altrove ciò che manca nella relazione o di un’uscita dalla routine. Nel contesto narcisistico, il tradimento è una potente arma di controllo e manipolazione emotiva. In questo articolo, esploreremo le dinamiche del tradimento in tali relazioni e…
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Narcisismo Patologico: Cause, Sintomi e Trattamenti Efficaci
Il narcisismo patologico è un disturbo complesso e debilitante che può influenzare profondamente la vita di chi ne soffre e di coloro che gli stanno intorno. Comprendere le cause, i sintomi e i trattamenti efficaci è fondamentale per affrontare questa condizione in modo appropriato.
Le cause del narcisismo patologico possono essere attribuite a una combinazione di fattori genetici, esperienze infantili traumatiche e modelli di attaccamento insicuri.
Spesso, individui con un'eccessiva gratificazione durante l'infanzia, in cui le loro esigenze sono state costantemente esaudite senza alcuna opportunità di sviluppare una sana autostima, possono sviluppare tendenze narcisistiche.
I sintomi del narcisismo patologico si manifestano attraverso un costante bisogno di ammirazione, una mancanza di empatia verso gli altri e un senso esagerato di importanza personale. Le persone affette da questo disturbo possono essere estremamente egocentriche, manipolative e incapaci di sperimentare emozioni autentiche.
Fortunatamente, esistono trattamenti efficaci per affrontare il narcisismo patologico. La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è spesso utilizzata per aiutare gli individui a riconoscere e modificare i modelli di pensiero distorti e i comportamenti disfunzionali.
La terapia focalizzata sulla consapevolezza emotiva e sulla gestione del sé può anche contribuire a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé e delle proprie emozioni.
Per approfondire i temi del narcisismo patologico, visita il sito https://NarcisismoPatologicoSconfitto.com. Troverai risorse, informazioni e supporto per comprendere meglio questa condizione e scoprire strategie per gestirla in modo efficace.
In conclusione, il narcisismo patologico è un disturbo complesso che richiede un'attenzione attenta e un trattamento adeguato. Con una corretta diagnosi e un intervento terapeutico mirato, è possibile affrontare il narcisismo patologico e vivere una vita più sana e soddisfacente.
Ricorda di cercare il supporto adeguato e di non esitare a chiedere aiuto. Per approfondire i temi del narcisismo patologico, visita il sito https://NarcisismoPatologicoSconfitto.com.
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IL SISTEMA FAMIGLIARE HA SEMPRE RAGIONE?
La famiglia ha sempre ragione?
Partiamo dal principio.
Nella prima parte della vita si vive il karma con le figure autoritarie e qui si nasconde il nostro rapporto con queste figure.
Diciamo che, proprio nel momento in cui dovremmo rimanere sempre più agganciati alla nostra Essenza e al nostro potere personale, noi siamo educati a sganciarcene. Ed ecco che creeremo le dinamiche con le forme di potere.
Il karma più pesante poi è con i genitori, sono loro i principali specchi su cose che ci riguardano e che spesso non riconosciamo.
Mi è capitato spesso di sentire la classica frase: “Io non voglio diventare come mia madre, come mio padre, non sarò mai come loro”.
Eppure…
Quasi sempre si diventa esattamente come loro.
Perché accade?
Attenzione a questo passaggio.
Noi non diventiamo come loro, semplicemente eravamo già come loro.
Loro ci fanno da specchio.
I genitori sono espressione di karma nel senso che sono quello che hai fatto a te stesso e che hai permesso agli altri di fare a te stesso.
Tutto quello che hai sabotato o bloccato ti viene riflesso nel genitore.
Questo perché possiedi tre canali energetici:
Il Lunare: Femminile.
Il Solare: Maschile.
E il Canale della coscienza.
All’interno di questi canali ci sono memorie di esperienze con il femminile e con il maschile.
E, in base alle cose irrisolte nel tuo aspetto femminile o maschile, viene attratto quel tipo di genitore.
Tieni presente che considerando il tuo sesso, il canale energetico opposto sarà quello inconscio.
Perciò se hai bloccato il tuo maschile attrarrai un genitore che ti blocca l’evoluzione del tuo maschile. Se hai bloccato il femminile attrarrai una madre anaffettiva, per esempio.
E questo riverbera in generale anche con tutti i membri della famiglia.
Quindi, a un certo punto, non si tiene tanto conto se è la zia, il papà, la nonna il problema, ma se è un problema energetico di tipo femminile o maschile.
E se non risolvi questi problemi con la famiglia cosa accade?
Semplice, tu ti porti dietro quei nodi irrisolti maschili e femminili tanto da riviverle con le altre relazioni interpersonali in base al sesso della persona.
Un altro quesito fondamentale che mi viene posto è se i genitori ci feriscono per primi oppure nasciamo già con delle ferite.
Bisogna considerare che i genitori possono sì ferirti, ma ti feriscono nelle vecchie ferite che tu hai già inflitto a te stesso con il karma.
Dietro una ferita c’è una memoria karmica.
Ed è come se i genitori fossero stati costretti a riaprire vecchie ferite delle tue vite passate.
Sono come rappresentazioni di archetipi, di energie.
Prova a osservare i tuoi genitori, le loro paure e identificazioni e come le proiettano su di te, come e dove cercano di bloccarti, di boicottarti e dove cercano di aiutarti e di stimolarti, invece.
Sono tutti specchi. Specchi di quello che hai fatto e ancora fai a te stesso da chissà quante “vite”.
Per questo è stata scelta questa famiglia piuttosto che un’altra, per permetterti di evolvere.
Proprio perché rappresenta alcuni lati che puoi, ma soprattutto devi trasformare in questa vita.
Cambia la prospettiva adesso o sbaglio?
La famiglia non puoi vederla come il colpevole di tutti i tuoi problemi, come un ostacolo, come la fine della tua felicità, la potrai solo guardare con compassione, come il terreno migliore per la tua crescita.
Ma la maggior parte delle volte questo non accade.
Si verificano due scenari: O ci si attacca e ci si identifica con la famiglia e i suoi modelli oppure ci si ribella e ci si allontana il più possibile.
Nessuno dei due casi ti permette realmente di evolvere e liberarti.
E adesso vedremo perché.
Non basta tagliare il cordone ombelicale alla nascita
Prima di tutto parliamo del primo lato.
Come abbiamo già accennato, il meccanismo di identificazione e attaccamento al sistema familiare e alle dinamiche di famiglia non permette di risvegliarti alla tua coscienza/individualità.
Osserva un animale, per esempio.
Appena è autonomo per la sua sopravvivenza lui si stacca o viene cacciato dal gruppo.
Questo non accade nell’essere umano da ormai tempo. Possiamo dire che il processo di crescita interiore è rallentato.
Siamo in una situazione di forte identificazione con il sistema familiare.
Non ci si stacca dai genitori e loro non si staccano da noi.
E così non riesci a trovare la tua strada e nemmeno a risvegliare la tua coscienza.
Non trovi chi sei davvero, al di là della tua famiglia.
Che vocazione hai?
Che talenti hai?
Queste cose non hanno niente a che vedere con la tua famiglia biologica.
La famiglia è solo un canale per aiutare l’anima a fare la sua strada.
E intendo la sua strada, non quella del sistema familiare.
Agisce fino a quando il sistema corpo, mente ed emozioni sono abbastanza mature per seguire il progetto dell’anima, il motivo per cui è tornato qui (il suo dharma).
Se non accade questo si genera karma.
Guardando ai nostri tempi, i bambini non vengono educati a cavarsela da soli, a trovare la loro strada nella vita.
Addirittura, troppo spesso, la madre educa il figlio con l’idea che non se ne andrà.
Ecco perché poi è così difficile sganciarsi dall'inconscio familiare.
Ed ecco perché non avendo tagliato il cordone ombelicale, noi riviviamo i nostri drammi familiari. Classico copione che si può osservare nelle convivenze.
“Lo stare insieme in una casa” diventa il luogo di manifestazione dei propri modelli vissuti in famiglia.
Allora le persone mi chiedono se fosse la stessa cosa se si ribellassero?
Purtroppo devo darti una cattiva notizia a riguardo.
Perché no, non cambia niente.
Certe informazioni saranno impresse nel campo cosciente anche se te ne vai.
Scendiamo nel dettaglio.
Comprendi che ribellarsi non è essere se stessi. Punto.
Essere se stessi vuol dire liberi dal karma, essere se stessi in ogni relazione.
Tanti pensano mi ribello a tutti o non coltivo nessuna relazione così sono a posto, posso essere me stesso.
No. Non è proprio così.
Tieni presente che il focus, quando subisci qualcuno, parliamo dei genitori in questo caso, sono loro.
Quando ubbidisci, il focus sono ancora loro.
E quando ti ribelli?
Indovina un po’? Sì, sono ancora loro.
Perché?
Perché semplicemente non sei centrato.
Ancora non sei chi vuoi, non fai ciò che vuoi.
Che tu sia accondiscendente o ribelle non cambia niente, il focus ancora una volta sono loro non tu.
Focus su come loro ti vedono, su come ti giudicano, su come ti trattano.
La tua mente è assorbita in questa ribellione e non è ancora libera di fare la sua strada. E questa non è libertà. Non sei ancora focalizzato su ciò che vuoi realmente, su ciò che è legato alla tua coscienza, ma su ciò che non vuoi, che dipende ancora da loro…
Ecco il vincolo.
