#Il Bimbo nel Viale
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pier-carlo-universe · 13 days ago
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Il Bimbo nel Viale di Antonia Pozzi: La Dolcezza di un Sogno Incompiuto. Un'intensa riflessione poetica sulla vita e sull’innocenza attraverso la sensibilità unica di Antonia Pozzi
Il Bimbo nel Viale, scritto da Antonia Pozzi il 25 ottobre 1933, è una poesia che racchiude la delicatezza e la profondità dell’immaginazione poetica dell'autrice
Il Bimbo nel Viale, scritto da Antonia Pozzi il 25 ottobre 1933, è una poesia che racchiude la delicatezza e la profondità dell’immaginazione poetica dell’autrice. In pochi versi, Pozzi esplora la tenerezza e il dolore sottile di un sogno mai realizzato: quello di un bambino, una figura simbolica che rappresenta speranza, fragilità e innocenza. La poetessa ci offre un ritratto intimo di un…
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kon-igi · 1 year ago
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QUEL POST CON CUI EMPATIZZERANNO IN TRE (ME COMPRESO) Parte 1
Non è una storia triste, non ci sono plot twist né morali strazianti per cui togliete pure il secchio da sotto la sedia ché i testicoli rimarranno al loro posto (figura retorica gender-inclusiva).
L’altro giorno @der-papero ha rebloggato un mio post in cui c’era l’immagine di una mazza ferrata per ‘resettare’ un pc dicendo ‘Non fare male ai computer che sono stati i miei unici amici per tanti anni! (o qualcosa del genere) ed è a quel punto che io ho pensato la stessa cosa, anche se in modo più specifico e meno informatico del suo.
Dal 1979 a oggi ci sono stati degli ‘amici’ che sono diventati una sorta di pietra miliare temporale a cui posso tornare con la memoria in modo microscopico e con una precisione quasi eidetica, al punto che li posso usare come una personalissima radiodatazione al carbonio per conoscere gli eventi contestuali occorsi in un dato periodo.
Quando ero piccolo ho sempre creduto che tutti giocassero ai videogames, sia con la propria console a casa che nei bar o nelle sale giochi e invece ho lentamente scoperto che non solo quasi nessuno aveva un console per videogames a casa ma che anche i cabinati che erano nelle sale giochi o nei bar per molti non erano affatto un’attrattiva.
Beh... per il sottoscritto le cose andavano in modo molto differente.
Alle console che ho posseduto dedicherò la seconda parte di questo post ma ora vi dico che sul viale pedonale principale di Viareggio (quello del carnevale, per intenderci) c’erano due sale giochi ENORMI (posso confermarlo a distanza di anni che non era solo lo sguardo di bimbo) e mio nonno paterno lavorava li vicino, ragion per cui mi bastava mendicargli mille o duemila lire, cambiare tutto in monete da 200 lire (i gettoni dovevano ancora arrivare) e giocare come se non ci fosse un domani.
Io non so se la seguente descrizione possa avere un senso per la maggior parte di voi ma dovete considerare quanto fosse ENORME il trip sinestesico nell’entrare in uno di quei luoghi: prima di tutto passavi dalla luce del sole a una penombra che assomigliava molto a un buio luminoso, poi le tue orecchie venivano sopraffatte da parecchi decibel di musichette a 8 bit che si mescolavano a formare un meraviglioso cachinno eustordente e infine l’odore di sigaretta che permeava ogni centimetro cubo dell’ambiente con una coltre di fumo in cui lampeggiavano gli schermi dei cabinati come finestre su altri mondi.
(in effetti a posteriori posso capire perché la mia passione non fosse così condivisa)
Ho parlato del 1979 perché quello fu l’anno in cui da flipper, biliardini e altri giochi analogici (che io schifavo) si passò al primo videogame completamente elettronico a grafica vettoriale: ASTEROIDS.
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Ora, siccome sono ben consapevole che la maggior parte di voi non ha la minima idea di cosa io stia parlando, sappiate che quando parlavo di finestre su altri mondi era proprio quella la sensazione che allora si provava: dalla visione passiva di un programma televisivo su tubo catodico passavi a poter FARE COSE SULLO SCHERMO, un qualcosa che pochi fra voi possono capire quanto fosse pazzesco.
E quello per me segnò un altro modo di considerare lo scorrere del tempo.
Per esempio, nell’Agosto del 1983 giocai per quindici giorni a Moon Patrol nel piccolo bar dell’Isola del Giglio dove andai in vacanza coi miei genitori 
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mentre al Bar Sombrero del mio quartiere nell’inverno del 1984 a Mag Max e Kung Fu Master, quest’ultimo a scrocco perché avevo imparato come accedere al sensore che veniva toccato dalla monetina e dava 1 credito
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la stessa estate, nella sala giochi in pineta, scoprii e finii Bubble Bobble (l’intro musicale mi dà ancora i brividi) mentre il Juke Box mandava in loop una canzone che dopo ho scoperto essere Sweet Dreams degli Eurythmics. 
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Trojan nel bar Moreno sotto a una tenda minuscola, R Type al chiosco sul viale dei tigli, Tiger Road al bagno Aretusa, Circus Charlie nel bar della stazione vecchia vicino al biliardo dal panno verde consumato e segnato dalle sigarette, Knuckle Joe in un hotel in Val d’Aosta per la gita di terza media, Wiz nel bar vicino casa di mia nonna materna, Bomb Jack al maneggio dove Diego con 200 lire giocava tutto il giorno e regalava crediti, Bank Panic al bar del cinema all’aperto e New Zeland Story in quello del palazzetto dello sport mentre mangiavo un Paciugo all’amarena, prima Green Beret e poi Iron Horse nella pasticceria sotto casa di mia nonna paterna con l’odore di sfoglie alla crema, Robocop e Xain’d Sleena al bar del liceo, finiti entrambi a memoria prima che suonasse la campanella, i tornei di Dark Stalker con i miei amici al bar della stazione nuova e poi ancora X-Men e Avengers.
Centinaia di giochi che meriterebbero decine di post perché con mille lire potevo andare in un mondo dove non ero più il ciccione sfigato che non sapeva giocare a pallone... ero quello che poteva sconfiggere i nemici e alla fine vincere, sempre.
L’ultimo arcade cabinato a cui giocai - e poi dopo quella data praticamente scomparvero per essere sostituiti dalle Slot Machine - fu Metal Slug, in data 1997, dopo aver lasciato Figlia Grande all’asilo nido nel piccolo ritaglio di tempo prima di andare nello studio medico dove avevo appena cominciato a lavorare.
Naturalmente lo finii ma finì anche col chiudersi quella parentesi durata appena vent’anni ma lunga una vita intera.
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Chi di voi è abbastanza vecchio da capirmi?
@axeman72​? @renatoram​? @ilnonnodiinternet​​? 
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lamilanomagazine · 8 months ago
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Bologna: "... questi anni non ho vissuto, sono sopravvissuta", 17 anni di terrore tra le mura domestiche
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Bologna: "... questi anni non ho vissuto, sono sopravvissuta", 17 anni di terrore tra le mura domestiche. Dopo 17 anni di terrore vissuto tra le mura domestiche, una donna sulla trentina ha trovato la forza di andare dai Carabinieri della Stazione Bologna per denunciare il marito, 46enne albanese che la maltrattava, anche di fronte ai figli minorenni. È successo una decina di giorni fa, quando la malcapitata si è presentata nella caserma di viale Enrico Panzacchi per raccontare ai Carabinieri una storia triste, iniziata subito dopo il matrimonio avvenuto nel 2007 in Albania e continuata negli anni in provincia di Bologna, dove era andare a vivere col marito per trovare la felicità, ma invece ha trovato tristezza e sofferenza. Ingiurie, minacce, percosse, spinte, sputi, tirate di orecchie, schiaffi, pugni in testa, strette attorno al collo e altre prevaricazioni erano all'ordine del giorno nei modi di fare autoritari del marito che voleva avere il controllo su tutto, bloccando qualsiasi iniziativa della compagna. Tra gli episodi più violenti che la donna ha raccontato ai Carabinieri, c'è sicuramente quello accaduto quando si dimenticò di chiudere il portone di casa. Il marito, infastidito dalla dimenticanza della compagna, l'aveva chiusa in bagno per punizione, picchiandola con schiaffi e pugni, trascinandola per i capelli e fermandosi soltanto di fronte all'intervento di uno dei due figli minorenni che preoccupato per lo stato di gravidanza della mamma che stava per avere il terzo figlio, si rivolse a lei dicendole: "Mamma io ho paura che papà ti faccia male e il bimbo ti esca dalla pancia!". Consapevole di non essere più in grado di andare avanti in quelle condizioni, la donna è riuscita ad alzare la testa e a chiedere aiuto ai Carabinieri: "Tanto mi ha ucciso dentro ogni volta, soprattutto quando mi picchiava da incinta, perché questi anni non ho vissuto, sono sopravvissuta". Il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Bologna ha accolto la richiesta della Procura della Repubblica di Bologna, applicando nei confronti del 46enne albanese, indagato per maltrattamenti contro familiari o conviventi, la custodia cautelare in carcere. Arrestato dai Carabinieri della Stazione Bologna che lo hanno rintracciato a Calderara di Reno, il 46enne è stato tradotto presso la Casa circondariale – Rocco d'Amato di Bologna.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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lanottediamsterdam · 5 years ago
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Il primo giorno di scuola alle otto e mezza tutte le nuove "reclute" si trovavano nel piazzale esterno in gruppetti, divisi dalla provenienza, nella massa si creavano già due "fazioni" ben definite, i bambini che si facevano accompagnare dai genitori e quelli, i più spavaldi e ribelli, che erano nel piazzale da soli; io non ero nè spavaldo nè ribelle, semplicemente avevo pregato in ginocchio i miei genitori per riuscire ad andare da solo quella mattina, riuscì a barattare un compromesso, mi avrebbe accompagnato mia madre fino al viale delle scuole e poi sarei andato da solo nel piazzale. Poco lontano dal mio gruppo vidi M. che faceva due chiacchiere con un ragazzino della scuola di un altro comune, stando nel suo solito gruppetto. 
A pochi passi da lui c'era questa ragazzina che stava, un pò solitaria, avvicinandosi all'entrata dove le segretarie ci avrebbero indicato le nostre classi dandoci il benvenuto. Aveva capelli liscissimi , tinti di rosso, lunghi fino a metà schiena, era più alta della media, sicuramente più di me, era slanciata ed aggraziata, aveva il naso piccolo piccolo e due occhi marroni enormi e brillanti, ricordo la prima volta che li guardai da vicino, mi sembrò di cadere in un burrone senza paracadute; le labbra erano carnose ma non grandi, sembravano morbide, erano rosee, i suoi modi delicati ed il portamento molto posato. Con piacere scoprì che si trovava nella mia stessa classe quando, entrandoci per la prima volta, i nostri sguardi si incrociarono: lei sedeva in un banco a metà classe, io invece bramavo i banchi in fondo, ancora mi ritorna in mente che, come in un banale film, mi sorrise spostandosi i capelli dietro l'orecchio e abbassando poi timidamente il mento. 
