#memoria e desiderio
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Il Bimbo nel Viale di Antonia Pozzi: La Dolcezza di un Sogno Incompiuto. Un'intensa riflessione poetica sulla vita e sull’innocenza attraverso la sensibilità unica di Antonia Pozzi
Il Bimbo nel Viale, scritto da Antonia Pozzi il 25 ottobre 1933, è una poesia che racchiude la delicatezza e la profondità dell’immaginazione poetica dell'autrice
Il Bimbo nel Viale, scritto da Antonia Pozzi il 25 ottobre 1933, è una poesia che racchiude la delicatezza e la profondità dell’immaginazione poetica dell’autrice. In pochi versi, Pozzi esplora la tenerezza e il dolore sottile di un sogno mai realizzato: quello di un bambino, una figura simbolica che rappresenta speranza, fragilità e innocenza. La poetessa ci offre un ritratto intimo di un…
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Ritorna ancora e prendimi,
amata sensazione, ritorna e prendimi,
quando si ridesta viva la memoria
del corpo, e l'antico desiderio di nuovo si versa nel sangue,
quando le labbra e la pelle ricordano, e la carne,
e le mani come se ancora toccassero.
Ritorna ancora e prendimi, la notte,
quando le labbra ricordano, e la carne.
Kostantinos Kavafis.
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Stimoli visivi, ultima spiaggia
Ormai mi guardi come se fossi un oggetto d'arredamento. Mi faccio bella e quindi gli altri mi corteggiano. Loro lo fanno in modo neppure troppo discreto. Qualcuno mi fa chiare proposte, perché sono oggettivamente un gran bel pezzo di figliola.
Lascio in giro per casa dei miei promemoria per te: un golfino oppure un paio di slip. Magari un reggiseno o un paio di calze. Tutto rigorosamente da lavare. Indumenti impregnati di me, del mio odore. Del richiamo femminile a cui non sei insensibile. Mi aggrappo al subliminale. Ma tu niente.
Io qui a struggermi di desiderio per te e tu chissà dove sei, dopo il lavoro e a che ora rientrerai stasera. Non penso che a te. Non desidero altro dalla vita che le tue carezze all'anima; quelle più oscene poi regalale tutte al mio corpo. Hai un'altra? Mi ami ancora? Mi tradisci? Mi vuoi sempre?
Provi per me qualcosa di più del solito, distratto: “ciao, cara; tutto ok?” Sento dai rumori in garage che forse stai rientrando. Mi farò trovare così: a gambe ben aperte. E tu allora onorami, rispettami, soddisfami, adorami come si conviene per la donna che uno sceglie per sé.
È un invito dedicato solo a te e molto intimo, tra noi. Sono completamente depilata. Indosso il profumo che adori e che ti fa arrapare: me l'hai confessato una delle ultime, rare volte che abbiamo fatto l'amore. Quando godendo mi hai detto all'orecchio che vuoi solo me, che sono l'unica.
Conservo come una cosa sacra l'eco delle tue frasi nella memoria. E le ripasso, di continuo. Chissà se mi vorrai, stasera? Sono tua, tua. Prendi possesso e gioisci appieno di ciò che ti appartiene per diritto d'amore. Il mio corpo prova dolore per la tua prolungata assenza, si sente mortificato.
Mi hai fatta sentire desiderata, bella. Mi hai dato prova evidente del mio magnetismo animale su di te: mi saltavi addosso di continuo solo fino a poche settimane fa. Che cosa è successo, ultimamente?
Mi piace quando mi comandi senza alcuna possibilità di replica e mi costringi a farti delle cose. O quando vuoi che mi esibisca solo per te: divento così un'attrice hard e devo dare il meglio di me stessa. Vuoi che ti stimoli, che tiri fuori la femmina più istintiva, la selvaggia affamata di sesso che si nasconde nel mio corpo.
Non devo avere pudori, con te: me lo chiedi e io diligentemente eseguo. Metto allora in scena una raffinatissima piece teatrale, recitata con impegno e lasciva concentrazione per un pubblico molto ristretto ed esigente, con ricevimento finale in camerino.
