#libri sul Medio Oriente
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pier-carlo-universe · 4 days ago
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“Love Harder – Le ragazze iraniane camminano davanti a noi”: Storie di Ribellione e Coraggio. Barbara Stefanelli presenta il suo libro ad Alessandria, un viaggio tra le voci della rivoluzione iraniana
Martedì 26 novembre 2024, alle ore 18.00, presso la Sala Convegni di Palazzo Cuttica in Via Parma 1, Alessandria, si terrà la presentazione del libro “Love Harder – Le ragazze iraniane camminano davanti a noi” di Barbara Stefanelli, edito da Solferino.
Martedì 26 novembre 2024, alle ore 18.00, presso la Sala Convegni di Palazzo Cuttica in Via Parma 1, Alessandria, si terrà la presentazione del libro “Love Harder – Le ragazze iraniane camminano davanti a noi” di Barbara Stefanelli, edito da Solferino. L’evento è organizzato dalla Consulta Pari Opportunità, in collaborazione con la Biblioteca Civica “Francesca Calvo”, ASM Costruire Insieme e la…
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thegianpieromennitipolis · 1 year ago
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VENTUNESIMO SECOLO - di Gianpiero Menniti
MASCHILE E FEMMINILE: IL MUTAMENTO PROFONDO
Tra le fonti del romanzo "Le Streghe di Shakespeare" c'è un testo singolare.
Anni fa, parecchi anni fa (fine anni '80, primi '90 del secolo scorso) venni incuriosito da un titolo inconsueto, "Occidente misterioso - Baccanti, gnostici, streghe: i vinti della storia e la loro eredità".
A interrogarmi non era solo l'esordio del libro ma il nome dell'autore, Giorgio Galli, scomparso nel 2020, storico e politologo milanese di riconosciuto valore.
Inaspettatamente, l'insigne docente di storia delle dottrine politiche aveva dato alle stampe un volume per raccontare che i vinti nascosti della storia fossero spesso alcuni "modelli femminili di visione del mondo", relegati nell'impulsività mistica e quindi osteggiati per la loro forte carica emotiva, in apparenza contrari alla genesi razionalista delle società considerate progredite e naturalmente, cosa più importante, ai loro assetti.
Dal mondo antico fino all'età moderna.
Dunque, sostiene Galli, nei «passaggi cruciali della costruzione dell'Occidente come civiltà, le tensioni e i conflitti tra "femminile" e "maschile" hanno avuto un ruolo superiore a quello sinora loro accreditato.».
Ancora più singolare fu l'accoglimento della robusta e davvero interessante tesi di Galli: il sistema accademico italiano lo sospinse in un limbo di marginalità.
Il suo libro venne in altri casi fortemente criticato come si fosse trattato di uno "scivolone" dell'illustre cattedratico.
Aveva toccato un nervo scoperto il buon Galli?
Nessuno, a mia memoria, entrò mai nel merito della sua proposta interpretativa, certamente molto avanzata in quel torno di fine millennio.
Lo studioso non si arrese e negli anni successivi coltivò il filone.
Galli aveva indirettamente chiarito, argomentando con dovizia, quanto fosse rimasto fervente, nel corso di un lunghissimo arco di tempo, il fiume carsico dei diritti in capo al genere femminile, la portata storicamente rilevante degli assetti sociali costituitisi anche sul contrasto verso rivendicazioni ritenute eversive e infine si basasse su quell'antica polarizzazione anche l'origine dei fermenti politico-sociali che attraversarono l'800 e il '900, secoli nei quali si è consumata la formula stantia della superiorità "maschile", ormai ampiamente decaduta e oggi in procinto di crollare definitivamente.
Si badi: non si tratta di ridurre la storia a una divisione di potere e contropotere tra i sessi (sarebbe una grossolana fandonia) ma di saper cogliere, come Galli riuscì a fare, l'importanza di questo dinamico confronto socio-culturale percorrendo l'arco del pensiero e dunque della civiltà occidentale.
Tutti i processi storici sono segnati da avvenimenti che fanno da detonatore, come recenti e tragici casi di cronaca nera insegnano da noi.
E che osserviamo in misura ancora più rilevante in scenari distanti dal nostro modello: gli accadimenti in Iran, con la "polizia morale" che massacra ragazze indifese, sono l'esempio lampante della discrasia tra un potere reazionario e una società che sul riconoscimento delle libertà individuali in capo al genere femminile e dell'habeas corpus in particolare, arriverà ad abbattere quelle obsolete forme di dominio e con esse l'intero assetto sociale, dello Stato e dei fondamenti religiosi sui quali si regge.
Quando accadrà - e accadrà anche se le martiri saranno ancora molte - quale corso prenderà la storia in Medio Oriente?
Dunque, in relazione causale, nel resto del globo?
Nessun cambiamento di status si è mai affermato pacificamente.
Ma il cambiamento è in atto, ormai segnato e inarrestabile.
Ed è, in non rare occasioni, coinciso, quando racchiuso in termini avanzati (poichè esiste anche un conservatorismo di stampo femminile non meno intransigente e detestabile) con il ruolo delle donne.
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Questo sostengo facendomi breccia, implicitamente, attraverso il buon Galli, storico acuto e politologo lungimirante.
Gli idioti (nel significato originario greco) non se ne avvedono.
Gli imbecilli (nell'etimologia latina) tentano di contrastarlo.
Ne "Le Streghe di Shakespeare" l'argomento è scavato ancora più profondamente, in chiave antropologica.
Fino a contemplarne l'origine.
Sepolta in un abisso scabroso.
Nelle immagini: "Grande Dea Madre", periodo Paleolitico, collezione Mainetti, New York
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curiositasmundi · 4 months ago
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I “Protocolli dei Savi di Sion” sono in sostanza un falso documento in cui viene descritto un piano segreto degli ebrei per conquistare il mondo. Il libro iniziò a circolare nei primi anni del Novecento, spacciato come il verbale di una riunione tra i capi dell’ebraismo mondiale, i “Savi di Sion” appunto. In realtà è una collezione di plagi da altri testi antisemiti messa insieme dalla polizia segreta russa per giustificare le persecuzioni nei confronti di ebrei, ma anche di progressisti e liberali.
Il libro è diviso in 24 “protocolli” nei quali i “Savi di Sion” illustrano il loro piano per conquistare il mondo. Ogni passaggio di questo piano è basato sull’inganno e la menzogna, mentre non c’è quasi mai il ricorso alla violenza aperta e tutto si basa sull’infiltrazione e sul sovvertimento dei valori della società. Allora come oggi, il piano appare in molti punti una specie di elenco dei nemici, fisici ed ideologici, dell’estrema destra. I “Savi”, secondo gli autori del testo, hanno messo al loro servizio la libertà di stampa, le idee liberali, la democrazia e con l’uso dei media e della finanza vogliono distruggere l’ordine sociale tradizionale, i costumi e le tradizioni cristiane.
Il testo comparve per la prima volta nel 1903 in una pubblicazione delle “Centurie nere”, un gruppo della destra ultranazionalista vicino alla polizia segreta russa. Proprio in quegli anni, l’Impero russo subì due umilianti disfatte: la sconfitta nella guerra russo-giapponese del 1904-1905 e la successiva rivoluzione. I “Protocolli”, arrivati in quegli anni alla loro terza edizione, contribuirono alla risposta isterica che in molte parti del paese venne data a quei due eventi: i “pogrom”, le feroci persecuzioni di ebrei organizzate spesso dalle autorità locali.
Per circa un ventennio il libro rimase confinato all’interno dell’Impero russo e soltanto dopo la Prima guerra mondiale iniziò a circolare prima in Germania, poi in Francia, nel Regno Unito e infine negli Stati Uniti, dove l’industriale Henry Ford ne fece stampare mezzo milione di copie. Nel 1921 venne dimostrato al di là di ogni dubbio che si trattava di un falso. A scoprirlo fu il quotidiano britannico Times che si accorse delle numerose parti plagiate nel documento. I misteriosi “Savi di Sion”, infatti, nella loro “riunione” avevano citato letteralmente interi brani di altri libri, ad esempio il “Dialogo agli inferi tra Machiavelli e Montesquieu”, in cui i diabolici piani per dominare il mondo sono attribuiti all’imperatore francese Napoleone III.
Nonostante la loro falsità, i “Protocolli” continuarono a circolare ed ebbero particolare successo in Germania, dove l’estrema destra li utilizzò per giustificare la disfatta appena subita nel primo conflitto mondiale. Non era l’esercito ad essere stato sconfitto, questa era l’idea, la resa era arrivata a causa di un complotto ebraico. Adolf Hitler cavalcò la moda dei “Protocolli” e li citò in più di un’occasione. Quando prese il potere, interi brani del libro diventarono parte del curriculum scolastico.
Oggi i “Protocolli” sono ancora stampati e sono facili da reperire su internet. Nel secondo dopoguerra la loro diffusione ha conosciuto una flessione in Occidente, ma rimangono un testo ancora letto e utilizzato dai leader politici in gran parte del Medio Oriente, dove movimenti nazionalisti arabi e fondamentalisti musulmani lo hanno usato per attaccare lo stato di Israele, attribuendo agli ebrei israeliani e ai progressisti dei loro paesi la volontà di dominare il mondo e sovvertire l’ordine sociale.
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trying2understandw · 1 year ago
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Non ho cervello ma devo urlare. Ma perché le persone in altri Paesi non ascoltano?
I Have No Brain But I Must Scream. But why aren't people in other countries listening?
AURELIEN
18 OTT 2023
Ho praticamente rinunciato a leggere i media tradizionali su qualsiasi cosa importante in questi giorni, nonostante sia stato un drogato di notizie per decenni, leggendo due quotidiani, riviste settimanali e ascoltando religiosamente le notizie sulla BBC. Certo, i media sono cambiati e si sono metastatizzati molto da allora: sono pieni di spazzatura e scritti da stagisti, ma c'è qualcosa di peggio quando si tratta di affrontare le grandi e complesse storie del mondo. In una settimana in cui sia l'Ucraina che Gaza sono al centro delle cronache, in cui i russi sembrano iniziare una nuova offensiva e in cui un brutto conflitto regionale in Medio Oriente non è impossibile, la gente guarda ai media, ai siti Internet e all'opinionismo in generale, per spiegare le questioni di guerra e di crisi. Questo saggio spiega, in parte, perché sono inevitabilmente delusi e, in parte, perché, al di fuori della bolla occidentale, quasi nessuno fa caso a ciò che dicono.
La settimana scorsa ho parlato di come il complesso di sicurezza occidentale (WSC) non riesca a capire cosa stia realmente accadendo nei conflitti in tutto il mondo, in particolare in Ucraina, e quindi si ostini a parlare di ciò che pensa di sapere. Ora voglio ampliare questa argomentazione, suggerendo che non solo il WSC, ma anche la Casta Professionale e Manageriale e i media più in generale, hanno creato barriere quasi impenetrabili alla reale comprensione dei conflitti e delle atrocità, colonizzandoli intellettualmente, usurpandone le descrizioni e le analisi e imponendo le proprie interpretazioni irrilevanti e persino pericolose. Sostengo che la moderna mente liberale, piena di assiomi aprioristici e in gran parte vuota di conoscenze ed esperienze reali o della capacità e volontà di imparare, ha cercato di imporre agli altri le narrazioni dei conflitti contemporanei, usando termini che pensa di comprendere. Si tratta di un'affermazione importante, che non posso approfondire in questa sede come vorrei, quindi mi concentrerò sui due discorsi principali che il liberalismo moderno cerca di imporre sul conflitto: quello dell'odio e della condanna morale, da un lato, e quello della legge, dall'altro. I lettori più attenti noteranno che i due discorsi stanno diventando sempre più indistinguibili: un oppositore di alto profilo e molto odiato dall'Occidente può aspettarsi di trovarsi accusato di un reato penale al giorno d'oggi, come ho notato poco fa.
Voglio quindi spiegare perché entrambi questi discorsi, piuttosto incoerenti, sono fuorvianti, e poi parlare brevemente della realtà del conflitto, il tutto senza esprimere alcun giudizio morale o legale. Questo potrebbe sembrare scioccante per alcuni, e chi ha un carattere nervoso potrebbe volersene andare ora, ma credo che sia essenziale, perché solo quando la fitta nebbia di confusione prodotta dal discorso normativo liberale si sarà diradata, potremo vedere la realtà del conflitto attuale così com'è (spoiler: non è bella).
Prendiamo prima l'aspetto morale. Sebbene siano stati scritti libri seri sulla moralità in guerra e i grandi comandanti abbiano generalmente imposto una disciplina morale alle loro truppe, l'idea di un comportamento morale di derivazione normativa nel conflitto come fine a se stesso è molto recente: risale all'epoca della democrazia, degli eserciti di massa e della mobilitazione di massa, quando i governi in guerra richiedevano il sostegno del loro pubblico e, in molti casi, anche la simpatia dell'estero. E, cosa rivelatrice, questo discorso è sempre stato essenzialmente negativo: consiste in gran parte nel cercare di evocare la simpatia e il sostegno degli altri, adducendo comportamenti terribili da parte del nemico, piuttosto che comportarsi bene in prima persona. Naturalmente in molti conflitti moderni il sostegno, o almeno l'acquiescenza, della popolazione locale è uno degli obiettivi, e del resto molti ufficiali militari di oggi si sentirebbero comprensibilmente offesi se si mettesse in dubbio che hanno fatto ogni sforzo per controllare le loro truppe. Tuttavia, si tratta di sviluppi recenti e contingenti, come spiegherò tra poco.