Che poi, siamo onesti, quando ci si ribella a tutti i costi, cosa si prova?
Si prova un senso di pace interiore? Serenità e spensieratezza?
O ci si fa consumare da rabbia, cinismo, odio e tanto risentimento?
Cosa c’è di liberatorio in tutto questo?
Poi vedremo perché accade, ma basta già iniziare a comprendere che la ribellione, il fare l’opposto di quello che vogliono gli altri, non è ancora fare quello che si vuole. Non è ancora risveglio.
“E se io me ne vado dalla famiglia? Scappo il più possibile?” È possibile che te lo sia chiesto anche tu.
Per risponderti, considera che la distanza fisica può aiutarti in quel momento, certo, ma, come abbiamo visto prima, il legame esiste ancora.
C’è ancora karma, perché dietro c’è la credenza, i pensieri e quindi anche uno stato che comporta un certo tipo di emozioni.
Non c’è ancora accesso alla tua coscienza, non sei ancora te stesso, ma succube del sistema familiare o di quello sociale.
Piuttosto evidente se ci pensi.
Tu puoi andartene anche in Antartide o rinchiuderti in una grotta da solo, ma qualcuno probabilmente lo incontrerai comunque. E, soprattutto, la mente, i tuoi pensieri, le tue credenze, tu te le porti dietro, la testa non la stacchi dal corpo e la lasci in casa con la tua famiglia di origine. O sbaglio?
Per questo dire “Io non sarò mai come mio padre” o “come mia madre” non è garanzia di successo. Anzi, se non fai un lavoro su te stesso per ripulire il karma, tu diventi esattamente come loro invece.
Se sei nato da loro, hai un karma simile al loro.
Le caratteristiche che ti danno più fastidio di tua madre e di tuo padre, di solito, sono anche le tue. O comunque sono lì per farti vedere qualcosa.
Questo è importante capire.
Perché quando cresci e si moltiplicano le interazioni con le persone, sperimenti il karma di relazione.
E tutto quello che non hai lasciato dalla famiglia te lo ritrovi in queste di relazioni.
Ma come puoi trasformare le cose allora?
Tu trasformi le cose quando lasci andare il passato.
Rimani concentrato perché questo è fondamentale.
Infatti, con “passato” non parlo del ricordo, ma della carica energetica riguardo al passato.
Non basta allontanarsi o aver fatto pace fuori per chiudere i cerchi. I cerchi vanno chiusi interiormente.
È lasciando andare la carica emozionale, che il ricordo non fa più male.
Ripeto: Lasciare andare l’emozione, non tanto il fatto in sé.
Tu non hai chiuso il rapporto, il vincolo, se non hai chiuso bene anche con l’emozione.
Questo è il nocciolo.
Se non lavori sul nodo karmico, su ciò che dovevi vedere e capire in quella relazione, continui a ricreare le stesse dinamiche nelle nuove relazioni. Come un loop indissolubile.
Perché il karma negativo di relazione crea così tanta sofferenza?
Perché non ci lavori. Questo è il negativo.
Se rifiuti di guardare i tuoi problemi e continui a voler cambiare l’altro o a dargli la colpa, non cambierà mai niente.
Tieni presente che noi ci mettiamo un’energia allucinante a proteggere le nostre ferite, facciamo di tutto perché l’altro non tocchi.
Cerchiamo di controllare le persone per tenerle lì nell’angolino.
Cerchiamo di reprimere noi stessi.
E se l’altro fa la stessa cosa? E tranquilli che l’altro fa esattamente la stessa cosa.
Molti miei studenti venivano da me tutti terrorizzati.
“Non riesco più a far pace con il mio ex, voglio chiudere i miei cerchi, ma lui non mi vuole avvicinare, non è disposto a chiarire. Cosa devo fare?”
Non soffermarti a sistemare fuori pensando che questo sistemi dentro.
Ciò che fa la differenza, ciò che ribalta la tua vita è sistemare dentro più che fuori.
Lascia stare il rapporto e la persona in questione, focus nel cuore.
Perché dico questo?
Perché ogni relazione lascia delle impronte energetiche karmiche al tuo interno.
Il problema parte dall’interno verso l’esterno, non il contrario.
Trasforma le tue tracce karmiche e il fuori poi cambierà da solo.
Spesso l’altra persona ti lascia libera e se ne va perché non può più farti da specchio, oppure smette di essere in quel modo lì e cresce anche lei con te.
La tua vita cambia totalmente anche riguardo a chi attrai.
Se ti dovessero arrivare certe persone che non ti stanno bene, tu puoi dirgli semplicemente di no, perché lavorando su te stesso non hai più bisogno di passare per certe esperienze.
Prima ci cadi dentro e non puoi farci niente. Non c’è consapevolezza.
Ma ora sì. Ecco la libertà di dire sì / no. La libertà di scegliere.
Ricevo continuamente domande del tipo: “Cosa devo dire?”
“Come faccio a comunicare meglio i miei bisogni?”
“Come faccio a parlare con un partner che fa muro a ogni mio tentativo di comunicazione?”
Ti rispondo con la verità:
Non è facile comunicare quando c’è di mezzo il karma. Non è affatto facile.
Se in una relazione è importante comunicare i propri bisogni, quando il karma ci fa compagnia, spesso, o non si riesce o magari l’altro non ci ascolta ecc.
La soluzione è partire a lavorare su se stessi.
Perché aspetti che la relazione porti a galla il dolore? Prendi subito in mano la situazione.
Non ha senso scappare senza risolvere.
E non ha senso nemmeno lavorare sulla coppia, sulla famiglia ecc.
Devi lavorare su te stesso, sui tuoi modelli e nodi energetici, karmici.
Non si lavora mai sulla relazione, ma si lavora su ciò che la relazione ti ha fatto vedere di te.
Rifletti che tutto quello che ti circonda è lì per mostrarti qualcosa di tuo.
Per questo è importante vederlo e lavorarci interiormente.
Tagli il cordone ombelicale lavorando sulle ferite, non focalizzandoti su chi te le ha fatte. Continua pure a rimuginare con chi ti ha ferito e non farai altro che rafforzare il vostro legame distruttivo e la ferita stessa.
Roberto Potocniak
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[...]
Poi sia quello che sia
stramaledico
chi vuole strapparmi
dalle divelte mura
con corruzione
seduzione
minacce
trampate
terrore
e lordura
…
Perché
mai e poi mai
potrò separarmi
da questa pietra muta
che strepita dolore
nel silenzio.
[...]
______________________
Un NO dalla Striscia all’Ucraina – In appendice una lettura critica dei miei versetti realizzata da una serie di chatbot basati su modelli di intelligenza artificiale generativa.
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29 nov 2023 15:47
MA QUALE PATRIARCATO, DIETRO L'OMICIDIO DI GIULIA CECCHETTIN C'È TUTT'ALTRO - LA CRIMINOLOGA ROBERTA BRUZZONE: "IN FILIPPO TURETTA RAVVISO I TRATTI CARATTERISTICI DEL DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITÀ NELLA SUA VERSIONE PIÙ SUBDOLA, QUELLA PASSIVO-AGGRESSIVA" – "QUESTO SI SVILUPPA NEI PRIMI TRE ANNI DI VITA, IN QUEL PERIODO NON HA RICEVUTO MODELLI DI ATTACCAMENTO ADEGUATI” – “LA MADRE ITALIANA MEDIA TENDE A FARE DEL FIGLIO UNA SORTA DI ‘PICCOLO BUDDHA’, PERCHÉ..." -
Estratto dell’articolo di Roberto Faben per "La Verità”
[…] Quella che segue è l’analisi di Roberta Bruzzone, classe 1973, psicologa forense e criminologa, volto televisivo molto noto.
La genesi del delitto compiuto da Filippo Turetta si spiega nel rapporto, durante l’infanzia, con la madre?
«Io, in lui, ravviso tratti caratteristici del disturbo narcisistico di personalità nella sua versione più subdola, quella passivo-aggressiva, o covert. Questo tipo di disturbo della personalità si sviluppa nei primi tre anni di vita. Lui ha sviluppato un io molto fragile, con una teoria disfunzionale della mente degli altri. Non dico sia colpa della madre ma probabilmente questo ragazzo, per sviluppare una personalità così disturbata, nei primi tre anni di vita non ha ricevuto modelli di attaccamento adeguati».
Pensando al complesso edipico, in una famiglia tradizionale la madre sbaglia a essere troppo affettiva e condiscendente nei confronti del figlio o dei figli maschi?
«Anche nelle famiglie apparentemente funzionali, molte madri tendono a riservare ai figli maschi un trattamento privilegiato, preservandoli, ad esempio, da una serie d’incombenze domestiche. Ancor oggi, molte madri sono predisposte a non responsabilizzarli nell’abitazione, come se fossero badanti, le donne delle pulizie dei propri figli. Questo modello è più subdolo di quanto si creda.
A Domenica in, un’inviata, donna evoluta e con strumenti, ha detto: “Ora Elena, la sorella di Giulia, è rimasta la sola donna di casa e dovrà prendersi cura del fratello e del padre”. Una frase che dice tutto di ciò che ancora c’è nella testa della gente. Nel 2023 è preoccupante pensare che solo una donna si debba prender cura degli altri».
Oggi, una famiglia è in grado di educare i figli e le figlie a reagire adeguatamente a possibili traumi sentimentali?