Quindi tu esigi, giudicami, umiliami pure e poi sfruttami. Niente fiori, per me. Fammi anche sentire l'ultima delle puttane, se ti farà piacere, ma per favore chiedi, imponiti, fammi anche del male, però considerami.
Ecco: stai salendo le scale. Io ti sorriderò ancora, piena di femminilità ed evidente desiderio. Sarò ancora una volta irresistibile. Tu allora sii il mio eroe. Salva la mia anima dalla disperazione. Dammi un'ennesima notte di passione con te. Quella che fa male, quella che più peccato di così non si può. Fatti amare dalla tua schiava.
RDA
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Bisognerebbe essere giusti con le madri e riconoscere loro la funzione essenziale ed insostituibile nell’adozione simbolica della vita. Bisognerebbe sottrarre la maternità ad ogni sua rappresentazione naturalistica: madre non è il nome della genitrice, ma, al di là della Natura, al di là del sesso e della stirpe, è il nome di quell’Altro che offre le proprie mani alla vita che viene al mondo, che risponde alla sua invocazione, che la sostiene con il proprio desiderio. Bisognerebbe non ridurre la madre a un appetito di morte, a una spinta a divorare il proprio frutto, a diventare proprietaria esclusiva e incestuosa della vita che ha messo al mondo. Bisognerebbe non dimenticare che il bestiario che accompagna immancabilmente la sua figura (la piovra, il coccodrillo, la chioccia, il vampiro) fornisce solo il suo lato in ombra, patologico, abnorme, che non fa giustizia della sua forza positiva che oltrepassa di gran lunga quel bestiario. Bisognerebbe non identificare la madre con il virus di ogni malattia psichica. Bisognerebbe non dimenticare la donazione che precede ogni eventuale divorazione e che custodisce la memoria più profonda del materno [...] Il legame arcaico con la madre non è solo una palude mortifera da cui bisogna liberarsi, ma è in primis una donazione che rende possibile la trasmissione non solo e non anzitutto della vita in quanto tale, ma del sentimento della vita, del desiderio di vivere [...] Bisognerebbe non pensare solo alla sua onnipotenza oscura, ma anche alla sua mancanza. Bisognerebbe provare a essere giusti con la madre e riconoscere nelle sue mani un’ospitalità senza proprietà di cui la vita umana necessita. Bisognerebbe rintracciare nel suo dono del respiro la possibilità che la vita abbia un inizio e che possa ogni volta ricominciare.
Massimo Recalcati -"Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno",
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Sei andato via, insieme a quel palpito di vita in cui mi riconoscevo.
E cercare tracce nel bosco della memoria, nel crocevia della speranza. Il tempo come una ragnatela ti porta via ed improvvisamente svanisci.
Diventi nebbia, sole derubato, caduta.
E i cocci che costellano la mia strada sono i momenti che non abbiamo avuto, la trama che non si è sciolta, il desiderio non appagato. Posso solo tratteggiare spiragli di emozione e costruire il tuo volto come un cieco può scolpire creta. Posso sentire nell’aria un odore e pensare sia quello delle tue mani, mani calde o fredde, non lo saprò mai. Voli via, ti portano via cieli e voci distanti, immagini frastagliate come me, resta un silenzio che è preludio di morte, morte da vivi, quando rinunci a guardare la luce per paura che ti scalfiscano le ombre che vogliono cadere, quando non salti per paura che il volo sia troppo in alto, quando confondi una rosa in un prato di sterpaglie dimenticate eppure la Rosa rimane lì e continua a sbocciare.
T. Andena 2021
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Un giorno, la vita chiese:
“Cos'è l'amicizia?".
"Dire le cose come stanno,
senza nascondere la verità",
dichiarò la sincerità.
"Non parlare mai male
di quella persona,
anche quando non c'è",
sugger�� la lealtà.
"Rimanere al suo fianco
sia nei momenti belli
che in quelli difficili",
affermò l'affetto.