Possiamo forse iniziare con la domanda: a cosa servono gli eserciti? La risposta liberale standard, credo, sarebbe quella di combattere altri eserciti, che, se non proprio tautologica, è comunque piuttosto inutile. Ma riflette il concetto liberale di una guerra accettabile come una sorta di versione gladiatoria di una causa legale, in cui vincerà la squadra più abile e meglio preparata. Come nelle cause legali, le questioni sono relativamente chiare e il risultato dovrebbe essere accettato da entrambe le parti con buona pace. Inoltre, come per le cause legali, ci sono regole e procedure dettagliate che devono essere seguite e solo alcuni tipi di persone possono partecipare. Tutto ciò, ovviamente, è fantasticamente lontano dalla realtà anche dei conflitti moderni, e ancor più da quelli del passato, ma riflette lo spirito normativo, moralmente censorio, orientato alle regole e tecnocratico del liberalismo moderno.
L'idea stessa di imporre un quadro morale puramente normativo alla guerra, dall'esterno e da parte di estranei (invece di agire con moderazione perché si pensa che sia la cosa giusta e sensata da fare) è uno sviluppo molto recente, anche se la Chiesa cattolica aveva già fatto alcuni sforzi in questa direzione. Ha avuto una qualche rilevanza nei conflitti reali solo per brevi periodi e in circostanze specifiche. La crescita degli Stati nazionali e la confusione tra popoli e confini hanno prodotto guerre (come quella dei Balcani del 1912-13) che avevano come obiettivo la sopravvivenza nazionale e di gruppo e la definizione delle frontiere, e per le quali queste norme sembravano in gran parte irrilevanti. Naturalmente, il peggio sarebbe seguito. Ciononostante, questo discorso ha permesso alle società liberali di impegnarsi nella moralizzazione della storia stessa, guardando al passato anche abbastanza recente e giudicando con compiacimento i nostri antenati per i loro fallimenti morali nei conflitti.
Ironia della sorte, naturalmente, le radici culturali della civiltà occidentale che ha prodotto il liberalismo illustrano una tradizione completamente diversa. Il Libro del Deuteronomio (XX,12-18) dà istruzioni molto esplicite su come gli israeliti dovevano trattare i popoli conquistati. Le normali città nemiche dovevano essere rase al suolo, i maschi uccisi e le donne, i bambini e il bestiame "presi". Ma quando le città erano state date da Dio "in eredità, non salverai nulla di ciò che respira. Ma le distruggerai completamente". Questa sembra essere stata una pratica molto accettata all'epoca. Anche il mondo classico non era molto meglio: quello che oggi definiremmo genocidio era una pratica comune nelle guerre tra grandi città-stato. E i greci cercavano modelli di eroismo nell'Iliade, dove troviamo Odisseo, ad esempio, descritto con ammirazione come ptoli-pórthios, il "saccheggiatore di città", e sappiamo cosa significava. L'abitudine dei Romani di conquistare con il genocidio non è mai stata un segreto, ma allo stesso modo non sembra aver influito sull'adorazione della loro civiltà da parte degli europei colti per molti secoli.
Una parte della ragione di questo comportamento a quei tempi è certamente lo sviluppo tardivo di eserciti professionali a lungo servizio nella maggior parte del mondo (l'esercito romano, ricordiamo, divenne professionale solo durante il periodo dell'Impero, e anche allora tutte le sue truppe effettive erano mercenari stranieri). Tali eserciti richiedevano un surplus agricolo in grado di sostenerli, e fino al XIX secolo il massimo che si poteva generalmente gestire erano eserciti temporaneamente reclutati per guerre specifiche e poi congedati. Spesso erano brutali e rapaci, ma in modo indiscriminato. Altrimenti, le guerre erano spesso combattute tra le intere popolazioni di città o piccoli regni, e la moderna distinzione normativa tra "combattenti" e "non combattenti" sarebbe semplicemente sembrata irrilevante. Non esisteva un "esercito di Troia" che difendesse Troia dai Greci. Ciò che contava era difendere la propria città o la propria comunità e assicurarne la sopravvivenza con qualsiasi mezzo fosse necessario. E molto spesso i motivi della guerra erano comunque il saccheggio e l'acquisizione di schiavi. Dopotutto, se si combatte per preservare la propria città o il proprio popolo dalla conquista e dalla schiavitù, sicuramente ogni mezzo era giustificato. Nel 1416, in una delle innumerevoli battaglie navali contro i Turchi, il comandante veneziano Pietro Loredan riferì di aver giustiziato tutti gli europei catturati al servizio dei Turchi, così come tutti i piloti e i navigatori delle navi catturate, dando così, annunciò con orgoglio, un notevole vantaggio militare a Venezia. Pensava chiaramente di agire moralmente: e infatti su quale base, se non quella di un'affermazione puramente normativa e universalistica di certi standard, si potrebbero condannare le sue azioni? Il che solleva una domanda preoccupante: se è morale combattere per difendere il proprio popolo, quali sono i limiti, se ci sono, a ciò che è consentito fare, prima di ritirarsi con rammarico e lasciare che il proprio popolo venga conquistato?
Il problema è che non esistono regole morali universali sul conflitto, o meglio, ognuno cerca di universalizzare le proprie, e ognuno vede gli interessi della propria parte o del gruppo che sostiene come prioritari, con regole diverse che si applicano a parti diverse in pratica, se non in teoria. Avete già avuto una conversazione con qualcuno che si è agitato per i presunti "attacchi ai civili" russi e gli avete chiesto se condannano allo stesso modo i bombardamenti su Gaza? "Ma non è possibile paragonare i due casi!", risponderà scandalizzato.
Non si possono mai paragonare due casi, e questo è il problema. La difficoltà di qualsiasi quadro morale coerente è che, applicato in modo coerente, ci porta rapidamente in luoghi in cui non vogliamo essere e a conclusioni che non vogliamo raggiungere. In realtà, l'unica legge morale universale che tutti accetterebbero (tacitamente) è "le persone che mi piacciono, che combattono per cause che sostengo, sono autorizzate a fare cose che agli altri non sono permesse". I problemi di una simile formula sono abbastanza ovvi. Eppure questo atteggiamento si riscontra ovunque, anche se in Occidente si ritiene di doverlo rivestire di un linguaggio più accettabile. C'è stato un periodo in cui sono stato molto più vicino ai tentativi di affrontare alcuni degli aspetti più sgradevoli dei conflitti di quanto forse ora vorrei essere stato, e mi sono stancato delle giustificazioni addotte, nei media, nelle riunioni politiche, persino nelle aule di tribunale, in diversi Paesi. Il tutto si riduceva sempre a:
Non è mai successo.
Ok, è successo ma io non c'ero.
Ok, è successo e io ero lì, ma stavamo difendendo il nostro popolo.
L'altra parte ha iniziato.
A volte rifletto sul fatto che la maggior parte dei peggiori eccessi della storia sono stati commessi da coloro che "difendevano il loro popolo", se non altro perché il modo più semplice per farlo è quello di uccidere un gran numero di nemici prima che questi possano uccidere te, prima è meglio è, e non necessariamente solo i soldati. Questa è, infatti, una caratteristica di tutti i conflitti tra gruppi autoidentificati con presunti interessi collettivi da proteggere. La guerra era abbastanza crudele in passato, e spesso eccezionalmente tra città-stato, ma quando le guerre erano tra imperi o sovrani, non si parlava di "difendere il nostro popolo". Gli eserciti erano molto eterogenei e contingenti provenienti dalla stessa area potevano trovarsi da entrambe le parti (o da tutte). Le alleanze venivano fatte e disfatte in base al vantaggio politico e l'inimicizia tra i leader cristiani (il re di Francia e l'imperatore, per esempio) complicò enormemente la lunga lotta contro gli Ottomani. Se la guerra era ancora eccezionalmente brutale e la popolazione locale era un bersaglio accettato per i saccheggi e le esazioni da entrambe le parti, gli elementi di violenza ideologica e razziale erano ancora largamente assenti.
Ma il meme della "difesa del nostro popolo" è presente ovunque nella storia degli ultimi due secoli e, nel peggiore dei casi, sfocia nel tipo di isteria paranoica tipica dei nazisti, che credevano che il Volk tedesco fosse in costante pericolo di annientamento da parte dei loro nemici razziali, che dovevano prima sterminare. Ma non sono stati loro a inventare questo meme: l'idea della competizione a morte e dello sterminio tra i diversi gruppi "razziali" faceva parte del pensiero di ogni persona istruita un centinaio di anni fa, e sembrava essere solo una conclusione logica delle ultime scoperte scientifiche sulla competizione per lo spazio vitale nel regno animale. Era considerato naturale, anche se deplorevole, che alcune "specie" umane sarebbero scomparse, proprio come le specie animali.
Inoltre, una volta iniziata questa logica, dove ci si ferma? Se alcune vite (le vostre) sono più importanti di altre (le loro), fino a che punto siete disposti a spingere l'argomento, soprattutto in guerra? I nazisti stessi hanno fornito una risposta. Povera di risorse, dopo aver conquistato un'Europa che non poteva sfamarsi, priva di manodopera sia per combattere che per lavorare nelle fabbriche, l'economia di guerra tedesca, in modi di cui si è cominciato a parlare solo di recente, trattava gli esseri umani dei Paesi conquistati semplicemente come materia prima per lo sforzo bellico, da consumare e gettare via. La maggior parte dei campi di concentramento istituiti dopo il 1941 erano in realtà campi di lavoro, dove coloro che non erano in grado di lavorare venivano messi a morte e quelli che potevano lavorare venivano fatti lavorare fino a quando non li seguivano. E in una guerra il cui obiettivo più recondito era probabilmente la lotta per le scorte di cibo, le "bocche inutili" venivano semplicemente fatte morire di fame: nell'ambito del Piano della fame si prevedeva e si prevede che 30 milioni di cittadini sovietici sarebbero morti. Allo stesso modo, non si poteva pensare di dirottare le scarse risorse per sfamare due milioni di ebrei polacchi, che quindi vennero semplicemente sterminati.
È difficile accettare, ancora oggi, che gli esseri umani siano stati capaci di tali atti, e ancor meno (come vedremo tra poco) che li abbiano considerati del tutto giustificati. È per questo motivo, forse, che ci si è sforzati tanto di inventare teorie del tutto fittizie ma confortanti sui nazisti, nonostante il fatto che essi ci abbiano lasciato testimonianze di ciò che hanno fatto e del perché lo hanno fatto. Ma prenderli sul serio, e andare oltre il facile vocabolario dell'"odio", forse metterebbe a dura prova la nostra fede nella natura umana, al di là di quanto essa possa ragionevolmente sopportare.
Ma anche in ambiti meno terrificanti, la moderna visione liberale del conflitto non è ancora in grado di sopportare la realtà, e sono stati compiuti grandi sforzi per creare teorie del conflitto che in pratica sono sia insultanti per la gente comune, sia completamente avulse da qualsiasi contatto con la realtà - come ci si aspetterebbe dalla cultura normativa. Come ho già sottolineato, l'insultante assunto del preambolo della Carta dell'UNESCO, secondo cui le guerre "iniziano nella mente degli uomini", è un tentativo di scaricare la colpa su persone come voi e me. O è la nostra personale ostilità verso gli altri a scatenare il conflitto, o siamo abbastanza deboli e confusi da essere manipolati da "tiranni" e "demagoghi" e "imprenditori della violenza", da discorsi di odio e differenza, in guerre che siamo troppo stupidi per fermare. L'"odio" è concepito come qualcosa che di per sé ha un potere, che "scoppia" di tanto in tanto, incoraggiato dai despoti e venduto a un pubblico stupido.
Le élite liberali hanno quindi due risposte a questo problema. Una è la gentilezza forzata obbligatoria: leggi anti-discriminazione, controlli sulla parola, insegnamento accademico della tolleranza, visite scolastiche reciproche e il programma ERASMUS. L'idea è che questo ci renderà meno stupidi e meno propensi a farci abbindolare dal prossimo demagogo con un messaggio di odio. Paradossalmente, l'altra risposta è l'odio stesso: l'odio non diluito diretto, attraverso i media e il sistema politico, contro coloro che le nostre élite identificano come "demagoghi", "autoritari" o "tiranni", che devono essere rimossi dall'incarico e puniti, così come chiunque non li condanni con sufficiente forza in pubblico, o anche in privato. Queste figure di odio cambiano nel tempo (chi era quel tizio in Sudan, di nuovo?), ma sono sempre il bersaglio di una condanna senza mezzi termini e di un rifiuto totale di esaminare le vere cause del conflitto e ciò che lo sostiene, e talvolta lo porta a conclusione. Esiste un'enorme letteratura "grigia", anche se intellettualmente impoverita, sulle questioni del conflitto e della pace, pagata dai governi nazionali, dalle organizzazioni internazionali e dalle fondazioni caritatevoli, e messa nelle mani di volontari idealisti che partono per zone lontane e che trovano rapidamente i documenti, i corsi e le sessioni di formazione completamente inutili. Ci si aspetterebbe che, di fronte a tutta questa delusione, queste idee vengano abbandonate, o almeno annacquate, e negli ultimi anni ho riscontrato un riconoscimento privato in alcuni governi e organizzazioni che la maggior parte di esse sono spazzatura. Ma naturalmente le idee normative non possono mai essere smentite dalla realtà: la realtà può solo fallire nella sua funzione di dimostrare che sono vere.