«È difficile generalizzare, però la madre italiana media tende a fare del figlio una sorta di “piccolo Buddha”, perché aver avuto un maschio è come se la riscattasse dalla sua condizione di femmina. Siamo un Paese in cui, ridendo e scherzando, quando ti sposi, si dice ancora “Auguri e figli maschi”.
La stessa Giulia Cecchettin probabilmente, per un certo periodo, ha scambiato l’estrema presenza, l’assedio di Filippo, che non le consentiva di fare nulla da sola, come segnale di grande interesse, ma quando ha sentito che l’aria le mancava, ha cominciato a capirne, senza coglierla fino in fondo, la pericolosità. Lui l’ha manipolata, come fanno i covert, anche attraverso continue minacce di suicidio».
Il narcisismo maligno, tuttavia, può caratterizzare anche la personalità di una donna?
«Certo, il narcisismo è una modalità di funzionamento. Non ci sono copyright di genere. Sicuramente ci sono in giro molte narcisiste in grado di fare dei danni. Ma è difficile, anche se non impossibile, che la componente femminile arrivi a esiti violenti».
[…] Qual è l’approccio educativo più efficace, nelle famiglie, nei confronti di figli e figlie, per intraprendere una futura relazione di coppia?
«La miglior prevenzione è educarli in maniera tale che pensino di non aver bisogno di qualcuno da controllare, per stare al mondo. Tutti gli esseri umani di questa Terra dovrebbero essere autonomi: possono incontrarsi, stare insieme, separarsi. In un perimetro di autonomia, anche la fine di una storia diventa gestibile perché tu, comunque, sai di poter contare su te stesso e di poter vivere anche senza quella persona».
[…] Tornando all’assassinio della povera Giulia, il suo partner era molto competitivo nei confronti della ragazza.
«Era una competizione viscerale, sotterranea, ma terribile da parte di lui. La situazione è precipitata proprio a ridosso della laurea, un traguardo che non avrebbe tagliato con lei».
In una coppia sana e che funziona, è normale che vi sia competizione?
«Normale non lo è. In una coppia dovrebbe esserci una condizione sinergica. Ognuno collabora con le proprie forze per gestire al meglio la situazione. Le dinamiche competitive, di solito, tradiscono nella coppia la presenza di una personalità narcisistica».
[…] Esiste anche una casistica di coppie con uomini innamorati, fedeli, non violenti e persino servizievoli, che finiscono schiavizzati. Che consiglia a un uomo alle prese con una tale relazione tossica?
«Abbiamo a che fare con soggetti che hanno tratti dipendenti di personalità o addirittura un disturbo dipendente di personalità, che ti porta a pensare che l’unico modo per sentirti adeguato è che sei disposto a fare, per amore, anche le peggiori cose, a sacrificarti in ogni modo e a subire umiliazioni. Se hanno una personalità dipendente, l’unico modo per cercare di uscirne è fare un percorso psicoterapico. Difficilmente ne escono diversamente».
In una relazione sentimentale, quali sono i problemi prevalenti delle donne di oggi? «Moltissime ragazze e donne di ogni età hanno un fortissimo bisogno di avere un uomo a fianco per sentirsi convalidate in quanto donne, come se l’assenza di un uomo le facesse risultare incomplete e inadeguate. Hanno bisogno di un punto di riferimento nella figura maschile e, pur di tenerselo, si accontentano, abbastanza facilmente, anche di uomini terribili». […]
Lilli Gruber ha accusato Giorgia Meloni di sostenere una cultura patriarcale. Ma c’è anche chi ha dato della femminista al premier. Come la mettiamo?
«Io credo che la Meloni sia un esempio di rottura con la cultura patriarcale e ritengo che abbia sfondato un tetto di cemento armato. Come prima donna a occupare il ruolo di premier in Italia, si rapporta con i grandi del mondo senza fare un passo indietro. Secondo me è un modello molto potente di porsi, sotto il profilo femminile. Temo che molte donne, sotto la cultura patriarcale, possano vederla come un termine di paragone molto scomodo».
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La mia psicologa una volta mi ha detto "Non avremo mai certezze le persone tengano a noi, neppure se ce lo diranno... Anche perché spesso neppure loro sanno cosa provano. I sentimenti umani sono talmente complicati. Non sono matematica, non si hanno garanzie. Devi imparare a vivere nell'incertezza... Farti bastare i segnali, per quanto essi non diano sicurezze"
Come si convive con l'incertezza se, come me, si vive in funzione dei legami...? Cioè, per me la cosa più importante nella vita sono le persone, i rapporti che si tessono tra esse.
Inoltre mi chiedo anche: come capire quali sono quei segnali di cui parla la mia psicologa, se ognuno dà segnali diversi per sentimenti diversi, essendo ovviamente tutti noi unici e avendo modi differenti di dimostrare l'affetto...? Conoscere la persona sicuramente aiuta a capirlo, a capire i suoi, ma a volte è comunque difficile interpretare...
Una delle mie ultime lezioni di psicologia sociale si basava proprio su questa tua ultima domanda. Ogni persona costruisce i propri modelli interpretativi sulla base di come essa si relaziona al mondo, di quelle che sono state le sue relazioni e interazioni sociali e soprattutto di quello che è stato il legame di attaccamento primordiale; possiamo quindi dire che l'interpretazione è ciò che vediamo negli altri sotto la luce di ciò che noi siamo, pensiamo e viviamo. Già questa definizione basta per farci capire quanto sia incompatibile la propria interpretazione con il sentimento reale appartenente ad un'altra persona (come hai detto tu, in realtà, parliamo di ciò che la persona ci comunica su tale sentimento, che può non corrispondere al vero). parlando di psicologia, che non è altro che una lente sotto cui leggere ciò che è la nostra esistenza, non esiste una legge universale. è tutto un meccanismo di comunicazione, fiducia, crescita (andando incontro a rapporti che non si sono rivelati ciò che credavamo, impariamo a discriminare quello che realmente vogliamo da ciò che invece è solo apparenza.)
Per farla breve, l'unica strada possibile perchè due mondi vengano a contatto in maniera sana e costruttiva è che ci sia scambio. scambio di opinioni, pensieri, modelli interpretativi, consapevolezze, idee su ciò che ogni cosa significa per l'altro. la comunicazione tra individui aiuterà il rapporto a crescere e a far capire ad entrambi quale strada è meglio prendere. e attenzione, si parla di scambio perchè deve essere reciproco, non significa solo conoscenza di ciò che la persona fa nella vita, di come si chiama e di quali sono i suoi interessi.
questa è l'opinione di una persona che, come te, pensa che il fattore sociale e il rapporto con gli altri sia fondamentale. per non ritrovarsi a soffrire inutilmente secondo il mio parere è necessario (seppur non sia semplice) sforzarsi di seguire questo. spero di averti risposto :)
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Ogni dieci ottobre qualcuno mi ricorda che la salute mentale esiste come concetto - un concetto di cui si può parlare e di cui molti parleranno perché tocca innumerevoli vite - e non solo come esperienza privata, mia, racchiusa dalla mia scatola cranica e incomprensibile a chiunque altro. Ogni dieci ottobre leggo testimonianze di persone sconosciute che sembrano parlare della mia mente e dei miei pensieri resi estranei, impersonali, condivisibili. E tutto questo parlare e sdoganare io lo ammiro, lo appoggio con un certo sollievo momentaneo e un po' di gratitudine, mi offro diventando fiume e mi lascio scorrere insieme a tante altre voci, a tanti altri sospiri di sollievo che non hanno più intenzione di portare da soli sulle proprie spalle il peso della vergogna e del rimorso. Capita, però, che mi perda comunque in quel caos e che mentre entro in empatia con chi soffre e reagisce a modo suo al dolore, un enorme masso mi si pari davanti, impedendomi di raggiungere i pensieri razionali, di lasciare che la mia empatia, come un boomerang, mi torni indietro e mi conceda una tregua dai sensi di colpa. Il momento critico passa e la mia nuca smette di pulsare, riempita fino all'orlo da sensazioni violente e ingestibili. È notte ormai, non fa più paura vivere perché non c'è più niente da fare né da decidere, difficilmente il modo in cui occuperò il tempo tra l'1.14 e l'1.58 avrà conseguenze sulla percezione di me stessa. Mi convinco di aver esagerato, che forse non era niente, che ho reagito male, troppo, impulsivamente e sgarbatamente. Mi pento dopo pochi minuti di aver chiesto aiuto alle persone sbagliate, mentre sento mio padre darmi consigli sulle cose-da-fare che in un altro momento mi avrebbero resa un po' felice, su come finire in fretta l'università per poi essere libera di fare ciò che voglio, una libertà che mi spaventa, mi attanaglia e mi paralizza al solo pensiero, che non avrei la forza di prendere in mano e che forse, adesso, mi schiaccerebbe sotto il suo peso insostenibile dato dalla somma delle opportunità mancate. Il dolore stantio, come una lama ormai smussata, si unisce a dolori nuovi, taglienti e affilati. Un anno fa pensavo all'ironia di essere crollata, dopo tanti sforzi per trattenere ogni pezzo incastrato in modo instabile lì dov'era, proprio in questo giorno. Oggi non trovo più niente di ironico perché sto crollando con una certa frequenza e ripenso a quella frase di Pavese che recita: soffrire