#Cosimo Mongelli
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pangeanews · 4 years ago
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Che fine hanno fatto i librai? Un vero libraio deve consigliare l’inconsigliabile. Passeggiata in libreria con Robert Walser
Non frequento molto il mondo al di fuori delle concilianti mura di casa, se non per inoltrarmi pei boschi o varcare la soglia della libreria, l’unica rimasta (gli empori non m’interessano e m’angosciano) ad avere ancora un libraio, nella triste città dove vivo. Luca, è questo il nome del libraio, deve pur campare. Ed è inevitabile che debba assecondare l’incapacità di discernere tra il sublime e l’indegno e il pessimo gusto dei clienti. Luca, in cuor suo, consiglierebbe l’inconsigliabile. Gli ho fatto conoscere Thomas Bernhard e i romanzi altri e alti di Nabokov. È stato lui a iniziarmi a Simenon e Marai. Ed è sempre lui che ordina i carteggi di Proust per regalarli alla persona amata. E quando varco la soglia del suo mondo sa già che non ha bisogno di dirmi quale novità sia stata pubblicata, soprattutto quando questa novità è adornata da insulse fascette riguardanti vituperati e sviliti premi letterari. Ma non tutti i librai sono come Luca. Non esistono forse più nemmeno, i librai. 
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La mia fantasia, quindi, spesso disegna inopinati quanto spassosi scenari: tra i tanti e mai troppi libri da lui acquistati ce n’è uno, in particolare, che cela tra le sue pagine proprio la scena perfetta, quella che tanto mi piacerebbe vivere e impersonare. Il libro è La passeggiata di Robert Walser, forse il testo più alto dello scrittore svizzero; e la scena perfetta è quella del protagonista che entra (appunto) in una libreria: “Una ben fornita libreria mi attrasse straordinariamente e mi venne voglia di dedicarle una visita fugace, sicché non esitai ad entrarvi con molto garbo, supponendo naturalmente di avere più l’aria di un severo revisore contabile, di un ispettore, di un collezionista di novità e fine intenditore, che non di un ricco , amato e ben accolto compratore e buon cliente. Con voce cortese e sommamente riguardosa, usando – non occorre dirlo – le più elette espressioni, m’informai di tutto ciò che di nuovo e migliore offriva il campo delle belle lettere. ‘Posso’ chiesi timidamente ‘conoscere e apprezzare sul momento quanto v’è di più valido e di più serio e al tempo stesso (s’intende) di più letto e prontamente ammirato e acquistato? Ella mi obbligherebbe in modo eccezionale se mi volesse usare la compiacenza di esibirmi il libro che, come nessuno può sapere meglio di lei, ha ottenuto il maggior favore sia tra il pubblico che legge, sia presso la temuta e perciò vezzeggiata critica, e il cui successo continua a mantenersi vivo’. In verità m’interessa sommamente apprendere quale sia, fra le opere della penna qui accumulate o messe in mostra, il fortunato libro in questione, la vista del quale farà di me, con ogni probabilità, un acquirente sollecito, lieto, entusiasta. Il desiderio di vedermi dinanzi lo scrittore prediletto dal mondo della cultura, nonché il suo ammirato e freneticamente applaudito capolavoro, per poi, come le dissi, comprarlo subito, mi pervade con tutte le membra. ‘Potrei cortesemente rivolgerle la più viva preghiera di mostrarmi questo libro d’impareggiabile successo, sicché l’ansia che si è impadronita di me si plachi e cessi alfine di agitarmi?’. ‘Con piacere’ disse il libraio. Ratto come una freccia sparì dalla mia vista, per poi ripresentarsi un attimo dopo all’avido amatore tenendo il libro di non effimera validità, venduto e letto più di ogni altro. Quel prezioso parto dell’intelletto era da lui recato con la stessa solenne compostezza di una reliquia santificante. Il suo volto era estatico; l’espressione irradiava sommo rispetto. Con le labbra atteggiate a quel sorriso che proprio solo di chi sia intimamente compenetrato, egli depose innanzi a me, col fare più suadente, l’oggetto della sua pronta ricerca”.
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E, nel continuare a tessere la mia fantasticheria, immagino il solerte libraio recar tra le sue mani Il colibrì di Sandro Veronesi. Ma si può sostituire l’altissimo romanziere con un Missoroli o una Ferrante senza intaccare il raccapriccio. E m’immagino recitare proprio queste parole, immagino la scena dipanarsi proprio come nel romanzo di Walser: “Io gettai al libro uno sguardo severo e chiesi: ‘Può lei giurarmi che questo è il libro di maggior successo dell’anno?’. ‘Senza dubbio’. ‘Può affermare che questo è il libro che bisogna assolutamente aver letto?’. ‘Assolutamente’. ‘È davvero un bel libro?’. ‘La sua domanda è del tutto superflua e inopportuna!’. ‘La ringrazio molto’ dissi imperturbabile, lasciai dove si trovava il libro che aveva ottenuto il massimo successo di vendita perché bisognava assolutamente averlo letto, e uscii senz’altro aggiungere, ossia in perfetto silenzio. ‘Uomo ignorante e incolto!’ non mancò di gridarmi dietro il libraio, nel suo giustificato corruccio. Ma io lo lasciai dire e continuai per la mia strada”.
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Ora, il romanzo di Walser è stato pubblicato nel 1919 e, come scrive Calasso: “basterebbe confrontare i libri degli ultimi vent’anni con quelli apparsi nei primi vent’anni del Novecento. Confronto che risulterebbe schiacciante, in sfavore del presente”. Ma le parole, i versi, gli scritti dei grandi rimangono e rimarranno sempre immortali e visionari. Robert Walser mi ha insegnato e ci ha insegnato come affrontare le librerie o quel che ne rimane nella tetra rappresentazione odierna. Intanto squilla il telefono: è Luca che mi avverte che Sotto il ferro della luna, la raccolta di poesie di Thomas Bernhard è arrivato. Due copie. Le due copie che ci spartiremo.
Cosimo Mongelli
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tmnotizie · 6 years ago
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SAN BENEDETTO – Marco Trionfante, con la compagnia Gli O’Scenici, ripropone, dopo il grande successo riscosso in diverse città d’Italia , la commedia brillante “L’Acchiappa Vedove“. Appuntamento in programma per sabato 6 aprile presso il teatro San Filippo Neri di San Benedetto del Tronto alle ore 21.15.
Lo spettacolo teatrale vedrà Marco Trionfante, regista e attore protagonista, nei panni di Eduardo Palumbo, personaggio che incarna alla perfezione la genialità e l’arte di arrangiarsi tipica del popolo napoletano. La sua professione, oltre che vocazione ed arte, sarà la consolazione delle vedove. I suoi ferri del mestiere saranno, dunque, gli annunci mortuari.
È lì che, con l’occhio infallibile di una sicura esperienza, sceglie la sua merce. La classifica, la selezione, la valuta. Non basta leggere “La vedova inconsolabile”; deve essere anche priva di parenti collaterali della buonanima, disporre di mezzi sufficientemente comodi. Soprattutto, non aver superato una certa età; essere, cioè, ancora nella stagione in cui può essere consolata senza che ciò comporti un eccessivo sforzo da parte del consolatore.
Ed è così che si susseguono le vicende che porteranno Palumbo a trovarsi nei guai in quanto non riuscirà a districarsi tra vedove e mariti gelosi. Sotto la regia di Marco Trionfante sul palco Antonio Talamonti, Sonia Tartabini, Cristian Mecozzi, Nadia Olivieri, Emy D’Erasmo, Alessandro Cameli, Alfonsina Vannucci, Piero Mongelli, tecnico audio-luci Cosimo Guadalupi.
Biglietti: Intero 10€, ridotto 5 €. Informazioni 0735 566172 – 392 160 3029 (lun-ven 9:00 – 18:00). Biglietti direttamente al botteghino oppure online https://www.eventbrite.it/e/biglietti-spettacolo-teatrale-lacchiappa-vedove-55822368206
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pangeanews · 4 years ago
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“Tutto ciò che possediamo o produciamo, tutto ciò che si sovrappone al nostro essere o da esso precede, ci snatura e ci soffoca”. Sul delirio del progresso e del “meglio”: Emil Cioran
Riecheggia nell’aria da settimane lo stonato ritornello che canta di un auspicato ritorno alla normalità. Con il sottinteso, tragicomico, che per l’agognato ritorno a siffatto status quo bisogna affidarsi alla tecnologia, perché il nostro futuro dipende dalla tecnologia, la nostra felicità dipende dalla tecnologia, il mondo intero dipende dalla tecnologia. E chi se ne fotte che non solo Dio, ma anche l’anima, la cultura, la ricerca dell’infinito e dell’inferno, dei fantasmi e dei demoni siano morte: importa solo che in tutte le nostre strade ci sia la fibra.
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Di solito rifuggo il mondo lì fuori (o qui fuori), perché non m’appartiene e mi dà la nausea. Ma poi un sorriso mi pervade quando mi rendo conto che il mondo lì fuori (o qui fuori) è talmente scontato, banale e previsto, che non vale la pena nemmeno lasciarsi intaccare o deprimere.  E quindi, questo desiderio di ritorno ‘alla normalità’, quando la normalità (nella sua sana accezione) la si è persa da decenni, diventa ai miei occhi l’ulteriore manifestazione di pochezza dell’umana specie. Così come questa delirante aspirazione e assuefazione alla tecnologia e alle macchine quale unica salvezza. Senza il minimo dubbio che dietro l’angolo ci sia solo e soltanto una dissipatio. C’è Guido Morselli che annuisce, qui accanto a me; ma è Emil Cioran, che mi tende la mano. A cui tendo la mano.
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Mi indica il suo memorabile scritto La caduta nel tempo (edito da Adelphi, sia sempre lode a Calasso), lo prendo dalla libreria e ne colgo dei sanguinosi stralci: “Se il ‘progresso’ è un male così grande, come mai non facciamo nulla per disfarcene senza ulteriori indugi? Ma noi vogliamo il bene? O non siamo piuttosto destinati a non volerlo realmente? Nella nostra perversità, quel che cerchiamo e inseguiamo è il ‘meglio’: ricerca nefasta, del tutto contraria alla nostra felicità. Non ci si ‘perfeziona’ né si progredisce impunemente. Sappiamo bene che il movimento è un’eresia; e proprio per questo ci tenta, ci avventiamo su di esso e, irrimediabilmente depravati, lo preferiamo all’ortodossia della quiete. Eravamo fatti per vegetare, per dispiegarci nell’inerzia, non per perderci nella velocità. (…) Avemmo dovuto, pidocchiosi e sereni, limitarci alla compagna delle bestie, marcire ancora accanto a loro per millenni, respirare l’odore delle stalle piuttosto che quello dei laboratori, morire delle nostre malattie e non dei nostri rimedi, girare attorno al nostro vuoto e sprofondarvi dentro dolcemente. All’assenza, che avrebbe dovuto essere un dovere e un’ossessione, abbiamo sostituito l’evento: ora, ogni evento ci intacca e ci corrode, poiché non si produce se non a scapito del nostro equilibrio e della nostra durata. Più il nostro avvenire si restringe, più ci lasciamo cadere in ciò che ci rovina. La civiltà, che è la nostra droga, ci ha talmente intossicati che il nostro attaccamento ad essa presenta i caratteri di un fenomeno di assuefazione, mescolanza di estasi e di esecrazione”. 
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Cioran sembra aver scritto queste parole domani. Parole che fra decenni, fra secoli, saranno ancora visionarie. Parole che rimangono e rimarranno inascoltate. Il progresso, la tecnologia, tutti gli orpelli inutili spacciati (il verbo è quanto mai voluto) quali necessari. Bisogna rifarsi ancora a Emil, autore sempre poco letto e sempre più necessario: “La civiltà ci insegna come impadronirci delle cose, mentre dovrebbe iniziarci all’arte di privarcene, giacché non c’è libertà né ‘vita vera’ senza il tirocinio dello spossessamento. Io mi approprio di un oggetto, me ne considero padrone, in realtà ne sono schiavo, come sono schiavo dello strumento che fabbrico e maneggio. Non c’è nuova acquisizione che non significhi una catena in più, un fattore di potenza che non sia causa di debolezza. (…) Tutto ciò che possediamo o produciamo, tutto ciò che si sovrappone al nostro essere o da esso precede, ci snatura e ci soffoca”.