Così ora gli opinionisti occidentali scrivono articoli accorati sulla "moralità" della guerra a Gaza, come se qualcuno potesse prendere in considerazione le loro conclusioni e i loro tentativi di imporre uno schema morale a cose che non capiscono. Si può solo immaginare che i combattenti di Hamas ricevano un messaggio di testo: "Oh cavolo, ecco un altro opinionista occidentale che dice che dovremmo smettere di fare quello che stiamo facendo. La cosa si fa seria". (Almeno ci saranno una serie di libri, conferenze e lezioni su YouTube sulla moralità del conflitto, quindi non è tutto negativo).
Il secondo modo in cui il liberalismo cerca di dominare il discorso sul conflitto è attraverso il diritto. Naturalmente il diritto, con la sua razionalità tecnocratica, la sua codificazione e la sua precisione, è sempre stato il soggetto liberale per eccellenza. Non dobbiamo fare i Clausewitziani e sostenere che la guerra non può essere limitata o controllata, ma è chiaro, se ci pensiamo, che l'applicazione del diritto ai conflitti armati, almeno nella moderna veste liberale e tecnocratica del diritto, è una sorta di errore di categoria. È il discorso sbagliato da applicare, perché si basa su dettagli raffinati, su argomentazioni ingegnose, su sottili distinzioni e gradi di colpa, mentre si applica alla confusione sanguinosa e caotica che è il conflitto armato. E alla fine, chiediamo a gruppi di giudici non esperti di raggiungere conclusioni essenzialmente soggettive sulla colpa e sulla responsabilità, o meno, di eventi terribili.
Se intendiamo le leggi di guerra come linee guida principalmente normative, allora il loro uso e la loro applicazione sono ragionevoli, e possono essere insegnate e applicate. Alcune delle disposizioni più note, come il trattamento dei non combattenti, sono caratteristiche del comportamento dei buoni militari da molto tempo. Ma il problema è che il "diritto di guerra" (un'espressione infelice, a mio avviso) è in definitiva un tentativo di imporre una serie di restrizioni complesse e arbitrarie al conflitto armato, per renderlo il più possibile conforme alla visione liberale di come dovrebbe essere il conflitto. Ma questo è ovviamente impossibile, tanto più che molti combattenti di oggi non hanno mai sentito parlare delle Convenzioni di Ginevra, e anzi molti non sanno leggere. Un esercizio interessante - e per quanto ne so non è mai stato fatto - sarebbe quello di prendere i testi delle Convenzioni di Ginevra, dei Protocolli aggiuntivi e dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale e decostruirli, per vedere come dovrebbe essere il conflitto armato per rendere questi documenti rilevanti. In altre parole, se i documenti fossero stati scritti sulla base di una ricerca sul campo dei conflitti contemporanei, sarebbero stati simili a quelli che abbiamo?
La risposta, senza sorpresa, è no. Questi documenti partono dal presupposto che la guerra si combatte per obiettivi limitati tra forze addestrate e disciplinate, che indossano uniformi distintive e portano le armi apertamente, e in base a regole ben definite. Un comandante accetterà di perdere una battaglia piuttosto che infrangere le regole e punirà i subordinati che non seguono il suo esempio. I combattenti (cioè le truppe regolari, disciplinate e in uniforme) sono gli unici attori reali: la leadership politica, le fabbriche che producono armamenti e materiali e le infrastrutture civili non sono rilevanti per le operazioni militari. È vero che, con il passare del tempo, si è cercato di includere disposizioni per le forze irregolari, ma la struttura e il contenuto dei documenti presuppongono di fatto un conflitto simile alle fasi iniziali della Prima guerra mondiale in Europa. La progressione del Diritto Internazionale Umanitario (come viene chiamato) negli ultimi decenni è stata quella di allontanarsi sempre di più dal conflitto come realmente accade, verso il conflitto come normativamente dovrebbe essere. Il diritto internazionale umanitario diventa quindi sempre più irrilevante rispetto al comportamento reale e, a sua volta, deve essere deformato sempre di più per poter essere applicato alla realtà contemporanea. Di nuovo il nostro vecchio amico problema del discorso.
Una difficoltà è rappresentata dal fatto che, a differenza del normale (si è tentati di dire "reale") diritto penale, il DIU non ha alcuna base pragmatica e consiste interamente di norme. Possiamo quindi comprendere le virtù pratiche delle leggi contro la rapina, l'omicidio e persino la frode: esse ci proteggono tutti e le società le sviluppano generalmente da sole. Ma non esiste un fondamento pragmatico simile per il diritto internazionale umanitario. Il suo concetto centrale è la distinzione tra "combattenti" e "non combattenti" e la protezione di questi ultimi. È giusto dire che nella maggior parte dei conflitti odierni questa distinzione non ha senso, ma ciononostante si insiste su di essa, ad esempio nella protezione dei prigionieri di guerra e di quella che viene popolarmente descritta come "popolazione civile". Tuttavia, questo atteggiamento è estremamente specifico dal punto di vista culturale e temporale. In passato i prigionieri venivano regolarmente giustiziati per ridurre la forza lavoro del nemico, senza mettere a rischio le proprie truppe, o come sacrificio rituale, come presso gli Aztechi. L'idea che non si debba fare questo è una norma culturale moderna, ma solo una norma, e non è evidente. Allo stesso modo, la tradizione del diritto internazionale umanitario presuppone sempre che le guerre siano una questione puramente professionale e delle élite governative ("guerre di principi"), eppure l'avvento della democrazia di massa, che non figura da nessuna parte nel pensiero del diritto internazionale umanitario, coinvolge sicuramente la popolazione di un Paese, almeno moralmente, nelle decisioni di guerra e di pace. Sembra curioso, ad esempio, che gli opinionisti che vent'anni fa sostenevano a gran voce l'invasione dell'Iraq non fossero considerati bersagli legittimi. E in effetti, con le guerre nel Golfo, nei Balcani e altrove, queste distinzioni sono diventate impossibili da mantenere oggi.
Ciononostante, ai giudici nelle aule di tribunale è stato chiesto di pronunciarsi su questioni di colpevolezza e innocenza in questi casi. Ancora più importante, forse, è il fatto che il vocabolario del diritto internazionale umanitario (spesso imperfettamente padroneggiato) e i suoi presupposti normativi e qualifiche tecniche (scarsamente compresi) sono entrati a far parte del discorso politico odierno in modo confuso e incoerente, mescolando l'indignazione morale con idee vaghe su ciò che dovrebbe o non dovrebbe essere illegale. Il risultato è un discorso politico tossico in cui si presume che la nostra disapprovazione morale nei confronti di una figura, di un movimento o di un'azione, comporti automaticamente sanzioni legali, magari dopo una breve sosta per un processo.
In alcuni casi, ai tribunali è stato chiesto di pronunciarsi su questioni che assomigliano a quelle del diritto penale standard, sebbene anche in questo caso con una massa di criteri tecnici di cui il diritto penale nazionale non deve preoccuparsi. Ma, come ho suggerito, il discorso alimentato dalla vendetta della moderna industria dei diritti umani richiede che i "maggiori responsabili" siano puniti (dopo il processo obbligatorio) e in pratica questo significa coloro che sono più lontani dall'azione e che hanno il minimo legame con essa. È nata così l'abitudine di processare alti comandanti e figure politiche per incidenti di cui in molti casi erano completamente all'oscuro. Qui si entra molto rapidamente nella palude dei giudizi morali e persino linguistici soggettivi, sul significato di "responsabilità" e "controllo".
Un primo esempio è stato il generale Stanislav Galic, il comandante delle forze serbo-bosniache che assediavano Sarajevo tra il 1992 e il 1995. Ma Galic non è stato accusato di aver ordinato tali incidenti, bensì di aver omesso di prevenire, indagare e punire i responsabili. La sua argomentazione è stata che, essendo responsabile di circa 15.000 truppe distribuite su molti chilometri, aveva fatto quello che poteva, ma non poteva essere ovunque contemporaneamente. L'accusa sostenne che non aveva fatto abbastanza e, con sorpresa generale, i giudici furono d'accordo. Come spesso accade, la sentenza è stata tanto politica quanto giuridica, poiché i giudici si sono ovviamente sentiti obbligati a individuare una sorta di sacrificio rituale per il danno così pubblicamente inflitto alla città durante la guerra, anche se probabilmente non erano consapevoli di farlo. Ma alla fine questi giudizi sono irrimediabilmente soggettivi e un altro gruppo di giudici avrebbe potuto liberare Galic, a parità di prove.
Logicamente, anche i capi di Stato non sono stati risparmiati, anche se, come nel caso del processo (non ancora concluso) al leader serbo Slobodan Milosevic, la legge è stata generalmente distorta in modo tale che l'accusa non debba provare che l'accusato abbia ordinato i crimini o che ne fosse a conoscenza, ma solo che era membro di un gruppo, alcuni dei cui membri avevano influenza su coloro che si ritiene abbiano commesso i crimini. Questo approccio è stato utilizzato con successo contro Charles Taylor, il Presidente liberiano, anche se per crimini commessi nella vicina Sierra Leone, e senza successo contro Laurent Gbagbo, il precedente Presidente della Costa d'Avorio. (I gruppi per i diritti umani hanno condannato la sua assoluzione, non perché Gbagbo fosse effettivamente colpevole, ma perché la sua assoluzione avrebbe turbato i suoi critici). Ma alla fine, ogni verdetto sarebbe potuto andare nella direzione opposta con altri gruppi di giudici: erano nella posizione di non esperti di diritto tributario chiamati a decidere se l'ammontare delle tasse pagate da un miliardario fosse "giusto" o meno.
Il discorso liberale prevalente sul conflitto è quindi una miscela scomoda e poco attraente di isteria morale normativa e concetti giuridici tecnici semisconosciuti, che spiega il modo incoerente e spesso incomprensibile in cui i conflitti vengono riportati e commentati. Peggio ancora, influisce anche sul modo in cui i governi occidentali vedono le opzioni di gestione della crisi e del conflitto stesso. Ad esempio, i governi occidentali non riescono a capire che ciò che dicono sui combattimenti di Gaza non interessa ad Hamas, i cui obiettivi politici e propagandistici sono altrove, e per di più interessa molto poco al Sud globale in generale. In effetti, l'incapacità dell'Occidente di comprendere la realtà dei conflitti e delle atrocità, la sua riluttanza a imparare e l'insistenza nel cercare di imporre a gran voce la sua miscela di spacconate morali e di pignoleria legale lo escludono praticamente come attore credibile.
Non è che queste cose siano poi così difficili da capire. Sappiamo molto, grazie all'osservazione diretta, su come nascono i conflitti e come avvengono le atrocità. La sintesi più breve possibile direbbe che in genere si verificano perché le persone si sentono giustificate ad agire in quel modo - anche se non hanno scelta - e di solito perché hanno paura. Un approccio, naturalmente, potrebbe essere quello di chiedere alle persone e ai gruppi violenti perché sono violenti, piuttosto che impegnarsi in un astratto ragionamento induttivo e normativo. Ma spesso questo produce risultati deludenti, in contrasto con i pregiudizi politici esistenti.
Una persona che ha fatto esattamente questo è stato lo psichiatra americano James Gilligan, che ha lavorato per molti anni con i criminali più violenti. In una serie di libri, ha illustrato fino a che punto i criminali violenti cercavano di contrastare le minacce che sentivano per il loro amor proprio, e persino per la loro stessa esistenza, e si sentivano giustificati persino a commettere un omicidio. Non è difficile vedere questa logica operare anche a un livello superiore: poche nazioni o gruppi armati si sono mai sentiti segretamente ingiustificati in ciò che fanno. Molti sostengono di non avere scelta e di essere obbligati a prendere le armi per riparare a torti intollerabili. Si tende a liquidare queste affermazioni come semplice retorica, ma è chiaro che c'è dell'altro. È legata al concetto di "proteggere il nostro popolo", già visto in precedenza, ed è spesso formulata in termini di autodifesa riluttante. Un caso ben noto è quello di Eugene de Kock, noto ai media come "Prime Evil" per il suo ruolo negli squadroni della morte dell'apartheid, che ha sostenuto in tribunale e nei media non solo che le sue atrocità erano giustificate ("o noi o loro") ma che, omicidi a parte, aveva cercato di imporre ai suoi uomini elevati standard morali. In realtà, se c'è un'unica immagine di sé che emerge da questi orribili incidenti, è quella di un gruppo, o addirittura di una popolazione, costretta con riluttanza a compiere gli atti più terribili, contro la propria inclinazione, perché non ha scelta se vuole sopravvivere. L'esempio più stridente si trova, ancora una volta, nel Terzo Reich, dove chiunque si faccia strada nell'immensa e approfondita biografia di Heinrich Himmler di Peter Longerich ha l'impressione di un individuo perbenista e moralista, ossessionato dalla creazione di una nuova classe cavalleresca la cui sfida era in qualche modo quella di rimanere "decente", anche dopo aver compiuto le azioni più terribili che si potessero immaginare: azioni imposte al popolo tedesco perché "o noi o loro", e che solo i più forti e i più onorevoli avevano la tempra mentale per compiere.
Il discorso "o noi o loro", ovviamente, ha come punto di partenza la paura, e la paura è una componente importante nell'avvento della guerra e del conflitto. La paura che se non uccido il mio rivale, lui o lei mi ucciderà. Paura della minoranza circondata dalla maggioranza. Paura della maggioranza con una minoranza al suo interno. Paura che le minoranze si coalizzino contro di voi, magari orchestrate da un potere esterno. Paura che l'Altro voglia vendicarsi per ciò che gli avete fatto l'ultima volta. Paura che l'Altro faccia quello che ha fatto a voi l'ultima volta, ma peggio. Paura che il più debole diventi abbastanza forte da sfidarvi. Paura che il più forte attacchi solo perché è più forte. In queste circostanze, l'unica soluzione è quella di colpire per primi e più duramente Solo quando avrete completamente spazzato via il nemico potrete essere sicuri che non ci sarà mai più una minaccia, come sosteneva Catone il Vecchio a proposito di Cartagine.