Nei mesi successivi appena avevo una possibilità, anche minima, sfruttavo ogni occasione per parlarci, per scherzarci; iniziai ad imparare in quel frangente l'utilità della mia simpatia come rompighiaccio e meccanismo indiretto di difesa, riconoscendolo purtroppo solo ora come tale; in ogni caso io facevo di tutto per poterci lavorare insieme nei vari lavori di gruppo che ci venivano proposti. Era decisamente diversa da me, era definita una secchiona, alzava sempre la mano per dare le risposte,che poi erano sempre corrette, alle maestre; era molto intelligente e in un certo senso compiaciuta della propria intelligenza, si sforzava di studiare tutto a memoria, cercava di tenere sotto controllo il tono della voce e la cadenza delle parole, mi pare di ricordare che avesse fatto addirittura un piccolo corso di dizione, piuttosto atipico per una ragazzina di 11 anni. Era una ballerina, il che giustificava il portamento e la grazia che aveva nei movimenti, ingenuamente e un po’ orgogliosamente si teneva stretti amorevolmente tutti gli stereotipi della femminuccia a modo, brava a scuola ed educata, che fa danza classica, veste di rosa e corre scomposta ad educazione fisica e gioca male a pallavolo o con qualunque cosa non sia un paio di ballerine da parquet. Ingenuamente la nostra "relazione" si creò come il più carino e innocente dei cliché, dopo varie chiacchierate lei iniziava a ricambiare un interesse palese da parte mia, così decisi di scriverle un bigliettino in cui le domandavo 
-vuoi essere la mia fidanzata?-
 in basso c'erano le tipiche due caselline con scritto si e no, su quella con il "si" avevo disegnato due cuoricini, cosa che non sono mai riuscito a disegnare decentemente, neppure ora. Era la prima volta in vita mia in cui mi esponevo per i miei sentimenti ed eccezionalmente, contro ogni pronostico la risposta fu positiva, tutto ciò che ricordo di quel momento fu il bigliettino che mi posò sul banco di scuola, la corsa veloce per tornare alla sua sedia, la X nera sulle mie scritte blu.
Ricordo di aver alzato lo sguardo ed averla vista sorridere imbarazzata e poi abbassare lo sguardo, in quel momento ero il bimbo più felice della scuola.
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clacclo · 5 years ago
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WILD BILLY'S CIRCUS STORY
The machinist climbs his ferris wheel like a brave
And the fire eater's lyin' in a pool of sweat, victim of the heatwave
Behind the tent the hired hand tightens his legs on the sword swallower's blade
And circus town's on the shortwave
The runway lies ahead like a great false dawn
Fat lady, big mama, Missy Bimbo sits in her chair and yawns
And the man-beast lies in his cage sniffin' popcorn
As the midget licks his fingers and suffers Missy Bimbo's scorn
Circus town's been born
Whoa, and a press roll drummer go, ballerina to and from
Cartwheelin' up on that tightrope with a cannon blast lightin' flash
Movin' fast through the tent Mars bent, he's gonna miss his fall
Oh God save the human cannonball.
And the flying Zambinis watch Margarita do her neck twist,
And the ringmaster gets the crowd to count along:
"Ninety-five, ninety-six, ninety-seven"
A ragged suitcase in his hand, he steals silently away from the circus grounds
And the highway's haunted by the carnival sounds
They dance like a great greasepaint ghost on the wind
A man in baggy pants, a lonely face, a crazy grin
Runnin' home to some small Ohio town
Jesus send some good women to save all your clowns
And circus boy dances like a monkey on barbed wire
And the barker romances with a junkie, she's got a flat tire,
And now the elephants dance real funky and the band plays like a jungle fire
Circus town's on the live wire
And the strong man Sampson lifts the midget little Tiny Tim way up on his shoulders, way up
And carries him on down the midway past the kids, past the sailors
To his dimly lit trailer
And the ferris wheel turns and turns like it ain't ever gonna stop
And the circus boss leans over, whispers into the little boy's ear
"Hey son, you want to try the big top?"
All aboard, Nebraska's our next stop.
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LA STORIA DEL CIRCO DI BILLY IL SELVAGGIO
Il macchinista scala la sua ruota panoramica come un valoroso,
e il mangiatore di fuoco se ne sta in un mare di sudore vittima dell'ondata di caldo
Dietro il tendone una mano gli stringe le gambe sulla lama del mangiatore di spade
E il circo cittadino viaggia sulle onde corte
La pista si stende davanti come una grande aurora di plastica,
La donna cannone, big mama, Missy Bimbo è seduta sulla sua sedia e sbadiglia,
E l'uomo bestia è sdraiato nella sua gabbia annusando popcorn
Mentre il nano si lecca le dita e soffre per il disprezzo di Missy Bimbo
E' nato il circo cittadino
Whoa, e con una rullata di tamburo vai ballerina avanti e indietro,
facendo la ruota su quella corda tesa
con un colpo di cannone un lampo accecante si muove attraverso il tendone
Dannazione, mancherà il suo bersaglio
Oh Dio salva la palla di cannone umana.
E i fratelli volanti Zambini osservano Margarita che fa il suo numero di contorsionismo,
E il presentatore fa contare insieme a lui la folla:
"Novantacinque, novantasei, novantasette"
Una valigia scassata nella sua mano, silenziosamente si allontana dal circo
E l'autostrada è invasa dalle musiche del carnevale
Danzano come enormi fantasmi truccati nel vento
Un uomo in calzoni gonfi, una faccia triste, una smorfia folle
sta correndo a casa in qualche piccola città dell'Ohio
Gesù manda qualche buona donna a salvare tutti i tuoi clown
E il ragazzo del circo danza come una scimmia sul filo spinato
e l'imbonitore flirta con una drogata, lei è giù di corda,
E ora gli elefanti danzano davvero funky
e l'orchestra suona come fosse scoppiato un incendio nella giungla
Il circo cittadino è al top dell'eccitazione
E il gigante Sansone solleva il piccolo nano Tiny Tim sulle sue spalle, lassù
E lo porta lungo il viale centrale oltre i ragazzi, oltre i marinai
Fino alla sua roulotte poco illuminata
E la ruota panoramica gira e gira come se non dovesse più fermarsi
E il padrone del circo si sporge,
sussurra all'orecchio del ragazzino
"Hey figliolo, vuoi tentare la grande scalata?"
Tutti a bordo, il Nebraska è la nostra prossima fermata.
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teredo-navalis · 5 years ago
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Oggi* è stata una buona giornata
16/09/19
Oggi, nel complesso, è stata davvero una buona giornata. Anche se ho dovuto stravolgere i miei piani, e quindi arrivare alle otto in centro e aspettare un'ora e mezza perché aprissero i negozi, ho lasciato la powerbank a casa e avevo il telefono al 57%, ho preso il pullman sbagliato e ho dovuto camminare un bel po', arrivando strasudata a destinazione + autista viscido, etc. Diciamo che ai vari scazzi si sono alternate cose positive:
-ho ricevuto un ask da un* anon dolcin*
-ho salvato una libellula che si era incastrata in una vetrina (questa cosa mi ha svoltato veramente la giornata) e la proprietaria del negozio e la dipendente(?) erano contentissime come me e mi hanno ringraziato all'infinito, si vedeva che era proprio di cuore
-(in seguito a successivo scazzo) ho incontrato per strada un bambino indiano con una maglia con la scritta "oggi è un bel giorno" e lo stavo già mandando a quel paese mentalmente ma mentre camminava ballava ed era troppo carino e non ho potuto fare a meno di sorridergli + con ancora il sorriso stampato sulla faccia ho incrociato lo sguardo del padre(?) del bimbo e lui mi ha sorriso di rimando, che è una cosa che adoro troppo awwww
-ho trovato dei jeans troppo belli e dei pantaloni con le tasche anche sulla gamba come piacciono a me
-nel viale della scuola ho incontrato due mie vecchie prof che mi hanno detto che gli dispiaceva un sacco che non fossi uscita con cento e "ho sofferto in silenzio", l'Abb. questa
-ho incontrato al centro commerciale la mia ex-crush, in modo del tutto inaspettato, l'ho salutato e mi ha salutata col sorriso
-avendo il cell ormai al 1%, e lontana due ore di pullman da casa, ho raccolto tutta la pochissima capacità di chiedere che ho e ho chiesto al commesso il favore grandissimo di caricarmi il telefono, lui ha accettato di buon grado ed è stato gentilissimo anche perché io ovviamente non avevo il cavo e ha usato il caricatore del palmare; anche la commessa che c'era quando ho pagato e mi sono fatta ridare il telefono è stata carinissima, sì vedeva proprio che la cosa non la disturbava minimamente, e io che mi ero fatta un sacco di problemi prima di chiederlo
-ho provato, con estrema curiosità, dei pantaloni push-up: il culo mi sembrava né più né meno che il solito, ma mi pushuppavano i polpacci. Questa cosa mi ha fatto alquanto ridere.
-nel pullman una signora mi ha chiesto se ci sarebbe stata la partita stasera, non ne avevo la più pallida idea e l'ho cercato su internet, da qui è partita una discreta conversazione; mi piace parlare con vecchiette/i nel pullman
-ho comprato la famosa gonna, seeeeh ce l'ho fatta!! Di tutte le gonne che c'erano il mese scorso era rimasta solo la mia, ma mancava giusto la mia taglia. Ho chiesto, senza un briciolo di speranza, alla commessa se per caso ci fosse anche la S e ne aveva giusto due in magazzino e me le ha portate *.* menomale che erano due perché la prima che mi ha detto aveva un difetto
-nell'ultimo pullman che ho preso, mentre ero fuori perché non si respirava e avevo già occupato il posto, una signora antipatica mi ha chiamata "che perdi il posto" perché era entrata una coppia (di colore, forse era questo il problema, bho) con bambino piccolo e carrozzino al seguito e la mamma col figlio si era seduta accanto al mio posto, quindi sono rientrata e, come avevo già pensato di fare (ma con più gusto, sapendo di dare anche uno smacco alla vecchia sindacante), ho preso le mie cose e ho detto alla donna che no, non volevo passare, mi spostavo che tanto c'era posto e poteva far sedere suo marito lì. È stato un gesto semplicissimo ma mi ha riempito di gioia 1) per la gratuità del far del bene e 2) perché si vedeva nei suoi occhi che anche lei era contenta
- dopodiché mi è venuta troppo voglia di ascoltare joyful joyful, dj sister act, ed è proprio quello che ho fatto
-last but not least, ho ceduto il posto ad un vecchietto nel pullman affollato; non è stata un'operazione semplice ma ne è valsa la pena
Tutto questo per dire che:
1) il bambino indiano aveva ragione
2) oggi, sono grata
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foxpapa · 6 years ago
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  II murale di Jorit dedicato al bimbo migrante con la pagella a Palma Campania 
Ha un volto e un nome il bimbo migrante annegato con la pagella cucita in tasca nella speranza di trovare un futuro migliore
Lo sguardo del 14enne partito dal Mali e morto su un barcone nel Mediterraneo vive in un murale di Jorit realizzato a Palma Campania ed emoziona chiunque lo guardi. Lo street artist ha dato al bambino la dignità di un viso e di un nome, immaginandone i lineamenti e soprannominandolo Kukaa. La maxi opera si trova all'incrocio tra viale Giacomo D'Antonio e via Circumvallazione ed è divisa a metà: nella parte bassa c'è il bimbo con la pagella ricordato anche dal filosofo Aldo Masullo con una poesia, mentre nella parte alta è ritratto Thomas Sankara, primo presidente del Burkina Faso ricordato come il "Che Guevara africano" e assassinato nel 1987. Prima di cominciare il murale, Jorit aveva scritto sulla parete alcune frasi di Vincenzo Russo, intellettuale della Rivoluzione Napoletana del 1799, originario proprio di Palma Campania e giustiziato assieme a tutti gli altri martiri a Napoli, in piazza Mercato, per volere di re Ferdinando di Borbone. Tra i colori delle bombolette spray si nascondono, invece, come sempre, alcuni messaggi raccolti nel progetto "La gente di Napoli": "Palma", "Guai a prendere in giro il popolo", "Si o kiu fott", "Blaise Compaoré traditore del popolo", "La terra degli uomini integri", "Rispunn", "La rivoluzione è un fiore". Nell'occhio sinistro il nome di Marilena Nappi, del Gruppo Archeologico Terra di Palma recentemente scomparsa, nell'occhio destro: Rivoluzione. Ci sono infine centinaia di nomi di persone con cui l'artista ha parlato durante la lavorazione. Ma quello che allarga il cuore è Kukaa: il piccolo con la pagella ha finalmente un nome.