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Non vivrò abbastanza decenni per vedere deragliare questo treno in corsa. Ma cercherò di viverli, questi decenni, cercando di affrancarmi dalla ‘normalità’. Perché, per chiudere ancora con Cioran: “Come guarire dall’ossessione dell’assoluta ‘normalità’? Come fare per essere un salvato o un decaduto qualunque? La nullità, l’abiezione, qualsiasi cosa, piuttosto che questa perfezione malefica!”.
Cosimo Mongelli
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pangeanews · 4 years ago
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“Non faceva che rimanere in piedi davanti alla finestra, assorto in una delle sue trasognate soste”. Elogio di Bartleby lo scrivano, l’uomo che ha detto “NO”
Se si sondano i mari, se si ascoltano le onde con attenzione, lontani dal frastuono dell’inane civiltà, s’ode ancora il respiro di Moby Dick, provenire dal profondo degli abissi. Eppure, questi abissi, vacillano e diventano aridi deserti al cospetto di quello più profondo, scritto e raggiunto da Herman Melville: quello della follia di Bartleby; Bartleby lo scrivano. Romanzo dimenticato, forse, romanzo di rara meraviglia (come di rara meraviglia è l’edizione della SE, con traduzione e postfazione di Gianni Celati). Romanzo che racconta la storia di un impiegato, quel che agli occhi di chi ama i folli e rifugge l’angustia della normalità dovrebbe essere l’impiegato modello. La voce narrante è quella di un avvocato di Wall Street, una Wall Street che è pronta a diventare il centro dell’economia americana e quindi mondiale. E sin dalle prime righe c’è un atto di rinuncia, di resa, al cospetto di Bartleby, che relega ogni altro personaggio del romanzo a mera comparsa.
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“Sono un uomo piuttosto anziano. La natura della mia professione, negli ultimi trent’anni, mi ha portato ad avere contatti fuori dal comune con ciò che si direbbe un interessante ed alquanto singolare genere di individui, dei quali fino ad ora, ch’io sappia, nulla è stato scritto: mi riferisco ai copisti legali, ovvero scrivani. In gran numero ne ho conosciuti, sia per pratica di lavoro che a titolo personale, e, quando volessi, potrei narrare variate storie, che forse farebbero sorridere le persone benevole, e forse farebbero piangere le anime sentimentali. Ma rinunzio alla biografia d’ogni altro scrivano per pochi momenti della vita di Bartleby”. 
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E sono davvero pochi, questi momenti. Ma che valgono vite intere. Eppure tutto inizia con una banale assunzione: “In risposta ad un’inserzione, un immobile giovanotto comparve un bel mattino sulla soglia del mio ufficio, essendo la porta aperta perché s’era d’estate. Rivedo ancora quella figura – scialba nella sua dignità, pietosa nella sua rispettabilità, incurabilmente perduta! Era Bartebly. Dopo pochi cenni sulle sue qualifiche, lo assunsi, lieto d’aver nel mio corpo di copisti un uomo dall’aspetto così singolarmente composto, che, pensai, avrebbe potuto influire in modo benefico sull’indole caoitca di Turckey, non ché su quella impetuosa di Nippers”. E Bartleby sembra subito disporsi in maniera diligente, solerte e maniacale al suo impiego di copista. “All’inizio Bartebly svolse una straordinaria quantità di lavoro scritturale. Quasi fosse da lungo tempo affamato d’alcunché da copiare, egli pareva pascersi con ingordigia dei miei documenti. Non si concedeva pausa per la digestione. Si dava da fare notte e dì, copiando sia con la luce del sole che al lume di candela. Mi sarei senz’altro compiaciuto di tanta solerzia, se fosse egli stato allegramente operoso. Invece continuava a scrivere in silenzio, con moto scialbo e meccanico“.
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Ed è quel silenzio a nascondere i prodromi di un baratro, baratro che si palesa agli occhi dell’inerme avvocato, quando c’è da chiedere a Bartleby un lavoro diverso da quello del copista: la verifica di un documento. “In tale posizione sedevo, quando lo chiamai, spiegando in fretta cosa desiderassi da lui, ovvero, che esaminasse con me un breve documento. Immaginate la mia sorpresa, meglio, la mia costernazione, quando, senza muoversi dal suo privato, Bartleby con voce singolarmente mite, ma ferma replicò ‘avrei preferenza di no’. Rimasi per qualche istante seduto in perfetto silenzio, cercando di riavermi dallo sbigottimento che m’aveva preso. Lì per lì m’accadde di pensare che le mie orecchie non avessero udito bene, o che Bartleby avesse del tutto frainteso ciò che intendevo dire. Ripetei la mia richiesta con voce più chiara che potei, ma, con tono altrettanto chiaro, mi giunse la medesima risposta dinanzi udita ‘avrei preferenza di no’. ‘Preferenza di no?’ gli feci eco, alzandomi con grande eccitazione, e attraversando la stanza d’un balzo. ‘Come sarebbe a dire? Cosa vi prende? Voglilo che m’aiutate ad esaminare codesto foglio, prendetelo’ e glielo gettai. ‘Avrei preferenza di no’ diss’egli”.
*
“Avrei preferenza di no”, questa risposta, queste parole cominciano a riecheggiare, ripetersi, come una sorta di cantilena, sortilegio e incantesimo assieme. L’avvocato potrebbe, dovrebbe disfarsi di tale insolente sottoposto, ma ne subisce il fascino, ne è quasi in balìa: “Mi ricordai che mai parlava se non per rispondere, che quantunque a tratti avesse considerevoli lassi di tempo a sua disposizione mai l’avevo veduto leggere: no, neppure un giornale; che per lunghi periodi egli restava all’impiedi innanzi alla sua pallida finestra oltre il paravento, guardando là fuori quel cieco muro di mattoni; ero abbastanza certo che mai mettese piedi in un refettorio o trattoria, che mai egli si recava in nessun luogo particolare in cui potessi aver notizie, che s’era rifiutato di dirmi chi fosse, e donde venisse, e se avesse qualche parente la mondo, che , quantunque così scarno e pallido, mai aveva egli lamentato una cattiva salute. E più di tutto, ricordai una certa, inconsapevole, aria di sbiadita, come potrei dire? , di sbiadita altezzosità, diciamo, o piuttosto un austero riserbo, che m’aveva positivamente impressionato sino a rendermi docile complice delle sue stranezze”.
*
Ma ecco giungere un giorno. Il giorno. Bartleby fa un passo oltre. Fa il passo per addentrarsi definitivamente nel non luogo da dove era giunto per avventurarsi impunemente nel reale: “All’indomani notai che Bartebly altro che non faceva che rimanere in piedi davanti alla finestra, assorto in una delle sue trasognate soste innanzi a quel muro cieco. Avendogli io domandato perché non scrivesse, egli rispose che aveva deciso di non scrivere più”. Impossibile per l’avvocato e per i comuni mortali arrivare solo a sfiorare il significato di quel rifiuto. Rifiuto divenuto oramai definitivo. Ma si vorrebbe essere con lui, con Bartleby, a guardare fuori da quella finestra. Per capire il significato. Il significato definitivo. Le pagine scorrono, la storia continua, ma sarebbe invero un torto verso chi non l’avesse letta e ne avesse la curiosità, svelarne e dipanarne il finale. Ma una volta chiuso il libro, non si può fare a meno di aspettare l’occasione o di cercarla, l’occasione. Per rispondere, ad una qualsiasi richiesta: “avrei preferenza di no”.
Cosimo Mongelli
*In copertina: Rembrandt, “Autoritratto con gorgiera”, 1629
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pangeanews · 4 years ago
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Cosa ne è di Adelphi? Piccola preghiera di un lettore affezionato: tornate a essere ciò che eravate, pubblicate meno scienziati e giornalisti e più Cvetaeva
Recensire un libro prima che sia pubblicato e prima ancora che se ne sia sfogliata una pagina, non è indice di eleganza. Recensire un libro prima che si sia pubblicato e prima ancora che se ne sia sfogliata una pagina, se si conoscono l’autore e la casa editrice, è forse lungimiranza e monito. L’autore in questione è Michele Manseri, giornalista che scrive di “economia, case e cultura” sul Foglio, il Sole 24 ore e Rivista Studio. Quindi non uno scrittore, non un romanziere, non una penna da cui aspettarsi vergato il suo stesso sangue, sulle pagine. Il suo esordio in narrativa, Addio Monti edito da Minimum Fax, francamente prescindibile. Approda ora alla corte di Calasso (che sembra sempre meno presente nel tessere le trame della sua casa editrice). Steve Jobs non abita più qui è un titolo allettante come una goccia cinese, che sembrerebbe non centrare nulla con Adelphi, con i suoi splendidi color pastello e copertine. Sembrerebbe. Bisogna tornare ai mesi della quarantena, ai mesi in cui il virus era l’unico argomento possibile per quasi (quasi) tutti. I mesi in cui un titolo, Spillover di David Quammen (giornalista anche lui) uscito già nel 2014 e ignorato dai più, si è tramutato nel tomo più venduto dell’anno (e parlo di luglio). Uno dei più venduti da Adelphi da quando è sorta. Uno dei più letti da soprattutto da chi non legge.  La trama, l’inchiesta, le oltre 600 pagine (seicento pagine le leggo solo se sei Tolstoj, Joyce o Vasilij Grossman), dedicate a un pipistrello che diffonde un virus.  Noia abissale e avvilente. Con buona pace di Camus e Manzoni che, sulle epidemie, hanno scritto capolavori immortali e soprattutto più attuali di qualsiasi cosa scritta da marzo a oggi (ma anche dal 1800 in poi). Di Quammen Adelphi ha quindi, annusando la pecunia, pubblicato (e ripubblicato) altri titoli nel corso delle successive settimane. Ma forse non è questo il punto.  La domanda che ci si pone, nasce da un’involontaria  “giusta” osservazione di Nicola Lagioia, in un’imbarazzante (per Lagioia) intervista a Roberto Calasso qualche settimana or sono, a corollario di un’ancor più imbarazzante  edizione del Salone del Libro. Intervista al culmine della quale, dopo una sequela di domande alle quali, Calasso, ha cercato di rispondere celando il disagio, si è arrivati a concludere che “Adelphi si sta gettando alle spalle il Novecento”. Con la replica sin troppo educata e forse anche rassegnata da parte di Calasso: “Non so bene che cosa significherebbe “gettarsi alle spalle il Novecento” e non mi sembra fattibile, oltre che non augurabile. Non mi sembra che il secolo successivo abbia offerto finora qualcosa di meglio”.
*
Ecco, appunto, cos’ha da offrire il secolo attuale? Di certo non i libri di Nicola Lagioia. Cos’ha da offrire ancora Adelphi? Gli autori pubblicati che sono le fondamenta di questa casa editrice continuano ad essere editi con parsimoniosa regolarità: Simenon (prima o poi si esauriranno i capolavori dello scrittore francese), Singer, Bernhard. Certo, tra le ultime uscite abbiamo accolto con gioia Rilke e Maugham. Ma, parlo da affezionato e feticista (anche compulsivo) accumulatore di tomi Adelphi, quel che manca o che sembra mancare è l’intuito per scoprire, scavare o ricercare nel nuovo così come quello per recuperare autori mai pubblicati e che sarebbe ora riemergessero dall’oblio, dal buio e dalle tombe. Se per il nuovo, la mancanza d’intuito, può essere perdonabile (la bellezza nel nuovo è merce rara e bisogna davvero esser miracolati), per gli autori dimenticati no. Sia sempre lode ad Adelphi per averci fatto leggere autori immensi quali Tommaso Landolfi, Giorgio Manganelli, Guido Morselli. Ma ora sembra mancare il fiuto, sembra mancare davvero qualcuno che si ponga di fianco a Calasso o che ne erediti la saggezza, la cultura, la spaventosa fame di letteratura e poesia che lacerano l’anima e le carni. Di Roberto Calasso, come è ovvio, non ne nascono molti. Ma attorno ad Adelphi, vi sono case editrici che del nuovo e del riscoperto stanno facendo tesoro. Penso ad Aragno o Iperborea. Alla sempre misteriosa, ineffabile e inafferrabile SE. Tutte case editrici che fanno di forma e sostanza un’entità unica e sublime. I grandi editori sono per lo più inavvicinabili e spesso illeggibili. Adelphi è sempre stata una casa editrice a parte, quella cui classe e sacralità son sempre parse inarrivabili. Qualcosa, pare, scricchiolare. Scriveva Calasso ne “l’impronta dell’editore” che “Un buon editore è quello che pubblica circa un decimo dei libri che vorrebbe e forse dovrebbe pubblicare”. Che ogni libro pubblicato genera un’ombra e tutte queste ombre “ci fanno cenni da luoghi remoti, da spazi che sono tuttora immensi, in attesa di essere di nuovo evocate, nella forma usuale di pagine da leggere”. Chissà se è rimasto ancora qualcosa di questa filosofia. Sarebbe davvero un peccato relegare quei libri color pastello nell’angolo di quelli superflui.