Non c'è molto che si possa fare per scacciare la paura: gli scambi di orchestre giovanili e i gemellaggi tra città non bastano. Anche quarant'anni di gentilezza e riconciliazione obbligatoria nella Jugoslavia del dopoguerra, spesso a colpi di pistola, sono crollati nel giro di pochi mesi in una situazione in cui tutti erano improvvisamente una minoranza e tutti dovevano fare i conti con un passato spaventoso e brutale anche per gli standard della regione. Perciò non compare molto nella letteratura sulla risoluzione dei conflitti, perché la mente liberale trova la paura, come tutte le emozioni, difficile da gestire. E per definizione, ovviamente, io non posso capire le tue paure nei miei confronti e tu non puoi capire le mie paure nei tuoi confronti. Come motivo, essa affiora occasionalmente nel discorso, ad esempio nell'infinito e terrificante conflitto tra i contadini hutu e l'aristocrazia tutsi in Africa orientale. Ahmed Ould-Abdallah, rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Burundi all'epoca della crisi ruandese, commentò una volta che il problema principale che aveva con i leader politici di quel Paese era che erano tutti terrorizzati l'uno dall'altro e ogni volta che stringeva loro la mano, i loro palmi erano bagnati dalla paura. Concludeva che il Paese non aveva bisogno di forze di pace, ma di psichiatri.
Ma naturalmente hanno continuato a ricevere i peacekeepers, perché è quello che sappiamo fare. L'accettazione dell'importanza della paura e del senso di giustificazione è fatale per il discorso attualmente dominante del conflitto e dell'atrocità, anche se è necessario per comprendere la realtà. Queste persone (lo Stato Islamico, Hamas, il Battaglione Azov) non possono essere serie. Non possono pensare che ciò che fanno sia giustificato. Ma lo fanno, e finché cercheremo di imporre il nostro modello inetto e grottesco di condanna morale e di minacce legali ai mali del mondo, dovremo rassegnarci ad avere uno scarso impatto. L'alternativa - l'accettazione del fatto che alcuni problemi sono semplicemente insolubili e che, nel migliore dei casi, possono essere solo gestiti - è normativamente impossibile da accettare per una società liberale e impicciona. Ma forse non dipende da noi ancora per molto.
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lamilanomagazine · 1 year ago
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Bologna biblioteche: gli appuntamenti da giovedì 26 a martedì 31 ottobre.
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Bologna biblioteche: gli appuntamenti da giovedì 26 a martedì 31 ottobre. In particolare segnaliamo queste iniziative: 26 ottobre | Treno della Barca. Aperibook. Equi-Libri sui binari reloaded, serate per parlare delle molteplici sfumature della città 26 - 27 ottobre | Biblioteca Salaborsa, Biblioteca Salaborsa Lab Roberto Ruffilli, Palazzo d'Accursio. After. Futuri digitali, festival del digitale dedicato alla diffusione della cultura digitale, e alla promozione, anche nazionale, della comunità di innovatori locali 27 - 28 ottobre | Biblioteche di pubblica lettura di Bologna. La notte dei pupazzi 2023, torna anche quest'anno la serata dedicata alle bambine, ai bambini e ai loro amici peluche 28 ottobre | Biblioteca Jorge Luis Borges. Note al testo, gruppo di musica e letture, per scoprire insieme al giornalista e critico musicale Lucio Mazzi le icone del Rock e del Pop 28 ottobre | Biblioteca Amilcar Cabral. La letteratura non è un dettaglio minore. Maratona di lettura Adania Shibli, SeSaMO - Società degli studi per il Medio Oriente promuove in tutta Italia la maratona con l'intento di sottolineare il ruolo che la letteratura riveste nel creare occasioni di confronto 28 ottobre | Biblioteca Borgo Panigale. Arti e scienza al femminile, appuntamenti per bambine e bambini 30 ottobre | Biblioteca Salaborsa. Archivio Aperto. Poetry, Diaries, Novels, Incontro con Jamaica Kincaid, la scrittrice statunitense nata ad Antigua torna in Italia per un incontro sul tema della parola come indagine sulle storie personali intrecciate alla storia collettiva Mostre in corso: Dal 20 al 28 ottobre: Mapping Exhibition https://www.bibliotechebologna.it/objects/mapping-exhibition Dal 23 ottobre al 4 novembre: Facciamo pace?! https://www.bibliotechebologna.it/events/facciamo-pace Tutti gli appuntamenti nelle biblioteche sono consultabili a questo link: https://www.bibliotechebologna.it/documents/appuntamenti-nelle-biblioteche... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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pietroleopoldo · 1 year ago
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Riguardo a quello che hai detto nel post sul recente bombardamento in Israele: sono d'accordissimo, PERÒ vorrei puntualizzare. SECONDO ME: comprensibile, ma non giustificabile. Comunque ci sono andati dei civili di mezzo. Un bombardamento così all'improvviso la Palestina se lo poteva risparmiare, soprattutto perché adesso passa dalla parte del torto.
(Poi se ci stava già per altre ragioni io non lo so... potresti fare un mini recap della questione per noi non-storici? Perché è abbastanza ingarbugliata e tu ne saprai sicuramente di più delle notizie digerite e reimpastate dei giornali.)
Ps adoro il tuo blog
Ciao, grazie mille :) spero di non deludere le tue aspettative con questa risposta abbastanza inutile.
Ovviamente quando dico che una situazione è comprensibile non intendo necessariamente giustificarla, soprattutto in un caso come questo che ha comportato, e continuerà a comportare perdite di vite da entrambe le parti (e probabilmente non solo nell'area, ho il terrore che si possano cominciare a verificare attacchi a moschee o sinagoghe in tutto il mondo ora che la questione è tornata alla ribalta). Personalmente cerco di limitarmi al cercare di comprendere le cause di una situazione più che a dare troppi giudizi di merito su quello che i palestinesi dovrebbero fare perché, alla fine, sono una ragazza occidentale cresciuta nella bambagia, e la mia prospettiva su quello che sta accadendo mi sembrano non aggiungere niente di utile alla discussione. Non so cosa vorrei se fossi cresciuta nella striscia di Gaza. (Questa ovviamente non vuol essere una critica a chi invece la sua opinione la dice, perché penso che in situazioni in cui così tante vite umane sono in gioco sia normale essere arrabbiati, e indignati, e volerlo esprimere).
Spero nonostante tutto di essere stata un minimo utile ^^"
Purtroppo non sono affatto esperta di questi argomenti, nel corso dei miei studi (che chiarisco si limitano ad una laurea triennale e a qualche corso della magistrale, quindi difficilmente mi rendono più di una scema qualsiasi su internet) mi sono concentrata principalmente sulla storia europea e purtroppo anche i miei tentativi di approfondimento di storia globale non sono ancora arrivati a questa zona di mondo. Ho provato anche a dare un'occhiata ai miei vecchi libri di testo per darti una risposta più completa possibile, ma la questione israelo-palestinese si limita ad essere discussa nell'ambito delle relazioni di Israele con gli USA, l'Iran, l'Egitto, e molto poco nell'ambito effettivo dei rapporti tra le due popolazioni che potrebbero essere utili da conoscere ora. Anche le mie conoscenze alla fine si limitano a quello che dicono i giornali, quindi non me la sento di fare un riassunto di una situazione che alla fine non conosco meglio del resto degli italiani.
Se ti può essere utile, il riassunto più dettagliato della storia della questione israelo-palestinese che mi viene in mente è una serie di articoli sul sito decolonize palestine, che come puoi immaginare offre una prospettiva puramente palestinese, ma che magari può comunque essere interessante. Se invece ti interessasse anche qualcosa sui rapporti con gli altri stati del Medio Oriente fammi sapere e magari posso passarti qualche scan del mio vecchio libro di testo di storia contemporanea (è un paragrafetto di qualche pagina, niente di troppo lungo e pesante :') )
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londranotizie24 · 2 years ago
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Come girare il mondo gratis: l’ultimo libro di Franceschini all’Iic di Londra
Di Simone Platania @ItalyinLDN @ICCIUK @ItalyinUk @inigoinLND Una talk per Come girare il mondo gratis: l'ultimo libro di Franceschini all'Iic di Londra il 31 gennaio. Come girare il mondo gratis: l’ultimo libro di Franceschini all’Iic di Londra Cosa significa dover cambiare continuamente casa,? Spostarsi tra città, stati e spesso continenti totalmente diversi? Poter sedersi al tavolo e incontrare alcune delle persone più influenti del mondo? Parlare con capi di Stato come Ronald Reagan e Gorbaciov oppure regine come Elisabetta II. Ma anche icone dei nostri tempi come Neil Armstrong e Usain Bolt. Visitare il mondo, dagli Stati Uniti alla Russia, dal Medio Oriente all'Europa. Vivere in Centro America, Afghanistan, Cina, Giappone e in Nord Africa. Che prezzo ha una vita del genere?  Ce ne parla “Come girare il mondo gratis-un giornalista con la valigia”: l’ultimo libro di Enrico Franceschini all’Iic di Londra presentato il 31 gennaio. Presenti all’evento in conversazione con l’autore molti ospiti importanti, tra i quali: Luigi Ippolito (Corriere della Sera), Alessandra Rizzo (La Stampa) e Marco Varvello (Rai).  Nel suo nuovo libro, edito da Baldini+Castoldi, Franceschini racconta quarant'anni di esperienze in giro per il mondo. Come corrispondente estero de La Repubblica ha infatti vissuto una vita in ogni angolo del mondo per coprire i temi più vari. Elezioni e terremoti, Olimpiadi e colpi di Stato, Hollywood e terrorismo. Ma anche notti folli alla Trump Tower di Manhattan con Federico Fellini e banchetti formali a Buckingham Palace come ospite della Regina. Il libro di Franceschini e la talk all’Istituto Italiano di Cultura a Londra promettono di non annoiare lettori e ospiti.  L’evento inizierà alle 6 p.m. ed è prenotabile qui. Franceschini e gli ospiti della talk C'è un consiglio ben chiaro lanciato da Franceschini nel suo nuovo libro per chi vuole diventare corrispondente estero: "il prezzo è uno stile di vita non-stop, la ricompensa sarà la possibilità di girare il mondo gratis". E a parlarne sarà proprio lui il 31 gennaio in una talk di due ore all'Iic di Londra Come reporter estero per La Repubblica ha vissuto a New York, Washington, Mosca, Gerusalemme e Londra, dove vive attualmente. Nel 1993 ha vinto il Premiolino, uno dei più antichi e prestigiosi premi giornalistici italiani, per il reportage sul golpe in Russia. È autore di oltre 20 libri di narrativa e saggistica. Presenti alla serata anche Luigi Ippolito, corrispondente dal Regno Unito per Il Corriere della Sera. ... Continua a leggere su www. Read the full article
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weirdesplinder · 3 years ago
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I miei libri gialli preferiti
D’estate mi piace molto leggere gialli, non so perchè ma ho sempre avuto l’impressione che la loro atmosfera mi rinfrescasse dalla calura.
Perciò oggi voglio consigliarvi alcuni dei miei gialli classici preferiti, non ibridi rosa o romantic suspance, ma proprio gialli puri:
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L'uomo dal vestito marrone, di Agatha Christie
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Trama: Ann Beddingfield è una ragazza priva di mezzi ma dotata di uno straordinario sangue freddo e di un fortissimo amore per l'avventura. L'occasione per far emergere questo suo carattere arriva quando, dopo aver assistito a un mortale incidente in metropolitana, Ann, ben lungi dal perdere la testa, riesce a scorgere alcuni indizi sfuggiti alla Polizia. Cercando di mettere a frutto la sua scoperta per far strada nel giornalismo, la giovane si trova però ben presto a dover fare i conti con il misterioso “colonnello”, il capo di una pericolosissima multinazionale del crimine e con un'affascinante uomo vestito di marrone, sospettato di un feroce delitto. Ma con tenacia e un pizzico di fortuna la temeraria avventura riuscirà a trovare il filo della complicata vicenda, facendo luce su un misterioso furto di diamanti e imbattendosi, quasi per caso, in un grande amore.
La mia opinione: Mi piacciono i libri con protagonista Poirot, ma mi piacciono della Christie anche i gialli con protagoniste donne del tutto normali che si ritrovano coinvolte del tutto per caso in difficili indagini e misteri.In questo poi la protagonista è sì un poco incoscente, ma molto coraggiosa.
C’era una volta, di Agatha Christie
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Trama: Siamo a Tebe, nell'antico Egitto, intorno al duemila avanti Cristo, all'epoca dell'XI dinastia. Renisenb, in seguito alla morte del marito, torna nella grande casa del padre Imhotep, sacerdote del Ka. La giovane, dopo la disgrazia che l'ha colpita, è in cerca di conforto e nella casa natale, vicino ai parenti e ai servi fedeli, ha l'impressione di poter riacquistare la perduta serenità. Ma la realtà in cui si imbatte è assai diversa: i suoi tre fratelli, il debole Yamhose, il prepotente Sobek e il viziato Ipy, sono sempre in contrasto tra di loro, mentre le cognate e la vecchia, malvagia Henet gettano olio sul fuoco. Ma la situazione è ancora destinata a peggiorare con l'arrivo della sensuale e affascinante Nofret, la giovanissima nuova concubina di Imhotep. In questa atmosfera di gelosia, passioni e rancori scoppia ben presto una vera e propria tempesta e incominciano a verificarsi strane morti misteriose, attribuite dalla famiglia alla oscura maledizione degli dei, ma la verità invece può nascondersi in mezzo agli uomini.