FOTO VINCENZO DE SIMONE
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piramiderossa · 3 years ago
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"Verso la fine degli anni Sessanta, le madri di noi ragazzini della periferia romana ci portavano a giocare a Villa Gordiani, al Prenestino, fra le antiche rovine della villa patrizia di tre imperatori, Gordiano I, II e III. Avevo un amichetto del cuore, “Euhenio”, come lo chiamava la mamma, colombiana. Ma eravamo tutta una folla di ragazzini che giocavano a pallone, scavavano trincee, si lanciavano pietre o manciate di vermi, spesso si facevano male sul serio, al sangue. Eravamo settari, discriminatori, un po’ razzisti. Anche un bambino povero alzava il sopracciglio e trattava con disprezzo un bimbo più povero di lui. E le mamme non erano da meno.
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Ogni sera, verso il tramonto, spuntava dal fondo del viale una madre diversa dalle altre. Era una Madonna addolorata, perché aveva un figlio di una decina d’anni, alto e magro, con tutti i capelli bianchi. Quel povero piccolo era affetto da una grave malattia che disarticolava i suoi incerti passi. Avanzava, nell’ultimo sole e nella polvere, oscillando con le braccia come a cercare nel vento un sostegno impossibile, e le gambe facevano lo stesso. Da lontano, lui ci sorrideva. Aveva un pallone rosso e riusciva a farlo rimbalzare nonostante quel rutilante squilibrio. Ci sorrideva, invitante. Mentre la mamma ci guardava, presaga, con severa malinconia. Perché noi, piccoli stronzi, nel vederlo apparire gridavamo tutte le volte, fingendo spavento: “Il bambino bianco! Il bambino bianco!” e fuggivamo in tutte le direzioni.
Sulle panchine o sui prati, decine di madri si giravano dalla parte opposta come offese da quella coppia di mamma e figlio che aveva il tratto dirompente di un Picasso in un quadro di maniera ottocentesco, una Villa Gordiani al tramonto, ma distorta, come se la malattia del bambino squilibrasse, insozzasse, per loro, la perfezione della tavolozza della sera.
Mia madre e quella di Euhenio no, salutavano la mamma che teneva a braccetto il suo bambino, con un “Buonasera signora”, un po’ formale, tiepido, sempre meglio di quel deciso voltare il capo delle decine di altre. La signora rispondeva con un cenno gentile, ma dal davanzale del suo sguardo uno stormo di uccelli neri come carabinieri sembrava spiccare il volo per acciuffare ciascuno di noi, piccoli stronzi in fuga, e riportarci indietro, da lui, dal suo bambino costretto a far rimbalzare da solo eternamente quel suo palloncino rosso.
Lui ci perdonava, invece di disprezzarci, ci sorrideva sempre, con tutto sé stesso ci invitava a giocare con lui, senza astio, risentimento, senz’altro che quel sorriso.
Lo ricordo come fosse ora. Una sera afosa al parco non c’era nessuno, neanche Euhenio. Doveva essere d’agosto, una domenica, tutti erano al mare. Io giocavo accanto alla panchina di mia madre. Mio padre, a letto, con la flebite. La signora e suo figlio comparvero sulle rovine. Senza il cattivo esempio degli altri, non scappai come al solito, non gridai “Aiuto, il bambino bianco”, ma chinai il capo, mentre mia madre salutava, al passaggio, la signora. E lui mi chiese “Giochi?”. Guardai mia mamma e lei annuì: “Jack muoviti, non hai sentito? Vai a giocare”.
Ci tirammo il pallone rosso. Chi non riusciva ad afferrarlo, un punto in meno. Il bambino bianco era bravissimo. Complice la sua disabilità, mi spiazzava sempre, tirando il pallone con traiettorie impensabili. Era intelligente, gentile, dolcissimo, chiedeva scusa ogni volta che faceva punto, “scusami”, perché vinceva. Mi divertii un mondo quella sera. Vidi che sua mamma, finalmente rilassata, chiacchierava fitto con la mia.
Fu quella la prima volta che imparai ad allinearmi ai disallineati. A trovare il mio punto d’equilibrio dove il mondo lo perde.
Nei giorni seguenti, quando gli altri bambini tornarono dal mare, tutto riprese come prima. Ma quando gridavano fuggendo “Il bambino bianco!” rimanevo là, senza giocarci, perché ero un po’ stronzo anch’io, ancora non riuscivo ad andare controcorrente, ma restavo a guardarlo rimbalzare quella palla assurda nell’ultimo sole. Però ero contento, perché sua madre aveva finalmente trovato posto sulla panchina, fra la mamma colombiana di Euhenio e la mia. Orecchiando i loro discorsi sussurrati, una volta sentii le nostre madri deplorarci. “Ci scusi signora, sono bambini stupidi e maleducati, ci scusi tanto”. E la mamma del bambino bianco fece un sorriso radioso: “Ma no signora” ci giustificò. “Sono piccoli, è la vita. Da grandi capiranno”.
Temo che la speranza di quella Madonna addolorata non si sia rivelata una profezia azzeccata. E lo vediamo per le strade della vita. In certi sguardi di disprezzo verso tutto ciò che è fragile, insolito e diverso. Sguardi che si girano di scatto dall’altra parte. Che si tratti di profughi o disabili, di persone con un diverso colore della pelle, di vagabondi o mendicanti, la reazione è la stessa di quelle sere a Villa Gordiani quando compariva il bambino bianco.
Ogni tanto, nel silenzio di questa cella, sento rimbalzare il suo palloncino rosso sulla strada bianca. Sento le grida e gli sghignazzi di noialtri in fuga. Sento la sua voce chiedermi: “Vuoi giocare con me?” E me lo tengo dentro, gli annuisco nel buio, me lo porto nel cuore."
Diego Cugia - Jack Folla
Ho letto questo post con ancora davanti agli occhi le immagini di una Santachè vestita tutta griffata che indica col ditino e tutta schifata le tende dei senzatetto in un parco milanese.
Perché senza il cattivo esempio degli altri, come dice il pezzo, forse possiamo essere persone migliori.
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andreas29-runandfun · 7 years ago
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La mia mistica Maratòn Valencia Trinidad Alfonso 2017
Che maratona quella di Valencia! Sono già passati diversi giorni, eppure il senso di gratificazione, gli “animo, animo” e i “campeones” del pubblico, i riflessi del sole sugli edifici storici, riecheggiano ancora intensamente nella testa e nel cuore.  
Fino all’estate non avevo un grande stimolo a correre questa maratona, non sentivo una particolare attrazione per la città e per la Spagna in generale. Ciò mi risultava strano perché uno dei viaggi che ricordo con maggior piacere è stato quello post laurea, in Andalusia insieme al compagno di studi e amico Marzio. Anche i week end a Madrid, i viaggi di lavoro a Barcellona, le vacanze alle Baleari mi erano tutti molto piaciuti, eppure, per la Maratona di Valencia non sentivo una grande attrazione. Hanno deciso la mia partecipazione Stefania e i suoi amici, io con grande resistenza ho… ceduto. A metà agosto ho organizzato la trasferta e mi sono concentrato sulla preparazione formulata dal grande coach e amico Marco Boffo.
Quest’ultima è stata molto diversa dalle precedenti e anticipata da un buon numero di chilometri a bassa intensità intervallati da una gara al mese sui 30 km in montagna, non proprio dei trail, ma quasi. Questa fase credo sia stata molto utile sotto diversi aspetti tra cui l’aumento di forza specifica, sempre un’area critica per gli amatori vecchietti come me. Durante le ultime 12 settimane ho continuato a gareggiare molto più del solito, con mezze maratone e ancora gare di 30 km, non ho invece corso lunghi lenti né ripetute brevi e veloci. Vado però ora al dunque, il week end della maratona: partenza il 17 novembre, venerdì, giorno nero per molti, positivo e ricco di significato per me, per le mie origini, per i valori che mi sono stati trasmessi. Oggi mio padre avrebbe compiuto 85 anni e ci penso con intensità. Cosa direbbe sapendo che parto per la Spagna per correre la mia decima maratona? Lui, fiero di essere (più che esser stato) Alpino, sa qual è il valore della fatica ma, questa della maratona, senza un apparente scopo specifico e tangibile, come lo considererebbe?
Prima di partire corro l’ultima corsa lenta di 6 km, faccio colazione con un bel piatto di pasta e delle proteine e via con tutto il gruppo verso il Marco Polo di Venezia. Un paio di panini, uno scalo a Madrid, mezz’oretta di taxi e lasciamo le valigie in hotel a 500 metri dalla Ciutat de les Arts i les Ciències. Una breve camminata, il tempo per rimanere con il fiato corto per la bellezza architettonica dell’area, qualche foto e siamo dentro all’Expo per il ritiro del pettorale. Incrociamo i pacer, rubo una foto a uno di loro che sta provando lo zaino e l’asta con cui correrà domenica con il vessillo che indica 3:00. Dentro di me mi chiedo se “sarà la volta buona”, perché in effetti è dall’autunno del 2015 che credo di essere pronto per andare sotto le 3 ore e non ci riesco per mille motivi diversi.
il giorno dopo facciamo un po’ i turisti, mangiamo paella e pasta e, presto, la sera presto andiamo tutti a dormire. La mattina della gara facciamo colazione e con sommo piacere ci diciamo tutti: non male poter stare in camera fino alle 8:00 e poi uscire dall’albergo per entrare nel blocco di partenza percorrendo soli 20 metri, proprio come a NY 2 anni prima, quando abbiamo fatto la maratona ancor prima di iniziare a correrla!