non serve a niente, schiaffeggiando ogni pretesa di utilità del dolore, di ottimizzazione dei sentimenti, di validazione del tempo passato a star male solo come attesa, mezzo e necessità per un bene futuro. Non serve a niente, come non è servito seguire l'istinto e il tumulto nello stomaco scambiato per unica possibilità di salvezza, quando forse era amore misto ad ansia, viscerale e totalizzante. Ho inseguito quello scompiglio credendo che fosse di sua natura più profondo di qualsiasi pace, che la pace non mi avrebbe mai fatta sentire viva, per un mantra ripetuto negli anni che ultimamente assomiglia sempre più ai sintomi dei miei disturbi d'ansia, dei miei modelli di attaccamento, degli scompensi chimici che ho romanticizzato. Mi ero ripromessa, lo scorso dieci ottobre, che non avrei permesso all'umore di qualcun altro di dettare legge, che i miei attacchi di panico non sarebbero più dipesi dai fili mossi da un singolo essere umano. E ora, dopo un lungo giro, sono allo stesso punto di un anno fa, con meno stupore e più autocontrollo. E in certi istanti in cui riesco a perdere per strada i pensieri che mi avevano tenuta sveglia, a schivare i colpi e a guardarmi da lontano, penso che potrebbe essere così facile svegliarsi domani mattina e avere voglia di salire in cucina per fare colazione, uscire a guardare l'autunno posarsi sul mondo con colori pastello, muovere il mio corpo liberamente e lasciare la mia mente spaziare senza dare giudizi morali, senza pagare pegno, poi uscire, respirare e prendere l'auto, andare in libreria a comprare il regalo di compleanno a mia madre e bere un caffè con il mio migliore amico
mentre gli racconto della mia vita, poi tornare a Torino e vedere un sacco di musei e uscire in santa Giulia con persone che non scaricano mai la mia batteria sociale e pazienza se la casa nuova è un disastro, andare un giorno al mare, leggere i libri della lista infinita che ho memorizzato e saper parlare, ascoltare, prendersi del tempo e lasciarsi scivolare addosso le scomodità, e poi vederti ancora e dirti che ti amo e ogni volta che ti vedo credendo di non saperlo mi confermi che è così, che ho amato solo una volta prima di te ma ho finito col calpestare quel sentimento fino a trasformarlo in qualcos'altro e a non riconoscerlo più, tanto da dubitare che fosse mai esistito, e dirti che questa volta ciò che provo è puro ed esiste da prima che esistessimo noi, che credevo di averti idealizzato ma che ogni volta che ti vedo scopro qualcosa che amo in te, che ho scritto tanto di te credendo di parlare di una storia già conclusa, ma che dovrò riaprire il file di world per aggiornare il numero di parcheggi in cui abbiamo parlato per ore prima che ti baciassi per poi restare tra le tue braccia ad annusarti il collo, che stavolta speravo davvero in un finale meno aperto, almeno per riuscire a sbiadire la tua immagine e non avere più sorprese, invece credo che ripenserò a questo periodo come a un altro goffo tentativo di trovarsi, che speravo davvero che questo bastasse, che sacrificarsi avrebbe avuto senso, invece di portare solo stanchezza, che sarai sempre una persona che mi farà venire voglia di scrivere romanzi, ma non di viverli, che ti amo ma sei distante, così distante da farmi sentire la sola a remare, che è uno squilibrio di potere e quei momenti in cui mi guardi e mi sento tornata a casa non valgono questa gran fatica se so che ti basterebbe così poco a renderla vana. Però ti amo, e lo dico così, senza conseguenze né aspettative né ritorni, senza rivelartelo direttamente perché tanto non sapresti cosa fartene. Ti amo e basta, è un dato di fatto, lo guardo scorrere come guardo scorrere tutto ciò che succede dentro la mia testa, apparentemente così facile da afferrare, ma in realtà incontrollabile e sfuggente. Così, contemplando senza giudizio.
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Balance
Viene dato molto per scontato il concetto di lealtà
'Vedi? E' è per questo che non uscirei mai con te, non sei leale e non sei affidabile'
'Cosa c'entra questo con la lealtà? Sto fumando una sigaretta'
'Ma ti è stato chiesto di non farlo qui e tu hai detto che era ok per te, eppure lo stai facendo'
Il problema è che manchi di rispetto in primo luogo per te stesso
E' un circolo vizioso, davvero, difficile stabilire cosa dia origine a cosa
Non te ne è mai stato portato quindi tu non sai nè rispettare nè essere rispettato
Voglio qualcuno che mantenga la propria parola e sia leale
E queste sono tutte piccole bandiere rosse che in passato ignoravo nella speranza che con me potesse essere diverso
Ma perchè dovrebbe?
Il mio ex ragazzo mentiva ai suoi amici e credevo che mai si sarebbe permesso di farlo con me
E invece lo faceva ed ha continuato a farlo fino alla fine
Anche t si porta appresso tutta una serie di bandiere rosse ma la consistenza dei suoi baci mi distrae
E' per questo che ho posto fine a tutto
Perchè tu non hai mai voluto me
Ti chiedo se ti sono mancata
Rispondi 'Sinceramente sì'
Sinceramente
E ci credo, credo che tu sia sincero
A volte è l'ignoranza che ci fa mentire anche quando sentiamo e desideriamo essere onesti
Perchè crediamo che le cose siano in un modo ma non sappiamo davvero credere
Valutiamo con la ragione e non col sentire, o il nostro sentire è viziato da degli stili di attaccamento malsani
Confondiamo l'amore col possesso, la mancanza col bisogno
Lo scegliere con il non saper lasciar andare
E canonicamente ci vengono proposti tantissimi modelli di storie d'amore secolari che sono in verità lo specchio di un sentire tossico e codipendente
Vorrei emozioni genuine
Dicono che mi stai aspettando, o meglio, che stai aspettando di essere pronto per stare con me
Non so in cosa dovrei credere
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[L'invitata][Simone de Beauvoir]
L’invitata (1943) è il primo romanzo di Simone de Beauvoir: il ritratto di un groviglio affettivo fatto di solitudini e ossessioni, ma soprattutto di una ricerca di senso che va ben oltre la riflessione sui possibili modelli di coppia e d’amore.
A Rouen, in quella Normandia asfittica su cui aleggia il fantasma letterario di Emma Bovary, Pierre e Françoise, raffinati intellettuali parigini, conoscono Xavière, una ragazzetta per la quale entrambi provano un morboso attaccamento. Sono gli anni a cavallo tra i Trenta e i Quaranta del Novecento, la Francia è sull’orlo della guerra e dell’occupazione, l’ultimo scampolo di leggerezza, forse,…
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#2022#Federico Federici#fiction#Francia#L&039;invitata#L&039;Invitée#LGBT#LGBTQ#Mondadori#Narrativa#Simone de Beauvoir
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Lettera a un evitante
Lettera a un evitante


Illustrazione di Ni-nig
“Ho avuto bisogno di diverso tempo per far decantare quello che ti sto scrivendo, poiché tendenzialmente sono una persona che matura le cose con una certa lentezza e anche chiarirmi le idee e farle diventare consapevolezze è spesso un lavoro che richiede un po’ di tempo, di attenzione e di cura. Non so se troverai quanto ti scriverò fuori luogo, ma credo sia un rischio…
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Petizione su Change.org sui contagi parentali in Italia

Bimbo Una situazione che è stata evidenziata in una petizione che è stata pubblòicata su Change.org: una donna e mammacrede che l’Italia stia facendo poco su maternità e congedo parentale. In Nord Europa il congedo parentale viene sostenuto attivamente per garantire stipendi dignitosi alle lavoratrici che necessitano di stare accanto ai loro figli nei primi anni di vita. In Italia questo non accade: si può scegliere di prolungare la maternità di 6 mesi percependo il 30% del proprio stipendio. Una soluzione che molte donne non possono sostenere perchè si tratta di cifre bassissime che non permettono di sostenersi. Per cui si chiede che l’Italia si adegui al resto d’Europa: le donne vogliono avere più tempo per stare accanto ai figli e un sostegno economico dignitoso che consente di vivere. Ecco il testo della petizione: "L’obiettivo di questa petizione è portare l’attenzione alla normativa sulla maternità e congedi parentali, migliorandola in termini di durata di mesi di astensione dal lavoro, quindi tempo maggiore da dedicare ai figli, e dignitosa retribuzione al fine di tutelare le famiglie e soprattutto i bisogni, il benessere e la salute dei bambini e dei loro genitori, intesi come investimento per la salute della collettività a breve, medio e lungo termine. Questa petizione nasce dalla riflessione di una madre mentre guardava, in una mattina qualunque, sua figlia di appena 3 mesi dormirle beatamente addosso, dopo una notte difficile trascorsa ad allattare ed accudire. Riflessione nata perché quella madre sarebbe dovuta rientrare al lavoro anziché rispondere ai bisogni della figlia. Secondo la normativa dello Stato Italiano una madre ha diritto a 5 mesi di astensione dal lavoro per la maternità obbligatoria retribuita all’80%. Se si è astenuta dal lavoro all’ottavo mese di gravidanza o al nono, dopo 3-4 mesi dal parto è previsto il rientro a lavoro da parte della madre, se vuole percepire uno stipendio dignitoso. Dignitoso perché se la lavoratrice madre lo desidera, ma soprattutto se può permetterselo economicamente, può usufruire del congedo parentale (Dlgs. n. 151/2001) in gergo