La mia opinione: non lasciatevi ingannare dall’epoca storica in cui è ambientato questo romanzo, al centro del mistero abbiamo una famiglia e una cospicua eredità. I problemi dall’Egitto dei faraoni ad oggi sono sempre quelli e anche l’animo umano.
Il mondo è in pericolo, di Agatha Christie
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Trama: Victoria Jones è una ragazza speciale, ma il suo animo romantico e la sua voglia di avventure possono spingerla a buttarsi anche in imprese avventate. E quando conosce Edward, un affascinante giovanotto in partenza per Baghdad, in poche ore si ritrova catapultata dalle fredde nebbie londinesi alle esotiche atmosfere del Medio Oriente. Quello che però Victoria non si aspetta è di venire coinvolta in una tenebrosa storia di spionaggio internazionale che potrebbe addirittura cambiare i destini del mondo.   
La mia opinione: lo spunto di partenza è simile a quello del libro L’uomo vestito di marrone, una ragazza in cerca d’avventura, ma qui la protagonista è più ingenua e si lascia coinvolgere fin toppo da chi la vuole manipolare. Per fortuna però non è stupida e  alla fine se la caverà con un piccolo aiuto.  
        Il mistero della signora scomparsa, di Ethel Lina White
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Trama: In un treno in viaggio attraverso l'Europa la giovane Iris Carr stringe un'occasionale amicizia con la signorina Froy, una zitella inglese che la  circonda di attenzioni… Ma quando Iris si risveglia da un breve sonnellino scopre che la signorina Froy è scomparsa. Nessuno degli altri passeggeri vuole ammettere di averla mai vista: Iris ha avuto un'allucinazione, oppure tutti i viaggiatori sono complici di un'assurda e terribile congiura?
La mia opinione: se non avete visto il film tratto da questo libro dovetea ssolutamente vederlo, è carinissimo e il giallo funziona davvero. Libro superconsigliato, dove la protagonista non ha mail il dubbio di essersi sbagliata è certa di ciò che ha visto e la sua sicurezza convince anche gli altri.
La sfida della mummia, di Elizabeth Peters 
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Trama: Con la morte del padre, Amelia Peabody riceve una cospicua eredità e può finalmente dedicarsi alle sue grandi passioni: la storia e l’archeologia. Così parte alla volta dell’Egitto, il paese che più la affascina. A Roma, si imbatte in una giovane in disgrazia, Evelyn, che è appena stata abbandonata dall’uomo che amava. Amelia prende a cuore la sorte della ragazza, la porta con sé in Egitto dove incontrano due fratelli archeologi, impegnati negli scavi di alcune tombe egizie. Tra i quattro si instaura subito un burrascoso rapporto di odio e amore, ma il destino sembra obbligarli a incontrarsi. Infatti, dopo essersi separati al Cairo, si ritrovano in un sito archeologico sulle rive del Nilo dove di notte appare la mummia di un sacerdote…
La mia opinione: definire ironico e caricaturale questo libro sarebbe riduttivo, i personaggi sono estremi nei loro caratteri e nelle loro fissazioni, però funzionano. Mi ha fatto sorridere è vero, ma mi ha anche coivolto e conquistato.Potete leggere il mio post dedicato ai libri di questa serie qui: https://weirdesplinder.tumblr.com/post/132325476853/elizabeth-peters-archeologia-mistero-delitti-e
L'uomo ombra, di Dashiell Hammett
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Trama: New York, 1932: ultimo anno del Proibizionismo in un'America messa in ginocchio dalla Depressione. Eppure, Nick e Nora Charles non sembrano accorgersene e passano le giornate e le notti tra un party e l'altro, ingurgitando enormi quantità di alcol. Reduce della Prima guerra mondiale, il duro Nick ha lasciato il lavoro di detective di polizia dopo il matrimonio con la giovane ricca ereditiera Nora. Fino a quando, a causa di un incontro inaspettato con un passato ingombrante, Nick e Nora si ritrovano coinvolti loro malgrado in un intricato caso di omicidio, e finiscono addirittura sulla lista dei sospettati. Nick non ha altra scelta che rispolverare i “ferri del mestiere” per risalire a un enigmatico, elusivo colpevole.
La mia opinione: giallo classico con una coppia che indaga, poi trasformato in film, ed è sempre bello e piacevole sia in vesione libro che cinematografica.
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fondazioneterradotranto · 4 years ago
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Uno sguardo alle prime scriptae salentine
di Giammarco Simone
Introduzione
Per introdurre il tema del presente articolo, vorrei partire dalla definizione di ‘linguaggio’ del vocabolario Treccani, secondo cui esso è “la capacità e la facoltà, peculiare degli esseri umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di informare altri esseri sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna, per mezzo di un sistema di segni vocali o grafici”.
Tra i segni grafici utilizzati dall’essere umano, la scrittura alfabetica diventa espressione culturale di un popolo che utilizza un sistema di lettere per comporre, comunicare e conservare per iscritto pensieri, racconti, leggende, canzoni e poesie.
La scrittura diventa testimonianza linguistica di una civiltà ed è affascinante conoscerne e studiarne le origini, in quanto custodisce le chiavi di accesso per comprendere l’attuale panorama linguistico. Il fine di questo viaggio attraverso i secoli è quello di riscoprire alcuni testi antichi che hanno fatto la storia del salentino e che si conservano nelle prestigiose biblioteche d’Italia (Padova, Milano, Firenze, Perugia e Roma, per citarne alcune) ma anche in quelle inglesi, francesi e austriache. Ho deciso di attingere le notizie dalle ricerche fatte negli anni dagli studiosi interessati all’argomento e, consapevole della quantità degli studi effettuati e dei ritrovamenti, per motivi di spazio ne ripropongo solo alcuni sotto forma di breve raccolta.
edizione degli Epigrammi del 1490 custodita nell��Archivio del governo di Aragona, in Spagna (immagine tratta da http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Marcial._Epigrammata._1490.jpg?uselang=it)
  Le prime scriptae salentine
Ancora prima dell’inizio del Medioevo, l’odierno Salento era abitato dapprima da tribù autoctone, come gli Iapigi, ed in seguito da popolazioni straniere provenienti dalla Grecia, ovvero i Messapi[1]. Posteriormente al dominio messapico, i Romani arrivarono da conquistatori nel I a.C. e vi rimasero fino alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C., anno convenzionale per l’inizio del Medioevo.
  Dopo i Romani, la Terra d’Otranto fu desiderio di conquista da parte dell’Impero Romano d’Oriente, con i Bizantini che imposero la loro egemonia per molti secoli, soprattutto per l’importanza che ricopriva il Salento nelle rotte commerciali con l’Oriente. Di lì a poco, si susseguirono varie popolazioni e domini stranieri (Saraceni, Longobardi, Angioini, Aragonesi, Francesi) lasciando notevoli tracce del loro passaggio. In questo via vai di popoli, tradizioni, culture e lingue, il nostro idioma è andato formandosi assorbendo tratti e caratteristiche che nel corso dei secoli si sono modellate, fino a consolidarsi e a dar vita al salentino attuale.
Tuttavia, per conoscere le prime testimonianze scritte dobbiamo percorrere un viaggio a ritroso nei secoli quando ancora in Salento si parlava il volgare salentino, un parente non troppo lontano dell’attuale dialetto salentino, ma che con parole più tecniche si potrebbe definire un discendente strettissimo del latino volgare[2].
La documentazione dei testi in latino volgare è abbastanza esigua. Negli studi di storia della lingua italiana, l’esempio più conosciuto di testo dove compaiono forme in latino volgare è l’Appendix Probi (L’appendice di Probo) risalente al VI-V secolo a.C., contenente una lista di ben 227 parole scritte dal grammatico Probo, il quale riporta il corretto nome in latino classico affiancato dalla sua corrispettiva voce in volgare ritenuta ‘scorretta’. Una storia completamente diversa si ha per quanto riguarda le prime attestazioni in volgare italiano, con la maggior parte degli studiosi che concordano sul fatto che le sentenze giuridiche dei Placiti Campani, databili X secolo d.C., sono tra prime testimonianze sul territorio nazionale. Scritte in latino classico, contengono però stralci di italiano antico, in quanto le deposizioni dei testimoni (di madrelingua volgare) venivano riportate nella loro lingua parlata:
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.[3]
Sao cco kelle terre per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro que ki contene et trenta anni le possette[4].
Kella terra per kelle fini que bobe mostrai Sancte Marie e et trenta anni la posset parte sancte Marie[5].
Sao cco kelle terre per kelle fini que tebe monstrai trenta anni le possette parte Sancte Marie[6].
Se già a partire dal X secolo d.C. nel territorio nazionale si attestano in testi scritti espressioni e vocaboli in volgare italiano, si può dire lo stesso per il volgare salentino? La risposta è sì, seppur meritevole di qualche precisazione.
In passato, l’elaborazione e la stesura di libri e testi era compito solo di alcune persone erudite (gli amanuensi) che grazie alle loro conoscenze grafiche e linguistiche potevano scrivere e persino tradurre testi antichi di altri idiomi e volgarizzarli nella nuova lingua. Dalle attestazioni in volgare italiano si evince che la grafia utilizzata dagli eruditi fu quella latina, mentre per quanto riguarda le parlate regionali e locali (nel nostro caso il volgare salentino) assistiamo ad una lunga tradizione di testi redatti in alfabeti diversi dal latino, e cioè in ebraico e greco. La spiegazione di tale comportamento è da ricondurre alla situazione socio-linguistica del nostro territorio in quei secoli. Come affermato da Maggiore (2015)[7]:
Il primo elemento di specificità è legato alla presenza, in un arco di tempo che supera i confini cronologici del Medio Evo, di scritture redatte in alfabeti diversi da quello latino, segnatamente i caratteri israelitici e greci. La presenza dei primi è legata alle vicende storiche della comunità ebraica salentina, mentre la ricchezza dei secondi chiama direttamente in causa la durevole vitalità dell’esperienza culturale italo-greca di Terra d’Otranto, che pervenne anche a esprimere personalità letterarie di primissimo piano come quella di Nettario di Casole, poeta bizantino vissuto a Otranto tra il XII e il XIII secolo.
Casole presos Otranto
  La comunità ebraica si stabilì nel Salento già dai primissimi secoli successivi alla Diaspora Ebraica iniziata con la conquista dei Romani della Terra d’Israele intorno al VIII-VI secolo a.C. E’ proprio uno scritto in alfabeto ebraico, datato intorno al X secolo d.C., ad essere stato redatto in Terra d’Otranto. Si tratta di un importante trattato di farmacologia risalente al 965 d.C. scritto dall’astronomo, filosofo e medico ebreo (nato ad Oria nel 913 d.C.) Shabbetai Donnolo.
L’importanza di questo testo risiede nel fatto che, secondo Cuscito[8](2018), è “ritenuto il più antico testo farmacologico ebraico, se non il più antico testo medico scritto in questa lingua dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente”. Il Sèfer ha­–yaqar (Libro prezioso), così si intitola l’opera, nonostante sia un testo innovatore nel panorama medico e scientifico di quell’epoca, dal punto di vista linguistico fornisce esempi di salentino, in quanto ricco di toponimi meridionali e termini botanici greci, latini e volgari che sono arrivati fino ai giorni nostri. Un esempio è il cocomero asinino (scritto QWQWMRYNA secondo la traslitterazione di Treves)[9], che ritroviamo a Lecce con il nome di cucummaru sputacchiaru o riestu[10].
Sempre in alfabeto ebraico e con rilevanza linguistica ancora più notevole sono le 154 glosse ritrovate all’interno di un antico codice ebraico, il Mišnah, datato 1072 e studiato attentamente da Cuomo[11](1977), dove compaiono parole salentine pervenuteci fino ad oggi: lentikla nigra, meluni rutundi, iskarole salβateke, kukuzza longa, sciroccu, kornula, làuru e voci verbali come pulìgane, sepàrane, assuptìgliane.
Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C, e con l’arrivo dei Bizantini provenienti da Oriente, la tradizione scritta salentina si sviluppa anche in alfabeto greco. Infatti, si registra una attività greca molto forte tra il XIII e il XVI, che porta la lingua greca ad essere parlata e scritta nelle scuole e nelle case. Tale fu l’impatto greco-bizantino sul nostro territorio che ne conserviamo l’eredità linguistica (mi riferisco alla Grecia Salentina e al griko, un dialetto della lingua greca parlato nel Salento). Esempi in alfabeto greco sono due brevi liriche amorose databili tra un arco temporale che va dal 1200 al 1300. Di seguito, ripropongo la traslitterazione in grafia latina fatta da De Angelis[12](2010), a cui si deve anche l’importante studio linguistico che ne conferma la salentinità, nonostante a prima impressione il testo possa essere definito di tipo siciliano:
Amuri amuri
1. Αμουρι αμουρι δ’αμουρι λα μια [μ]ουρτί σε αλτρου ομου τε κουλ-
2. κόου λα ρουφιάνα κουτραρα β[4]σζαϊ λου βανου κόρε:-
3. πρέγαρὲ βόλλου λί μεϊ ουργανατούρι κούιστέ παρόλε δεϊσζα-
4. νου <μ>βεζαρε σζ’αννου<ν>ζου ε δαδρι όττα περ μιου αμόρε· ρουσζίερ
5. κου[35]β…
6. τα δέισζαλα καντάρε δε[ισ]ζα μανδάρε περ τόττα λα κου[ν]-
7. τράτα κούεϊστα βαλλάτὰ σζι ε φάττα νυβέλλα δα σζοι
8. σε αππέλλα νικολα δεττορε:-
9. λου δεττορε
1. amuri amuri d’amuri la mia murti se altru omu te
cul-
  2. cóu la rufiana quatrara b[vacat] ci hai lu vanu còre
3. pregare vogliu li mei urganaturi quiste parole diggia-
4. nu mbezzàre c’annunciu e dadri otta per miu amore;
  5. [†]
6. cierta (?) diggiala cantare diggia mandare per totta la cun-
7. trata quista ballata ci è fatta nuvella da ci
8. se appella Nicola Dettore
9. lu dettore
  In questo breve componimento, l’autore, un tale Nicola Dettore dice che, nel caso in cui la sua amata (v.2 la rufiana quatrara) lo tradisca (v.1 se altru omu te culcòu), egli morirà a causa del mal d’amuri. Per questo, si augura che i cantori (v.3 urganaturi) possano imparare queste sue parole (vv.3-4 quiste parole diggia-nu <m>bezzàre c’annu<n>ciu ) e che si diffondano per tutta la contrada (v.6 diggiala cantare diggiala mandare totta la cuntrata), affermando che la ballata è una novella (v.7 quista ballata ci è fatta nuvella) scritta proprio da colui che si chiama Nicola Dettore (vv.8-9 se appella Nicole Dettore).
 Bellu missere
01. ββέλλου μισσέρε ασσάι δουρμιστι
02. κουμμίκου νον γγαυδίστι ζζο
03. μι [ν]κρίσζι κα λ’αλβουρι αππα-
04. ρεισζε πάρτ<ε>τε αμουρι πρε[σ]του
05. α κουρτεσία ελλάλβουρι αππα-
06. ρεισζε ε κουι νο [σ]τάρε οννει
07. ββρίγα ε δουλενζια τι κου<μ>βένε
08. νον σίτι αμαντε δε δοννα ακουι-
09. σταρε νι ννα [δ]’αζζιρε ε νι δ’άβιρ[ε]
10. [δ]εποι κα νσζι βουλι[σ]τι α[δ]ουρμενταρε
11. σζε μι σζε[ρ]κάστι α μ[ε]ντ[ι]ρε π[ε]ρ
12. ομου σζι τενε ουνα ταλε σζο-
13. για σζε λλι αννογια.
01. bbellu missere assai durmisti
02. cummicu non gaudisti ciò
03. m’incrisci ca l’alburi appa-
04. risce partete amuri prestu
05. a curtesia e ll’alburi appa-
06. risce e qui no stare onni
07. bbriga e dulenzìa ti cunvene
08. non siti amante de donna acqui-
09. stare ni nn’a d’aggire e ni d’avire
10. depoi ca nci vulisti adurmentare
11. ce mi cercasti a mentire per
12. omu ci tene una tale gio-
13. ia ce gli annoia
  Il testo è considerato da Distilo (2007)[13] appartenente al genere di canzone di malamata, ovvero quei componimenti nei quali le donne raccontavano la loro insoddisfazione coniugale. Nel testo, la donna dice al suo uomo (v.1 bellu missere) che a causa del suo troppo dormire (v.1 assai durmisti) non si dilettò con lei (v.2 cummicu no gaudisti). Per questo, la donna si dispiace che sia già giorno (v.4 m’ncrisci ca l’alburi apparisce) e lo esorta ad andarsene (vv.4-5 partete amuri prestu, a curtesia) e a non rimandare le fatiche e le preoccupazioni del nuovo giorno che gli spetta (vv.6-7 e qui no stare onni bbriga e dulenzia ti cunvene). Poi accusa l’uomo di non saperla conquistare, né di saper agire né tantomeno tenerla a sé (vv.8-9 non siti amante de donna acquistare, ni nn’a d’aggire e ni d’avire) visto che preferisce addormentarsi (v.10 depoi ca nci vulisti adurmentare). La donna chiude il suo componimento quasi con una domanda dal sapore amaro, in quanto non capisce il comportamento dell’uomo che preferisce addormentarsi invece di godere dei piaceri da lei offerti (vv-12-13 per omu ci tene una tale gioia ce gli annoia).
Un altro importante ritrovamento, sempre in alfabeto greco, ma questa volta di lunghezza più estesa e di carattere religioso, è la Predica salentina risalente alla seconda metà del 1300. Si tratta di un commento alla Divina Liturgia di S.Giovanni Crisostomo, il testo liturgico utilizzato in quel tempo dai Cristiani d’Oriente. Il testo fu studiato da Parlangeli (1958)[14], il quale lo trascrisse in alfabeto latino. Ne presento uno stralcio[15]:
“Veniti addunca cun pagura de ddeu e cun fide e cun pace a rrecìpere lu corpiu de ristu secundu ammonisce e séumanda a Santu bbasiliu e sse alcun omu non ave cun se quiste tre cause chi avimu ditte, zzoè pagura de Ddeu, fede e ppitate, non dive venire sé ancostare a rrecìpere quistu prezziosu corpu, ca dice Santu Paulu: quillu chi mangia e bbive lu corpu e sangue de Gesu Cristu indignamente, si llu mangia e bbive a ggiudizziu ed a ccondannazione soa. Venimi addunca cun pagura, fede e ppitate e ppuramente recipimu da li spirduali patri nostri lu dittu corpu e ssangue de lu nostru signore Ggesu Cristu, azzò séchi sse fazza e ssia a nostra salvazione spirduale….”
Da quanto visto finora, le prime scriptae medievali in lingua salentina furono redatte in alfabeti diversi da quello latino, ed infatti, secondo Bernardini (2010) “dalle fine del IX secolo fino alla fine del XVI secolo, troviamo 400 codici greci contro i 30 latini risalenti allo stesso periodo”[16]. Lo studio dei documenti in caratteri ebraici e greci costituisce una fonte importante per studiare l’oralità di quell’antico salentino, in quanto, come afferma Maggiore (2013) “offrono spesso testimonianze linguisticamente più aderenti alla realtà del parlato rispetto a quanto avviene normalmente nella scripta in caratteri latini, maggiormente soggetta a fenomeni di conguaglio dei tratti diatopicamente marcati”[17].
Tuttavia, dobbiamo sottolineare che anche l’alfabeto latino veniva utilizzato nella scrittura ma ciò in epoca più tardiva, ovvero a partire dal XV secolo, quando, secondo gli studiosi, il volgare salentino aumentò il suo status di lingua locale diventando una vera e propria koinè (κοινὴ διάλεκτος “lingua comune”), cioè una lingua a carattere regionale (da non confondersi con l’intera Puglia, ma solo riferito alla regione Salento) che riuniva i tratti tipici dialettali, quelli della lingua letteraria toscana ed altri comuni a tutto il Meridione. La lingua comune salentina nel suo nuovo status di lingua regionale si utilizzava non solo per redigere lettere mercantili e trattati notarili ma divenne lingua di corte ed impiegata in campo letterario nelle illustrissime corti di Maria D’Enghien a Lecce, di Giovanni Antonio del Balzo Orsini a Taranto e di Angilberto del Balzo Orsini a Nardò.
  Esempi di koinè sono le cinque lettere commerciali, studiate da Stussi[18](1982), scritte tra il 1392 ed il XV secolo tra un mercante ebreo tale Sabatino Russo e suo socio d’affari il veneziano Biagio Dolfin, con il quale fondò una società per il commercio in Oriente. In una di queste lettere, Sabatino avverte il suo socio che una nave fu depredata dai pirati “intru lu portu de Nyrdò”. Tale evento, però, fu smentito da una sesta lettera scritta da un altro commerciante ebreo, tale Mosè de Meli, il quale informò Biagio Doffin di essere stato truffato da Sabatino che finse il furto per appropriarsi egli stesso del bottino:
Sery Byasi Dalfyn hio Mosè de Meli vi fazo assavery chy my sa mullto mali de la gabba che ve à ffatto Sabatyno judeo de Cobertyno chy sta mò in Leze de li besanti C”‘ de oro che pellao delu vostro et addusseli in Leze et guadannò dela ditta moneta vostra ducaty CL chy contao in vostra party de lu guadanno…
Nella corte di Lecce, il cappellano della contessa Maria D’Enghien, tale frate Nicolao de Aymo scrisse la grammatica latina Interrogatorium constructionum gramaticalium (1444) dove si avvalse proprio del volgare salentino come lingua di traduzione per fornire esempi delle regole grammaticali. Di quest’opera ci rimangono due manoscritti che son utili dal punto di vista linguistico, in quanto sono presenti parole tipicamente dialettali come suggerisce Maggiore (2015): nusterça (nusterza), groffolare (cruffulare), insetare (nsitare), scardare pissi (squamare pesci)
 Nel Principato di Taranto di Giovanni Antonio del Balzo Orsini troviamo il Librecto de pestilencia (1448) scritto dal “cavaliero et medico” galatinese Nicolò di Ingegne, il quale conversa con altri due medici di corte, tali Aloysi Tafuro de Licio e Symone de Musinellis de Butonto, e con lo stesso Giovanni Antonio riguardo la peste e sui possibili rimedi e cure. Inoltre, nell’opera si menzionano alcuni nomi di vini, tra cui uno tipico tarantino, il Gaglioppo, come si legge in Maggiore[19] (2013): “ma più in lo tempo de la peste, sincome sonno malvasie, greco, guarnaze, [..] et da nuy tarentini ‘galioppo’ chyamato, lo quale in questa città più che in parte del mundo perfecto se fa”.
La corte di Angilberto del Balzo Orsini, conte di Ugento e duca di Nardò, annoverava nella sua una ricca libreria copie di libri in latino e volgarizzamenti delle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio. Ad essa appartiene lo Scripto sopra Theseu re, un ricco commento al Teseida di Boccaccio redatto da un anonimo salentino, probabilmente nella seconda metà del Quattrocento nella scuola di Nardò, una scuola di amanuensi domenicani molto attiva in quel periodo.
Il commento al Teseida, oltre che fornire prove sulla circolazione delle opere toscane nel Salento, dimostra la varietà linguistica della koinè salentina che abbraccia sia i toscanismi letterari, sia i termini più vernacolari e i meridionalismi generalizzati, come riporta Maggiore (2015): amochare ‘coprire’, annicchare ‘nitrire’, ganghe ‘guance’, lucculare ‘urlare’, magiara ‘strega’, nachiro ‘nocchiero’, sghectata ‘spettinata’, rugiare ‘borbottare’, ursolo ‘piccolo recipiente per liquidi’.
Inoltre, appartenente alla libreria di Angilberto, il Libro de Sidrac che merita una considerazione speciale. Si tratta di un trattato filosofico in stile “domanda e risposta” tra il re Buctus e il filosofo Sidrac. Quest’opera, scritta originariamente in lingua francese d’oil tra il 1270 e il 1300, potrebbe essere considerata un best seller di quell’epoca, in quanto nei secoli successivi fu tradotta in ben sessanta versioni romanze tra cui anche in volgare salentino. Si tratta, indubbiamente, di un testo che ci fornisce esempi di koiné salentina, come nell’incipit del testo “Ore Sidrac incomenza a respondere a lo re Botus ad tucte le sue addimande, et a chascaduna responde di per sé. La prima ademanda si è si deu pòy essere veduto. Deu si è visibile et non visibile, cà illu vede tuctu et non pote essere veduto”[4r 32-35]. Secondo gli studi linguistici fatti da Sgrilli[20](1983), il Sidrac salentino fu scritto per mano di un autore brindisino, mentre quelli fatti in precedenza da Parlangeli (1958)[21] dicono che “il nostro testo sia scritto in un dialetto del tipo salentino settentrionale, quale, a un dipresso, doveva essere parlato nella zona di Nardò”.
Le attestazioni del salentino volgare non provengono solo da testi e manoscritti ma anche nelle epigrafi come quella nella Cattedrale di Nardò all’interno di un affresco risalente alla metà del XV secolo e raffigurante San Nicola, la Madonna col Bambino e Santa Maria Maddalena orante (nella navata sinistra). La riscoperta dell’attestazione è da attribuire al dott. Gaballo e al prof. Polito e recita:
O tu chi ligi, fa’ el partisani:
chi ley fey fare, Cola è ’l sua nome,
filliolu de Luisi de Pephani.
Secondo Castrignanò[22] (2016), la parafrasi reciterebbe: Oh tu che leggi, prendi la mia parte/ chi la fece fare [la pittura], Nicola è il suo nome/ figlio di Luigi di Epifanio. Se a prima impressione l’epigrafe sembrerebbe una captatio benevolentiae, in quanto l’autore chiede ai chiunque guardi il suo affresco di parlarne bene (fa’ el partisani) in realtà sembra rievocare il verso dantesco If IX 61-63: O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani.