Saluto gli amici, un bacio a Stefania con l’augurio reciproco di divertirci e via per un breve riscaldamento in griglia, poco ma sufficiente per avere caldo e indurmi a togliere il pile che avevo indossato; lo lascio a terra a beneficio di qualcuno che ne avrà più bisogno di me con l’arrivo della stagione fredda. Pochi minuti di attesa e ci siamo: partenza. Il clima è buono in termini di temperatura (circa 10°) e umidità, c’è però anche il sole, che io temo particolarmente.  Dallo sparo alla mia partenza vera e propria mi sembra passi qualcosa più di un minuto. Dopo poche decine di metri siamo sul ponte d’avvio gara e componiamo un bel serpentone. Trovo abbastanza spazio mantenendomi sulla sinistra, scelgo anche di fare qualche metro in più pur di mettermi comodo. Il primo km va via in 4’13”, sono contento perché mi sento sciolto e l’andamento della frequenza cardiaca non fa scherzi. Mi sono dato, come spesso accade, qualche blocco di frazionamento della gara, pensando solo a quello e non ai 42 km complessivi: frazioni di 5 km da correre in 21’15” e frazioni di 14 km da chiudere in un po’ meno di 1 ora. All’inizio del secondo km c’è una curva che gira dalla parte in cui mi trovo io, a sx e inizio a sentirmi “stretto”… dopo un po’ la situazione migliora, ma verso il 5° km la situazione si ripete a una rotonda che nuovamente va a sx, sulla dx c’è il mare, ma io non me ne accorgo perché sto attento a trovare il mio spazio per correre. Sento che sto bene e mi sento comodo con il ritmo impostato: i primi 5 km si chiudono in 21’12” (official time) e la FC è sotto controllo a 155. Io mi sono dato l’obiettivo di stare qualche punto sotto i 160, possibilmente fino a un po’ dopo la mezza; essere così sotto pur mantenendo il ritmo medio di 4’15”, mi fa stare tranquillo. In questa prima frazione la strada sale un po’ ma non me ne accorgo. Il pubblico è presente ai lati ma io non ci faccio troppo caso anche perché, pur numeroso, non è né come a Londra, né come a New York o a Berlino. Non ho l’aspettativa di trovare un clima particolarmente caloroso. Percorro un viale alla fine del quale c’è un tornante, il percorso va a ritroso, siamo in Avinguda dels Tarongers. Prima di fare l’inversione sull’altra corsia, vedo David, non riesco a capire bene quanto più avanti di me si trovi, ma non mi sfiora minimamente l’idea di fare riferimento a lui, sono solo ammirato del fatto che stia andando a un ottimo ritmo. Verso la fine del viale, quando ancora vedo le persone nel flusso opposto, cerco di vedere Stefania e Irene, ma so che è abbastanza improbabile che ciò accada perché sono partite un bel po’ dopo di me. Al nono km circa, altre 2 curve a 90° a sinistra, la strada qui si mantiene un po’ più larga e non ho particolari difficoltà a mantenere il passo. Prendo il primo gel, bevo un po’ d’acqua, così come avevo fatto al ristoro del 5° km e vedo Titti con Alex il suo bimbo di pochi anni. È un’immagine di pochi istanti ma per me preziosa, gioiosa e solare, mi fa sentire bene. Riusciamo a salutarci e via… ancora un colpo d’occhio alla frequenza cardiaca e ancora 155: bene, sono contento, si chiudono i secondi 5 km, 42’12”, ottimo, sono un po’ in vantaggio rispetto alle 3 ore! Avanti ancora verso nord fino al 13° km e ritorno verso sud girando all’interno di una rotonda. Siamo prossimi a verificare di essere sotto l’ora del 14° km: 58 e 50 secondi circa. Il Garmin segna una settantina di metri in più rispetto alla distanza indicata dai cartelli, ragion per cui guardo il cronometro in prossimità di questi ultimi e non il dato dell’autolap. Intorno a me in questa zona c’è un bel po’ di gente, mi da l’idea che ci sia vero interesse per ciò che sta succedendo a questi 19.000 intenti a correre per 42 km di fila, sensazione simile a quella che ho provato lungo la riviera del Brenta in occasione della Maratona di Venezia di un mese prima. Sono contento! 1 ora 3’10” al 15° e ancora grande facilità di corsa. Il sole da me temuto è attenuato abbondantemente dai palazzi e dagli alberi e mitigato da un po’ di vento che aiuta a mantenermi fresco. Poco più avanti incontro nuovamente Titti che saluto a pollice alzato e braccio della mano opposta rivolto verso l’alto come per dire che va bene e sono lucidamente presente! Non me ne accorgo ma in questo momento lei mi scatta una foto che esprime veramente questo mio “steady state”(http://bit.ly/2iQ7VQC) …penso che tutto sta andando bene e che oggi “deve” andare bene fino alla fine, ho corso almeno 7.500 km nel tentativo di andare sotto le 3 ore, obiettivo che sento mio senza un perché specifico, senza la possibilità di vincere qualcosa, senza essere il primo in una qualche classifica. Ma lo voglio. Per me è una sfida interiore che esprime un senso di scopo, un po’ come nelle culture antiche il sacrificio per gli Dei: la mia fatica e l’impegno per raggiungere questo traguardo è un modo per mettermi in pacing con le ormai tante persone a me care che non ci sono più e che mi mancano. Spesso mentre corro le maratone mi trovo a dialogare con loro, in particolare con mio padre e con Corrado, collega e amico che ha lasciato un anno e mezzo fa una moglie e due bambini dell’età dei miei. Con la piccola Hyba. Con Massimo. Con Tatiana. Con tanti, purtroppo, altri. In questi chilometri, dopo che ho visto per la seconda volta Titti, anche lei toccata fortemente quest’anno, sono affiorati puntuali, forti, vivi, questi pensieri. Oggi però è diverso dalle altre volte, oggi sento che andrà bene e potrò condividere anche con loro l’impresa!
Al 18° km, torno in contatto con la realtà che mi circonda e, con sorpresa prima vedo e poi raggiungo i pacer delle 3 ore, sono in 2. Ho un momento di sbandamento: io sono in vantaggio sulle 3 ore, perché ora raggiungo ora i pacer? Stanno andando troppo forte? Pochi istanti e realizzo che sono partiti davanti, allo sparo, io un po’ più indietro e il mio recupero equivale alla differenza tra gun time e real time. Il pensiero immediatamente successivo è stato prudenziale: se sto con loro certamente faccio il mio tanto atteso sub 3 ore. Decido quindi di rallentare il mio passo di quei 3 o 4 secondi al km per rimanere con loro e con il gruppo nutritissimo di runner che vanno allo stesso ritmo. Nei 2 km successivi ci sono diversi cambi di direzione, curve a novanta gradi con strade non particolarmente larghe. L’affollamento intorno a me m’infastidisce ma rimango concentrato sulle sensazioni che mi rimanda il corpo. Sono ancora molto buone, FC 157, caldo poco, cadenza di passo prossima a 190: tutto molto bene! Ormai siamo alla mezza, altro check importante: 1:28:50, oh yeah, c’è margine. L’entusiasmo per il cronometro è un po’ smorzato dal fatto che il traguardo è indicato solo dalle strisce a terra della misurazione cronometrica e da nessuno striscione o gonfiabile, peccato, mi sarebbe piaciuta maggiore evidenza, è pur sempre il giro di boa, il secondo inizio. Io comunque mi sento pronto a correre un’altra mezza maratona a un ritmo che mi risulta facile, mio, quello che sto tenendo in questa fase.  Al 22° lambiamo la marina di Valencia, sede di qualche America’s cup, uno degli eventi che hanno ridato vita alla città, neanche il tempo di accorgersene e siamo nuovamente in zona Ciutat de les Arts, il pubblico è ancor più numeroso rispetto alla partenza, sono circa le 10:10, il sole è alto e proprio alle nostre spalle. In questa fase si va verso nord ovest, in un leggerissimo dislivello positivo (questo lo vedo solo a posteriori dalla traccia GPS, non lo percepisco), con poca ombra e le strade non molto larghe. Mi trovo, quindi, tra il 24° e il 27° km a fronteggiare le prime preoccupazioni. Io soffro il sole, già due volte in pochi chilometri nelle maratone di Milano 2016 e Venezia 2017, mi ha messo in crisi. Sto, quindi, particolarmente attento a cercare la poca ombra ai lati della strada e a non alzare troppo la FC: 158 – 159, gestisco e mi curo di non rallentare troppo. Ci riesco perché rimango con i pacer senza difficoltà. Entriamo in centro storico e percorro i miei 2 km più lenti a 4’21” e 4’25”, qui non sono certo che il GPS “veda bene” e non mi preoccupo, le strade sono strette e io non ho lo spazio che vorrei per correre, mi trovo spesso a dover accorciare il passo per non far cadere altri runner e sto attento di non cadere pure io. Al 28° sono sull’ora e 58, penso che potrò amministrare con un buon margine, ora la fatica è un po’ più intensa ma ampiamente sopportabile. Al trentesimo 2 ore 07 scarsi. Prendo il terzo gel e viste le condizioni buone ipotizzo di non prenderlo al 40°. Al 33° cambiamo direzione puntando verso l’arrivo, proprio mentre giriamo a sinistra, uno dei due pacer si porta a bordo strada, è a un metro da me, lo riconosco bene, è quello che ho fotografato il giorno prima e al quale avevo fatto riferimento: io devo arrivare prima di te domani! Non avevo però ipotizzato che potesse ritirarsi così come stava facendo a due passi da me. Il suo compagno 50 metri dopo si gira per cercarlo, non lo vede, rallenta, gli dico che si è fermato, non mi capisce, lo aspetta ancora un po’ perdendo 20 metri rispetto a me, poi riprende il ritmo, mi raggiunge e mi sopravanza di una ventina di metri: ho “rotto il ritmo” e sta strappando. Io rimango tranquillo, so correre tenendo il mio ritmo. Ora non pongo più attenzione forte all’andamento della FC, so che quanto mi manca all’arrivo in termini di tempo è per me gestibile anche sopra la fatidica soglia: ora la mia prossima meta sono i 39 km e Plaza de Toros, so che da lì sarò anche aiutato da una leggera discesa. Passano i 35 km, sempre in gruppo e con il pacer, gestisco bene i chilometri successivi, arriva l’arena dei toreri: ora non ci sono più dubbi, il sub 3 ore sarà mio! Il pubblico aumenta, gli incitamenti pure, energici, vivi, rumorosissimi, allegri: animo, animo… campeoooness, campeeoooness…. Vamos, vamos…. Bambini, adulti, anziani, famiglie, c’è tanta Valencia sulle strade, tanta Spagna. Io sono contento, non sento la fatica, già assaporo l’arrivo. Ma il godimento è lungo tutti gli ultimi chilometri che ancora mi separano dal traguardo. Le persone per incitare invadono le strade, ma contrariamente a prima, il fatto che si assottiglino non è un problema, ora lo spazio per correre rimane abbondante perché molte persone hanno perso il contatto con il pacer e perché, comunque, prevale la forza del calore che le persone mi stanno generosamente e genuinamente offrendo. Sono contento, molto contento. Voglio chiudere in up, prendo anche il 4° gel al 40°, lambiamo il parco, ex letto del fiume, ora paradiso per i runner locali dove possono correre in totale sicurezza ad ogni ora del giorno e della notte. La strada scende ancora un po’, la abbandoniamo, entriamo nel parco che si fa stadio, tanta è la gente che assiste al passaggio dei maratoneti, il palazzo delle arti Reina Sofia, mastodontico, si apre come una conchiglia davanti a me, ne rimango affascinato come era già successo i giorni prima, ma questa volta la prospettiva è diversa e mi sembra ancor più bello e imponente. Siamo alla fine. L’ultimo chilometro è segnato ogni 100 metri, mi ricorda i cartelli delle yards del Birdcage Walk e del Mall di Londra, prima di quel memorabile traguardo. Quando mancano 400 metri, mollo i freni e vado, sento che sono abbondantemente sotto i 3’50” al km ma non guardo l’orologio, lo spettacolo è fuori, le sensazioni non sono hi tech da GPS, sono tutte mie, dentro, hi touch, umane, è così che voglio chiudere questa maratona. Ecco il tappeto blue, ecco che vedo le tribune, sento la musica, vedo il real time nello schermo davanti a me: anche quello segna il 2 come prima cifra. Anche il pacer sopravvissuto è dietro di me! Real Time 2:58:48, ho ottenuto l’obiettivo che mi sono posto nel 2015, due anni abbondanti fa. Ho perseverato, ho faticato, ho sbagliato, ho perso anche la fiducia, ma oggi l’ho fatto. Anche questo, per dimostrare che volere è potere, che gli ostacoli vanno superati, che senza sofferenza non si ottiene ciò che si desidera, che ci si deve porre i giusti ambiziosi ma non impossibili traguardi, che impossibile però non deve essere una scusa, anche per questo corro la maratona. Per questo volevo il sub 3 ore. Per questo e per altre cose, come uno sguardo verso l’alto dopo il traguardo, dopo aver ottenuto il mio obiettivo, che corro la maratona. Verso l’alto, verso persone care, verso il futuro che voglio vivere con la mia famiglia, i miei cari, gli amici, le persone che continuano a riempire la mia vita anche se non ci sono più, che danno senso di scopo al fluire dei giorni. Alla vita.