"Ridere insieme nei momenti di gioia
e piangere al suo fianco nei momenti
di tristezza", disse l'emozione.
"Avvertire il vuoto della sua assenza
quando non c'è
e gioire al suo ritorno",
rifletté la memoria.
"Nutrire la speranza
che sia sempre felice e in salute",
sussurrò il desiderio.
"Sapere di poter contare su di lei
anche quando hai gli occhi chiusi",
commentò la fiducia.
"Saper essere indulgenti
quando è necessario",
disse il perdono.
"Essere disponibili per darle una mano
quando ha bisogno",
sottolineò il sostegno.
"Mantenere la calma
e respirare profondamente
di fronte ai suoi sbagli",
sottolineò la pazienza.
"Non conoscermi affatto",
sospirò il tradimento.
"Stare accanto durante la vita,
accompagnare nella malattia
e condividere le lacrime
nel tormento", ammise la morte.
"Amarsi", disse semplicemente
l'amore.
Tutto questo e molto altro ancora
è l'amicizia...
"La vera amicizia si riconosce
quando il silenzio
diventa un abbraccio
confortevole..."
"Un amico è colui che incoraggia
a dare sempre il meglio di sé."
"Gli amici sono i parenti
che scegliamo."
"Perché l'amicizia fiorisca,
è necessario coltivare rispetto
e sincerità l'uno verso l'altro."
Dal web
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Nino Benvenuti: «Senza ricordi non c’è futuro»
Campione olimpico nel 1960, campione mondiale dei Pesi superwelter tra il 1965 e il 1966 e dei pesi medi dal 1967 al 1970, Giovanni (Nino) Benvenuti è stato uno dei migliori pugili italiani di tutti i tempi e il suo nome troneggia tra i grandi del pugilato internazionale. È entrato nell’immaginario collettivo in una notte di aprile nel 1967 quando 18 milioni di italiani seguirono la diretta del suo incontro con Emile Griffith al Madison Square Garden di New York. Di quel match che gli portò il titolo di campione mondiale dei pesi medi, ma anche dell’infanzia a Isola, dei primi passi nella boxe, del significato dell’essere pugili, del rapporto con gli avversari sul ring e di tanto altro Nino Benvenuti – insignito nel 2018 dalla Can comunale del premio Isola d’Istria –, parla in un’intervista esclusiva di Massimo Cutò pubblicata di recente sulla Voce di New York, che riproponiamo.
[...]
Chi è un pugile?
“Uno che cerca sé stesso sul ring. Uno che vuole superare i propri limiti come faceva Maiorca in fondo al mare o Messner in cima alla montagna. La sfida è quella: fai a pugni con un altro da te e guardi in fondo alla tua anima”.
Lei cosa ci ha visto?
“La mia terra d’origine, una verità che molti continuano a negare. La storia di un bambino nato nel 1938 a Isola d’Istria e costretto all’esilio con la famiglia. Addio alla casa, la vigna, l’adolescenza: tutto spazzato via con violenza, fra la rabbia muta e la disperazione di un popolo. Gente deportata, gettata viva nelle foibe, fucilata, lasciata marcire nei campi di concentramento jugoslavi”.
Una memoria sempre viva?
“Ho cercato di non smarrirla, per quanto doloroso fosse. Riaffiora in certe sere. Ti ritrovi solo e sale una paura irrazionale”.
Riesce a spiegare questo sentimento?
“Il passato non passa, resta lì nella testa e nel cuore. A volte mi sembra che stiano arrivando: Nino scappa, sono quelli dell’Ozna, la polizia politica di Tito viene a prenderti. Un incubo che mi tengo stretto perché senza ricordi non c’è futuro”.
Che cosa accadde in quei giorni?
“Isola d’Istria odora di acqua salata. È il sole sulla pelle. La nostra era una famiglia benestante, avevamo terra e barche, il vino e il pesce. Vivevamo in una palazzina di fronte al mare: papà Fernando, mamma Dora, i nonni, io, i tre fratelli e mia sorella. Siamo stati costretti a scappare da quel paradiso”.
Come andò?