*
Postilla: son passati alcuni giorni da questo scritto e, in attesa che venga dato alle stampe, mi accorgo, come sempre, di aver ragione. Se solo ne fossi più convinto, di aver sempre ragione. Spulcio tra le anteprime di Adelphi di mezza estate e cosa vedo? Una raccolta di racconti minori di Simenon, Annette e la signora bionda. Racconti minori e quindi relegati direttamente (e giustamente) in edizione “gli Adelphi” (i tascabili, per i poveri) e quindi la riedizione di un altro scienziato, il tanto osannato quanto prescindibile (per chi si ciba di libri) Oliver Sacks: Allucinazioni. Se voglio leggere riguardo la mente umana e i suoi deliri, leggo Dostoevskij, leggo Thomas Bernhard. Di certo non un neurologo. Io, umile e fallibile lettore, sarò sicuramente smentito, nei mesi e negli anni a venire. In Via S. Giovanni sul Muro, se mai verranno a sapere di queste mie righe, rideranno brindando con quello buono. Prima dell’annunciata pubblicazione di un inedito Guido Morselli, prima ancora di tutte le poesie di Marina Cvetaeva, tradotte da Serena Vitale e finalmente incorniciate dai color pastello. Se togliamo lo sporadico (per quanto colmo di beltà) Sonecka, son passati trentun’anni dal meraviglioso Deserti luoghi.  Sarebbe ora di porvi rimedio.
Cosimo Mongelli
*In copertina: Roberto Calasso, la fotografia è tratta da qui
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pangeanews · 4 years ago
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“Il mondo non è mai stato così vivo come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo”. Ho deciso: passo le ferie con Guido Morselli
La notte, sovente, porta consiglio. A volte porta fantasmi attorno al mio letto, altre ancora incubi e sogni che si rincorrono. Altre ancora, più semplicemente, un temporale. Di quelli che sembrano voler lanciare un monito alla caducità umana. Di quelli che, in un torrido agosto, portano una parentesi di aria respirabile. Cosa c’è di meglio quindi per un solitario, l’indomani, che prendere un libro tra le mani e sedersi su una panchina di un parco approfittando della frescura tregua? E, tra le mani, ho il libro adatto. Il libro perfetto: Dissipatio H.G. di Guido Morselli. Perché è un libro di profezia e predizione. Un libro di verità e derisione. Derisione della razza che più si è messa in ridicolo, in questi mesi: quella umana.
*
Non spreco il ticchettar dell’orologio per vergare strali filosofici o anatemi sul come, la razza umana, appunto, si sia trovata impreparata e ignorante al cospetto di un virus. Si sono affrontate (nonostante qui e lì si è udito qualche delirante ‘è peggio che’) pestilenze, conflitti e catastrofi imparagonabilmente peggiori. Ma se devo rammentare la peculiarità (sempre della razza umana) che più è risaltata in questo scorcio di tempo, è la presunzione. La presunzione che l’esser costretti tra le mura domestiche per qualche settimana fosse l’inizio della fine. Della fine del mondo. Quando invece, per il mondo e la natura lì fuori, era l’inizio. Un nuovo (anche se illusorio) inizio. Ed ecco qui, Guido Morselli, a raccontarcelo, a descriverlo in maniera magistrale. Il protagonista, unico rimasto dopo la dissoluzione della razza umana, contempla proprio la natura: “Non cercata, ho una prova che l’Evento non è una chimera, un’invenzione mia. In mezzo ai binari vedo sfilare una famiglia di camosci. Due femmine, un maschio e i cuccioli. Scesi a valle dai monti. Mai accaduto a memoria d’uomo. Del resto ho notato qualche alto segno di buon auspicio: gli uccelli fanno un baccano indiavolato, si sono moltiplicati. Sono ricomparsi molto numerosi, con mio piacere perché li ho sempre apprezzati, in senso musicale, i notturni. Le strigi, i gufi, gli allocchi, e le civette, s’intende. L’istinto li avverte di una novità in cui certo non speravano; il grande Nemico si è ritirato. Non ci sono più i fumi nell’aria, a terra non ci sono più i puzzi e frastuoni. (O genti, volevate lottare contro l’inquinamento? semplice: bastava eliminare la razza inquinante). Può darsi che questo scorcio di primavera freddo, nebbioso, li incoraggi”.
*
Chi non coglie la verità, la bellezza, la saggezza, la summa del significato di questo nostro mondo in queste parole, la può forse intravedere in quelle seguenti o almeno farsi venire il dubbio. E chi disperava, non conoscendo e ignorando guerre e pesti passate, che costretti a rinunciare alla movida e all’aperitivo del sabato sera, ci saremmo presto estinti tracimando, con il mondo, verso la sua fine, può esser qui riassunto in maniera definitiva: “La fine del mondo? Uno degli scherzi dell’antropocentrismo: descrivere la fine della specie come implicante la morte della natura vegetale e animale, la fine stessa della Terra. La caduta dei cieli. Non esiste escatologia che non consideri la permanenza dell’uomo come essenziale alla permanenza delle cose. Si ammette che le cose possano cominciare prima, ma non che possano finire dopo di noi. Il vecchio Montaigne, sedicente agnostico, si schierava coi dogmatici, coi teologi: ‘Ainsi fera la mort de toutes choses notre mort’. Andiamo, sapienti e presuntosi, vi date troppa importanza. Il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo. Non è mai stato così pulito, luccicante, allegro”.
*
Finisco il libro, giusto il tempo per ripiombare nella realtà (quella appena descritta da Morselli: la razza umana dissolta), accorgermi di un tizio sulla panchina di fronte che parla a un orologio (non è una metafora) e un gruppo di ragazzi e ragazze che camminano non guardandosi e non parlandosi. Impegnati in altre e altrettanto alienanti occupazioni. Perché perdersi in queste sciocchezze da misantropo: è ora di andare in ferie. Il confinamento (gli anglicismi li lascio agli stolti) è finito giusto in tempo perché si potessero occupare spiagge, ristoranti giapponesi e locali da ballo. Il mio (confinamento) continua invece tra i libri. E non è affatto un vanto il mio, anzi, vi consiglio di starne alla larga sempre e comunque. Dai libri. Buone vacanze.
Cosimo Mongelli
*In copertina: Alfred Kowalski-Wierusz, “Il lupo”, 1914
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pangeanews · 4 years ago
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“E tutto il peso esterno precipitò, nel buio del cuore”. Vagare per i boschi insieme a Rilke e a Salvatore Satta
Mi capita sempre più spesso di voler fuggire dagli umani o quel che ne è rimasto. Passerei volentieri l’esistenza immerso nella mia biblioteca, a tuffarmi nelle pagine o a vergar parole, mie, quelle poche che riesco a cavare dall’indolenza del mio animo. Ma l’aria, la luce del sole, le ombre degli alberi, son lì che mi attendono, proprio dietro casa. Proprio dietro la porta. C’è uno squarcio di mondo al di là e al di fuori della mia stanza, dove posso trovar riparo e rifugio. Basta far due passi, prendere un sentiero e quindi ritrovarmi in un bosco. I fastidiosi rumori cittadini svaniscono. Non s’odono urla, trilli, squilli, clacson e tutti quei disumani suoni che straziano la mia essenza palesandosi e rendendomi come Bartleby, protagonista, scrivano, di un meraviglioso racconto di Melville.
*
Erano settimane che non lo cercavo, il bosco, erano settimane che non mi addentravo in quel bosco. Ma qualcosa, due giorni or sono, m’ha chiamato. Sentivo l’attrazione, il richiamo, da quei luoghi di luci e ombre, attraversati e osservati da nessuno. Decido di uscire, conto tutti i miei passi, mi lascio portare da quei passi fin dentro la solitudine più estrema. L’unica traccia, sensata e romantica, dell’uomo in quella solitudine è una panchina. Bisogna camminar parecchio per poterla raggiungere, ma me la raffiguro, la immagino, la disegno nel tragitto che mi separa da essa. E quindi eccomi, e quindi eccoci.
*
Ho tra le mie mani, come ovvio che sia per un solitario sventurato come me, un libro. “Storie del buon Dio” di Rainer Maria Rilke, nella splendida edizione SE e nell’altrettanto splendida traduzione di Giorgio Zampa. L’ho già letto tre volte e l’invito della natura mi sembra il palcoscenico adatto per la quarta. Rilke parla della morte all’amico paralitico Ewald, affacciato alla finestra: “Quanto ha detto mi richiama alla mente una fanciulla. Si può dire che essa, i primi diciassette anni della sua vita serena, non avesse fatto che guardare. I suoi occhi erano tanto grandi e tanto liberi che tutto quanto ricevevano lo spendevano, mentre nel corpo della giovane creatura la vita scorreva indipendente, alimentata da semplici intimi rumori. Ma in quell’anno appunto un brusco evento turbò quella vita doppia che appena si sfiorava, gli occhi irruppero all’interno, e tutto il peso esterno precipitò, attraverso loro, nel buio del cuore, ogni giorno precipitava con tanta violenza per quegli sguardi ripidi e profondi che il cuore, nella stretta del petto, si frantumò come una coppa. La fanciulla si fece pallida, la salute le scemò, divenne solitaria per restare coi suoi pensieri, e da ultimo essa stessa cerco quel silenzio in cui certo nulla più turba la meditazione. (…). Affogò. In uno stagno quieto e profondo, sulla cui superficie si disegnarono tanti anelli che lentamente si allargarono scivolando sotto le bianche ninfee, che si agitarono tutte”.
*
Quanta inaudita bellezza, devo, voglio tuffarmi ancora e ora posso sedermi. Ma il mio sguardo cade proprio sulla panchina, il mio sguardo s’accorge che abbandonato ad essa giace solitario un altro libro. Attorno non c’è anima viva, nemmeno in lontananza s’odono passi o s’intravedono ombre. Il libro è “Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta. Una prima edizione Adelphi, del 1979. In rilievo il timbro SIAE, il prezzo, di nessuna importanza, in lire. Non c’è alcun codice isbn (verrà qualche anno dopo) a occupare la copertina. Sembra nuovo, mai sfogliato, appena dato alle stampe. Salvatore Satta, uno dei tanti postumi, pubblicati postumi e apprezzati postumi. “Il giorno del giudizio”, libro che parla di morte e di morti: “non si muore, si vive, è questa la verità che sembra ovvia, è invece gravida di conseguenze, perché la vita trasforma tutto, non c’è nulla che resista alla sua implacabile volontà”. Salvatore Satta, dalle pagine che leggo avidamente, ne scrive (di morte e di morti) in maniera diversa da Rilke. Non è di certo poeta. Nessuno è poeta come Rilke. E la sua visione, di morte e dei morti, non coincide esattamente con la mia. Ma le parole scorrono vivide e vive, c’è comunque del fuoco che arde dentro e dietro. E la cosa che più m’ha preso e sorpreso, del romanzo, dello scritto, del lascito del bosco è che è diviso in due parti. La seconda delle quali consta nemmeno una pagina: “Riprendo, dopo molti mesi, questo racconto che forse non avrei dovuto mai cominciare. Invecchio rapidamente e sento che mi preparo una triste fine, poiché non ho voluto accettare la prima condizione di una buona morte, che è l’oblio. Forse non erano Don Sebastiano, Donna Vincenza, Gonaria, Pedduzza, Giggia, Baliodda, Dirripezza, tutti gli altri che mi hanno scongiurato di liberarli dalla loro vita; sono io che li ho evocati per liberarmi della mia senza misurare il rischio al quale mi esponevo, di rendermi eterno. Oggi, poi, di là dai vetri di questa stanza remota dove io mi sono rifugiato, nevica: una neve leggera che si posa sulle vie e sugli alberi come il tempo sopra di noi. Fra breve tutto sarà uguale. Nel cimitero di Nuoro non si distinguerà il vecchio dal nuovo: ‘essi’ avranno un’effimera pace sotto il manto bianco. Sono stato una volta piccolo anch’io, e il ricordo mi assale di quando seguivo il turbinare dei fiocchi col naso schiacciato contro la finestra. C’erano tutti allora, nella stanza ravvivata dal caminetto, ed eravamo felici poiché non ci conoscevamo. Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti resusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale. È quello che ho fatto io in questi anni, che vorrei non aver fatto e continuerò a fare perché ormai non si tratta dell’altrui destino ma del mio”. Basta ed avanza per sorridere al cielo e sentirmi grato, a Satta, agli alberi attorno, alla panchina, a Rilke che a quella panchina mi ha accompagnato.