…mi rifocillo velocemente dopo il traguardo, incrocio David che ha fatto un eccellente 2:52, vado a farmi la doccia e torno in prossimità del traguardo per aspettare Stefania. Quando la vedo, la chiamo, si accorge con un po’ di ritardo di me, decide di tornare indietro per salutarmi con un sorriso di sollievo che spazza via una tensione sul viso che mi lascia intendere che ha molto faticato. Sono contento di vederla tagliare il traguardo della sua quarta maratona, anche per lei il miglior tempo di sempre anche per lei un’impresa che ha un significato più profondo rispetto al solo gesto sportivo. Viva la corsa, viva la maratona, viva la vita! (http://bit.ly/2jopEOu) 
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arleckino · 6 years ago
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The Stars  https://www.youtube.com/watch?v=NXX0jQazwhk
  https://www.youtube.com/watch?v=NXX0jQazwhk L’abito che porta, la camicia bianca immacolata è la stessa che indossa per andare a scuola. Il medesimo completo giacca e pantaloni al ginocchio scuri, le calze di cotone bianco e le scarpette di vernice. Diversa la cravatta; niente simbolo dello istituto che frequenta su questa, ma solamente stoffa azzurra che fa sembrare i suoi occhioni grigio-azzurri, anche a causa della giornata assolata, di un celeste quasi abbagliante. Diversa, anche, la mano che tiene la sua nell’accompagnarlo lungo il vialetto costellato di villette a schiera. D’altronde non è scuola che sta andando; ma in visita. Non gli piace moltissimo andare a scuola, ma andare “in visita” è peggio. Innanzitutto zia Molly, al contrario della mamma che solitamente lo accompagna alle elementari, non fa altro che parlare, lo sommerge di complimenti e di rimproveri, di raccomandazioni e lodi, trascinandolo fino a sollevarlo praticamente da terra, le scarpette con il cinghietto che abbandonano la sicurezza del selciato. E’ forte, zia Molly, lanciatrice di cricket in una piccola squadra femminile, talvolta Aleck immagina che un giorno deciderà di lanciare lui a qualche miglia di distanza. Non che sia esattamente violenta. Non con lui almeno. Il cocco della zia, mica come quel lavativo del figlio Simon. Simon non obbedisce alla mamma, Simon non sa comportarsi bene, Simon non canta con voce da soprano inni al Regno delle Stelle, Simon non ha occhi color cielo variabile, ma i più prosaici occhi castani della stessa Molly e di Florence, la sorella di questa e madre del seienne Aleck. Non è Simon, dunque, che Molly Abernathy Floyd preferisce portare in visita alle dame di carità e alle altre signore timorate di Crocus. Talvolta Aleck vorrebbe somigliare un po’ di più al cugino, essere meno “speciale”, così lo lascerebbero tranquillo i pomeriggi festivi senza scuola. Trascinato dalla zia, non guarda nemmeno la scena di compagni di scuola che giocano per la strada in un vialetto dove poche vetture passano, sobborghi calmi in cui il tiro di un pallone o una sgommata in bicletta sono il massimo del caos. A Molly non piace che perda tempo a guardarsi in giro e lo trascina col doppio della forza. Lo assorda al doppio del volume. Quando si fermano, di fronte all’una o all’altra porta di legno laccato, però è peggio. China davanti a lui, la zia tira fuori da non sa dove un pettine e gli sistema la frangetta, gli stringe il nodo della cravatta che si è allentato, tira su una calza che si è arrotolata al polpaccio "Ma perché hai sempre una calza su e una giù, eh?" lo apostrofa. "Boh" risponde lui, il visino abbassato sulle scarpe di vernice. "Non rispondere sempre boh!" un dito ossuto e forte gli oscilla dinnanzi al naso un po’ appuntito. "E guarda le persone in faccia quando ti parlano!" Alza gli occhi, il piccolo Wendell, orlati da ciglia lunghe e nere, ma è solamente per un secondo che riesce a sostenere lo sguardo arcigno della parente. Poi, mentre è perduto in un mondo immaginario dove non esistono zie o visite, la porta si apre. "Buon pomeriggio! E questo è il piccolo Alex?" Una signora sovrappeso in un vestito rosa confetto e parecchio più anziana di sua madre o di zia Molly. "Mi chiamo Aleck" precisa con la voce appena stridula e rivolgendo lo sguardo in alto verso il volto dell’ospite come raccomandatogli. E’ costretto, tuttavia, ad abbassarlo subito e a infilare i pugnetti nelle tasche della giacca quando Molly quasi lo fulmina con i suoi occhi castani e aggiunge, quasi come se lui non fosse lì per sentire "Scusi mio nipote. Vive un po’ nel suo mondo" che, da quanto ha capito, è un modo per dire che lui è un po’ scemo. Le due si scambiano zuccherosi sorrisi ed ecco che si ritrova in un salotto simile a quello della zia, tutto ninnoli e immagini religiose con un divano verde e un tavolino su cui il servizio da té in ceramica e gli spuntini a base di tartine salate, scones e biscotti fanno mostra. "Ho sentito che questo bimbo va sempre in chiesa e canta anche nel coro, vero?" Non capisce se la donna, che Molly chiama Miss Everett, si stia rivolgendo a lui con una qualche perifrasi o se, ancora, le due stiano parlando come se lui non esistesse. "Rispondi!" si aspetta quasi che l’ordine perentorio della zia sia accompagnato da uno scappellotto, come usa fare con Simon, ma strascinamenti per la strada a parte, la zia non toccherebbe mai il suo prezioso e “speciale” nipotino. "Hmmm….la mamma mi porta in chiesa. Mi porta alle prove del coro, anche" Come a dire che non sono scelte sue, si limita ad adeguarsi. D’altronde a sei anni la maggior parte di ciò che fa non è per scelta sua. "Anche la zia" aggiunge. Molly sorride, Mrs Everett sorride, lui vorrebbe sorridere, ma ha perso di recente il suo primo dente da latte e nasconde la bocca dietro la manina arrossata per essere rimasta, chiusa a pugno, in tasca. "Gli dico sempre di non tenere le mani in tasca così! Sfonda tutte le fodere!" E’ venuto lì in visita o per sentire lodi e rimproveri come per tutta la strada? Ha adocchiato il té e i dolci e sa che per poterne mangiare senza essere maleducato, prima dovrà mostrare quanto è “speciale”. Questa signora, a differenza di altre, non possiede un pianoforte, quindi non ci sarà nessuno strumento ad accompagnare la sua pura, perfetta, celestiale voce di soprano nel canto. Al centro del salotto, una piccola macchia di bianco e nero, si erge tuttavia come se fosse più alto della zia stessa. Nel momento in cui il piccolo petto nella camicia candida si solleva per prendere fiato e dare vita alla prima nota, smette di sentirsi a disagio. La melodia è semplice, una vecchia canzoncina che anche la mamma gli cantava anni prima a mo’ di ninna-nanna, ma le due donne ora tacciono, ascoltando lui con la reverenza dovuta a un sacerdote. Si sente sollevato, sebbene rimanga con i piedini ben piantati per terra, si sente andare su in cielo con le stelle anche lui: un’ascesa lieve e priva di strattoni. La Galassia è un viale meno faticoso da percorrere di quello dove vive. Gli occhi sono chiusi e, quando la canzone finisce, li riapre su quel vecchio salotto pieno di ninnoli e immagini religiose, sulle due signore che ricominciano a lodarlo e si avvicinano per baciarlo e abbracciarlo. "Ma che bambino pieno di talento!" "Un dono del cielo, davvero!" Mrs. Everett gli sbava sulle guancia come un bulldog, al quale per altro somiglia parecchio, mentre Molly lo guarda con una fierezza che, in effetti, non ha mai visto negli occhi della mamma. Forse è per quello che sopporta di andare in visita. Oppure è per i brevi momenti di estasi infantile che prova mentre canta. Ora non ci sono più rimproveri, neppure da parte della zia, ma arruffamenti degli stessi capelli che poco prima era così fondamentale pettinare, moine e offerta di té e dolciumi. Si aggiusta la frangia colle dita ancora paffutelle, si liscia la giacca stroppicciata dagli abbracci "Ma che bimbo ordinato!" "Ha molte qualità, mio nipote, sì" Tronfia come e più che dopo una vittoria della squadra di cricket, la zia si erge davanti al tavolo con la tazzina in mano, bloccandogli l’accesso ad altre gustose leccornie. Approfittando di quei momenti in cui pare non possa far nulla di sbagliato, in virtù di una benedizione stellare che si è attirato grazie al suo canto, alza di nuovo la sua voce, stavolta non per un inno, ma per una prosaica richiesta: "Zia, posso prenderne ancora?" La zia si acciglia, ma la loro grassa ospite lo incoraggia a mangiare quanto vuole. "E te lo meriti!" poco ci manca che gli ficchi gli scones in bocca per forza. "E’ un bravo bimbo, ma un po’ piccolo per la sua età, no?" Le lodi ricominciano a cedere ai dubbi e ai velati rimproveri pronunciati come se lui non fosse presente. Ma non gli importa; la bocca piena di biscotti e di crema, assapora quella dolcezza mista con l’amarognolo del té fino a quando Molly sembra ricordarsi che il nipote che si sta ingozzando accanto a lei è assai più reale di quello probabilmente immaginario del quale sta tessendo, ancora, le lodi. "Basta ora. Ti sentirai male" "Mmm.Mmm" risponde, a bocca piena, sentendo in effetti un po’ di nausea. Ma ne vale la pena. Anche se escono dalla villetta di Mrs Everett in fretta e furia e gli strattoni di Molly rischiano di farlo vomitare per tutta la strada, l’unica cosa a cui pensa, l’unica cosa che vede sono le stelle, bianche come biscotti spruzzati di zucchero a velo, che splendono in cielo.
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pangeanews · 5 years ago
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“Il nemico, il nemico dentro me stesso, non si poteva certo debellare in maniera così facile e a buon mercato”. Hermann Hesse tra insofferenza e illuminazione. Esegesi de “La cura”
Una pausa, una parentesi, di due settimane. Una vacanza, o meglio, un rifugio salvifico in una località termale (Baden, per la precisione). Cosa ci può essere di più meritorio e, come si suol dire, rilassante per la pace interiore e l’affievolirsi del male esteriore, di un animo poetico e filosofico come quello di Hermann Hesse? La risposta è: nulla di tutto questo. Nelle pagine autobiografiche de La cura (Adelphi), il racconto di questa esperienza è quanto di più caustico e sferzante, si possa auspicare e attendere. Pagine che scorrono tra afflizioni, desolazione, fobie e insofferenza che a poco a poco ne mettono in dubbio fino ad un passo di farne a pezzi tutta l’innata o mostrata (in)sicurezza, illuminazione e convinzioni.
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Del lato ferale intriso di spassoso sarcasmo dello scrittore tedesco, il lettore attento si è potuto render conto nelle altre pagine autobiografiche di Viaggio a Norimberga (sempre edito da Adelphi). Ma qui le vette vengono superate. E, nel vero senso della parola, si ride (e si sorride) di gusto, scorrendo il fiume di insofferenza vergato in questo diario termale. Si ride (e si sorride) di gusto già dalla discesa dal treno. E l’immensa gioia dello scrittore nel vedere, attorno a se, gente più sofferente di lui: “Mi fermai dunque e subito osservai questi ‘segnati’. Ed ecco, quei due o tre o quattro individui avevano tutti un’espressione più cupa della mia, si appoggiavano forte ai loro bastoni, stringevano le natiche con più spasimo, posavano i piedi a terra con maggiore trepidazione e malumore, erano – tutti quanti – più sofferenti, più meschini, più malati e più da compiangere di me, e ciò mi fece un gran bene e , durante tutto il mio tempo a Baden, mi fu di un inesauribile, sempre rinnovato conforto il vedere che tutt’intorno a me zoppicavano, si trascinavano, sospiravano, andavano in carrozzella persone ch’erano molto più inferme di me, che assai meno di me avevano motivo di nutrire speranza e buon umore”. Può bastare la gioia della sofferenza altrui? Non per Hermann Hesse, che anzi si fa vanto della propria superiorità: “No, era evidente e doveva saltare agli occhi di chiunque il passo agile e svelto con cui discendevo quel bel viale e che poco uso facevo – giocandoci, quasi – della mia canna, ridotta a un puro ornamento (…) insomma con che disinvolta energia me ne andavo per quella strada, com’ero giovane e sano in confronto a tutti quei fratelli e sorelle più anziani, più miseri e più infermi, i cui acciacchi si presentavano in modo così chiaro, scoperto, inesorabile”.