la “maternità facoltativa”, retribuita al 30% per un totale di 6 mesi da sfruttare entro i primi 6 anni di vita del bambino (Considerato che nel 2020 lo stipendio medio in Italia è stato pari €1.605,30 netti al mese (su 13 mensilità), il 30% corrisponde a 481,59€, cifra che non consente, nella maggior parte dei casi, neanche di pagare in autonomia un mutuo o un affitto). Dopodiché, una lavoratrice madre è costretta a rientrare a lavoro avvalendosi fino all’anno di vita del diritto alla “riduzione” di orario per l’allattamento: 1 ora se le ore di lavoro sono inferiori a 6 al giorno, o di 2 ore se uguali o superiori alle 6 ore al giorno (come se i bambini avessero bisogno delle madri ad orario). Dal sito dell’INPS “Il congedo parentale è un periodo di astensione facoltativo dal lavoro concesso ai genitori per prendersi cura del bambino nei suoi primi anni di vita e soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali”. Pertanto, secondo lo Stato Italiano, i genitori lavoratori possono “prendersi cura del bambino nei suoi primi anni di vita e soddisfarne i bisogni affettivi e relazionali” entrando a lavoro entro i suoi 9/10 mesi di vita (sfruttando la maternità obbligatoria e tutti i mesi del congedo parentale) o prima se desiderano fruire di qualche settimana o mese del congedo entro i 6 anni del bambino, con una retribuzione pari al 30% dello stipendio, come si evince dalla normativa. Ciò che è stato sopra descritto riguarda la “realtà” delle lavoratrici dipendenti. Realtà tra virgolette, perché in troppi casi la madre lavoratrice si sente costretta a rinunciare al congedo parentale o alla riduzione di orario per paura del licenziamento, paure fondate su casi di mobbing all’interno dell’ambiente di lavoro da parte sia del datore che dei colleghi, dove la madre viene giudicata opportunista ed improduttiva.La realtà delle lavoratrici autonome è ben diversa; la disparità tra una lavoratrice dipendente e una autonoma è abissale in termini di tutela della maternità e del post partum. Per una lavoratrice autonoma la retribuzione della maternità, dove prevista, (versata profumatamente negli anni) viene incassata dopo molti mesi dalla data del parto, se in pari con i contributi da versare dell’anno in cui è stata fatta richiesta di maternità. Non sono previsti sconti, agevolazioni ne riduzioni ma solo un nome, un posto e dei clienti da mantenere. Quindi se una lavoratrice dipendente non può permettersi di vivere dignitosamente con il 30% del suo stipendio, deve tornare a lavoro a tre o quattro mesi di vita del figlio, barattando quasi lo stipendio per nido o babysitter mentre i più fortunati potranno lasciarlo a nonni, zii etc Ma soprattutto deve tornare a lavoro con la sensazione che le manchi un organo o un arto, con il cuore lacerato in due parti per aver lasciato il suo cucciolo d’uomo prematuramente: il legame simbiotico col bambino continua dopo il parto per altri nove mesi fuori dalla pancia (esogestazione) e in questo periodo la madre è messa a dura prova dai ritmi dell’accudimento (dolori estesi a tutto il corpo e stanchezza cronica). Come possiamo aspettarci che sia lucida e con la mente fresca per poter lavorare senza fare errori o danni? Chi ha fatto questa legge ha idea di come dorme una mamma (sia fisicamente che mentalmente) che accudisce un bambino? Ha idea del numero di risvegli che ha un bambino (per vari motivi - dentizione, scatto di crescita, regressione del sonno, malattie o fastidi, incubi, reazione vaccinale etc..)? Ha idea dell’innato bisogno di un bambino di stare con la sua mamma e viceversa? Ha presente il volto di un lattante di tre o quattro mesi di vita? È dimostrato scientificamente che i risvegli notturni sono fisiologici fino ai 3 anni, che l’allattamento al seno a richiesta è la norma biologica, raccomandato esclusivo fino ai 6 mesi, complementare fino a 12 mesi e fortemente consigliato fino ai due anni ed oltre (come suggerisce l’OMS), che l’accudimento ad alto contatto di giorno e di notte è salutare per l’autostima e la futura indipendenza del bambino, che i primi 1000 giorni di vita del bambino sono le fondamenta per il futuro adulto che sarà. Viviamo in un’era in cui, non sono solo idee, o buone intenzioni o istinto materno ma, sono le numerose ricerche scientifiche sviluppate da un’intera branca della psicologia dimostrano l’importanza dell’accudimento e della presenza del caregiver (madre, padre, o figura di riferimento primaria) sullo sviluppo dei processi cognitivi, psicologici, emotivi e relazionali del bambino. Per citarne solo alcuni dei piú importanti: il pioniere Bowlby con la teoria dell’attaccamento secondo la quale il bambino ha una predisposizione innata a instaurare un legame di attaccamento nei confronti della persona che piú si occupa di lui, legame che vede il caregiver come base sicura sulla quale costruire i modelli operativi interni relazionali che saranno la base di tutte le relazioni future; Ainsworth con la ricerca Strange Situation va a sottolineare come un attaccamento sicuro dato dalle cure amorevoli del caregiver predispone allo sviluppo del senso di fiducia del sé e nei confronti degli altri, della capacità di esplorazione e del consolidamento dell’ autonomia; Harlow con l’esperimento della mamma "dura" e quella "morbida" va ad indagare l’importanza del contatto fisico, del calore corpo a corpo, della presenza intesa in termini fisici della madre per soddisfare il bisogno di protezione e sicurezza; e ancora Lorenz; Spitz, Winnicot, Main, Fonagy. In generale quindi si parla di supporto allo sviluppo cognitivo, all’autonomia e all’indipendenza, alla formazione del Sé, alle capacità relazionali ed emotive ovvero tutto quello che rappresenterà il futuro Essere dei bambini. Inoltre vari aspetti sociali fanno si che il nucleo familiare ristretto si ritrovi a doversi occupare della crescita dei bambini quasi in completa autonomia senza alcun aiuto esterno: la comunità non ha più il ruolo di accogliere, contenere e sostenere le famiglie nella cura dei bambini e le famiglie appena formate ormai si allontanano dalla famiglia d’origine; in più con l’avanzare dell’età pensionabile i nonni ancora giovani sono impegnati con il lavoro e quelli in pensione spesso troppo anziani per riuscire ad occuparsi di bambini piccoli. Ma come può tutto questo conciliarsi con una mamma lavoratrice a tempo pieno? Poi ci chiediamo perché il numero dei nuovi nati nel Nostro Paese è in continua diminuzione. Ci chiediamo perché il numero medio di figli per ogni donna Italiana è 1.18 (dato del 2019), in continua diminuzione rispetto agli anni precedenti. Ci chiediamo perché l’età media in cui si fa un primo figlio aumenta sempre di più con conseguenze dannose sulla gravidanza, sul parto e sulla salute perinatale. Ci chiediamo perché il tasso di allattamento al seno esclusivo crolla drammaticamente dopo il quarto mese di vita (dato istat 2015). Ci chiediamo perché succede che vengono dimenticati i figli in macchina. Molte mamme vedono come unica soluzione il licenziamento, considerato che se avviene entro l’anno di vita del bambino si ha diritto alla disoccupazione, infatti il tasso di occupazione lavorativa femminile in Italia si aggira intorno al 50% (30% circa nelle isole e nell’Italia meridionale), dato nettamente inferiore alla media Europea. Dovremmo cercare la soluzione a queste realtà andando a monte del problema e non mettendo toppe. Ci dimentichiamo i figli in macchina? Ecco la legge sull’obbligo del sensore anti abbandono. Devo lavorare la mattina e quindi devo riposare bene? Sospendiamo l’allattamento al seno notturno a favore di un super biberon con latte adattato e biscotti e sicuramente il bambino dormirà tutta la notte. Devo lasciare mio figlio a quattro mesi? Inizio lo svezzamento precoce con prodotti baby food fortemente pubblicizzati ed ecco che può essere nutrito da chiunque. Mi sento stanca? Prendo delle vitamine. Mi sento frustrata e in colpa? Prendo uno stabilizzatore dell’umore. Le donne in Italia non fanno figli? Istituiamo il bonus bebè (800€ una tantum, un premio che dovrebbe incentivare a fare un un figlio). Il datore di lavoro non mette la lavoratrice madre nelle condizioni di conciliare maternità e lavoro? Ecco il diritto al licenziamento entro l’anno di Vita per avere diritto alla disoccupazione (come se una donna non avesse a cuore il suo specifico lavoro, tanto aspirato e sudato). Ci rivolgiamo a Lei Dottoressa Elena Bonetti, Ministro delle pari opportunità e dei diritti delle famiglie. Davvero queste sono le soluzioni che lo Stato propone? Noi, donne e uomini, madri, padri e non, non siamo più disposti ad accettare queste soluzioni. Vorremmo soluzioni che possano consentire alle madri e ai padri di scegliere quando rientrare a lavoro. Soluzioni che consentano di accompagnare i bambini durante i loro primi anni di vita nella formazione delle competenze sopra descritte, nel loro percorso di crescita e nella scoperta del loro Sé, delle loro potenzialità e delle loro attitudini. Soluzioni che appunto mirino a tutelare il benessere e i bisogni delle famiglie, intese come azioni di prevenzione, un’investimento per la salute della collettività a medio lungo termine; un bambino felice oggi sarà un adulto migliore domani (Convenzione ONU 1989). Chiediamo quindi che venga rivista la legge sulla maternità e sui congedi