“Mio fratello Eliano fu rapito e imprigionato dai poliziotti titini, colpevole di essere italiano. È tornato sette mesi dopo, un’ombra smagrita, restò in silenzio per giorni. Mia madre si ammalò per l’angoscia. È morta nel ‘56 di crepacuore: aveva 46 anni. Attorno si respirava il terrore delle persecuzioni. Un giorno vidi dalla finestra della cameretta un uomo in divisa sparare alla nostra cagnetta, così, per puro divertimento”.
Finché fuggiste?
“Riparammo a Trieste dove c’era la pescheria dei nonni. Fu uno strappo lacerante, fisico. Così la mia è diventata in un attimo l’Isola che non c’è. Non potevamo più vivere lì dove eravamo nati”.
[...]
Quant’è difficile invecchiare?
“Dentro mi sento trent’anni, non ho paura della morte. Sono allenato. Sul ring risolvevo i problemi con il mio sinistro, la vita è stata più complicata però ho poco da rimproverarmi. E ho ancora un desiderio”.
Quale?
“Vorrei che un giorno, quando sarà, le mie ceneri fossero sparse da soscojo. È lo scoglio di Isola d’Istria dove ho imparato a nuotare da bambino”.
Intervista di Massimo Cutò a Nino Benvenuti per La Voce di New York, 23 luglio 2022
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LUI
Stavo pensando a una cosa. Prima del femminicidio di Giulia Cecchettin abbiamo seguito sui giornali il caso di Giulia Tramontano.
Ho fatto uno sforzo per richiamare alla mente quella vicenda. Ho scritto qui il nome della donna uccisa, ma devo confessare che non lo ricordavo. Mi è servita una ricerca su Google per farlo riemergere dalla nebbia. Eppure è passato poco tempo. Eppure per qualche giorno quel nome era rimasto impresso nella mia mente. Ma l'avevo dimenticato.
Invece ricordavo perfettamente il nome di lui. Ma perché la memoria mi ha fatto questo scherzo?
Forse perché dopo il delitto si parla della vittima all'inizio, ma poi il vero protagonista diventa lui. C'è un racconto mediatico a più voci che sommerge ogni cosa e mette lui al centro dell'inquadratura: cos'ha fatto, cos'ha detto, come si comporta, le sue giustificazioni, le sue ricerche su Google, la sua vita, le sue azioni, la sua freddezza, le strategia difensiva, le dichiarazioni dell'accusa, l'intervista al vicino, il collega di lavoro che non ha notato niente di particolare, la ricerca di qualcosa di strano nella sua vita (perché qualcosa di strano deve pur esserci), la nostra rabbia nei suoi confronti, la gente che chiede la pena di morte, le lettere che lui riceve, i giornalisti che intervistano sua madre, la madre che lo perdona, la madre che non lo perdona.
Lui riempie lo schermo e oscura tutto. Non c'è spazio per la vittima e neppure per analisi sociologiche. E ho la sensazione che nell'interesse per lui ci sia il desiderio di guardarlo in faccia per cercare quell'anomalia psichica (o addirittura fisica, sulla scia di Lombroso) capace di farlo apparire come una creatura completamente diversa dalle altre. Ci piace l'idea di un difetto di fabbrica a cui si può porre rimedio eliminando il prodotto difettoso.
Per una curiosa coincidenza (che coincidenza forse non è), in molte affermazioni che respingono riflessioni sul patriarcato troviamo proprio questo concetto, chiaro e tondo, espresso alla luce del sole. Ci dicono che non bisogna parlare di questioni sociali e mentalità da combattere, perché non è quello il problema: il problema è lui, solo lui.
Ci dicono: non parliamo della condizione femminile, parliamo di lui.
Ci dicono: non diamo spazio alle dichiarazioni di Elena Cecchettin, parliamo di lui.
Voltare pagina è una preoccupazione diffusa. Si cerca di preparare il terreno per dimenticare tutto e parlare d'altro, prima che a qualcuno venga la tentazione di guardare oltre la finestra (o addirittura dentro di sé) e notare cose che non vanno per il verso giusto.