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Mai più fugace fu questa gioia. Ora arriva il momento di dover prendere una stanza nell’albergo che lo ospiterà. E per Hesse, è l’inizio della catastrofe: “prendere una camera è, per le persone normali, una bazzecola, un atto qualunque e per nulla emotivo, che si sbriga in due minuti. Per noi altri, invece, per noi nevrotici, insonni e psicopatici, quest’atto banalissimo, fantasticamente complicato da ricordi, ansie e fobie, diventa un martirio. Il gentile albergatore, la simpatica signorina che su nostra trepida e insistente richiesta, ci mostrano e ci raccomandano la loro ‘camera tranquilla’, non immaginano nemmeno la tempesta di associazioni, di timori, di ironie e autoironie che quella fatale parola scatena in noi. Come le conosciamo bene, profondamente e orrendamente bene, quelle camere tranquille, quei teatri delle nostre più atroci sofferenze, delle nostre più dolorose sconfitte, delle nostre vergogne più segrete!”.  Scelta, a malincuore, la camera illusoriamente più sicura e lontana da ogni fastidio e pericolo, ecco comparire il nemico, sotto le sembianze di un ignaro e qualunque signore olandese. Per Hesse cominciano l’insofferenza e la desolazione. Insofferenza, desolazione che tracimano nell’odio, per lo sprovveduto vicino. E si scorrono tra i passi più spassosi di questo libercolo: “Quando me ne stavo a letto, impedito dal sonno dell’olandese, febbricitante di stanchezza e di un appagato desiderio di quiete, e sentivo nella camera accanto il mio vicino muovere i suoi passi sicuri, solidi, sazi, fare i suoi movimenti sicuri e gagliardi, emettere le sue note vigorose, provavo contro di lui un odio piuttosto veemente. (…) Alla fine non serviva più a nulla ch’io ricordassi e dimostrassi a me stesso la personale innocenza dell’olandese. Ormai lo odiavo e basta, e non solo nei momenti in cui mi veniva realmente disturbando, quando nel cuor della notte il suo camminare, parlare e ridere a pieno volume erano forse davvero una mancanza di riguardo. No, oramai lo odiavo, in piena regola, di quell’odio autentico, ingenuo e stupido con cui un piccolo commerciante cristiano privo di successo può odiare gli ebrei o un comunista i capitalisti, di quell’odio stupido, bestiale e irragionevole e in fondo vile o invidioso che tanto deploro negli altri. (…) Non odiavo più soltanto la sua voce, ma lui stesso, la sua persona reale, e quando, durante il giorno, m’imbattevo in lui, ignaro e contento, mi pareva d’incontrare un mio nemico dichiarato, uno che voleva il mio danno, e tutta la mia filosofia mi serviva soltanto a non manifestare esteriormente ciò che sentivo”. Hesse sembra non trovare alternative: “Bello era il pensiero di uccidersi in uno dei soliti modi, già più volte presi in esame, con quel sentimento del suicidio così tipicamente infantile. Bella era anche l’altra prospettiva, quella di affrontare, invece di me, l’olandese e strozzarlo o sparagli un colpo, sopravvivendo vincitore alla sua brutale, indifferenziata, vitalità”. Ma Hesse, rimane comunque Hesse. Il Nostro non può alla fine fare a meno di attingere dal suo animo spirituale, poetico e al tempo stesso infantile: “Il nemico, il nemico dentro me stesso, non si poteva certo debellare in maniera così facile e a buon mercato. Quel che occorreva non era vendicarsi dell’olandese, ma solo assumere, nei suoi confronti, un atteggiamento valido e degno di me. Il mio compito era chiarissimo: dovevo demolire il mio odio così privo di valore, doveva amare quell’olandese. Se mi riusciva di amarlo, non c’era più salute né vitalità che gli servisse, allora era mio”.
*
Le pagine proseguono in bilico tra scoramento ed entusiasmo per l’alternarsi delle sue condizioni di salute.  Lo vediamo, in passi che tanto avrebbero divertito l’immenso Tommaso Landolfi, entusiasmarsi per il gioco d’azzardo, fino a elevarlo ad esperienza mistica. Lo scopriamo avverso al cinema e la musica da sottofondo e quindi ai souvenir venduti nei negozi.  Fino all’epilogo, al ritorno a casa, alle ultime parole, trascritte da casa. L’ animo di Hesse, si fa via via via più disarmato e disarmante, con la dolcezza della persuasione di cui è maestro, nel bene e nel male. “Non c’è malato che con un solo passo, foss’anche quello attraverso la morte non possa ridiventar sano ed entrare nella vita. Non c’è peccatore che con un solo passo, foss’anche quello che lo porta al patibolo, non possa ridiventare innocente e divino. E non c’è uomo intristito, sbandato e apparentemente ridotto a zero che un solo cenno della grazia non possa rinnovare all’istante, facendone un bimbo felice”. Le tre ultime pagine sono di fulgida bellezza. Sull’impossibilità, tanto cara a tanti scrittori prima di lui e dopo di lui (ogni scrittore ha in sé motivazioni autentiche, antitetiche, inavvicinabili, inconciliabili rispetto a qualunque altro scrittore riguardo quest’impossibilità), di esprimersi pienamente con le parole. Vi tocca leggervele. Sono una gioia per gli occhi.
Cosimo Mongelli
L'articolo “Il nemico, il nemico dentro me stesso, non si poteva certo debellare in maniera così facile e a buon mercato”. Hermann Hesse tra insofferenza e illuminazione. Esegesi de “La cura” proviene da Pangea.
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lamilanomagazine · 1 year ago
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Latina, Silvio Orlando "La vita davanti a sé" al Teatro Comunale D’Annunzio di Latina
Latina, Silvio Orlando "La vita davanti a sé" al Teatro Comunale D’Annunzio di Latina Si aprirà il 30 novembre la vendita dei biglietti degli spettacoli, ma sarà ancora possibile abbonarsi alla stagione 2023-24 del Teatro D’Annunzio a cura del Comune di Latina e ATCL, circuito multidisciplinare del Lazio, sostenuto da MIC Ministero della Cultura e Regione Lazio. Si inizia il 5 dicembre ore 21 con Silvio Orlando, che cura anche riduzione e regia, in LA VITA DAVANTI A SÉ di Romain Gary (Emile Ajar), traduzione di Giovanni Bagliolo (edizione Biblioteca Neri Pozza), con in scena Daniele Mutino fisarmonica; Roberto Napoletano percussioni; Luca Sbardella clarinetto/sax; Kaw Sissoko kora/djembe. Pubblicato nel 1975 e adattato per il cinema nel 1977, al centro di un discusso Premio Goncourt, La vita davanti a sé di Romain Gary è la storia di Momò, bimbo arabo di dieci anni che vive nel quartiere multietnico di Belleville nella pensione di Madame Rosa, anziana ex prostituta ebrea che ora sbarca il lunario prendendosi cura degli “incidenti sul lavoro” delle colleghe più giovani. Un romanzo commovente e ancora attualissimo, che racconta di vite sgangherate che vanno alla rovescia, ma anche di un’improbabile storia d’amore toccata dalla grazia. Silvio Orlando ci conduce dentro le pagine del libro con la leggerezza e l’ironia di Momò diventando, con naturalezza, quel bambino nel suo dramma. Un autentico capolavoro “per tutti” dove la commozione e il divertimento si inseguono senza respiro. Inutile dire che il genio di Gary ha anticipato senza facili ideologie e sbrigative soluzioni il tema dei temi contemporaneo la convivenza tra culture religioni e stili di vita diversi. Il mondo ci appare improvvisamente piccolo claustrofobico in deficit di ossigeno. I flussi migratori si innestano su una crisi economica che soprattutto in Europa sembra diventata strutturale creando nuove e antiche paure soprattutto nei ceti popolari, i meno garantiti. Se questo è il quadro quale funzione può e deve avere il teatro. Non certo indicare vie e soluzioni che ad oggi nessuno è in grado di fornire, ma una volta di più raccontare storie emozionanti commoventi divertenti, chiamare per nome individui che ci appaiono massa indistinta e angosciante. Raccontare la storia di Momo’ e Madame Rosa nel loro disperato abbraccio contro tutto e tutti è necessario e utile. Le ultime parole del romanzo di Garay dovrebbero essere uno slogan e una bussola in questi anni dove la compassione rischia di diventare un lusso per pochi: BISOGNA VOLER BENE SILVIO ORLANDO in LA VITA DAVANTI A SÉ traduzione Giovanni Bagliolo edizione Biblioteca Neri Pozza tratto dal romanzo “La Vie Devant soi” di ROMAIN GARY Emile Ajar © Mercure de France, diritti teatrali gestiti dalle edizioni Gallimard con il nome di “Roman Gary” come autore dell’opera originale e con Daniele Mutino fisarmonica, Roberto Napoletano percussioni, Luca Sbardella clarinetto/sax, Kaw Sissoko kora/djembe Scene Roberto Crea, disegno luci Valerio Peroni, costumi Piera Mura, organizzazione Maria Laura Rondanini, direzione tecnica Luigi Flammia, datore luci Federico Calzini, fonico Gianrocco Bruno, management Vittorio Stasi Riduzione e regia di SILVIO ORLANDO produzione Cardellino srl - Teatro Comunale D’Annunzio: viale Umberto I n. 43 - Latina - Botteghino del teatro: aperto giovedì e venerdì ore 16-19; sabato ore 10-13 e 16-19 - E nei giorni di spettacolo da 1 ora prima - Biglietti on line su ticketone.it - Info: 0773 652642; [email protected] Abbonamenti - Platea: Intero 180 € - Ridotto 170 € - Palchi platea, I Galleria, Palchi galleria I ord: Intero 170 € - Ridotto 160 € - II Galleria, Palchi galleria II ord: Intero 150 € - Ridotto 140 € Biglietti - Platea: Intero 27 € +d.p. - Ridotto 25 €+d.p - Palchi platea, I Galleria, Palchi galleria I ord: Intero 25 € +d.p. - Ridotto 23 €+d.p. - II Galleria, Palchi galleria II ord: Intero 22 € +d.p. - Ridotto 20 €+d.p... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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lospeakerscorner · 5 years ago
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Dio ha tanto amato il mondo, ma l’uomo no: uccide, ruba e, quel che è peggio, è assente… Venerdì 27 dicembre la veglia di preghiera dei presbiteri porticesi
di Stanislao Scognamiglio
PORTICI (NA) –  Nella piazza Padre Salvatore Iovino antistante la chiesa parrocchiale di Sant’Antonio di Padova in via dell’Università nella serata di venerdì 27 dicembre si è tenuta la veglia di preghiera Per amore del mio popolo non tacerò.
Alla veglia oltre ai presbiteri che esercitano il loro apostolato nel territorio della Città di Portici, hanno preso parte numerosi cittadini, alcuni dei quali appartenenti ad Associazioni laicali   impegnate nel sociale.
Eccetto la presenza di due consiglieri comunali d’opposizione, nonostante l’accorato invito loro rivolto, è stata evidenziata la totale assenza dei rappresentanti delle Istituzioni civiche e degli organi d’informazione locali.
La veglia è stata presieduta dalla terna di sacerdoti: monsignor Raffaele Galdiero, decano, don Giorgio Pisano e fra Roberto Sdino.
La preghiera in chiesa è stata intervallata dagli interventi vocali e musicali, eseguiti:
dagli strumentisti del coro parrocchiale di Sant’Antonio di Padova,
dall’attore Ernesto Lama, che con vibrante ed emozionante voce ha letto la lettera, scritta e diffusa nel 1991, da don Peppe Diana, parroco della chiesa di San Nicola di Bari in Casal di Principe, in provincia di Caserta, con la quale chiedeva un impegno civico contro la camorra dei Casalesi;
dal cantautore Nero Nelson, che ha interpretato il suo brano ’A verità.
Seguendo la Croce, sacerdoti e popolo, infine, si sono portati in processione nel piazzale, delimitato da un ampio striscione su cui campeggiava la scritta policroma Per amore del mio popolo non tacerò.
La veglia è stata chiusa con la lettura a più voci dell’Appello alla città: per una città sicura che si cura, sottoscritto da tutti i presbiteri.