parentali, migliorandola in termini di durata dell’astensione dal lavoro e dignitosa retribuzione come accade in molti paesi del Nord Europa. Chiediamo che tutte le donne lavoratici, dipendenti e autonome, abbiano pari diritti e che vengano azzerate le disparità. Chiediamo che tutti i padri, dipendenti e autonomi, abbiano agevolazioni e maggior tempo per dedicarsi ai primi mesi di vita del figlio e alla collaborazione familiare. Le donne, madri lavoratrici, non devono più sentirsi costrette a licenziarsi per avere la possibilità di crescere il figlio. Non devono sentirsi giudicate come opportuniste, furbe, inaffidabili ed improduttive per astenersi temporaneamente dal lavoro. Non devono controllare la propria fertilità sulla base delle necessità aziendali, presunte o reali. Non devono rimandare o addirittura rinunciare al desiderio di diventare madre per paura di perdere il lavoro, lavoro che si sono faticosamente guadagnate negli anni. Non devono rinunciare al desiderio di maternità per paura di perdere clienti o per paura di non avere la possibilità economica di crescere un figlio. Pertanto, considerato quanto sopra detto e prendendo spunto da altri Paesi Europei, come gli apripista Paesi scandinavi (Norvegia, la Svezia, la Finlandia, la Danimarca) e dal modello Spagnolo e Tedesco, proponiamo le seguenti soluzioni: - In merito alla tutela della maternità, chiediamo che ogni donna possa scegliere di astenersi dal lavoro, anche per i lavori non a rischio, durante il primo trimestre di gravidanza, oltre che negli ultimi 1/2 mesi come prevede la legge. Il primo trimestre di gravidanza non è spesso rosa e fiori; nausea, emesi e stanchezza sono nella maggior parte dei casi, i sintomi protagonisti in questi primi mesi portando la gravida a non avere abbastanza forze neanche per alzarsi dal letto. Inoltre l’embriogenesi, che avviene appunto nei primi tre mesi, è un fenomeno delicato e ogni donna dovrebbe avere il diritto di poter riposare, se lo desidera.- Chiediamo che il congedo parentale (facoltativo) venga esteso a 21 mesi così ripartiti: - I primi 9 mesi con retribuzione pari all’80% dello stipendio - I successivi 6 mesi , continuativi o frazionati, con retribuzione pari al 50% dello stipendio, fruibili entro i 36 mesi di vita del bambino, per chi lo desidera. - Altri 6 mesi , continuativi o frazionati, retribuiti al 50%, fruibili fino ai 12 anni del bambino - Chiediamo la possibilità del caregiver di richiedere la riduzione di orario fino ai 3 anni di vita del bambino, così da tutelare il benessere dei bambini nei loro primi anni ed agevolare i genitori nella gestione familiare. Inoltre chiediamo la possibilità di avere altri 6 mesi continuativi o frazionati, retribuiti al 50%, fruibili entro i 12 anni del bambino. - Chiediamo che il congedo parentale sia fruibile dalla madre o dal padre, alternativamente, in modo non trasferibile, così da smuovere le basi culturali sull’accudimento dei figli, e da abbattere le discriminazioni fra uomini e donne nell’ambiente di lavoro. Sostenere l’uguaglianza di genere in termini di diritti e doveri della genitorialità significa anche ridurre quel gap ancora troppo ampio che nel mondo del lavoro vede donne e uomini in due lati opposti della barricata. - Chiediamo l’estensione della paternità obbligatoria fino a 40 giorni post nascita, anziché 10 giorni come previsto dalla normativa vigente cosicché entrambi i genitori siano coinvolti nella cura del figlio sin dai primi giorni di vita. - Chiediamo che ciascun genitore, alternativamente, in modo non trasferibile e non cumulabile, possa chiedere l’astensione dal lavoro per malattia figlio senza limiti temporali fino ai 12 anni di vita del figlio con retribuzione piena. - Chiediamo che i diritti sopra citati siano indistintamente usufruibili sia per i lavoratori dipendenti che autonomi che versano regolarmente i contributi previdenziali nelle casse di appartenenza. Tutti i diritti citati si intendono anche in caso di adozione o affidamento a partire dall’entrata in famiglia del bambino. C’è un tempo per tutto. C’è tempo tutta un’intera vita per lavorare. I primi mesi e anni di vita di un bambino non tornano più. Dedicare un maggiore tempo alla crescita dei figli dovrebbe essere un diritto e una scelta possibile e attuabile dai genitori che lo desiderino. La ringraziamo per aver letto la nostra comune necessità e ci auspichiamo che possa accoglierla. Read the full article
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IL SISTEMA FAMIGLIARE HA SEMPRE RAGIONE?
La famiglia ha sempre ragione?
Partiamo dal principio.
Nella prima parte della vita si vive il karma con le figure autoritarie e qui si nasconde il nostro rapporto con queste figure.
Diciamo che, proprio nel momento in cui dovremmo rimanere sempre più agganciati alla nostra Essenza e al nostro potere personale, noi siamo educati a sganciarcene. Ed ecco che creeremo le dinamiche con le forme di potere.
Il karma più pesante poi è con i genitori, sono loro i principali specchi su cose che ci riguardano e che spesso non riconosciamo.
Mi è capitato spesso di sentire la classica frase: “Io non voglio diventare come mia madre, come mio padre, non sarò mai come loro”.
Eppure…
Quasi sempre si diventa esattamente come loro.
Perché accade?
Attenzione a questo passaggio.
Noi non diventiamo come loro, semplicemente eravamo già come loro.
Loro ci fanno da specchio.
I genitori sono espressione di karma nel senso che sono quello che hai fatto a te stesso e che hai permesso agli altri di fare a te stesso.
Tutto quello che hai sabotato o bloccato ti viene riflesso nel genitore.
Questo perché possiedi tre canali energetici:
Il Lunare: Femminile.
Il Solare: Maschile.
E il Canale della coscienza.
All’interno di questi canali ci sono memorie di esperienze con il femminile e con il maschile.
E, in base alle cose irrisolte nel tuo aspetto femminile o maschile, viene attratto quel tipo di genitore.
Tieni presente che considerando il tuo sesso, il canale energetico opposto sarà quello inconscio.
Perciò se hai bloccato il tuo maschile attrarrai un genitore che ti blocca l’evoluzione del tuo maschile. Se hai bloccato il femminile attrarrai una madre anaffettiva, per esempio.
E questo riverbera in generale anche con tutti i membri della famiglia.
Quindi, a un certo punto, non si tiene tanto conto se è la zia, il papà, la nonna il problema, ma se è un problema energetico di tipo femminile o maschile.
E se non risolvi questi problemi con la famiglia cosa accade?
Semplice, tu ti porti dietro quei nodi irrisolti maschili e femminili tanto da riviverle con le altre relazioni interpersonali in base al sesso della persona.
Un altro quesito fondamentale che mi viene posto è se i genitori ci feriscono per primi oppure nasciamo già con delle ferite.
Bisogna considerare che i genitori possono sì ferirti, ma ti feriscono nelle vecchie ferite che tu hai già inflitto a te stesso con il karma.
Dietro una ferita c’è una memoria karmica.
Ed è come se i genitori fossero stati costretti a riaprire vecchie ferite delle tue vite passate.
Sono come rappresentazioni di archetipi, di energie.
Prova a osservare i tuoi genitori, le loro paure e identificazioni e come le proiettano su di te, come e dove cercano di bloccarti, di boicottarti e dove cercano di aiutarti e di stimolarti, invece.
Sono tutti specchi. Specchi di quello che hai fatto e ancora fai a te stesso da chissà quante “vite”.
Per questo è stata scelta questa famiglia piuttosto che un’altra, per permetterti di evolvere.
Proprio perché rappresenta alcuni lati che puoi, ma soprattutto devi trasformare in questa vita.
Cambia la prospettiva adesso o sbaglio?
La famiglia non puoi vederla come il colpevole di tutti i tuoi problemi, come un ostacolo, come la fine della tua felicità, la potrai solo guardare con compassione, come il terreno migliore per la tua crescita.
Ma la maggior parte delle volte questo non accade.
Si verificano due scenari: O ci si attacca e ci si identifica con la famiglia e i suoi modelli oppure ci si ribella e ci si allontana il più possibile.
Nessuno dei due casi ti permette realmente di evolvere e liberarti.
E adesso vedremo perché.
Non basta tagliare il cordone ombelicale alla nascita
Prima di tutto parliamo del primo lato.
Come abbiamo già accennato, il meccanismo di identificazione e attaccamento al sistema familiare e alle dinamiche di famiglia non permette di risvegliarti alla tua coscienza/individualità.
Osserva un animale, per esempio.
Appena è autonomo per la sua sopravvivenza lui si stacca o viene cacciato dal gruppo.
Questo non accade nell’essere umano da ormai tempo. Possiamo dire che il processo di crescita interiore è rallentato.
Siamo in una situazione di forte identificazione con il sistema familiare.
Non ci si stacca dai genitori e loro non si staccano da noi.
E così non riesci a trovare la tua strada e nemmeno a risvegliare la tua coscienza.
Non trovi chi sei davvero, al di là della tua famiglia.
Che vocazione hai?
Che talenti hai?
Queste cose non hanno niente a che vedere con la tua famiglia biologica.
La famiglia è solo un canale per aiutare l’anima a fare la sua strada.
E intendo la sua strada, non quella del sistema familiare.
Agisce fino a quando il sistema corpo, mente ed emozioni sono abbastanza mature per seguire il progetto dell’anima, il motivo per cui è tornato qui (il suo dharma).