Per concludere con uno sguardo sulla società medievale e sulle relazioni interpersonali tra i cittadini di quell’epoca, mi piacerebbe menzionare le deposizioni presenti ne Il registro dei reati e delle pene, una raccolta giudiziaria di 607 denunce appartenente al resoconto fiscale de la Corte del Capitanio di Nardò[23] (1491) e redatte da Giampaolo de Nestore di Nardò, nelle quali si apprezza la lingua dei protagonisti che si lasciano andare a forme ingiuriose e minacciose come:
Marco de Sidero, denunciato per Gabrielj Caballone, che li dixe: «Levatinte davanti et portame li forfichi, ca le mecto le mano alli capillj»
Charella Malicore, denunciata per Hieronimo serviente, che li dixe: «Si marituma era cqua, te haveria dato cinquanta bastonate»
Uxor Giorgii Taurini, denunciata per la molliere de Francesco de Cupertino perché li dixe: «puctana, frustata, tu teni cento innamorati»
Francesco de Follica, denunciato per Gabrieli de Montefusco, perché li dixe: «yo trovai le terre allo culo de mammata»
 Conclusioni
Questo viaggio intrapreso lungo i più remoti secoli della storia ha portato alla luce alcune delle primissime forme di scrittura nella nostra lingua in epoca medioevale. Grazie agli studi di alcuni ricercatori in merito alla tradizione scritta salentina, in questo iter abbiamo messo in risalto non solo aspetti relazionati al lessico ma anche alle antiche vicende sociali e culturali che la nostra terra ha vissuto: mi riferisco alla forte presenza della comunità ebraica alla quale si deve una importantissima produzione sia in alfabeto ebraico ma anche in quelli greco e latino, all’evoluzione linguistica del volgare salentino che da lingua locale si trasformò in lingua comune grazie soprattutto alle figure dei primi mecenati in Terra d’Otranto che ne permisero la diffusione. In altre parole, un piccolo viaggio tra lingua, storia, cultura e società alla riscoperta del nostro passato.
  [1] Per maggiori dettagli: https://www.fondazioneterradotranto.it/2021/02/11/messapia-era-davvero-una-terra-tra-due-mari/ e https://www.fondazioneterradotranto.it/2021/02/17/messapia-chi-conio-questo-termine-e-perche/
[2] Per le definizioni di latino volgare e latino classico, vedi “Vocalismo e consonantismo del dialetto salentino”, https://www.fondazioneterradotranto.it/2021/02/13/vocalismo-e-consonantismo-nel-dialetto-salentino/
[3] Trad. ita: “Io so che quelle terre, che qui si dice, le ha possedute trent’anni la parte di San Benedetto”.
[4] Trad. ita: “So che quelle terre secondo quei confini che ti mostrai furono di Pergoaldo come qui si dice e le ha possedute per trent’anni
[5] Trad. ita: “Quella terra secondo quei confini che vi mostrai, è di Santa Maria e l’ha posseduta trent’anni.
[6] Trad. ita: “So che quelle terre secondo quei confini qui descritti le ha possedute per trent’anni la parte di santa Maria.
[7] Maggiore, Marco (2015), Manoscritti medievali salentini, in L’Idomeneo, n.19, pp. 99-122.
[8] Cuscito, Giuseppe M (2018), Il Sefer ha-yaqar di Šabbeṯay Donnolo: traduzione italiana commentata. Sefer Yuḥasin ספר יוחסין | Review for the History of the Jews in South Italy<Br>Rivista Per La Storia Degli Ebrei Nell’Italia Meridionale, 2, 93-106. https://doi.org/10.6092/2281-6062/5568.
[9] In Maggiore (2015:102).
[10] Garrisi, Antonio (1990), Il dizionario leccese-italiano, Congedo Editore. Sotto la voce cucummaru sputacchiaru o riestu: pianta ruderale, strisciante, con steli e foglie scabri, i cui turgidi frutti peponidi maturi, se toccati, lanciano (sputano) il succo e i semi all’intorno.
[11] Cuomo, Luisa (1977), Antichissime glosse salentine nel codice ebraico di Parma, De Rossi, 138, in «Medioevo Romanzo», 4, pp. 185-271.
[12] De Angelis, Alessandro (2010), Due canti d���amore in grafia greca del Salento medievale e alcune glosse greco-romanze, in Cultura neolatina, Anno 70, Fasc 3-4, pp.371-413.
[13] Rocco Distilo, Parole al computer. Dal genere al motivo d’‘alba’ (per un’ignota ‘alba di malamata’), in Atti del V convegno internazionale e interdisciplinare su testo, metodo, elaborazione elettronica (Messina-Catania-Brolo, 16-18 novembre 2006), a cura di Antonio Cusato, Domenica Iaria e Rosa Maria Palermo, Messina, Lippolis, 2007, pp. 101-115.
[14] Oronzo, Parlangèli (1958), La «Predica salentina» in caratteri greci, in Lausberg-Weinrich, pp. 336-360 [ristampa in Parlangèli (1960), pp. 143-173].
[15] La traslitterazione è presa da: Greco, V.,C., “Rimario letterario” (e non solo) Leccese e… Salentino.
[16] Bernardini, Isabella (2010), Greek Language and Culture in South Apulia. Proposals for teaching Greek, in The teaching of modern Greek in Europe: current situation and new perspectives (p. 132), Editum, Universidad de Murcia.
Ho riportato una traduzione dell’originale: “From the end of the ninth century through to the end of the sixsteenth century we find 400 Greek codices, compared to 30 Latin ones for the same period.”
[17] Maggiore, Marco (2013), Evidenze del quarto genere grammaticale in Salento antico, in Medioevo letterario d’Italia, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma .
[18]Stussi, Alfredo (1982), Antichi testi salentini in volgare, « Studi di filologia italiana », xxiii, 1965, pp. 191-224, ristampato in Id., Studi e documenti di storia della lingua e dei dialetti italiani, Bologna, il Mulino, 1982, pp. 155-181.
[19] Maggiore, Marco (2013), Italiano letterario e lessico meridionale nel Quattrocento, in Studi Linguistici Italiani, vol. XXXIX, Salerno Editrice, Roma.
[20] Sgrilli, Paola (a cura di), Il libro di Sidrac Salentino, Pisa (1983).
[21] Oronzo, Parlangèli (1958), Postille e giunte al Vocabolario dei dialetti salentini di G. Rohlfs, in RIL, XCII, pp. 737-798.
[22] Vito, L.,Castrignanò (2016), A proposito di un’epigrafe salentina in volgare (Nardò, entro il 1456), in Revue de Linguistique Romane, n°317-318, Vol.80, pp, 195-205, Strasbourg.
[23] Perrore, Beatrice (2018), Il discorso riportato ne La Corte del Capitanio di Nardò (1491): alcuni tratti sintattico-testuali, in Linguaggi settoriali e specialistici, Atti del XV Congresso SILFI Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana, (Genova, 28-30 maggio 2018). Vedi anche: Holtus, Günter; Metzeltin, Michael; Schmitt, Christian, (a cura di), Die einzelnen romanischen Sprachen und Sprachgebiete vom Mittelalter bis zur Renaissance, De Gruyter, Berlino (1995).
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paoloxl · 5 years ago
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Sono curdo e questo è un grave problema. Un'intervista a Erol Aydemir
02 AGOSTO 2019 |IN CONFLITTI GLOBALI.
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Riceviamo e pubblichiamo un'itervista che ci ha inviato una compagna a Erol Aydemir, rifugiato curdo, tra i militanti e le militanti che hanno aderito allo sciopero della fame iniziato qualche mese fa contro l'isolamento in cui lo stato turco costringe Abdullah Ocalan da vent'anni nell'isola prigione di Imrali.
Sono curdo e questo è un grave problema. Un'intervista a Erol Aydemir
Sembra quasi impossibile cambiare qualcosa a questo mondo, è più facile voltarsi e continuare la propria vita.  La guerra infastidisce, annoia, sposta l’attenzione dal futile all’essenziale, ci costringe ad aprire, a ricordare, ci responsabilizza, perché siamo tutti responsabili, siamo l’insieme di un qualcosa, e in quanto tali, potenzialmente capaci di modificare gli eventi o quantomeno provarci.
Un altro movens al mio interesse è che la guerra arriva all’improvviso, non ti avverte, e anche quando lo fa, quando i governi iniziano a vacillare, quando al potere arrivano i tiranni, gli avidi, i ciarlatani, i dittatori, il peggio del peggio di questo mondo, quando si creano fazioni, è troppo tardi per reagire. Gli storici ci dicono che siamo una specie ancora troppo fragile evolutivamente per evitare che inizino a girare quegli ingranaggi che ci porteranno ad altre politiche depredatorie, occupazioni, stermini, guerre.
Ho deciso di intervistare Erol dietro la precisa richiesta di una combattente curda delle YPJ, ora martire ventenne, rivolta a noi donne occidentali.
Mi interessa, perché se fossi disperata nulla mi getterebbe ancora più nello sconforto che non essere ascoltata.
Erol Aydemir, 30 anni Curdo, in italia da cinque anni, una vita bloccata in attesa di riprendere i suoi studi all’università di Cagliari, imprigionato dal regime di Erdogan per due anni perchè trovato in possesso di alcuni libri del suo leader politico Abdullah Ocalan, e ora rifugiato politico in Italia, in attesa di riprendere il suo percorso di laurea.
Come lui altri milioni di giovani della nostra generazione a cui si aggiungono i milioni di bambini e adolescenti interessati dai conflitti in medio-oriente che vanno avanti da oltre due generazioni con picchi di acutizzazione, lente riprese, e di nuovo repentine ricadute. Città distrutte, rase al suolo, ci abituiamo a tutto, ci abituiamo all’assurdo.
Una delle parti che più mi ha colpita, in quanto ossessionata dall’idea che a questo mondo si possano attuare modelli di cambiamento sociali che vedono al centro le relazioni umane e in definitiva quelle tra i generi, la posizione di Abdullah Ocalan in merito alla questione femminile, e non farò altro che citarlo :
“Nessuna bruttezza può essere disonorevole e disgustosa come unirsi e integrarsi con donne schiave e uomini dominanti.
Nessuna unità e integrità potrebbe essere bella e giusta come vivere una vita libera con donne libere e mascolinità liberata dal dominio.
Ormai da 30 anni tutti i miei sostenitori più importanti sono donne.
Il mio dialogo e accordo con le donne è importante.
Migliorerete il contratto sociale delle donne che deve combattere tutti i tipi di pratiche dal femminicidio alla circoncisione femminile e allo stupro.
Va affrontato in modo approfondito.
Non fidatevi degli uomini e distruggete il dogma maschile.
Fidatevi della vostra femminilità.
Uguaglianza e libertà possono essere ottenute solo a partire dalla questione femminile.
Questa è la ragione del perché la nostra rivoluzione è una rivoluzione delle donne.”
Questo e molto altro, esprimono al meglio il perché ho deciso di ascoltare queste persone.
Un modello sociale definito confederalismo democratico, di stampo dichiaratamente rivoluzionario, femminista, ecosostenibile, che ha al centro l’essere umano e il rispetto dei suoi diritti, teso a liberare i popoli da oppressioni di natura capitalista, nazionalista, politica, religiosa ( quando opprimente e dogmatica ) e patriarcale.
Un modello quasi ancestrale, apparentemente utopico, attuabile solo attraverso una forte determinazione nell’azione rivoluzionaria dei singoli, che è diretta espressione di una volontà collettiva di cambiamento, di trasformazione del reale e delle vite delle persone.
Ed è a te che stai leggendo che mi rivolgo con un sorriso.
Sono stata accolta da Erol al suo settantaduesimo giorno di sciopero della fame condiviso con altre 72.000 persone in vari paesi, rifugiati politici e attivisti del luogo, con lo scopo di ottenere un regime di detenzione affine agli standard internazionali che si basano sul rispetto della dignità del condannato e delle sue necessità. [ Ad oggi, tre mesi dall’intervista è stato raggiunto un semi-compromesso in cui gli è stato permesso di parlare saltuariamente con i suoi parenti e con gli avvocati ].
"Sono curdo e questo è un grave problema, non solo nei confronti del regime dittatoriale del governo turco, ma di tutti i sistemi corrotti del mondo, abbiamo capito bene ciò che vogliamo politicamente, aiutare tutti i popoli, infatti sono stato molto contento che i genovesi abbiano bloccato la nave che avrebbe portato le armi in Yemen, mi hanno dato l’energia per vivere, questa è la nostra visione, unitaria. Allo stesso modo in cui Lorenzo Orsetti è caduto martire in Rojava combattendo l’Isis tra le nostre fila."
Una delle prime cose che mi ha detto in oltre due ore di conversazione davanti agli innumerevoli tè che mi sono stati offerti da un susseguirsi di uomini e ragazzi Curdi e Turchi e Afghani sorridenti è stata "i Curdi fanno una lotta per tutti i popoli, perché c’è un’idea dietro alla difesa di un popolo, combattono per l’unità del popolo della terra."
[ una lotta all’ ISIS, ma per questo vi rimando , così da poter capire bene la situazione geo-politica e i diversi attori operanti nel conflitto in medio oriente e la ripartizione reale delle responsabilità, ma soprattutto i reali interessi economici alla base della guerra attuale a due pubblicazioni: https://www.youtube.com/watch?v=q9s49x_whLw , https://www.infoaut.org/culture/il-fiore-della-rivoluzione
Aggiungo che per una lettura più inerente allo scenario di guerriglia urbana, ma sempre basato su un capitale umano e una motivazione non indifferente, come gli altri autori di cui sopra: http://www.arvultura.it/1845/non-moriro-stanotte-presentazione-libro-di-e-con-karim-franceschi/ ]
Perché dovremmo interessarci al modello del confederalismo democratico?
Perché il modello del confederalismo democratico è prima di tutto un modello umano. Le politiche attuali creano i substrati per sostenere un popolo a discapito di altri popoli, questo non è più accettabile. Questa è una nuova ottica, l’unica possibile.
Se siamo umani dobbiamo proteggere tutti i viventi e l’ambiente.