Si riporta per intero il testo dell’Appello
Dio infatti ha tanto amato il mondo
 da dare il Figlio unigenito, perché
 chiunque crede in lui non vada perduto,
 ma abbia la vita eterna
(Gv.3,16)
Una persona uccisa a Portici, nella nostra città…
Tante le considerazioni da fare. Incominciando dai moti dell’animo. Un essere umano è stato privato della sua vita. Una famiglia di un padre. All’antivigilia del Natale del Signore, un’immagine che sconvolge il presepe che richiama armonia e gioia. C’è un anti-presepe in atto. Un omicidio non è mai una cosa giusta. Qualsiasi siano le colpe dell’ucciso.
In tanti, si corre. Verso dove?
Il traffico insopportabile della città, il flusso strombazzante ed esasperato delle auto che esalano veleni malefici. La gente distratta da tentativi di acquisti. I commercianti speranzosi di vendere qualcosa per pagare le molteplici ed esose tasse.
Intanto in V. Università, nei pressi di un bar, c’è un uomo riverso per terra.
Il volto triste da parte di alcuni, desolato di altri. I commenti, le chiacchiere, la curiosità della gente comune. Altra gente si ferma, in silenzio ad osservare. Il quartiere è spaventato.  
Sembra che sia la droga a comandare ancora di più, oggi nella nostra città e avere la meglio. A causa di una domanda incalzante da parte di tantissimi “acquirenti”, giovani e adulti, il mercato di essa è diventato ancora più florido. Persone di tutti i ceti sociali l’assumono.
Continue piazze di spaccio, nascono dall’oggi al domani. Tanti sotterfugi per vendere la morte. La malavita si arricchisce e, a differenza del passato, porta a morire i suoi giovani gregari, i quali, per compiere atti criminali, ricorrono alla stessa “roba”.
La dipendenza da droghe viene nascosta da parte di alcuni, mal celata da parte di altri, evidente ancor più, da tanti altri. Immaginiamo cosa succede durante le prossime feste.
Maledetta droga!  Maledetta camorra.
Le forze dell’ordine alle prese con un omicidio che sconvolge la città. Gli sforzi di queste persone in divisa che cercano di operare con impegno, sembrano essere neutralizzati dai facili domiciliari concessi agli spacciatori, chiamiamoli pure con un già rodato inglesismo: pusher. Essi purtroppo, continuano a smerciare morte.
I diversi tentativi di Comunità parrocchiali e di alcune associazioni e insegnanti, a favore di giovanissimi sembrano vani. Tanti ragazzi appaiono già persi e incamminati sulla via del farsi male e del fare il male.
Ma non è così! Non deve essere così.
C’è una linea di bene che continua e che non bisogna estinguere. Il contagio è necessario. Mai fermarsi. Occorre un sussulto degli animi. Occorre risvegliarsi come famiglie e aprirsi già nei propri condomini per estirpare le radici dell’indifferenza e dell’isolamento.
Il Natale del Signore è un’opportunità di vita e di speranza per intraprendere nuove strade… per tornare ad essere umani. Cristo si è incarnato nella nostra umanità. Impariamo con Lui a fare il bene che non è un’esibizione per vendere prodotti.
Avere a cuore la città iniziando dalle piccole cose di ogni giorno. Da ciò che sembrano dettagli. Ma non lo sono: una persona anziana che attraversa la strada, un auto che è ferma sulle strisce pedonali, un ragazzo che spinella ordinariamente tra la gente, un bimbo di pochi anni che tenta di camminare per strada, al Viale L. da Vinci, davanti ai suoi genitori e viene sbalzato da un passante frettoloso e distratto. E così potremmo continuare… a lungo.
Scopriamo l’importanza di essere cittadini, di abitare dignitosamente la città collaborando con le istituzioni, adoperandoci con azioni efficaci di volontariato. La costanza premia. Iniziamo ad essere cittadini. Ognuno per la sua parte. A nessuno manchi la possibilità di partecipare ad un nuovo presepe vivente, che duri di più, anzi per sempre. Occorre scegliere da che parte stare.
Tante dichiarazioni non mancheranno da parte di tutti. E anche il tentativo di discolparsi e accusare altri. Basta!
Riscopriamo altri “brindisi” da fare che non rendono brilli in tanti nelle nostre piazze. Riscopriamo la gioia dello stare insieme serenamente.
Pertanto ci raduneremo presso la Chiesa di s. Antonio in v. Università venerdì 27 dicembre alle 19.30.
Occorre risvegliarsi dal torpore prima che sia troppo tardi. Questo Natale è un’opportunità. Viviamolo in pienezza! Che vinca la Vita!
                                                                                                                I presbiteri di Portici 
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Veglia di preghiera contro la camorra Dio ha tanto amato il mondo, ma l’uomo no: uccide, ruba e, quel che è peggio, è assente...
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tmnotizie · 5 years ago
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SAN BENEDETTO – Freekì  Summer Kids il Villaggio dei Bimbi è una manifestazione per i piu piccoli, un evento per i bimbi, un festival estivo per i Freekì. Il nome è l’unione di Free (libero in lingua inglese) e Kì (energia in lingua giapponese) che vanno a comporre la parole Freekì che letta suona come nel dialetto sambenedettese bimbo.
Quattro giorni di puro divertimento con magie, animazione, attrazioni, acrobazie, trampolieri, mangia fuoco, trucca bimbi gonfiabili, giochi antichi, spettacoli a tema cartoon, tra cui Frozen, Pigiamini, Minion, teatro delle marionette, e mascotte.
Da mercoledì 31 luglio a sabato 3 agosto, dalle 18:00 alle 24:00, fra Viale Buozzi, Pineta Buozzi e Viale Pasqualetti ad ingresso libero. In Via Pasqualetti,  gli “Antichi giochi di squadra”, tra giocoleria acrobatica ed equilibrismo.
Sotto la pineta Buozzi, un enorme parco giochi gonfiabile, una zona per il gaming elettronico, e area biliardino.
In Viale Buozzi il palco di 13 metri, sul quale si esibiranno musicisti e ballerini in svariati musical, con tema cartone animato.
Numerose scenografie, e stand gastronomici con menu bimbi e riso soffiato. Organizzano: Assessorato al Turismo San Benedetto del Tronto, Tavolo del Turismo,  Associazione Albergatori “Riviera delle Palme”.
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sportpeople · 7 years ago
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Deve essere stata un’estate di tanti anni fa. Forse 1998 o 1999. Una di quelle accaldate. Quelle che finita la scuola passavi per strada a giocare a pallone aspettando l’uscita del nuovo album Panini. A gennaio dell’anno successivo. Una tortura.
C’erano i bambini sani, quelli che oggi definirebbero adatti alla friend zone, che ingannavano questa attesa comprando album “fasulli”. Brutte copie dell’originale che ti davano comunque l’opportunità di avere qualcosa in mano. Qua a Roma, per esempio, ne uscirono un paio (davvero ben fatti devo dire) sulle due squadre capitoline, con tanto di piccoli approfondimenti storici.
Questi pargoli friendzonati si esaltavano stringendo tra le mani un Del Piero, un Baggio o un Baresi.
A me dava immensamente fastidio invece l’assenza totale di scudetti e squadre di Serie B e C. Tutte le volte, a settembre, mi rifiutavo di collezionare i “falsi d’autore” in attesa dei maestri Panini.
Così in quella calda estate fu mia nonna a togliermi di testa album, scudetti e squadre. Chiedendomi di seguirla ben oltre le Mura Aureliane. Nel suo paese nativo: San Paolo di Civitate. Provincia di Foggia, a pochi chilometri dal confine con il Molise.
Per un bimbo malato di calcio gli unici colori che potessero venire alla mente quando la macchina varcò il confine della Puglia via Candela, non potevano che essere il rosso e il nero. Ovviamente racchiusi nello stemma con i satanelli. Ricordavo una figurina di Igor Kolyvanov attaccata sul mio diario delle elementari. Forse un doppione mai scambiato. O forse la voglia di imprimere quel suo sguardo severo (addirittura rammento di averne avuto timore nell’incrociarlo) nelle mie giornate di piccolo alunno. Chissà.
Forse fu in quei giorni di estate torrida, lontano da Roma e immerso nella semplicità paesana, che scoprii la mia attrazione per il calcio che non sta sotto i riflettori o che non si esalta per i grandi nomi. Andammo in un mercato una mattina. Francamente non ricordo se fosse a Torremaggiore o a Lucera. Ma ricordo che come un forsennato cercavo una qualsiasi cosa del Foggia da riportare a Roma a mo’ di reliquia. Vent’anni fa avere materiale di squadre che non fossero Milan, Inter e Juve era molto più complicato di quanto si pensi. Non c’erano Ebay e Amazon. Men che meno i social network. Credo che il mercatifo fosse la versione più evoluta per scambiarsi del materiale.
Con una parte delle 20/30.000 Lire messe da parte con le paghette mi aggiudicai un gagliardetto, un cappello e una sciarpa su cui c’era scritto Regime Rosso Nero. Cosa volesse dire lo capirò dopo qualche anno. Quando l’occhio si sposterà lentamente dal campo agli spalti. E quando anche quell’ultima ondata di “Foggia mania” creata dai superbi anni novanta dei dauni andrà spegnendosi, lasciando spazio a campionati anonimi, al fallimento e a una mesta ripartenza dalla Serie D.
A casa conservo una cartolina di Foggia. È il piazzale della Villa Comunale. Dietro c’è una data: 1956. E una dedica. Fatta da mia nonna a mio nonno, al tempo impegnato nella leva obbligatoria. Voglio iniziare da qua il mio racconto, sperando che nessuno si sia tediato se mi sono permesso questa lunga introduzione. Del resto ho tardato nello scrivere questo racconto, giusto che infligga ai miei lettori anche l’obbligo relativo al nostalgismo. Sono prolisso e logorroico quando scrivo, ne ho coscienza.
Non è la prima volta che vengo a Foggia. Ma è la prima volta che ci vengo da quando i rossoneri sono tornati in Serie B. So di trovare una piazza affamata. E so che quest’anno la Puglia avrà davvero tanto da offrire. A cominciare dal ritorno di una classica: quel derby con Bari che manca in campionato ormai da troppi anni. Certo, c’è la sfida di Coppa Italia della passata stagione, ma con la trasferta chiusa ai foggiani vale davvero poco. Sarà difficile, a naso, imporre divieti simili in campionato. Per questo mi sento di dire che Foggia-Bari e Bari-Foggia saranno senza dubbio due tra gli appuntamenti più importanti dell’intera annata calcistica.
Oggi però a scendere sul manto verde dello Zaccheria c’è un’altra nobile del calcio nostrano: il Perugia, che se vogliamo negli ultimi anni ha avuto un percorso calcistico molto simile a quello dei pugliesi. La ripartenza dai dilettanti, la scalata dei campionati e l’arrivo in cadetteria, dove è ormai in pianta stabile da qualche stagione.
Il Grifo arriva nel Tavoliere con il potenziale favore del pronostico, in virtù di un buon campionato disputato fino alla giornata precedente, che ha coinciso con la rocambolesca sconfitta patita per mano della Pro Vercelli (1-5). Un risultato che ha fatto scaturire non poche polemiche in terra umbra.
Quando l’orologio segna le 18 la città si è ormai ampiamente riversata per le strade del centro e tanti ragazzi con la sciarpa rossonera si muovo all’impazzata verso lo stadio. Chi sorseggiando una birra, chi mangiando un gelato e chi – di gusto – mandando giù un cartoccio di scagliozzi (cubetti di polenta fritti, tipici di queste parti).
Anche io raggiungo molto presto lo Zaccheria e rispetto all’ultima volta in Serie C noto subito come il servizio d’ordine sia raddoppiato nei suoi effettivi. Malgrado tra foggiani e perugini non ci sia una rivalità sentitissima lo schieramento è di quelli ingenti e alla fine ne faranno le spese i supporter umbri, arrivati al casello di Foggia abbondantemente prima del fischio d’inizio e costretti ad entrare a match iniziato. Col solito trattamento all’italiana e il classico menefreghismo verso chi ha deciso di spendere un giorno infrasettimanale per una trasferta non tra le più vicine e agevoli.