Cosimo Mongelli
*In copertina: Isaac Levitan, “Dopo il temporale”, 1890
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pangeanews · 4 years ago
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“Lo stato è una creazione ineluttabilmente condannata al fallimento… siamo nulla e null’altro meritiamo che il caos”. Ecco come si vince un premio: Thomas Bernhard
Il trionfo, il secondo trionfo (poiché non c’è limite al peggio), di Sandro Veronesi al quel che resta del Premio Strega, è oramai agli annali. Notizia che rimbalza ovunque sul web e sull’etere, notizia che rimbalza assieme alle parole a margine dello stesso vincitore. Veronesi parte subito col piglio che nemmeno l’ultimo soldato tornato mutilato dal fronte: “È tipico degli italiani vincere in condizioni estreme. Rendo meglio con la pistola alla tempia: in questo mi sento un italiano vero” per poi infarinarsi sotto le commoventi pale di un Mulino Bianco: “Sto pensando alla mia famiglia, ai miei figli, a mia moglie, ai miei fratelli. Sto pensando agli amici che mi hanno sostenuto, che hanno votato il libro”. Eccolo ordunque avventurarsi in frasi criptiche ed enigmatiche: “Sto pensando all’uomo nuovo, che poi è una donna (?). A tutte le persone nuove che ci sono e a tutte le navi in mare. Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto”. Per poi concludere nel nonsense più assoluto: “C’è un paesaggio diverso, nativi digitali che adesso leggono, che hanno un atteggiamento diverso e questo uno lo percepisce”. Non è chiaro chi siano questi nativi digitali che adesso leggono, quando e dove Veronesi li abbia visti e se, soprattutto, leggono i suoi di libri. E in questo caso, tanto vale che ritornino a non leggere. Per dare un senso a questo amaro pezzo e per ammantarlo di beltà dopo cotanto tedio, voglio riportare tutt’altre parole, di tutt’altro scrittore a tutt’altra premiazione. Le parole di Thomas Bernhard, in occasione del conferimento del Premio di Stato austriaco per la letteratura. Siamo nel 1968.  Bernhard sale sul palco, in platea c’è tutto il peggio che possa rappresentare il paese. Ministri compresi. Lo scrittore mette in piedi una spassosa lectio magistralis. Un gigante al cospetto dei nani:
“Pregiatissimo signor ministro,
pregiatissimi presenti,
nulla è da lodare, nulla da maledire, nulla da accusare, ma il più è ridicolo; tutto è ridicolo, quando si pensa alla morte.
Si procede lungo la vita, turbati, non turbati, attraverso la scena, tutto è permutabile, nello stato-palcoscenico meglio o peggio ammaestrati: un errore!
Si comprende: un popolo ignaro, un paese stupendo – padri morti o coscienziosamente senza coscienza, uomini con la semplicità e la viltà, con la povertà dei loro bisogni… È tutto un antefatto in sommo grado filosofico e insopportabile.
Le ere della storia sono frenasteniche, il demonico in noi un incessante carcere patriottico in cui gli elementi della stupidità e dell’intransigenza sono divenuti bisogno quotidiano. Lo stato è una creazione ineluttabilmente condannata al fallimento, il popolo una creazione infallibilmente condannata all’infamia e alla stupidità. La vita disperazione, a cui le filosofie si appoggiano, in cui tutto, in fondo, deve impazzire.
Noi siamo austriaci, noi siamo apatici; siamo la vita come volgare disinteresse alla vita, siamo il senso della megalomania come futuro nel processo della natura.
Nulla abbiamo da narrare, se non la nostra miseria, travolti dall’immaginativa di una monotonia filosofico-economico-meccanica. Strumenti al servizio della fine, creature dell’agonia, tutto a noi si rivela, nulla comprendiamo.
Popoliamo un trauma, temiamo noi stessi, abbiamo il diritto di temerci, già contempliamo, sia pur indistintamente, lo sfondo: i giganti dell’angoscia.
Quel che pensiamo è già pensato,
quel che sentiamo è caotico,
quel che siamo non è chiaro.
Non dobbiamo vergognarci, ma non siamo nulla e null’altro meritiamo che il caos.
Ringrazio a mio nome e a nome dei premiati questa giuria, ed espressamente tutti i presenti”.
Da spellarsi le mani e poi asciugarsi le lacrime. E per contraltare alla nenia filosofica sul mondo irreale di Veronesi visto con gli occhi di un Fabio Fazio, si può chiudere questo scritto sempre con Thomas Bernhard, sempre in occasione di una premiazione, il Premio letterario città di Brema. E la chiosa al suo sontuoso discorso: “Siamo spaventati dalla chiarezza di cui all’improvviso è fatto per noi il nostro mondo, il nostro mondo di scienza; sentiamo freddo in questa chiarezza; ma questa chiarezza l’abbiamo voluta, l’abbiamo suscitata noi, non possiamo dunque lamentarci del freddo che ora impera. Con la chiarezza il freddo aumenta. Questa chiarezza e questo freddo d’ora in poi regneranno sovrani. (…) Tutto sarà chiaro, di una chiarezza sempre più alta e sempre più profonda, e tutto sarà freddo, di un freddo sempre più terribile. Avremo in futuro l’impressione di una perpetua giornata, perennemente chiara e perennemente fredda. Vi ringrazio per l’attenzione. Vi ringrazio per l’onore che oggi mi avete tributato”.
Ringraziamo anche noi Thomas Bernhard. E chi ne vuol leggere ancora, si procuri i tomi I miei premi (Adelphi) ed Eventi (stupenda edizione della SE) dai quali son tratti questi splendidi squarci di genio. E lasciamo che gli unici colibrì credibili siano quelli che si librano nei boschi. Quelli dello Strega, son di cartapesta.
Cosimo Mongelli
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pangeanews · 4 years ago
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Non sopporto la pagliacciata delle “videochiamate”: ho buttato via lo smartphone, leggo, mi fa compagnia Marina Cvetaeva. Torniamo a scriverci lettere!
È dovuta palesarsi la cosiddetta pandemia affinché io acquisissi consapevolezza. O meglio, affinché trovassi il sentiero che mi porta ad essa. Non ho mai seguito il flusso nauseante della marea circostante, credo, ma, spesso, troppo spesso, mi son lasciato trascinare, tracimare e soffocare. Le mie letture, scrivere delle mie letture, il vergar parola e parole m’han tenuto a galla, come si suol dire, ma dovevo ritornare a riva. Quindi risalire, da quella riva, fino ad arrivare, a quel sentiero. La pandemia (limitarsi a definirlo virus, toglie quel tocco di insulsa retorica che tanto piace), il clima di delirio, allucinazione e terrore collettivo: quale miglior ambito, quale più angosciante ambito! L’angosciante ambito dei sentimenti “delegati” ai social, agli smartphone, alla fissità degli schemi (recite) e schermi: i messaggi, le chiamate, ora palesatesi nell’accezione più ridicola: le videochiamate.  Zii, nonni, da sempre accantonati e abbandonati, diventati all’improvviso cavie di un’insulsa farsa. La farsa di chi non sa più cosa comunicare, non sa più cosa dire, la farsa di chi ha rimosso le parole, quelle più sacre e più fatali, soppiantandole con migliaia di specchi nei quali riflettere il nulla. Perché solo il nulla è il meglio che tre mesi soli con se stessi ha abortito l’umanità. Ho ripreso tra le mani, come un richiamo divino e celeste, Deserti luoghi, il secondo dei due tomi dedicati alle lettere di Marina Cvetaeva (Il paese dell’anima è il primo, sempre a cura della suprema Serena Vitale, editi entrambi da Adelphi). Ed è proprio Marina Cvetaeva, l’essenza stessa, più profonda, toccante, urticante e fatale, appunto, della parola. Delle parole. Della parola, delle parole scritte anche a chi è morto. Morto per i comuni mortali, morto per i non vivi, ma non per lei. Rainer Maria Rilke è morto, morto da due giorni a Montreaux, dilaniato dalla leucemia: Marina Cvetaeva continua a rivolgersi a lui come se il tempo non fosse passato, ma “sospeso”, eterno. E gli scrive una lettera:
“L’anno finisce con la tua morte? Fine? Inizio! Sei tu a te stesso l’anno più nuovo. (Caro, lo so, tu mi stai leggendo prima ancora che io scriva). Rainer, ecco sto piangendo, sei tu che mi sgorghi dagli occhi.
Non voglio rileggere le tue lettere, altrimenti mi verrà voglia di raggiungerti, di venire là – e non oso volerlo: tu sai che ogni cosa è legato a questo “volere”, Rainer, ti sento immancabilmente dietro la mia spalla destra. Hai mai pensato a me – Sì! Sì!Sì! – Come sono infelice. Ma non devo affliggermi! Stanotte, a mezzanotte, brinderò con Te. (Tu sai come sfiorerò il tuo bicchiere – piano piano!).
Caro, fai in modo che io ti sogni spesso – anzi, no, non è giusto: vivi nel mio sogno.
Adesso hai il diritto di desiderare e di agire.
Tu e io non abbiamo mai creduto nel nostro incontro in questa vita – come non abbiamo mai creduto in questa vita, non è vero? Tu mi hai preceduto (ed è stato meglio!) e, per farmi una buona accoglienza, mi hai prenotato non una stanza, non una casa – un intero paesaggio. Ti bacio sulle labbra? Sulle tempie? Sulla fronte? Naturalmente – sulle labbra, veramente – come un vivo.
Caro, amami più forte e diversamente da tutto. Non arrabbiarti – ti devi abituare a me, a come sono. Cosa, ancora?
Non è vero: non sei ancora in alto e lontano, sei proprio qui vicino, la fronte sulla mia spalla. Non sarai mai lontano: l’irraggiungibile non è mai alto.
Se il mio caro ragazzo adulto. Rainer, scrivimi! (È abbastanza stupida la mia richiesta, vero?) Ti auguro buon anno e uno splendido paesaggio celeste. Marina”.
*
Quanta purezza, quanta bellezza, quanta grazia, quanto candore in quest’animo affranto. Quanta altezza, irraggiungibile altezza, in queste parole. Parole che scavano le montagne, svuotano i mari, incendiano i boschi, illuminano e oscurano i cieli. E il richiamo, quello di Marina Cvetaeva e le sue parole, ha fatto da eco ad un altro richiamo. Dissotterrando dai cassetti e dall’animo delle vecchie mie lettere, lettere di vent’anni or sono di un amore perduto. Lettere che avevo abbandonato, nascosto e dimenticato. Lettere ritrovate al momento giusto. E anche qui, son rimaste le parole, le sue parole. Paola, il suo nome: “scrivi, i tuoi sogni, le paure, i pensieri, le cose che non riesci a dirmi, le cose che vuoi ricordare, quelle che vorresti dimenticare. Esprimere e ricordare le proprie emozioni. Se scrivi quello che provi puoi parlare anche con te stesso, con il te stesso del presente e quello del futuro, e avrai sempre qualcuno con cui aprirti, in ogni momento in cui desidererai farlo. I messaggi e le telefonate fanno male, perché restringono la nostra possibilità di esprimerci. Scrivere è una forma d’arte, arte vuol dire essere te stessi, arte vuol dire vita, perché la vita è inutile come l’arte e l’arte è utile come la vita”. Non credo di averle mai ascoltate per davvero, allora. Non credo di averle mai lette per davvero, allora. Ma a differenza del vuoto che muore all’istante attorno a me, le parole vivono: e quelle di Marina Cvetaeva e Paola, mi hanno ancor più reso consapevole, che è ora di seguirlo, il sentiero. Già da due settimane m’ero liberato dello smartphone, perdendo “amici” che   mi crederanno, la cosa mi conforta, deceduto. E ora, se proprio devo palesarmi, questi spazi letterari sono quelli, gli unici, che mi meritano. E che mi merito.