Se non accade questo si genera karma.
Guardando ai nostri tempi, i bambini non vengono educati a cavarsela da soli, a trovare la loro strada nella vita.
Addirittura, troppo spesso, la madre educa il figlio con l’idea che non se ne andrà.
Ecco perché poi è così difficile sganciarsi dall'inconscio familiare.
Ed ecco perché non avendo tagliato il cordone ombelicale, noi riviviamo i nostri drammi familiari. Classico copione che si può osservare nelle convivenze.
“Lo stare insieme in una casa” diventa il luogo di manifestazione dei propri modelli vissuti in famiglia.
Allora le persone mi chiedono se fosse la stessa cosa se si ribellassero?
Purtroppo devo darti una cattiva notizia a riguardo.
Perché no, non cambia niente.
Certe informazioni saranno impresse nel campo cosciente anche se te ne vai.
Scendiamo nel dettaglio.
Comprendi che ribellarsi non è essere se stessi. Punto.
Essere se stessi vuol dire liberi dal karma, essere se stessi in ogni relazione.
Tanti pensano mi ribello a tutti o non coltivo nessuna relazione così sono a posto, posso essere me stesso.
No. Non è proprio così.
Tieni presente che il focus, quando subisci qualcuno, parliamo dei genitori in questo caso, sono loro.
Quando ubbidisci, il focus sono ancora loro.
E quando ti ribelli?
Indovina un po’? Sì, sono ancora loro.
Perché?
Perché semplicemente non sei centrato.
Ancora non sei chi vuoi, non fai ciò che vuoi.
Che tu sia accondiscendente o ribelle non cambia niente, il focus ancora una volta sono loro non tu.
Focus su come loro ti vedono, su come ti giudicano, su come ti trattano.
La tua mente è assorbita in questa ribellione e non è ancora libera di fare la sua strada. E questa non è libertà. Non sei ancora focalizzato su ciò che vuoi realmente, su ciò che è legato alla tua coscienza, ma su ciò che non vuoi, che dipende ancora da loro…
Ecco il vincolo.
Che poi, siamo onesti, quando ci si ribella a tutti i costi, cosa si prova?
Si prova un senso di pace interiore? Serenità e spensieratezza?
O ci si fa consumare da rabbia, cinismo, odio e tanto risentimento?
Cosa c’è di liberatorio in tutto questo?
Poi vedremo perché accade, ma basta già iniziare a comprendere che la ribellione, il fare l’opposto di quello che vogliono gli altri, non è ancora fare quello che si vuole. Non è ancora risveglio.
“E se io me ne vado dalla famiglia? Scappo il più possibile?” È possibile che te lo sia chiesto anche tu.
Per risponderti, considera che la distanza fisica può aiutarti in quel momento, certo, ma, come abbiamo visto prima, il legame esiste ancora.
C’è ancora karma, perché dietro c’è la credenza, i pensieri e quindi anche uno stato che comporta un certo tipo di emozioni.
Non c’è ancora accesso alla tua coscienza, non sei ancora te stesso, ma succube del sistema familiare o di quello sociale.
Piuttosto evidente se ci pensi.
Tu puoi andartene anche in Antartide o rinchiuderti in una grotta da solo, ma qualcuno probabilmente lo incontrerai comunque. E, soprattutto, la mente, i tuoi pensieri, le tue credenze, tu te le porti dietro, la testa non la stacchi dal corpo e la lasci in casa con la tua famiglia di origine. O sbaglio?
Per questo dire “Io non sarò mai come mio padre” o “come mia madre” non è garanzia di successo. Anzi, se non fai un lavoro su te stesso per ripulire il karma, tu diventi esattamente come loro invece.
Se sei nato da loro, hai un karma simile al loro.
Le caratteristiche che ti danno più fastidio di tua madre e di tuo padre, di solito, sono anche le tue. O comunque sono lì per farti vedere qualcosa.
Questo è importante capire.
Perché quando cresci e si moltiplicano le interazioni con le persone, sperimenti il karma di relazione.
E tutto quello che non hai lasciato dalla famiglia te lo ritrovi in queste di relazioni.
Ma come puoi trasformare le cose allora?
Tu trasformi le cose quando lasci andare il passato.
Rimani concentrato perché questo è fondamentale.
Infatti, con “passato” non parlo del ricordo, ma della carica energetica riguardo al passato.
Non basta allontanarsi o aver fatto pace fuori per chiudere i cerchi. I cerchi vanno chiusi interiormente.
È lasciando andare la carica emozionale, che il ricordo non fa più male.
Ripeto: Lasciare andare l’emozione, non tanto il fatto in sé.
Tu non hai chiuso il rapporto, il vincolo, se non hai chiuso bene anche con l’emozione.
Questo è il nocciolo.
Se non lavori sul nodo karmico, su ciò che dovevi vedere e capire in quella relazione, continui a ricreare le stesse dinamiche nelle nuove relazioni. Come un loop indissolubile.
Perché il karma negativo di relazione crea così tanta sofferenza?
Perché non ci lavori. Questo è il negativo.
Se rifiuti di guardare i tuoi problemi e continui a voler cambiare l’altro o a dargli la colpa, non cambierà mai niente.
Tieni presente che noi ci mettiamo un’energia allucinante a proteggere le nostre ferite, facciamo di tutto perché l’altro non tocchi.
Cerchiamo di controllare le persone per tenerle lì nell’angolino.
Cerchiamo di reprimere noi stessi.
E se l’altro fa la stessa cosa? E tranquilli che l’altro fa esattamente la stessa cosa.
Molti miei studenti venivano da me tutti terrorizzati.
“Non riesco più a far pace con il mio ex, voglio chiudere i miei cerchi, ma lui non mi vuole avvicinare, non è disposto a chiarire. Cosa devo fare?”
Non soffermarti a sistemare fuori pensando che questo sistemi dentro.
Ciò che fa la differenza, ciò che ribalta la tua vita è sistemare dentro più che fuori.
Lascia stare il rapporto e la persona in questione, focus nel cuore.
Perché dico questo?
Perché ogni relazione lascia delle impronte energetiche karmiche al tuo interno.
Il problema parte dall’interno verso l’esterno, non il contrario.
Trasforma le tue tracce karmiche e il fuori poi cambierà da solo.
Spesso l’altra persona ti lascia libera e se ne va perché non può più farti da specchio, oppure smette di essere in quel modo lì e cresce anche lei con te.
La tua vita cambia totalmente anche riguardo a chi attrai.
Se ti dovessero arrivare certe persone che non ti stanno bene, tu puoi dirgli semplicemente di no, perché lavorando su te stesso non hai più bisogno di passare per certe esperienze.
Prima ci cadi dentro e non puoi farci niente. Non c’è consapevolezza.
Ma ora sì. Ecco la libertà di dire sì / no. La libertà di scegliere.
Ricevo continuamente domande del tipo: “Cosa devo dire?”
“Come faccio a comunicare meglio i miei bisogni?”
“Come faccio a parlare con un partner che fa muro a ogni mio tentativo di comunicazione?”
Ti rispondo con la verità:
Non è facile comunicare quando c’è di mezzo il karma. Non è affatto facile.
Se in una relazione è importante comunicare i propri bisogni, quando il karma ci fa compagnia, spesso, o non si riesce o magari l’altro non ci ascolta ecc.
La soluzione è partire a lavorare su se stessi.
Perché aspetti che la relazione porti a galla il dolore? Prendi subito in mano la situazione.
Non ha senso scappare senza risolvere.
E non ha senso nemmeno lavorare sulla coppia, sulla famiglia ecc.
Devi lavorare su te stesso, sui tuoi modelli e nodi energetici, karmici.
Non si lavora mai sulla relazione, ma si lavora su ciò che la relazione ti ha fatto vedere di te.
Rifletti che tutto quello che ti circonda è lì per mostrarti qualcosa di tuo.
Per questo è importante vederlo e lavorarci interiormente.
Tagli il cordone ombelicale lavorando sulle ferite, non focalizzandoti su chi te le ha fatte. Continua pure a rimuginare con chi ti ha ferito e non farai altro che rafforzare il vostro legame distruttivo e la ferita stessa.
Roberto Potocniak
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Attaccamento ad Est
27 giovedì Feb 2025
Posted by aitanblog in immagini, riflessioni, versiculos, vita civile
Un NO dalla Striscia all’Ucraina – In appendice una lettura critica dei miei versetti realizzata da una serie di chatbot basati su modelli di intelligenza artificiale generativa
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Gli studi di Bowlby e Robertson sui bambini ospedalizzati furono di importanza nazionale e storica. Essi vennero svolti in un'epoca in cui le visite in ospedale erano estremamente ridotte e i bambini venivano, pertanto, lasciati soli per la maggior parte del tempo. I periodi di ospedalizzazione talvolta duravano poco tempo, talvolta invece il loro tempo era molto lungo. Bowlby e Robertson osservarono, al proposito, tre fasi che i bambini attraversavano in questo periodo. La prima fase è quella della "protesta": i bambini si mostrano visibilmente angosciati, piangono e chiamano la madre per cercare di portarla indietro. Se la famiglia si riunisce in questa fase, il bambino si dimostra "difficile" per un periodo breve di tempo. La seconda fase, definita "disperazione", mostra un bambino ritirato e apatico, privo di interesse per il mondo esterno. Se la famiglia si riunisce in questa fase, il bambino protesta ma ha un forte bisogno di vicinanza con la madre. Per ultima, la fase più difficile da affrontare e più grave per il bambino: il "distacco" o "diniego". In questa fase il bambino mostra interesse per il mondo esterno, socializza con le persone estranee. Tuttavia, con la madre è apatico e mostra un distacco emotivo. Con la famiglia il bambino avrà solo relazioni superficiali e incuranti, difficili da modificare.