Dicono che non c'è nessun problema, a parte lui. Ma ora lui è in gabbia. Tutto risolto. La palla passa ai collegi giudicanti. Perché lui è l'eccezione, è l'anomalia.
L'idea che trasforma lui nella rara aberrazione di un sistema quasi perfetto è stranamente rassicurante, ti rimbocca le coperte prima di dormire sonni tranquilli. Lui non è come il nostro vicino. Non ha niente in comune con noi. I problemi sociali non esistono. Esiste lui, ma a questo si può porre rimedio. Non dobbiamo farci domande. Non dobbiamo cercare di cambiare.
Ecco ciò che tanta gente vuole sentirsi dire.
[L'Ideota]
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⋆˙⟡ recensione: io ci sarò - kyung-sook shin
«Ogni tanto mi convinco che la giovinezza dovrebbe arrivare alla fine della vita».
Una telefonata all’alba da una persona con cui non ha rapporti da otto anni. È così che la scrittrice Jeong Yun si sveglia un giorno: lo scambio è breve, ma quelle poche parole la scuotono profondamente.
“Il Professor Yun è all’ospedale”.
Si risvegliano così i ricordi della gioventù sopiti da tempo nella sua memoria: i visi che sembrava aver dimenticato ricompaiono agli occhi e le conversazioni con persone che non sono più nella sua vita rimbombano nelle orecchie. E così Jeong Yun ci porta con lei nella sua giovinezza, raccontandoci tutti i momenti che la hanno così profondamente segnata.
Sono tre giovani che si incontrano per caso in un’aula universitaria di Seul a essere i protagonisti di questo romanzo, sullo sfondo le proteste studentesche che hanno smosso la Corea del Sud negli anni ’80 durante la dittatura di Chun Doo-Hwan. Un ragazzo che è in prima fila nei cortei, una ragazza che scappa dalla campagna per perdersi nella metropoli coreana e una che nasconde le mani agli occhi indiscreti degli altri: questo il trio che in poco tempo, e per caso, stringe un legame speciale. Basta un momento, una giornata particolare in cui le vite dei tre ragazzi si incontrano nello stesso posto nello stesso attimo, per creare un sodalizio che segnerà per sempre la vita di ognuno.
Le loro storie si intrecciano, ciascuno di loro porta un fardello che ne contraddistingue il carattere e che con il tempo condividono con gli altri, cercando in qualche modo di non sprofondare sotto il dolore del proprio passato. Si immagina un futuro privo di tensioni e di sofferenze, un futuro non definito temporalmente in cui “un giorno” si potrà essere liberi di vivere in tranquillità, senza affondare nel mare tormentoso delle insicurezze personali e delle violenze militari. Un futuro in cui il trio si pensa comunque insieme, l’uno a sostegno dell’altro. Tuttavia il futuro immaginato non si rivela altro che un pio desiderio, perché i sensi di colpa, i rimpianti e le vuote promesse dipingono le pagine di questo romanzo, componendo un quadro tanto doloroso quanto spietatamente reale della gioventù e della fragilità dei rapporti umani. I protagonisti sembrano inconsapevolmente consapevoli di questo aspetto inesorabile della vita e quasi per combatterlo indirizzano l’uno all’altro una frase ricorrente: “Non dimentichiamo questo giorno”; un vano e febbrile tentativo di sottrarre dal fluire del tempo un istante effimero, come se fosse possibile salvare nella memoria un attimo di vita nello stesso modo in cui si scatta una fotografia.
Tuttavia, alla fine del libro la protagonista Jeong Yun, immersa nuovamente nella sua quotidianità, riesce a ritrovare un barlume di speranza: nonostante l’allontanamento, i legami non scompaiono e le persone possono continuare a vivere con noi grazie alle nostre esperienze. D’altra parte, anche il titolo coreano originale, 어디선가 나를 찾는 전화벨이 울리고 vuole esprimere questo sentimento di speranza: "dovunque io sia, c’è un telefono che squilla e che mi cerca". E Jeong Yun alza sempre la cornetta del telefono per rispondere, perché alla fine nessun rapporto muore veramente. E alla persona che sta dall'altro capo della linea sarà sempre pronta a dire: "Io ci sarò".