Cosimo Mongelli
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pangeanews · 5 years ago
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Nel Salone del Libro on line c’è tutto, tranne i libri, ormai inessenziali. Beh, io torno a leggere Landolfi, mi insegna che “l’impossibile è poi sempre possibile”
Il Salone (salotto, salumificio) Internazionale del Libro di Torino, non si ferma (una delle conseguenze più nefaste della pandemia è l’abbrutimento ulteriore della nostra vituperata lingua). Anzi, torna a palesarsi in una forma ancora più inquietante e angosciosa. Là dove il libro perde la sua essenza, importanza e funzione. Là dove è tutto griffato, dove non c’è nulla, dove non ci sono, i libri. L’emergenza sanitaria e tutto quel che ne è conseguito, non ha portato una virgola, una parentesi, un apostrofo di saggezza o riflessione, anzi, ha partorito e continua a partorire mostri. Venendo finalmente al punto, il mostro del Salone (appunto) si palesa in streaming. Sui social. Tra gli hashtag. Con gioia e giubilo dei presenti, degli invitati, degli organizzanti. E di questo giubilo non è facile cogliere da fior fiore. Ma tocca farsi del male. Nicola Lagioia, il cosiddetto direttore artistico: “Nel dolore la consapevolezza, nell’amore la conoscenza. Qualche giorno fa, in una delle ore più buie, confuse e dolorose per il nostro paese e per il mondo intero, il gruppo di lavoro del Salone Internazionale del Libro di Torino ha fatto un sogno: riunire alcune delle migliori menti del pianeta per ragionare insieme su ciò che sta accadendo”. Sorvolando sulla retorica da discount dell’ovvio. Per ‘migliori menti’ si intendono Lilli Gruber, Roberto Saviano, Alessandro Baricco, Paolo Giordano e no, non riesco a proseguire. Ma passiamo a Dario Franceschini: “l’iniziativa degli organizzatori di coinvolgere, in una anticipazione, alcune delle voci più interessanti del panorama culturale, rappresenta una preziosa occasione di riflessione e condivisione”. Condivisione cui significato è oramai peggiore di qualsiasi virus e, sulle voci più interessanti, toccherebbe sorvolare se non si fossero testè succitate. Per poi arrivare (e qui mi fermo) alle vere e proprie minacce, per voce del Presidente della Regione Piemonte: “Un giorno non molto lontano dei libri racconteranno quello che stiamo vivendo”. Come se la letteratura e la poesia fossero mero e banale ostaggio, omaggio o reportage della noiosa realtà circostante e non discese negli e dagli inferi dell’animo umano e dai mondi e di mondi inesistenti. Come se non ci fossero ancora migliaia di libri da leggere (e credo nessuno dei quali presente ai Saloni che furono e che saranno) senza la necessità che ne venga scritto anche solo un altro.
*
Ma mentre il Salone (in quanto entità spaventevole e spaventosa) dichiara “non si legge solo sui libri” (vergato in patetico maiuscolo), io ne prendo tra le mani uno, nelle cui meravigliose pagine dovrebbero perdersi tutti. Per capire cosa significa scrivere, il significato dello scrivere. Il libro è Rien va, il secondo dei tre volumi che tessono il diario (che andrebbe mandato a memoria) di Tommaso Landolfi, assieme a La biere du pecheur e Des mois (tutti editi da Adelphi, che ha rimesso in vita l’immortale scrittore di Pico). E queste parole, che lette e rilette, sarebbero sufficienti a spazzar via tutta la (succitata) ambizione e presunzione: “Quando l’idea sia venuta, e a suo tempo mi si sia articolata nel capo, a me sembra di aver fatto sin troppo e che il mio lavoro sia finito e che sia indispensabile un po’ di riposo; il resto è faticosa, odiata, inutile, amministrativa e subìta necessità esteriore, come il recarsi in un sordido ufficio governativo per sbrigarvi una pratica. Il pensiero che la mia idea possa o debba essere comunicata ad altri non mi sfiora neppure, in un primo momento, non già per dispregio degli altri, sibbene perché nessuno potrà mai convincermi della loro esistenza, e sarebbe difficile disprezzare ciò che non esiste; e anche perché, ammettendo in via del tutto ipotetica la loro esistenza, non riuscirei, in buona fede, per la modestia e insipienza insieme, a concepire che qualcuno avesse bisogno della mia idea. In un secondo momento, si capisce, insorgono necessità volgari pesanti benché illusorie, che possono indurmi a darle forma sensibile, cioè a tutti manifesta; il che non si può fare in qualche modo mediato, quando non per via di successivi tradimenti. Al tutto si aggiunge una specie di spregio, spregio del mio lavoro e spregio del mio lavoro quale necessità impostami, che può talvolta menarmi a buttar via di proposito il meglio come non conveniente o troppo superiore ai datori di lavoro”. I lettori non esistono ed è uno spreco buttar via le parole troppo superiori per i datori di lavoro (leggasi editori). Ma voglio andare avanti.
*
Landolfi è una miniera, un tesoro, un mondo. Landolfi che quando oramai ha raggiunto un disinteresse rispetto all’esito dei suoi libri prossimo all’indifferenza (siamo nel 1960), impone che dalla raccolta Se non la realtà (allora edito da Vallecchi) i suoi lavori vengano pubblicati in un’edizione tutta bianca, senza risvolti, senza quarta di copertina con vergata tale ineguagliabile postilla: “L’autore, stanco di sentirsi attribuire dai critici (o almeno dai più grossolani tra essi, e in ogni caso da chi poco lo conosce) la paternità o l’ispirazione degli scritti per consuetudine stampati in questa sede (i quali lo trovano bene spesso dissenziente), ha pregato l’editore di sostituirli d’ora in avanti colla seguente dicitura: RISVOLTO BIANCO PER DESIDERIO DELL’AUTORE”. Oggi in calce abbiamo gli indirizzi dei social. Il vanto d’esser stati partoriti da qualche scuola di scrittura. E il bisogno spasmodico di apparire ed esserci ovunque e dovunque. Pensiamo ancora una volta con orrore ai libri che verranno (come non bastassero le pagine vacue, vuote, inutili scritte in questi ultimi due mesi dagli stessi che banchettano al Salone virtuale, virtuoso, virulento). E poi ritorniamo e concludiamo con Landolfi che, tra i tanti racconti di inaudita beltà, era capace di inaugurare una delle sue raccolte (in questo caso Racconti impossibili), con una storiella surreale e spassosa composta con parole presenti in qualsiasi dizionario italiano ma sconosciute ai critici prezzolati e tronfi d’allora (i cui figli ancora più prezzolati e tronfi imperversano ora). Ne saggiamo l’incipit: “La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima … Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina. In verità siamo ormai disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d’esser uomini di mobole, se poi, non che andarsi a guardare i suoi magolati, non si va neppure a spasso!… Basta. Uscii dunque, e m’imbattei in uno dei miei contadini, che volle accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né servon drusce per farli parlare, ma purtroppo hanno perso anche la loro bella e pura lingua di una volta. Recava due lagene”. Il racconto è La passeggiata, e su tale racconto lo stesso scrittore, successivamente, stila la meravigliosa conferenza personalfilologicodrammatica con implicazioni dove dimostra, dinnanzi a un ridicolo e grottesco tribunale, che La passeggiata contiene, appunto, parole tutte presenti nel dizionario italiano. E che i cosiddetti critici che avevano chiosato e ridicolizzato il suo racconto attribuendogli una lingua inventata, non si fossero in realtà nemmeno posti il dubbio che tali parole potessero trovarsi in qualsivoglia dizionario. “Molto semplicemente che l’impossibile è poi sempre possibile: se, difatto, coloro o costoro avessero avuto il benché minimo dubbio relativamente a una sola delle vessate parole, se di conseguenza si fossero avveduti che codesta parola era regolarmente registrata in qualsivoglia dizionario scolastico, essi le avrebbero cercate tutte e in tutte avrebbero riconosciuto in significato inequivocabile, né si sarebbero per avventura coperti di vergogna con bolse sentenze. Ma c’è di più e di peggio. Ammettiamo che al critico non sia richiesto un particolare fiuto filologico… Amici, guardiamoci in faccia: alle brutte un fiuto letterario, questo personaggio che si autoproclama interprete dell’opera altrui, un fiuto letterario dovrà averlo?”. Fiuto letterario. Quello che manca, che non esiste, che non si percepisce nel Salone Letterario, in chi vi partecipa, in chi vi sguazza, in chi vi sfoggia le griffe e le marchette. Si fiuta solo l’odore di muffa. La vera letteratura è altrove. I libri sono altrove. E invocare quelli che verranno, vuol dire non saper nemmeno dove si trovi, quell’altrove. Quell’altrove che Landolfi ha tramutato in poesia.
Cosimo Mongelli
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pangeanews · 5 years ago
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“Ma era una calma orribile…”. Tempi surreali quelli che stiamo vivendo. Nel cassonetto, tra i cartoni della pizza, edizioni memorabili di Steinbeck e Sartre. Le ho raccolte: parlano di noi…
Tempi angusti e surreali, quelli che stiamo vivendo, tempi angusti e surreali dove anche portar fuori l’indifferenziata può diventare una parentesi di respiro, assaporando l’aria e cullandosi ai raggi del sole. Tempi angusti e surreali che possono regalare delle meravigliose sorprese, lasciti di una civiltà oramai soggiogata dall’idiozia dei proclamati e conclamati lockdown, delle fasi e delle frasi, senza senso e senza speranza. Sicché mi capita, nell’atto di gettar carte e cartacce nell’apposito cassonetto, di contemplare, adagiati tra cartoni della pizza e quotidiani sfogliati e consunti, tre libri. Mi chiedo, giusto per qualche istante, chi possa esser l’autore di atto tanto scellerato e inconsulto. Poi, scorgendo i titoli dei tre libri, di arrivare alla conclusione di non conoscere nessuno, tra vicini e vicini dei vicini, che possa aver mai posseduto o letto quelle opere. O che solo abbia l’avventatezza di possedere libri.
*
Mi calo nel cassonetto con fare furtivo e fanciullesco ed eccoli, finalmente, tra le mie mani i tre doni inaspettati. Lo stupore si unisce lo stupore quando vedo le edizioni: Pian della tortilla di John Steinbeck, in una versione Bompiani del 1941, Il muro e La nausea di Jean-Paul Sartre, in splendide uscite Mondadori (nella collana “Il bosco”) e “Coralli” Einaudi, entrambi del 1964. Nonostante abbiano vissuto per decenni, le loro condizioni sono più che ottime. Anche per un caso psichiatrico come chi scrive questo pezzo, che prima di acquistare un libro ne scruta ogni più impercettibile e imperscrutabile (per l’occhio umano) imperfezione, sono un vero piacere per gli occhi. Confesso, non ho mai letto questi autori. Steinbeck e Sartre li ho sempre sentiti distanti da me, pur per ragioni differenti. Ma sfoglio qualche pagina, in cerca più che di risposte, di ulteriori domande da pormi. E subito gli scenari che si palesano descrivono perfettamente la realtà circostante. Come solo riescono a fare i grandi autori, che nelle pagine vergate hanno saputo cogliere l’eternità.