L’impianto di Viale Ofanto merita sempre menzione per la sua bellezza e la sua spiccata attitudine al calcio, con gli spalti attaccati al campo, l’assenza della pista d’atletica e le gradinate da pochi anni ripitturate di rossonero che trasmettono ai suoi avventori neutrali un bel senso d’appartenenza. Inoltre sembrano lontani anni luce i giorni del dilettantismo e del primo ritorno in Serie C, quando i Distinti rimanevano chiusi e la capienza subiva una forte limitazione. Come detto Foggia ha fame di calcio e la progressiva scalata ha fatto tornare a riempire spazi dello stadio che si credevano chiusi per sempre.
Sono 12.849 gli spettatori presenti e – benché non sia sold out – è comunque un numero significativo. Anche se vanno tenute presenti le limitazioni alla capienza che ancora persistono. Del resto togliere posti al pubblico calcistico è divenuta una delle maggiori prerogative dei cervelloni che gestiscono l’ordine pubblico in fatto di manifestazioni sportive.
Già in fase di riscaldamento le due curve si fanno sentire e quando le squadre scendono in campo in Sud vengono alzate tutte le sciarpe con uno striscione nella parte centrale che con un imperativo categorico ordina di “Vincere!”, mentre la Nord si produce in una sciarpata arricchita dall’accensione di molti “flash”. Il risultato è ovviamente di quelli importanti.
Un incessante rullio di tamburi in ambo i settori spinge spesso lo stadio a partecipare e complessivamente si ha l’idea che giocare allo Zaccheria non sarà facile per nessuno. Non è una novità, ma di questi tempi trovare l’intero pubblico che segue le curve e rumoreggia spesso in maniera assordante, lascia comunque un ottimo retrogusto che sa di soddisfazione. Si ha l’idea che l’avvocato o l’impiegato comunale di turno da queste parti non si facciano influenzare dal falso buonismo imperante nella nostra società e varcando i cancelli dello stadio lascino fuori il proprio status sociale “sporcandosi le mani” nella melma popolana chiamata “tifo”.
Andando nello specifico devo dire che la prestazione della Nord è stata davvero di alto livello. Tifo incessante per tutti i 90′, cori eseguiti praticamente dalla prima all’ultima fila, materiale sempre bello e curato e un portamento ultras da far impallidire tante piazze blasonate che in Serie A si decantano con presunzione. Analizzando la Sud va sottolineato – anche là – un buon tifo portato avanti per tutta la partita, sebbene si abbia la chiara idea che sia un settore occupato anche da molti tifosi “normali” i quali, anche cantando e partecipando al bel frastuono prodotto dal tifo, hanno un atteggiamento più “spontaneo”.
Complessivamente parliamo di una bella prestazione che viene coronata dalle caotiche esultanze ai due gol che permettono al Foggia di battere i dirimpettai per 2-1.
Venendo agli ospiti, come mi è capitato di dire spesso incrociandoli negli ultimi anni, con i perugini si va sempre sul sicuro. Che siano 50 o che siano 2.000. Entrati in ritardo si posizionano con le classiche pezze dei gruppi e pian piano carburano macinando tifo e compattandosi ogni minuto che scorre sul cronometro. Tifo continuo, bandieroni tenuti sempre in alto, torce che non mancano mai, una bella sciarparta nella ripresa e il gusto di stuzzicare di tanto in tanto gli avversari. Insomma, una certezza.
Al fischio finale, mentre tutto lo stadio festeggia e inizia a ritirare striscioni e pezze, gli umbri (forse per recuperare il tempo persona all’inizio) continuano a tifare e stuzzicare i padroni di casa, ricevendo immediatamente risposta. È un piacere osservare la voglia che c’è da ambo le parti di calcare i gradoni e lasciare il segno in questa serata.
Non posso trattenermi più di tanto, avendo il pullman per Roma poco dopo. Così anche io sistemo la mia attrezzatura e mi dirigo verso la stazione. Sta per finire questo particolare venerdì ottobrino. Ed io lo saluto definitivamente addormentandomi sul torpedone che a tutta velocità taglia il Sud in due percorrendolo da Est a Ovest.
Simone Meloni.
Foggia-Perugia, Serie B: l’importanza di collezionare album Panini Deve essere stata un'estate di tanti anni fa. Forse 1998 o 1999. Una di quelle accaldate. Quelle che finita la scuola passavi per strada a giocare a pallone aspettando l'uscita del nuovo album…
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sissimum · 7 years ago
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Ad ogni edizione di Pitti Bimbo, la sfilata di Monnalisa è semplicemente the place to be.
Le ragioni sono tante: non solo una sfilata che presenta l’intera collezione Spring/Summer 2018, ma anche una scenografia eccezionale in una location di eccezione (parole ridondanti, ma aspetta le foto… e mi darai ragione!). Anche quest’anno Monnalisa ha incantato buyer e stampa selezionati ospitandoli nel complesso di Giardino Corsini al Prato, nel centro storico di Firenze.
Sai che amo l’architettura e la storia dell’architettura, un po’ per formazione (e deformazione) professionale e un po’ per passione personale: prima dimostrarti Monnalisa e la sua sfilata, voglio quindi raccontarti qualcosa su questa splendida location, che normalmente è visitabile (quindi se fai un giro a Firenze… segnala sulla tua Moleskine!)
Il Giardino di Villa Corsini al Prato: location di eccellenza
Attualmente il Giardino Corsini, così come il Palazzo, è visitabile. Durante il mese di maggio ospita la manifestazione Artigianato & Palazzo, nata nel 1995 da un’idea di Neri Torrigiani e promossa dalla principessa Giorgiana Corsini, principalmente per rivalutare e rinquadrare ai giorni nostri la figura dell’artigiano e del suo lavoro.
Nel 1591 Alessandro Acciaiuoli chiese a Bernardo Buontalenti di progettare un casino di delizie con un grande giardino su un terreno sul Prato d’Ognissanti. Buontalenti realizzò il complesso impianto idraulico per condurre l’acqua alle fontane, con i tracciati per i percorsi delimitati da rare e sontuose spalliere di cedri, la loggia e le grandi finestre inginocchiate. Nel 1620 la famiglia Corsini acquistò la proprietà e incaricò Gherardo Silvani di completare la residenza e il giardino. Silvani realizza un classico giardino all’italiana, piuttosto in voga in quel periodo storico, delimitato da grandi limonaie, con aiuole geometriche e siepi di bosso. Le conche dei limoni e il viale centrale con le statue costituiscono una vera e propria scenografia e palesano il gusto barocco dell’architetto. Per ottenere un effetto di maggiore profondità prospettica, i basamenti delle statue sono di grandezze diverse. Nel giardino c’è anche un piccolo labirinto, ottenuto utilizzando delle siepi di alloro, tre piantagioni di limoni e due piccoli boschetti dove la famiglia Corsini amava rilassarsi e rinfrescarsi dalla calura estiva.
Per molto tempo usato prevalentemente come residenza estiva dei Corsini, dal 1834 diventò abitazione permanente di Neri Corsini di Laiatico e sua moglie. Il giardino ospita circa 180 piante di agrumi, ha tre grandi limonaie e vagano liberamente un centinaio di tartarughe di una colonia secolare.
Puoi accedere da Via del Prato 58 oppure Via della Scala 115.
  Monnalisa SS18: la sfilata
Scenografia della sfilata SS18 di Monnalisa è il loggiato del palazzo del Buontalenti, coperto per l’occasione da tralci fioriti, così come il viale di accesso che sembra davvero nato per accogliere la passerella.
Continua a leggere perchè ti racconto la sfilata ANCHE dal suo punto di vista 😉
La collezione Primavera/Estate 2018 Monnalisa è all’insegna di uno stile gioioso ed effervescente: fiori e stampe trionfano allegri, come negli anni ’70. Le stampe di tendenza sono tropical o floreali, in romantici broccati. Gli abiti hanno uno stile vagamente gipsy, con scolli alla baiadera e gonnelloni a vita alta con cascate di rouches, oppure sono in pizzo, con tanti volants in georgette. Le bambine impazziranno per i corpetti in paillettes e le gonne a corolla. Il trend del bomber non si arresta: il classico chiodo diventa iperfemminile con i ricami floreali e diventa perfetto anche per la stagione calda grazie al tessuto extralight oppure si illumina di paillettes con maniche in nylon e fantasie tropical sovrastampate. Inaspettate le cappe, corte e in broccato lurex con maniche a campana. Per le gonne la parola d’ordine è volume: a ruota o a teli, meglio se in tulle multistrato, illuminate dal lurex e movimentate da balze. I pantaloni abbracciano lo stile seventies con gamba leggermente a zampa con orli sfrangiati, cropped con bande metalliche o parachute in divertenti righe effetto pigiama. I top diventano micro, spesso increspati con maxi maniche a palloncino, o in impalpabile mussola con frange in tripolino.
Ci hai seguito su Instagram Stories in diretta (trovi anche i video sulla pagina Facebook di SissiWorld), ecco ora tutte le foto della sfilata firmate Emily Kornya (premi le frecce per scorrere 😉 )
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La grande novità Monnalisa SS18: MONNALISA FOREVER, la capsule per mamma e bambina
Quante volte hai detto, guardando la tua bimba vestita Monnalisa, che vorresti i suoi abiti per te? Dalla primavera/estate 2018 il tuo desidero diventa finalmente realtà: Monnalisa ha creato una capsule per mamma e bambina con dodici outfit e due capispalla speciali, in taglie mini, ripensati per la mamma, per un ironico “Maxi You”. Non un mini-me in cui le bimbe scimmiottano noi donne adulte, ma finalmente abiti coordinati da indossare insieme, per sentirsi più vicine e per sorridere della propria somiglianza, ma studiati per le fisicità della mamma e della bimba. I capi donna sono sviluppati nelle taglie XS-S-M-L e hanno la vestibilità adattata alle mamme di oggi: irresistibili abiti gipsy in georgette fantasia per le più ironiche, abito a trapezio con stampa calle per le più bon ton, completo in tulle con blusa con maniche a campana per le più spiritose, mini chiodo in ecopelle ricamato per le più rock, tunica in pizzo per le più romantiche. Finalmente indossare un abito Monnalisa sarà davvero senza età, sarà davvero FOREVER.
La sfilata vista con gli occhi di… Sissi
Sei curiosa di sapere cosa ha pensato Sissi? Non era la prima sfilata alla quale assisteva ed è abituata a vivere in mazzo ad abiti, macchine fotografiche, eventi… insomma, non è stata colpita da un abito in particolare o dall’abito da principessa come ci si potesse aspettare da una bimba della sua età: il suo occhio analitico di bambina di 5 anni e mezzo è caduto su alcuni capi chiave, quelli che mi ha chiesto di acquistare immediatamente!
Il suo pezzo preferito (anche il mio, onestamente):
I top con la pancia scoperta hanno letteralmente illuminato i suoi occhi:
Infine alcuni dettagli, accessori speciali come: il cerchietto con la veletta, i guanti lunghi rigorosamente bianchi e la borsetta. E alla mia domanda “Ma quando li indosserai?” la sua risposta lapalissiana è stata “Ovviamente quando mi cambio dopo la scuola e usciamo insieme, magari a fare shopping”.
Tra le varie collezione presentate alla sfilata Monnalisa SS18, la mia preferenza come gusto, come mamma e come blog di moda bambini va sicuramente a Jakioo (la collezione più trendy e casual, che veste dai 6 ai 16 anni), che rappresenta una ragazzina quasi impertinente, che indossa uno stile streetwear in cui risaltano le stampe Tropical, i bomber in paillettes, pantaloni parachute a righe e maxi maniche.
  #kidsfashion Pitti Bimbo 85: la sfilata di Monnalisa SS18. Pronta a sognare? #monnalisa #pittibimbo85 Ad ogni edizione di Pitti Bimbo, la sfilata di Monnalisa è semplicemente the place to be…
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