Bowlby, al proposito, spiegò che il rapporto fra madre e bambino è un rapporto di "attaccamento". Esso è fondato su comportamenti innati e tipici di molte specie animali. In esso il bambino trova risposta ai suoi bisogni di sicurezza, amore e tranquillità oltre che ai bisogni fisiologici di fame, sete, sonno e ai cosiddetti bisogni pulsionali tipici delle fasi di sviluppo freudiano. Il bambino usa la madre come "base sicura" da cui allontanarsi per conoscere il mondo ma a cui tornare per avere vicinanza e contatto. Si tratta dunque di due poli in antitesi tra di loro: la vicinanza alla madre e il bisogno di esplorazione. Il rapporto con la madre, inizialmente è di puro istinto e sopravvivenza, senza alcuna preferenza per la suddetta. Successivamente, il bambino preferirà la madre agli altri e mostrerà paura verso gli estranei. Arriverà poi a una fase in cui il bambino avrà "mentalizzato" la figura materna e potrà separarsene per brevi periodi. Tuttavia, "comportamenti di controllo", li manterranno comunque vicini. Questo rapporto, introiettato, porterà nel bambino dei Modelli Operativi Interni di sè come agente, come persona oggetto di cura, dell'altro e dell'interazione fra sè e l'altro. Essi saranno "canalizzazioni di sviluppo" per il bambino che lo guideranno, in modo più o meno stabile, anche da adulto nella focalizzazione dell'attenzione su informazioni provenienti dall'ambiente esterno, nella regolazione delle emozioni, nella previsione dei comportamenti propri e altrui e nell'agire.
In rapporto a tale teoria, interrompere il rapporto con la madre è un rischio per lo sviluppo psicofisico del bambino. Lasciato solo, con la sola cura di persone estranee, egli si dimostra infelice e potrebbe sviluppare quelli che Spitz ai suoi tempi definiva come "Sintomi di Sindrome di Ospedalizzazione". Vediamo un esempio concreto di quanto detto, in una bambina ospedalizzata.
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Scorrendo foto e momenti tra i vari #socialnetwork capita a tutti di imbattersi nelle foto felici e sdolcinate di persone innamorate che postano quasi compulsivamente ritratti di coppia in cui l’hashtag #semplicementenoi fa da padrone di casa! Al mare, in montagna, al supermercato, in vacanza, come a dimostrazione della solità del loro rapporto, #ioetecontroilmondo. Si parla sempre più spesso di consumismo relazionale e soprattutto di #visibilitàrelazionale, ovvero la necessità di esibire quelli che sono i personaggi che interpretiamo in pubblico, attraverso un eccesso di post con il proprio partner che, però, potrebbe indicare la presenza di una maschera, dietro la quale celare un’insicurezza relativa al rapporto. Alla base di questo comportamento, secondo uno studio del #Personality and #Social #Psychology Bullettin, ci sarebbe il modo di ciascuno di instaurare legami ed attaccamenti emotivi nel corso della vita. Nel gergo tecnico, la visibilità relazionale sarebbe direttamente proporzionale allo stile di #attaccamento. L’ipotesi è che chi tende a ritirarsi dal partner abbia poca voglia di visibilità relazionale; chi, invece, ha bisogno di rassicurazioni sul proprio rapporto, manifesti fortemente la propria ricerca di visibilità. Dunque, è importante comprendere che tipo di attaccamento (cfr. #Bowlby) ciascuno propone, ovvero che tipo di legame una persona instaura con le figure “significative” per la nostra vita. Questi #legami vengono appresi principalmente con le figure genitoriali e successivamente si ritroverebbero nei legami di #coppia come modelli appresi. Quale modello si è appreso, quindi? I 4 stili di attaccamento descritti da Bolwby sono 1) #SICURO; 2) #EVITANTE; 3) #ANSIOSO-INSICURO; 4) #DISORGANIZZATO. Un attaccamento di tipo ansioso-insicuro sembrerebbe essere uno dei tanti responsabili nell’ #overposting di foto e momenti di coppia, ovvero della #compulsione e nell’eccessiva condivisione sui social, invece di vedere l’altro davanti a sé e parlare. In sintesi, quello che sembrerebbe avvenire in quei momenti è uno spostamento di “qualcosa” rispetto che affrontarlo e confrontarsi col proprio #partner. #sessuologando #sessualità #psicologia #love https://www.instagram.com/p/B4kEnCVoLGI/?igshid=qeghsoecsedh
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Dipendenza affettiva
Dipendenza affettiva e teoria dell'attaccamento

Aurora Mazzoldi - Madre 1 - Il Possesso (particolare) Tra i tanti meccanismi comportamentali che si possono trattare attraverso il preziosissimo ausilio fornito dalle tele di arte introspettiva possiamo individuare la dipendenza affettiva (o attaccamento in termine più tecnico), che è qualcosa di diverso dal bisogno di contatto.. In questo mio scritto vorrei correlare tali argomentazioni a quella che è il caposaldo delle teorie psicologiche classiche sull’attaccamento, ossia la teoria di John Bowlby uno dei maggiori esponenti della scuola psicoanalitica britannica. Secondo Bowlby, l’attaccamento è un qualcosa che, non essendo influenzabile da situazioni momentanee, perdura nel tempo. Questo, dopo essersi strutturato nei primi mesi di vita intorno ad un'unica figura. E' molto probabile che tale legame si instauri con la madre, dato che è la prima ad occuparsi del bambino. Però, come Bowlby ritiene, non c'è nessuna evidenza che avalli l’idea che un padre non possa diventare figura di attaccamento. Sempre nel caso in cui sia lui a dispensare le cure al bambino. Il Legame di attaccamento La qualità dell'esperienza definisce la sicurezza d'attaccamento in base alla sensibilità e disponibilità del caregiver. Stabilisce anche la formazione di modelli operativi interni (MOI), che andranno a definire i comportamenti relazionali futuri. Con la crescita, l’attaccamento iniziale che si viene a formare tramite la relazione materna primaria o con un "caregiver di riferimento", si modifica. Si estende ad altre figure, sia interne che esterne alla famiglia, fino a ridursi notevolmente. Nell’adolescenza e nella fase adulta il soggetto avrà infatti maturato la capacità di separarsi dal caregiver primario. Così si potrà legare a nuove figure di attaccamento. Emerge una considerazione, ai miei occhi molto interessante, quella cioè che il legame di attaccamento non è limitato all’infanzia. Esso dura “dalla culla alla tomba”. Tutto quello che si classifica, in maniera quasi dispregiativa e sicuramente patologica, con il termine “dipendenza affettiva” è in realtà un desiderio assolutamente legittimo di ogni essere umano. Un desiderio di stare quanto più vicino possibile a chi gli vuole bene, a chi in caso di bisogno può prendersi cura di lui.
Dipendenza affettiva e accettazione del bisogno di contatto.
Questa è un'accezione nuova e inconsueta dei termini attaccamento/dipendenza. Si basa sulla ricerca di contatto e sulla serena accettazione del nostro innato bisogno di dipendenza affettiva. Tutto questo contrapposto a un tessuto sociale contemporaneo votato alla separazione, all'isolamento. La disgregazione esterna è, in questo caso, un diretto riflesso di quella interna, del rifiuto del bisogno di contatto con gli altri. Sembra che si faccia a gara per dimostrare la nostra "indipendenza" (illusoria in realtà) dalle relazioni affettive, sociali, familiari. Indipendenza da tutto quello che può rappresentare una continuità e un punto fermo nella nostra esistenza. La dipendenza affettiva viene confusa con la fragilità e la debolezza. Di converso si vede la forza come isolamento, assenza di legami, rifiuto della continuità, rifiuto del radicamento affettivo. Si assiste, a mio giudizio, ad uno stravolgimento dei significati. Si perseguono delle negazioni inconsce di qualcosa che è innato e necessario per la nostra sopravvivenza e per il nostro equilibrio psico-fisico. Come ben diceva Bowlby, noi ci alimentiamo di contatto e ne abbiamo un profondo bisogno. Si tratta di un’esigenza istintuale ed innata che accompagna la specie umana. Quello che accade ai giorni nostri è che quando si nega, si rifiuta, si soffoca e si cerca di ignorare un bisogno primario, si cade prima nel malessere e nel disadattamento e poi, nei casi più estremi, si può giungere fino alla patologia. Il punto di vista Introspettivo Penso che, anche da un punto di vista psicologico-introspettivo, la cosa più importante sia accogliere con serena accettazione il proprio bisogno di contatto. Questo, forti del fatto che c’è sempre tempo per trovare “una base sicura”. Non è mai troppo tardi per chiedere protezione e affidarsi e magari giungere a creare dentro di noi tale “base sicura”. Essa non è un privilegio dell’età infantile, né tanto meno un sintomo di debolezza. E' un bisogno che tutti noi portiamo dentro in diversa misura secondo il nostro personale percorso di vita. Come tutti i bisogni, chiede solo di essere soddisfatto e non certo di essere giudicato. Antonella Giannini Read the full article
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