*
Prendiamo Sartre, prendiamo dal racconto Il muro: “Nello stato in cui mi trovavo, se fossero venuti ad annunciarmi che potevo tornarmene tranquillamente a casa mia, che mi avevano graziato, la cosa mi avrebbe lasciato indifferente: qualche ora o qualche anno d’attesa è assolutamente la stessa cosa, una volta che si è perduto l’illusione di essere eterni. Non tenevo più a niente, in un certo senso, ero calmo. Ma era una calma orribile”. Parole che sembrano descrivere, in maniera precisa ed inquietante, la disillusione di chi non sa più come spendere la “libertà” ora concessaci. O che forse, della libertà, non ha mai saputo che farsene. Disillusione e quindi indifferenza. Forse la stessa indifferenza di chi ha gettato i romanzi tra i rifiuti. Forse la stessa di chi non sa trovare un significato in una frase, in una parola, che può sconvolgerti e cambiarti l’esistenza: “E dunque questa, la Nausea: quest’accecante evidenza? quanto mi ci son lambiccato il cervello! quanto ne ho scritto! Ed ora io so: io esisto – il mondo esiste – ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente: è una cosa che mi spaventa. È cominciato da quel famoso giorno in cui volevo giocare a far rimbalzare i ciottoli sul mare. Stavo per lanciare quel sassolino, l’ho guardato, ed è allora che è incominciato: ho sentito che esisteva. E dopo, ci sono state altre Nausee; di quando in quando gli oggetti si mettono ed esistervi dentro la mano”.
*
Ma la vita non è solo disillusione e indifferenza. Ed ecco che ci pensa Steinbeck a rimettere le cose al loro posto, dandoci speranza, sollievo e invitandoci a contemplare la natura e farne scenario per i nostri incontri, le nostre discussioni e riflessioni sul mondo circostante: “Splendevano al sole gli aghi dei pini. La terra mandava un buon odore di asciutto. La rosa di Castiglia profumava il mondo intero coi suoi fiori. Quella era l’ora più piacevole della giornata. (…) Lontani da ogni preoccupazione di lotta per l’esistenza, essi sedevano al sole giudicando i loro simili. Chiunque di loro aveva qualcosa di buono da raccontare, la serbava per raccontarla in quell’ora, mentre grandi farfalle scure si posavano sui fiori della macchia di rosa e agitavano lentamente le ali”.
*
Tocca infine ringraziare chiunque abbia fatto, di questi libri, carta straccia. Anche solo per avermi regalato questi stralci, queste parole, questi pensieri e queste frasi. Vengo ora colto dalla folle idea di rovistare in ogni cassonetto. Vengo altresì colto dal desiderio di incominciare a visitare i mercatini. Anche i libri usati, gettati, dimenticati, hanno un loro incredibile fascino. E hanno bisogno di un rifugio sicuro. Per continuare a vivere.
Cosimo Mongelli
*In copertina: John Steinbeck nel 1962, anno in cui ottiene il Nobel per la letteratura
L'articolo “Ma era una calma orribile…”. Tempi surreali quelli che stiamo vivendo. Nel cassonetto, tra i cartoni della pizza, edizioni memorabili di Steinbeck e Sartre. Le ho raccolte: parlano di noi… proviene da Pangea.
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pangeanews · 5 years ago
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In attesa di tornare nei ristoranti divisi e con le mascherine, rileggiamo “I mangia a poco” di Bernhard, un libro necessario
Siamo, trepidanti, in attesa di ritornare a sederci nei ristoranti, divisi dai tavoli e su i tavoli, da lastre di plexiglas, serviti e riveriti da camerieri con maschere a gas. Sederci per rimpiangere e ricordare i bei tempi in cui, seduti agli stessi tavoli, guardavamo il display dei nostri cellulari evitando sistematicamente di parlarci. Per esorcizzare, come si suol dire, quest’attesa, possiamo lasciarci ammaliare e divertire da quello che dovrebbe essere lo scopo, il vero scopo, lo scopo unico e vitale per affrontare una cena e quindi dei commensali: la fisiognomica. Nessuno meglio di Thomas Bernhard, con il suo I mangia a poco (edito da Adelphi), può raccontarci tutto questo. Nessuno, meglio del protagonista di questo libro, ha dato un significato più sublime all’atto del pranzare assieme al ristorante.
*
L’io narrante è lo spettatore desolato e rassegnato di un’amicizia, con un cosiddetto uomo di pensiero, Koller. Uomo di pensiero che sta cercando, invano, di riversare sedici anni di riflessioni in un libro, un libro, appunto, di fisiognomica. Uomo di pensiero, che un giorno come un altro, anzi, in un giorno decisivo decide, durante la sua passeggiata quotidiana, di cambiar direzione: “Come faceva da varie settimane verso sera e da tre giorni regolarmente anche al mattino intorno alle sei, stava andando per motivi di studio nel Warthimsteinpark, dove, grazie alle ideali condizioni naturali esistenti per l’appunto nel  Warthimsteinpark, diceva di essere nuovamente riuscito dopo molto tempo a passare, per quanto riguardasse la sua fisiognomica, da pensieri assolutamente privi di valore a pensieri utili, anzi in fondo straordinariamente proficui, e quindi a riprendere quel suo scritto che, trovandosi in uno stato di incapacità di concentrazione, aveva abbandonato oramai da moltissimo tempo, scritto dalla cui stesura dipendeva in definitiva un altro scritto, dalla stesura del quale dipendeva in effetti un altro scritto ancora, scritti che occorreva assolutamente scrivere e dai quali dipendeva la stesura, basata su questi tre scritti, di un quarto scritto sulla fisiognomica che avrebbe determinato di fatto la sua futura attività scientifica e in genere perciò la sua futura esistenza, quand’ecco che, anziché andare come d’abitudine verso il vecchio frassino lui tutto a un tratto e con mossa assolutamente repentina era andato verso la vecchia quercia e con ciò era arrivato a quelli che chiamava i mangia a poco, con i quali per diversi anni nei giorni feriali e quindi dal lunedì al venerdì aveva mangiato a poco prezzo alla Cucina pubblica Viennese e quindi alla cosiddetta Cpv”.
*
Da questo momento, i mangia a poco, con i quali aveva pranzato per anni e poi aveva abbandonato e dimenticato, diventano l’ispirazione, il motivo di essere e di esistere della sua filosofia. E solo l’amico, l’unico amico rimastogli o forse mai avuto può essere lo spettatore e l’ascoltatore assieme di questo progetto. Koller ha bisogno di raccontare, sin dal primo incontro con i mangia a poco quando, appena dimesso dal
Wilhelminespital, con una protesi a una gamba, le stampelle, in seguito al morso di un cane, era entrato al Cpv: “Trovandomi ora di nuovo solo e abbandonato a me stesso, dove mai sarei potuto andare se non alla Cpv nel momento in cui mi venne fame. I mangia a poco gli avevano fatto posto in modo estremamente simpatico e in effetti estremamente premuroso e lo avevano invitato con il massimo rispetto ad accomodarsi, mettendogli subito a disposizione il miglior posto e la migliore seggiola, il cosiddetto posto-accanto alla finestra e la cosiddetta seggiola-accanto-alla- finestra. Come è naturale, non si aspettava tanta sollecitudine nei suoi riguardi, non l’aveva affatto prevista, ma i mangia poco erano così premurosi verso di me, diceva Koller, da che ero stato dimesso dal Wilhelminespital, lì nella Cpv mi trovavo di fronte a della gente e i�� mangia a poco erano le prime persone con le quali, una volta uscito dal Wilhelminenspital, attaccai discorso, dopo che mi ebbero permesso di prendere posto al loro tavolo, al loro tavolo riservato, fece notare Koller, a quello che allora doveva essere già da dieci anni il loro tavolo riservato. (…) Avrebbe potuto prendere posto a tutta una serie di altri tavoli, infatti, come aveva constatato subito entrando nella Cpv, c’erano molti altri posti liberi, verso il tavolo dei mangia a poco, immediatamente, e cioè ancora sulla porta, ero stato attratto dai mangia a poco, diceva Koller, io dovevo per forza andare al loro tavolo e a nessun altro, era evidente che dovevo andare a quel tavolo e nessun altro, il tavolo dei mangia a poco mi era sembrato il tavolo adatto per me in quel momento, mentre avevo avuto subito l’impressione che tutti gli altri tavoli fossero assolutamente inadatti per la situazione in cui mi trovavo in quel momento, la situazione più difficile che si possa immaginare, diceva Koller, lui avrebbe preso posto a quel tavolo e a nessun altro, aveva pensato, e con fare risoluto si era diretto verso il tavolo dei mangia a poco”. Koller si sente subito al suo posto, come se fosse stato da sempre seduto a quel tavolo, come se quel posto fosse stato da sempre il suo: “Probabilmente, diceva Koller, i mangia a poco avevano subito intuito che anche lui come loro era da annoverare fra i mangia a poco, e fin dall’inizio gli avevano fatto posto a loro tavolo accogliendolo per così dire nella loro cerchia in primo luogo soltanto per questo motivo e forse solo in secondo luogo per via della sua condizione di storpio e quindi per quello che lui Koller, chiamava un motivo sanitario. Ma certamente, diceva Koller, in un primo momento lui si era potuto sedere al loro tavolo soltanto in prova, benché avessero subito constatato che lui come loro era da annoverare fra i mangia a poco”.
*
L’ amico non può far altro che ascoltare, non può che assecondare il tormento filosofico di Koller,  non può che ascoltare, assecondare e lasciarsi travolgere, dalla follia di Koller: “Forse quei mangia a poco, mi venne da pensare accostandomi a lui, lo avevano già fatto diventare pazzo, ma avevo immediatamente respinto questo pensiero e in seguito mentre lui parlava dei mangia a poco, per tutto il tempo mi ero imposto di reprimere questo pensiero, benché questo pensiero in effetti non si lasciasse alla lunga reprimere. Per anni e anni comunque ero tornato ogni volta a pensare che lui da tempo ormai fosse diventato pazzo, sicché mi ero abituato anche questo pensiero. Solo per pochi minuti del resto mi era sembrato già pazzo, poi l’esatto contrario di un pazzo, e mi misi ad ascoltarlo con la massima attenzione. Fin dall’inizio, disse ora, la sua fisiognomica era stata concepita in modo tale da sembrargli oggi in tutte le sue parti completamente riferita ai mangia a poco, anzi, da essere effettivamente riferita ai mangia a poco, vale a dire Einzing, Grill, Goldschmidt e Weninger, dei quali intendeva dare una dopo l’altra delle brevi biografie, prima di occuparsi degli ulteriori singoli punti di contatto fra di loro”.
*
Le pagine si dipanano tra le sublimi descrizioni dei mangia a poco, descrizioni sublimi e minuziose.  Descrizioni che sono per Koller solo una premessa. La premessa della sua opera filosofica ancora da iniziare a scrivere. Il progetto di un pazzo o forse dell’unico ad aver capito tutto. Si dipanano, le pagine, anche raccontando l’amicizia. Tra il narrante e Koller. Una amicizia sofferta, tormentata, ma scolpita nell’eternità. Si dipanano le pagine come un flusso idilliaco, martellante, poetico e sublime di coscienza.  Del quale Bernhard ha fatto un’arte. Arte inarrivabile.
Cosimo Mongelli
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pangeanews · 5 years ago
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“Il nemico, il nemico dentro me stesso, non si poteva certo debellare in maniera così facile e a buon mercato”. Hermann Hesse tra insofferenza e illuminazione. Esegesi de “La cura”
Una pausa, una parentesi, di due settimane. Una vacanza, o meglio, un rifugio salvifico in una località termale (Baden, per la precisione). Cosa ci può essere di più meritorio e, come si suol dire, rilassante per la pace interiore e l’affievolirsi del male esteriore, di un animo poetico e filosofico come quello di Hermann Hesse? La risposta è: nulla di tutto questo. Nelle pagine autobiografiche de La cura (Adelphi), il racconto di questa esperienza è quanto di più caustico e sferzante, si possa auspicare e attendere. Pagine che scorrono tra afflizioni, desolazione, fobie e insofferenza che a poco a poco ne mettono in dubbio fino ad un passo di farne a pezzi tutta l’innata o mostrata (in)sicurezza, illuminazione e convinzioni.