Mars.
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LA TONNARA DI VENDICARI
Colonne che si perdono nel cielo mura che racchiudono la luce finestre che non fermano il vento porte che non dividono scale che salgono verso il passato sono così anche i nostri ricordi ruderi rimasti nella memoria avanzi di vite precedenti resti precari di emozioni spente dove candida e pura si aggira la nostra coscienza cercando senso e motivo di un tempo che non sa cancellare di cose e persone rimaste impigliate nella rete fitta del cuore a confondersi con sogni e dolori. Ruderi come i nostri ricordi che non sono più vita ma che la riassumono ali invisibili dell’anima per seminare le speranze di domani. Non sono così i sogni ed i desideri? vestigia lasciati dal tempo dentro la rete della memoria parti di una realtà cancellata pezzi di un puzzle disfatto semi che l’anima raccoglie onde che si ripetono all’infinito. Il mare qui è solo un coro che ci ricorda continuamente la nostra provvisoria presenza che per altri diverrà ricordo, ambito sogno, inquieto desiderio come questi avanzi di tonnara che guardano l’orizzonte del mare a sfidare eterni il cielo.
Columns that are lost in the sky, walls that enclose the light, windows that do not stop the wind, doors that do not divide, stairs that go up towards the past, our memories are like this too, ruins left in the memory, leftovers from previous lives, precarious remains of spent emotions, where candid and pure, our conscience wanders, looking for meaning and reason, of a time that he does not know how to erase, of things and people entangled, in the thick net of the heart, to be confused with dreams and pains. Ruins like our memories, which are no longer life, but which summarize it, invisible wings of the soul, to sow the hopes of tomorrow. Aren't dreams and desires like this?, vestiges left by time, within the network of memory, parts of an erased reality, pieces of an undone puzzle, seeds that the soul collects, waves that repeat themselves endlessly. The sea here is just a chorus, which continually reminds us of our temporary presence, which for others will become a memory, a coveted dream, a restless desire, like these ruins remains, which look at the horizon of the sea, eternally challenging the sky.
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È una serata calma: l’incontro con il passato e il desiderio di Laura Neri. Recensione di Alessandria today
La bellezza dei ricordi d'infanzia e il fascino del mare nella poesia di Laura Neri
La bellezza dei ricordi d’infanzia e il fascino del mare nella poesia di Laura Neri. La poesia È una serata calma di Laura Neri cattura l’essenza di un momento di calma, in cui i pensieri della poetessa si mescolano al fascino del tramonto e al desiderio nostalgico di ritrovare il mare. Attraverso immagini vivide e nostalgiche, Neri ci trasporta in un viaggio intimo che rievoca i ricordi…
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E l’amore guardò il tempo e rise.
Un sorriso lieve come un sospiro,
come l’ironia di un batter di ciglio,
come il sussurro di una verità scontata.
Perché sapeva di non averne bisogno.
Perché sapeva l’infinita potenza del cuore
e la sua poesia e la magia di un universo perfetto,
al di là dei limiti del tempo e dello spazio.
E le ragioni dell’uomo, fragile come un pulcino,
smarrito come un uccello,
cannibale come un animale da preda.
Perché conosceva la tenerezza di una madre,
l’incanto di un bacio, il lampo di un incontro.
Poi finse di morire per un giorno,
nella commedia della vita,
nell’eterno gioco della paura,
nascosto, con il pudore della sofferenza,
con la rabbia della carne,
con il desiderio di una carezza.
Ma era là, beffardo, testardo, vivo.
E rifiorì alla sera,
senza leggi da rispettare,
come un Dio che dispone, sicuro di sé,
bello come la scoperta, profumato come la luna.
Ma poi si addormentò in un angolo di cuore
per un tempo che non esisteva
e il tempo cercò di prevalere,
nel grigio di un’assenza senza musica, senza colori.