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Del lato ferale intriso di spassoso sarcasmo dello scrittore tedesco, il lettore attento si è potuto render conto nelle altre pagine autobiografiche di Viaggio a Norimberga (sempre edito da Adelphi). Ma qui le vette vengono superate. E, nel vero senso della parola, si ride (e si sorride) di gusto, scorrendo il fiume di insofferenza vergato in questo diario termale. Si ride (e si sorride) di gusto già dalla discesa dal treno. E l’immensa gioia dello scrittore nel vedere, attorno a se, gente più sofferente di lui: “Mi fermai dunque e subito osservai questi ‘segnati’. Ed ecco, quei due o tre o quattro individui avevano tutti un’espressione più cupa della mia, si appoggiavano forte ai loro bastoni, stringevano le natiche con più spasimo, posavano i piedi a terra con maggiore trepidazione e malumore, erano – tutti quanti – più sofferenti, più meschini, più malati e più da compiangere di me, e ciò mi fece un gran bene e , durante tutto il mio tempo a Baden, mi fu di un inesauribile, sempre rinnovato conforto il vedere che tutt’intorno a me zoppicavano, si trascinavano, sospiravano, andavano in carrozzella persone ch’erano molto più inferme di me, che assai meno di me avevano motivo di nutrire speranza e buon umore”. Può bastare la gioia della sofferenza altrui? Non per Hermann Hesse, che anzi si fa vanto della propria superiorità: “No, era evidente e doveva saltare agli occhi di chiunque il passo agile e svelto con cui discendevo quel bel viale e che poco uso facevo – giocandoci, quasi – della mia canna, ridotta a un puro ornamento (…) insomma con che disinvolta energia me ne andavo per quella strada, com’ero giovane e sano in confronto a tutti quei fratelli e sorelle più anziani, più miseri e più infermi, i cui acciacchi si presentavano in modo così chiaro, scoperto, inesorabile”.
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Mai più fugace fu questa gioia. Ora arriva il momento di dover prendere una stanza nell’albergo che lo ospiterà. E per Hesse, è l’inizio della catastrofe: “prendere una camera è, per le persone normali, una bazzecola, un atto qualunque e per nulla emotivo, che si sbriga in due minuti. Per noi altri, invece, per noi nevrotici, insonni e psicopatici, quest’atto banalissimo, fantasticamente complicato da ricordi, ansie e fobie, diventa un martirio. Il gentile albergatore, la simpatica signorina che su nostra trepida e insistente richiesta, ci mostrano e ci raccomandano la loro ‘camera tranquilla’, non immaginano nemmeno la tempesta di associazioni, di timori, di ironie e autoironie che quella fatale parola scatena in noi. Come le conosciamo bene, profondamente e orrendamente bene, quelle camere tranquille, quei teatri delle nostre più atroci sofferenze, delle nostre più dolorose sconfitte, delle nostre vergogne più segrete!”.  Scelta, a malincuore, la camera illusoriamente più sicura e lontana da ogni fastidio e pericolo, ecco comparire il nemico, sotto le sembianze di un ignaro e qualunque signore olandese. Per Hesse cominciano l’insofferenza e la desolazione. Insofferenza, desolazione che tracimano nell’odio, per lo sprovveduto vicino. E si scorrono tra i passi più spassosi di questo libercolo: “Quando me ne stavo a letto, impedito dal sonno dell’olandese, febbricitante di stanchezza e di un appagato desiderio di quiete, e sentivo nella camera accanto il mio vicino muovere i suoi passi sicuri, solidi, sazi, fare i suoi movimenti sicuri e gagliardi, emettere le sue note vigorose, provavo contro di lui un odio piuttosto veemente. (…) Alla fine non serviva più a nulla ch’io ricordassi e dimostrassi a me stesso la personale innocenza dell’olandese. Ormai lo odiavo e basta, e non solo nei momenti in cui mi veniva realmente disturbando, quando nel cuor della notte il suo camminare, parlare e ridere a pieno volume erano forse davvero una mancanza di riguardo. No, oramai lo odiavo, in piena regola, di quell’odio autentico, ingenuo e stupido con cui un piccolo commerciante cristiano privo di successo può odiare gli ebrei o un comunista i capitalisti, di quell’odio stupido, bestiale e irragionevole e in fondo vile o invidioso che tanto deploro negli altri. (…) Non odiavo più soltanto la sua voce, ma lui stesso, la sua persona reale, e quando, durante il giorno, m’imbattevo in lui, ignaro e contento, mi pareva d’incontrare un mio nemico dichiarato, uno che voleva il mio danno, e tutta la mia filosofia mi serviva soltanto a non manifestare esteriormente ciò che sentivo”. Hesse sembra non trovare alternative: “Bello era il pensiero di uccidersi in uno dei soliti modi, già più volte presi in esame, con quel sentimento del suicidio così tipicamente infantile. Bella era anche l’altra prospettiva, quella di affrontare, invece di me, l’olandese e strozzarlo o sparagli un colpo, sopravvivendo vincitore alla sua brutale, indifferenziata, vitalità”. Ma Hesse, rimane comunque Hesse. Il Nostro non può alla fine fare a meno di attingere dal suo animo spirituale, poetico e al tempo stesso infantile: “Il nemico, il nemico dentro me stesso, non si poteva certo debellare in maniera così facile e a buon mercato. Quel che occorreva non era vendicarsi dell’olandese, ma solo assumere, nei suoi confronti, un atteggiamento valido e degno di me. Il mio compito era chiarissimo: dovevo demolire il mio odio così privo di valore, doveva amare quell’olandese. Se mi riusciva di amarlo, non c’era più salute né vitalità che gli servisse, allora era mio”.
*
Le pagine proseguono in bilico tra scoramento ed entusiasmo per l’alternarsi delle sue condizioni di salute.  Lo vediamo, in passi che tanto avrebbero divertito l’immenso Tommaso Landolfi, entusiasmarsi per il gioco d’azzardo, fino a elevarlo ad esperienza mistica. Lo scopriamo avverso al cinema e la musica da sottofondo e quindi ai souvenir venduti nei negozi.  Fino all’epilogo, al ritorno a casa, alle ultime parole, trascritte da casa. L’ animo di Hesse, si fa via via via più disarmato e disarmante, con la dolcezza della persuasione di cui è maestro, nel bene e nel male. “Non c’è malato che con un solo passo, foss’anche quello attraverso la morte non possa ridiventar sano ed entrare nella vita. Non c’è peccatore che con un solo passo, foss’anche quello che lo porta al patibolo, non possa ridiventare innocente e divino. E non c’è uomo intristito, sbandato e apparentemente ridotto a zero che un solo cenno della grazia non possa rinnovare all’istante, facendone un bimbo felice”. Le tre ultime pagine sono di fulgida bellezza. Sull’impossibilità, tanto cara a tanti scrittori prima di lui e dopo di lui (ogni scrittore ha in sé motivazioni autentiche, antitetiche, inavvicinabili, inconciliabili rispetto a qualunque altro scrittore riguardo quest’impossibilità), di esprimersi pienamente con le parole. Vi tocca leggervele. Sono una gioia per gli occhi.
Cosimo Mongelli
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pangeanews · 5 years ago
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Bisogna leggerlo, perdersi, raggelare, farsi ammaliare. E poi, dimenticarsene. Su Arthur Schnitzler
Arthur Schnitzler è un nome che a pronunciarlo risuona sconosciuto e privo di significato, per la maggior parte dei lettori. Arthur Schnitzler è scrittore e drammaturgo austriaco che andrebbe, invece, saggiato da chiunque ami, viva e muoia di letteratura. Saggiato con cautela, ma senza timore di farsi del male. Perché addentrarsi tra le pagine di questo autore (ci si è perso persino Stanley Kubrick per girare “Eyes Wide Shut” attingendo dallo splendido “Doppio sogno”) vuol dire rischiare di raschiare il fondo del pozzo della follia. Follia che permea quasi tutte le sue opere. Follia, immagini oniriche, rimandi ai miti. È sempre parso fortissimo il legame con l’opera di Freud, il quale Freud non si è mai capacitato di come Schnitzler nelle sue di opere riuscisse ad addentrarsi nei recessi della psiche con tale disarmante facilità. Disarmante facilità, e una scrittura di quelle che ti devi fermare per raccogliere gli occhi caduti sulle pagine e capacitarti di come si possano tessere parole, frasi e virgole in maniera così sublime.
*
Molti i racconti, in Italia editi da Adelphi, andrebbero letti almeno una volta per lasciarsi raggelare e una seconda per farsi ammaliare. Non si può scrivere nulla se non rimanere ammirati dalla bellezza delle pagine di “Beate e suo figlio”. Un racconto che fa danzare maschere, specchi e sdoppiamenti fino ad un finale da farti soffocare. Il racconto di una madre, vedova e del rapporto morboso con il figlio. Una madre vedova di un attore, morto prematuramente, che da amore unico in vita e oltre la morte diventa poi figura meschina e menzognera. Leggete la bellezza del ricordo di una donna rassegnata a un inganno: “L’uomo che lei aveva amato non era Ferdinand Heinold; era Amleto, Cirano, re Riccardo e molti altri ancora, eroi e ribaldi, vincitori e uomini votati alla morte, belli e drammatici. E persino l’uomo straordinariamente ardente che una volta, in una lontana notte d’estate, dalla penombra della stanza nuziale l’aveva attratta in giardino a delizie ineffabili, non era Ferdinand, ma un qualche potente e misterioso Spirito delle Montagne di cui lui recitava la parte senza saperlo – una parte che doveva recitare perché senza maschera non riusciva a vivere, perché era terrorizzato all’idea di vedere un giorno il proprio riflesso negli occhi di lei. Così lei lo aveva sempre ingannato, come lui aveva ingannato lei – lei, donna perduta sin dall’inizio che aveva sempre condotto un’esistenza fantastica di sfrenata voluttà; solo che nessuno l’avrebbe mai sospettato, neanche lei stessa. Ora invece era diventato palese”.
*
Ma se si vuole farsi subito del male, il primo romanzo nel quale tuffarsi e cercare di rimanere a galla è “Fuga nelle tenebre”. Dalle cui trame emerge la figura inquietante e angosciante di Robert. Robert che vive inerme, nel vortice delle sue ossessioni. L’ossessione di non ricordare gli eventi del passato, ossessione che lo porta alla continua ricerca di prove che gli dimostrino di non aver commesso azioni orribili, azioni che vivono solo nella sua mente ottenebrata. Il timore di delitti atroci forse mai commessi, il timore di esser seguito, controllato e perseguitato da chiunque gli sia attorno. Timore che, pagina dopo pagina, si alterna a momenti di lucida rassicurazione e quindi di nuovo allo sprofondare nei recessi della paranoia. Ma la linfa velenosa e poetica assieme di questo racconto è il legame in bilico fra delirio, amore e odio di Robert per suo fratello medico, Otto, depositario di una lettera. Una lettera scritta da Robert in un uno dei suoi eccessi di alienazione. Lettera in cui c’è la macabra richiesta di una promessa da mantenere. L’eutanasia in caso lui, Robert, perdesse completamente il senno. Passano gli anni, Otto non ha mai dato peso, a una richiesta sì bizzarra, infantile e ingenua. Per Robert invece, col passare del tempo, dei giorni, degli anni è motivo di lancinanti deliri. Fino al punto di vedere, in quella lettera, la più meschina minaccia per la sua vita, un incubo senza fine, una strada senza via d’uscita che si palesa ogni giorno, ogni ora, ogni istante: “Improvvisamente sentì nascere in lui un’angoscia da mozzare il respiro, un’angoscia del tutto nuova, che pure era sempre la stessa. Perché ad un tratto gli era venuta in mente la lettera? Che significato poteva avere ormai quella lettera? Essa poteva valere solo in un determinato caso; un caso inesistente, che non poteva mai più verificarsi. Non era pazzo; era sano. Ma a cosa gli serviva se gli altri lo ritenevano pazzo? A cosa gli serviva se alla fine lo stesso fratello lo avesse considerato pazzo? Non poteva accadere che un occhio turbato scambiasse proprio quella meravigliosa trasformazione della sua condizione di spirito, quel senso di euforia e di rilassatezza, quella serenità della sua natura, per i primi sintomi di una incipiente malattia mentale?”. Col dipanarsi delle pagine, il fratello Otto diventa sempre più figura centrale delle allucinazioni di Robert. Pagine che sfociano in un finale che tocca leggere. Per poi cercare di dimenticarlo, per i giorni e settimane a venire.