E sbriciolò le ore nell’attesa,
nel tormento per dimenticare il suo viso, la sua verità.
Ma l’amore negato, offeso,
fuggì senza allontanarsi,
ritornò senza essere partito,
perché la memoria potesse ricordare
e le parole avessero un senso
e i gesti una vita e i fiori un profumo
e la luna una magia.
Perché l’emozione bruciasse il tempo e le delusioni,
perché la danza dei sogni fosse poesia.
Così mentre il tempo moriva, restava l’amore.
Luigi Pirandello
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...❤️...
Mamma, negli anni ho potuto vedere in quanti modi meravigliosi hai reso speciale la vita della nostra famiglia. I momenti d'amore, l'allegria, le ricorrenze, ricordi che porteremo con noi per tutta la vita.
Ma soprattutto, ho potuto vedere come con ogni tuo gesto tu ci abbia insegnato il vero significato dell'amore.
Se riuscissi a rubare al cielo una fetta di felicità, la donerei a te mamma, perché la mia felicità è vederti sorridere
Grazie mamma perché mi hai dato la tenerezza delle tue carezze,
il bacio della buonanotte, il tuo sorriso premuroso,
la dolce tua mano che mi da sicurezza.
Hai asciugato in segreto le mie lacrime, hai incoraggiato i miei passi,
hai corretto i miei errori, hai protetto il mio cammino,
hai educato il mio spirito, con saggezza e con amore,
mi hai introdotto alla vita.
E mentre vegliavi con cura su di me, trovavi il tempo per i mille lavori di casa.
Tu non hai mai pensato di chiedere un grazie.
Grazie mamma.
...❤️...
A MIA MADRE❣
Lei guarda fuori dalla finestra senza sapere quello che vede realizzando gli anni passati, senza sentire il calore del sole accarezzare la sua pelle, Lei riposa, sente la fragranza dolce dei ricordi che gli anni crudelmente hanno dato fine. Ricordi amari tormentano i suoi pensieri, avvolgendola in una tristezza che distrugge l'anima. Scappa da questa prigione in un istante di lucida memoria, rifugiandosi in un sonno colmo di tranquillità e pace.
La sua eleganza e la sua grandezza rimarrà per sempre chiusa in un incubo di confusione e paura, anni di sofferenza e guerra sono freschi nella sua memoria, non si ricorda il presente, il suo cuore cerca le persone da lei tanto amate nel passato, soffrendo per loro ogni giorno, la tristezza è l'incapacità di ritenerli nella sua memoria. É tutto quello che ci rimane... trovare la pace è il suo desiderio... accettare la realtà è l'unica possibilità. Dedico questa alla mia più cara amica, alla donna che mi ha dato la vita, alla donna che oggi non mi conosce più, ma so che nel suo cuore sa che io la amo, madre grazie di esistere.
...❤️...
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Ma tu davvero pensi
che amore sia
tormentarsi la notte
perché non arriva un suo messaggio
e cominciare a chiedersi dov'è e con chi
e non dormire fino a che non ti scrive
che è a casa?
Amore è leggerezza.
Davvero pensi
che amore sia
sapere tutti i pensieri e tutti i sogni
e imparare a memoria il passato e programmare intensamente il futuro,
pretendere di conoscere ogni dettaglio
ogni desiderio più intimo?
Amore è intuizione.
Ma tu davvero
ma davvero davvero
pensi che amore sia
stare insieme tutto il tempo
ogni momento
non separarsi neanche un attimo
perché insicuri
deboli
protettivi?
Amore è tenersi le mani anche lontani
è rispondere a telefono a qualsiasi ora
solo perché ti va tanto
di parlare un po’.
Tu pensi
che amore
sia chiedersi continuamente
mi ami?
Ti amo?
Ci amiamo, si?
Amore è dubbio
ma dubbio lieve
dubbio ch'è un sollievo
ch'è consolazione
d'essere l'uno per l'altro
certezza sicura.
Pensi dunque
che amore sia
chiudersi in una gabbia d'oro
e non vedere neanche più il mare
e non innamorarsi più di niente?