Cosimo Mongelli
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pangeanews · 5 years ago
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“Quel metro di legno continuerà a sfidarlo”: addolcito, svilito, avvilito di Pinocchio non abbiamo capito nulla. Bisogna leggerlo insieme a Giorgio Manganelli
Raccontare le favole ai bambini. Farle a pezzi e farsi fare a pezzi, dalle favole, da adulti. Questo è uno degli innumerevoli destini della letteratura. Suprema e insuperabile musa. Suprema e insuperabile solo per chi ne sa cogliere la vivida, angosciante e urticante essenza. Ma partiamo dalle favole. Dalla favola: Pinocchio. Favola di Carlo Collodi (all’anagrafe Carlo Lorenzini), che nel corso dei decenni, è trascorso più di un secolo, è stata edulcorata, tramutata, svilita, avvilita e addolcita. Riassunta nella rassicurante storia di in un burattino di legno che finisce col diventar bambino. Dopo una rassegna di animali parlanti, menzogneri e fate turchine.
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No, Pinocchio non è tutto questo. Non è solo questo. La lettura più affascinante e profonda di questo testo è nelle pagine di “Pinocchio: un libro parallelo”, suprema prova letteraria di Giorgio Manganelli. Autore di inaudita capacità di cesellare e musicare le parole. Autore la cui lettura approfondita, dovrebbe far desistere da qualsivoglia velleità letteraria la quasi totalità degli autori, italiani, contemporanei. Sin dalla prima pagina, Manganelli si immerge nella favola diversa da tutte le altre favole. Qui in gioco non ci sono solo i bambini, non sono loro gli unici depositari di quest’opera immortale.
*
“C’era una volta…’’. Un Re…’’. No… Quale catastrofico inizio, quanto laconico e aspro, una provocazione, se si tiene conto che i destinatari sono i ‘’piccoli lettori’’, ‘’ragazzi’’, soli competenti di fiabe e regole fiabesche. A scrutare tra li interstizi di queste sette parole, si scopre subito una favola nella favola, qualcosa che è prossimo al cuore di ogni possibile favola. Il ‘’c’era una volta’’, è, sappiamo, la strada maestra, il cartello segnaletico, la parola d’ordine del mondo della fiaba. E tuttavia, in questo caso, la strada è ingannevole, il cartello mente, la parola è stravolta. […] Con svelto gioco di prestigiatore, il favoleggiatore ha dato accesso sì al luogo della fiaba, ma di fiaba diversa”. Una fiaba diversa. E in questa fiaba, Giorgio Manganelli, sviscera i significati fiabeschi, magici, occulti, tetri e terrificanti. Di una fiaba che è tutt’altro che rassicurante. È compito arduo riassumere in poche parole di uno scritto come il nostro riesca a scavare nelle profondità di ogni personaggio, da Geppetto: “Geppetto non è solo ‘’padre’’, scelto da Pinocchio, la sua è paternità filiale, per delega, Pinocchio gli si è proposto, dunque il suo destino non comincia ora, egli è nato nel momento in cui si staccava, erratico ramo, dalla sua pianta. […] Come genitore, è unico: al suo fianco non ci sarà mai una ‘’madre’’ di Pinocchio. Anzi lo stesso burattino pare essere portatore del proprio grembo, di ciò da cui deve nascere, purché Geppetto ne riconosca le fattezze. […]. Quel legno gli appartiene, dovrà patirne amore e oltraggio” alla Fata Turchina, figura magica, mistica e spettrale assieme. Che si palesa bambina, al suo primo apparir dinanzi a Pinocchio: “Non v’è dubbio che Pinocchio abbia incontrato una potenza incantata. […] L’abbiamo detta lunare e mortuaria: ma il suo pallore è albare, essa è insieme la signora morta della notte e la signora del giorno che ‘’balugina’’; è iniziale e conclusiva. […] I capelli della Bambina infinitamente misteriosa hanno un colore notturno, che non dimenticheremo mai più’’.
*
E quindi tutte le presenze animali che corrono e scorrono nelle pagine del romanzo di Collodi. Animali parlanti, che conoscono Pinocchio come esistesse da sempre, così come animale, asino attorno al burattino, diventerà Pinocchio, così come nelle fauci della bestia, il pescecane, lo stesso Pinocchio riabbraccerà il disperso e disperato Geppetto. Per poi morire e diventare, ultima magia della altresì morente e mai viva Fata Turchina, un bambino. Ma non è tutto così facile. Il finale presuppone un’altra storia, una storia infinita tutt’altro che confortante: “Ma vi è del mistero in questa morte. Il burattino di legno ha scelto la morte perché potesse cominciare a vivere il Pinocchio – se così si chiamerà – di carne; ma non si è trasformato. Morto, è rimasto come salma ‘’appoggiato ad una seggiola, con il capo girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo’’. Pinocchio guarda quel burattino misterioso, il ‘’burattino meraviglioso’’ e ‘’buffo’’. Nella casa del nuovo Pinocchio resta quella reliquia morta e prodigiosa, il nuovo e vivo dovrà coabitare col vecchio e morto. Quel metro di legno continuerà a sfidarlo’’. Ma non c’è solo il sublime racconto di un racconto in quest’opera di Manganelli. C’è una parentesi, tra le mille aperte, che spicca su tutte. E riguarda i libri, i nostri amati libri. “Nessun libro finisce; i libri non sono lunghi, sono larghi. La pagina, come rivela anche la sua forma, non è che una porta alla sottostante presenza del libro, o piuttosto ad altra porta, che porta ad altra. Finire un libro significa aprire l’ultima porta, affinché non si chiuda più né questa né quelle che abbiamo finora aperte per varcarne la soglia, e tutte quelle che infinitamente si sono aperte, continuano ad aprirsi, si apriranno in un infinito brusio di cardini”. È qui il significato tutto del leggere libri. Chi trova qualcosa di meglio da fare, quelle porte, non le ha mai trovate.
Cosimo Mongelli
*In copertina: Carmelo Bene come Pinocchio, nel 1966; fotografia di Claudio Abate
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pangeanews · 6 years ago
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“E ogni volta mi è toccato di sperimentare la spietatezza del mondo, che dal poeta non vuole opere e pensieri, ma una personalità”: lasciate da parte i biglietti per l’India, questo è l’Hermann Hesse più autentico (da tatuare in faccia a troppi scrittori narcisi nostrani)
Il nome di Hermann Hesse è legato indissolubilmente al suo scritto più famoso divenuto epocale, lo scritto tra i più letti, riletti e venduti sul pianeta. Il più letto da chi non legge nulla, il più letto da chi ritiene sia essenziale leggerlo per poi raccontare di averlo letto. Le vicende del giovane indiano che vive e vira alla ricerca della via verso la felicità, quella più profonda. Vicende che hanno generato sogni e mostri assieme. Ma se si cercano l’essenza, la radice e il fuoco nell’animo di Herman Hesse, bastano poche pagine. Bastano altre pagine. Quelle di Viaggio a Norimberga, edito da Adelphi all’inizio di quest’anno. Il resoconto di un viaggio in treno dalla sua Svizzera verso il cuore della Germania, per delle pubbliche letture. Viaggio intrapreso controvoglia, pubbliche letture rinviate più volte e alla fine accettate quasi per esasperazione. “quando sarà il momento potrai sempre mandare un telegramma per disdire”. Per una volta il telegramma rimane nel cassetto, e il protagonista parte per un viaggio tortuoso, in bilico tra insofferenza e contemplazione, reminiscenze e ansie che si riversano via via nelle pagine, pagine che mai come altre svelano appieno quanta intelligenza, sarcasmo, ironia, quanta lucida e al tempo stesso disperata visione dell’esistenza si celano nelle profondità di Hermann Hesse. Pagine autobiografiche, pagine che strappano sorrisi e risate. E che raccontano come l’essere uno scrittore, un poeta, un letterato, un intellettuale, per Hesse, sia sempre stata una sorta di insensata condanna, un fastidio del quale liberarsi.
*
Ma mano che si addentra in questo viaggio, ci si allontana sempre più dall’India e la caccia agli spiriti e si viene travolti da un fiume in piena.  Un fiume che è una liberazione, una fuga: cosa c’è di più piacevole, intraprendendo un viaggio, di non essere perseguitati dalla posta e le centinaia di missive e richieste avventate? “Ora questo armistizio posso ben dire di essermelo goduto con scrupolo e coscienza, spesso trastullandomi con il pensiero di rimanere durevolmente in quello stato, di rendermi grazie a qualche cavillo, irreperibile e privo di recapiti e recuperare così quella felicità che qualsiasi uccellino nel cielo, qualsiasi vermiciattolo nella terra assapora senza saperlo: non essere conosciuto, non essere vittima di quell’idiozia che è il culto della personalità, non dover vivere nell’aria sordida, ipocrita e asfissiante della sfera pubblica! Non di rado avevo tentato di sottrarmi a questa impostura, e ogni volta mi era toccato di sperimentare la spietatezza del mondo, che dal poeta non vuole opere e pensieri, ma un recapito, e una personalità da osannare e poi gettare via, da parare a festa e poi da mettere a nudo, da usare e poi ricoprire di sputi”. 
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Queste parole andrebbero tatuate nell’arido animo di molti scrittori contemporanei di casa nostra, tutti alla ricerca del plauso, tutti alla ricerca della devozione, del posto in prima fila, del premio da ritirare ed esibire.  Non si salva nessuno, nella spietata disanima di Hesse. Le pubbliche letture contemplano un pubblico e il pubblico per Hesse, contempla sdegno, sdegno cui solo la vanità è il rifugio più sicuro: “C’è uno scrittore che nel suo intimo dubita di sé  e del valore delle sue fatiche letterarie, davanti ad una sala piena di pubblico, il quale da parte sua non ha la più pallida idea dei contorti processi dell’animo dell’illustre conferenziere. Che cosa dunque consente a questo scrittore di leggere comunque i suoi fogli, invece di darsela a gambe e di appendersi ad un cappio? Glielo consente innanzitutto la vanità di scrittore. Anche se non riesce a prendere sul serio né sé stesso né il pubblico, tuttavia egli è vanesio, giacché ogni uomo lo è, anche l’asceta, anche chi dubita di sé”.  
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Sembra di aggirarsi nei dintorni di Thomas Bernhard: “il pubblico in quanto tale mi è completamente indifferente, anche se fra me e il pubblico accadesse il peggio, anche se io facessi miseramente fiasco e venissi fischiato, tutto ciò mi toccherebbe ben poco. Dentro di me qualcuno si unirebbe a quei fischi. No, le persone sedute in sala non mi incutono timore, né io mi aspetto granché da loro”. Ma nessuno, a parte lo stesso Bernhard, può permettersi di mandare all’aria una lettura pubblica, una premiazione. E alla fine, nell’intimo di Hesse, ecco far capolino l’amore e la speranza. C’è qualcuno che si può salvare, lì, in mezzo al pubblico, fosse anche uno soltanto: “Infatti mentre io, grazie a quel senno e a quel basso e un po’ meschino menefreghismo che derivano dall’esperienza, mi metto in salvo dal pubblico, con tanto maggiore amore, con tanto più caloroso impegno mi rivolgo al singolo. Se questo singolo a cui vanno il mio amore e i miei sforzi siede veramente in sala, allora mi rivolgo esclusivamente a lui, facendo di quella persona l’unico destinatario della mia lettura”. Lasciate da parte i biglietti per l’India. Cercate un posto libero vicino a Hesse e viaggiate assieme a lui verso la Germania.  Non ve ne pentirete.
Cosimo Mongelli
L'articolo “E ogni volta mi è toccato di sperimentare la spietatezza del mondo, che dal poeta non vuole opere e pensieri, ma una personalità”: lasciate da parte i biglietti per l’India, questo è l’Hermann Hesse più autentico (da tatuare in faccia a troppi scrittori narcisi nostrani) proviene da Pangea.
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