Amore è
cercarsi tra la gente
e trovarsi in altri occhi
e non costringersi
a non vedere più nessuno sguardo
perché amore non è proibire
è accettare
non è sperare
è sognare
non è sapere ma è credere
e non è obbligo, ma fiducia.
Amore è equilibrio e follia
e non è appuntamento fisso
è aspettarsi sempre e comunque
in qualsiasi caso.
Amore è scegliere
e per scegliere c'è bisogno
d'avere un sacco di opzioni
se no che si sceglierebbe?
Amore è stare
in un modo o nell'altro
sempre dentro a qualcun altro
e dentro a un altro riconoscersi
ecco
amore non è mica perdersi,
amore è ritrovarsi.
Marzia Sicignano
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TESTIMONI
Salvi per caso
LILIANA SEGRE, La memoria rende liberi
Da anni, ogni volta che mi sento chiedere: "Come è potuto accadere tutto questo?", rispondo con una sola parola, sempre la stessa. Indifferenza. Tutto comincia da quella parola. Gli orrori di ieri, di oggi e di domani fioriscono all'ombra di quella parola. Per questo ho voluto che fosse scritta nell'atrio del Memoriale della Shoah di Milano, quel binario 21 della Stazione Centrale da cui partirono tanti treni diretti ai campi di sterminio, incluso il mio.
PRIMO LEVI, Se questo è un uomo
Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, all'alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare.
HANNAH ARENDT, La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme
Adolf Eichmann andò alla forca con gran dignità. Aveva chiesto una bottiglia di vino rosso e ne aveva bevuto metà. […] Era completamente padrone di sé, anzi qualcosa di più: era completamente se stesso. Nulla lo dimostra meglio della grottesca insulsaggine delle sue ultime parole. […] Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato – la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male.
Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica – come già fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro patroni – che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male.
ELIE WIESEL, La notte
Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l'eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i mei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.
Ormai non mi interessavo ad altro che alla mia scodella quotidiana di zuppa, al mio pezzo di pane raffermo. Il pane, la zuppa: tutta la mia vita. Ero un corpo. Forse ancora meno: uno stomaco affamato. Soltanto lo stomaco sentiva il tempo passare.
ETTY HILLESUM, Diario 1941-1943
Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite.
BRUNO BETTELHEIM, Sopravvivere
La nostra esperienza nei campi di concentramento non ci ha insegnato che la vita non ha senso, che il mondo dei vivi è un grande bordello, che bisognerebbe vivere secondo le primordiali esigenze del corpo, ignorando le creazioni della cultura. La nostra esperienza ci ha insegnato che per disgraziato che sia il mondo in cui viviamo, la differenza che esiste tra di esso e il mondo dei campi di concentramento è grande come quella tra la notte e il giorno, tra l'inferno e il paradiso, tra la morte e la vita.
PRIMO LEVI, I sommersi e i salvati
Definirlo "nevrosi" [quello stato di perenne disagio del prigioniero] è riduttivo e ridicolo. Forse sarebbe più giusto riconoscervi un'angoscia atavica, quella di cui si sente l'eco nel secondo versetto della Genesi: l'angoscia inscritta in ognuno del "tòhu vavòhu", dell'universo deserto e vuoto, schiacciato sotto lo spirito di Dio, ma da cui lo spirito dell'uomo è assente: non ancora nato o già spento".
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Mi aprivo a lui con tutti e cinque i sensi. me lo godevo con gli occhi.
Lo annusavo. Pendevo dalle sue labbra. Lui non la smetteva mai di parlare, e io amavo le sue parole che rinfocolavano il mio desiderio.
Le poesie che conosceva a memoria si fondevano con le parole del suo piacere, con i suoi richiami. Rallentava il ritmo dei miei movimenti quando stavo per venire. "E' una tortura", protestavo. Più tardi ho capito, ho imparato anch'io a non assecondare in fretta l'ultimo spasmo, quello che mi lascia senza fiato ...
Salwa Al-Neimi
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