Dobbiamo curarci dei popoli che sono stati distrutti dalla guerra, perché è quando la guerra finisce che sorgono gli altri problemi, le emergenze umanitarie sono reali. Basta poco per entrare in quest’ottica di auto-aiuto.
[ In merito a questo punto vi invito a seguire le missioni umanitarie operanti sui territori, una che mi ha colplita particolarmente è quella di un gruppo di predicatori critiani, i fortissimi “ Free Burma Rangers “ che se ne vanno in prima linea a recuperare civili intrappolati sotto il fuoco nemico, letteralmente correndo tra il fuoco dei proietili per recuperarli; qui il link del loro intervento a Baghouz, ma ce ne sono veramente molte, da Emergency a MSF passando per attivisti che ciclano intorno ai campi profughi sul territorio Siriano ed Iracheno e che potete trovare anche su Fb nei loro gruppi dedicati
https://www.youtube.com/watch?v=zG_sOW9NvhQ ]
Perché questa necessità di cambiamento nasce nella tua terra?
Sono curdo e questo è un grave problema, viviamo in zone di confine tra Turchia, Iran, Siria ed Iraq da sempre, capisci bene che siamo soggetti come tutti i popoli di confine ad attacchi continui. Non solo nei confronti del regime dittatoriale che combattiamo con il governo turco di Erdogan, abbiamo capito bene ciò che vogliamo, non è uno stato in se che chiediamo, ma la libertà, l’autonomia. Vogliamo aiutare tutti i popoli.
Dimmi quanti popoli si sono uniti per combattere insieme?
Donne e uomini Iracheni, siriani, yezidi, curdi ed internazionalisti italiani, inglesi, americani, tedeschi, spagnoli, dall’Europa del nord e dall’Europa dell’est.
Come possiamo capire il modello del confederalismo democratico?
Pensa ai cantoni del nord Italia, che hanno integrato la loro struttura democratica e autonoma con quella italiana, tedesca e svizzera. Le persone devono essere collettivamente responsabili del territorio in cui vivono, non possono essere soggette ad un ordine superiore, un singolo non può decidere per il futuro di decine, centinaia o milioni di persone. Non possiamo lasciare che una piccola collettività di persone abbia il potere decisionale di sganciare un’altra bomba atomica.
https://it.wikipedia.org/wiki/Confederalismo_democratico
Come siamo implicati noi italiani in queste dinamiche?
Ad esempio se venti anni fa l’ Italia non avesse venduto le armi alla Libia adesso non sarebbero armata, nemmeno i muri ci salveranno dai migranti, nemmeno i sistemi NATO, ma il problema non è l’Italia in se e per se ma il sistema, e dobbiamo unirci contro il sistema, ad esempio se io non avessi sentito il dolore dei bambini di Afrin non avrei fatto questo sciopero della fame.
[ a questo proposito vi rimando :
https://www.osservatoriodiritti.it/2019/01/23/armi-italiane-nel-mondo-arabia-saudita-in-yemen/
https://www.osservatoriodiritti.it/2019/05/15/export-armi-italia-vendita-nel-mondo-paesi/
per informarvi autonomamente, nell’era dei social è veramente molto semplice ]
Quali sono i reali motivi di questa guerra che vi ha messi in ginocchio, cos’è l’Isis?
L’Isis non è una questione religiosa, l’islam non è questo, tanto è vero che sono proprio altri musulmani che hanno combattuto le forze di Daesh, bisogna informarsi, bisogna pensare ai territori e alle materie prime, a chi ha interesse ad averle, siamo tutti intercalati in questo sistema depredatorio, l’unico strumento che abbiamo è l’informazione corretta, di facile appannaggio al giorno d’oggi.
https://www.eticapa.it/eticapa/wp-content/uploads/2015/03/Il-petrolio-e-la-guerra-dellIsis2.pdf
È difficile capire quanto sia perversa la rete che alimenta i conflitti, come possiamo fare a districarci?
Bisogna informarsi, bisogna parlare, bisogna favorire l’informazione corretta, fedele ai fatti, non bisogna stare in silenzio, il sapere è l’unico modo per contrastare i potenti che opprimono i popoli per i loro interessi, bisogna lasciare una traccia per le nuove generazioni.
In questo momento storico è anche semplice, perché le masse smuovono le coscienze tramite i social, bisogna indignarsi, basta un clic e collettivamente possiamo fare molto.
Il silenzio lascia spazio al male, perché non c’è contrasto alla menzogna.
Lotta non è solo imbracciare le armi, lotta è difendere i popoli che cercano la libertà, per questo c’è una bandiera palestinese nella mia camera, io combatto e sciopero anche per loro con tutta la mia forza. Dobbiamo avere un sogno anche per gli altri, dobbiamo arrivare a vivere senza le guerre.
Non possiamo limitarci a chiedere la pace, tutte le persone del mondo desiderano la pace ma bisogna attivarsi per ottenerla.
La guerra è più facile, sterminare le persone per ottenere qualcosa è più facile che chiedere per favore a questo mondo.
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fotopadova · 5 years ago
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Eve Arnold – Tutto sulle donne
di Cristina Sartorello
-- La Casa-Museo Villa Bassi di Abano Terme, dedica alla fotografa Eve Arnold un’ampia retrospettiva, interamente centrata sui suoi celebri ed originali ritratti femminili. Quella proposta in Villa Bassi, dal Comune di Abano Terme–Assessorato alla Cultura, da Suasez e da Magnum Photos, con la curatela di Marco Minuz, è la prima retrospettiva italiana su questo tema dedicata alla grande fotografa statunitense.
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© Eve Arnold, "Modelle, Harlem New York, 1950" Magnum Photos
Eve Arnold, nata Cohen, figlia di un rabbino emigrato dalla Russia in America, contende ad Inge Morath, di cui abbiamo visto le opere nella mostra a Treviso alla Casa dei Carraresi, sempre a cura di Marco Minuz, il primato di prima fotografa donna ad essere entrata a far parte della Magnum. Furono infatti loro due le prime fotografe ad essere ammesse a pieno titolo nell’agenzia parigina fondata da Robert Capa nel 1947. Un’agenzia, prima di loro, riservata solo ai grandi fotografi uomini come Henri Cartier Bresson o Werner Bischof.
Nel 1951 Henri Cartier–Bresson chiamò Eve Arnold in Magnum, colpito dagli scatti newyorkesi della fotografa: erano immagini di sfilate nel quartiere afroamericano di Harlem a New York; quelle stesse immagini, rifiutate in America per essere troppo “scandalose”, vennero pubblicate dalla rivista inglese Picture Post.
Nel 1952 Eve Arnold si trasferisce con la famiglia a Long Island dove realizza uno dei reportage più toccanti della sua carriera: "A baby's first five minutes", raccontando i primi cinque minuti di vita dei piccoli nati al Mother Hospital di Port Jefferson; era stata lei stessa povera ed ha voluto documentare la povertà, aveva perso un figlio ed era ossessionata dal parto, inoltre era interessata alla politica e voleva sapere come influenzava le nostre vita.
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© Eve Arnold, da "A baby's first five minutes, Long Island 1959" /Magnum Photos
Nel 1956 si reca con un’amica psicologa ad Haiti per documentare i segreti delle pratiche Voodoo.
Chiamata a sostituire il fotografo Ernst Haas per un reportage su Marlene Dietrich, inizia la frequentazione con le celebrities di Hollywood e con lo star system americano. Nel 1950 l’incontro con Marilyn Monroe fu iniziò di un profondo sodalizio interrotto solo dalla morte dell’attrice. Per il suo obiettivo Joan Crawford ha svelato i segreti della sua magica bellezza. Nel 1960 documenta le riprese del celebre film ”The Misfits” (gli spostati) con gli attori Marilyn Monroe, Clark Gable e Montgomery Clift, John Houston alla regìa e con sceneggiatura di Arthur Miller, allora marito di Marylin ed in seguito, dopo il divorzio, marito proprio di Inge Morath che sicuramente Eve Arnold aveva incontrato e conosciuta in Magnum come testimonia una mostra tenuta tempo fa in Giappone.
La Morath è uno dei nove fotografi a documentare la realizzazione dell’ultimo film completato dalla diva, che arrivava sempre in ritardo sul set accompagnata dal suo astrologo: tutti gli scatti realizzati dalla fotografa sono stati poi pubblicati nel fotolibro “An Appreciation” del 1987.
Nell’arco di dieci anni ed in sei diverse occasioni, Eve farà per Marylin un centinaio di ritratti molto diversi tra loro, per tono ed atmosfera, riuscendo a cogliere così le diverse anime dell’attrice americana. 
Trasferitasi a Londra nel 1962, Eve Arnold continua a lavorare con e per le stelle del cinema ma si dedica anche ai reportage di viaggio in molti Paesi del Medio ed Estremo Oriente tra i quali Afghanistan, Cina e Mongolia.
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© Eve Arnold, da "China/Mongolia, Hsishuang Panna" /Magnum Photos
Tra il 1969 e il 1971 realizza il progetto “Dietro al velo”, che diventa anche un documentario, testimonianza della condizione della donna in Medio Oriente.
Che si tratti delle donne afroamericane del ghetto di Harlem, dell’iconica Marilyn Monroe, di Marlene Dietrich o delle donne nell’Afghanistan del 1969, poco cambia. L’intensità e la potenza espressiva degli scatti di Eve Arnold raggiungono sempre livelli di straordinarietà. La fotografa americana ha sempre messo la sua sensibilità femminile al servizio di un mestiere troppo a lungo precluso alle donne e al quale ha saputo dare un valore aggiunto del tutto personale.
«Paradossalmente penso che il fotografo debba essere un dilettante nel cuore, qualcuno che ama il mestiere. Deve avere una costituzione sana, uno stomaco forte, una volontà distinta, riflessi pronti e un senso di avventura. Ed essere pronto a correre dei rischi». Così Eve Arnold definisce la figura del fotografo. Benché il suo lavoro sia testimonianza di una lotta per uscire dalla definizione limitante di “fotografa donna”, la sua fortuna fu proprio quella capacità di farsi interprete della femminilità, come “donna fra le donne”.
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© Eve Arnold, da "Afghanistan, 1969" /Magnum Photos
La Arnorld disse: “Mi sono trovata nella condizione privilegiata di fotografare qualcuno che, in un primo momento pensavo avesse un dono per l’obiettivo, ma che si è poi rivelato un vero e proprio talento; ai miei occhi nessuno è ordinario o straordinario, vedo semplicemente persone davanti al mio obiettivo”.
Questa donna, morta a 99 anni, è stata una fotografa nel mondo delle donne, provata dalla vita, subendo la forte discriminazione di essere ebrea, dell’essere donna in un mondo prettamente maschile, in un mestiere al maschile, spinta continuamente a conoscere nuove realtà poiché la curiosità era il suo motore, la curiosità della vita, che la portò a pubblicare 16 libri fotografici, a conoscere i grandi del mondo. Fu insignita di importanti onorificenze, ma lei preferì la gente comune, per cui decise di donare all’Università di Yale, per i giovani studenti di fotografia, come ultimo atto di altruismo, il suo enorme archivio fotografico.
“Sono una donna e volevo conoscere le donne”.
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a dx © Eve Arnold, "Egyptian Woman, Valley of the Kings, 1970" /Magnum Photos
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La mostra è visitabile ad Abano Terme (Padova) fino all’8 dicembre 2019 a Villa Bassi in via Appia Monterosso, 52, il giovedì, venerdì, sabato e domenica pomeriggio dalle ore 16.00 alle 19.00, e la domenica anche di mattina dalle ore 10.00 alle 12.30, con un unico biglietto di ingresso - € 11,00 intero ed € 8,00 ridotto - al Museo ed alla Mostra (non si possono dividere le due cose perché la mostra si sviluppa anche all’interno del Museo oltre che nell’ipogeo).
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pangeanews · 6 years ago
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“Gli intellettuali sono misogini e la cultura italiana è consolatoria. Quanto a me… sono bakuniniana, ingestibile e non posso fare a meno di Dio”. Intervista scorretta a Veronica Tomassini
“A precipizio, cara Veronica”, le dico. E non la conosco. Di Veronica Tomassini conosco e riconosco soltanto il talento della lince nella selva del linguaggio. In verità – non m’importa di altro. Qualche giorno fa, su Linkiesta, nella rubrica in cui stronco un libro e ne esalto un secondo – troppo facile parlare sempre bene dei libri, troppo facile dirne sempre male – ho scritto, papale, che Elena Ferrante mi pare un ferro vecchio, è più eccitante la rubrica del cuore di una rivista femminile. Al contrario, la Tomassini che, letterariamente, non è nata ieri (Sangue di cane è edito da Lurana nel 2010; L’altro addio l’ha stampato Marsilio l’anno scorso), ha vertigini negli occhi, aghi sotto le unghie, verbi capaci di ulcerare, di sanare, di benedire. Apriti cielo. Il bon ton dei benpensanti della cultura ha vangato improperi, m’ha sotterrato nel tombino del livore. Amen – sia lode ai bestemmiatori – significa che abbiamo toccato il punto esatto da cui far sgorgare la luce. Perciò, eccoci. Stano Veronica dal suo eremo siracusano – la immagino vera icona degli intoccabili, una specie di santa elettrica che fa colazione tra gli estremi, che fa dell’emarginazione e dello smarginato il pasto. Finalmente, il vento delle cose ultime, che ha sentore di sale, il sapore del giusto. (d.b.)
Noi non ci conosciamo, giusto? Io ho sentito l’odore della tua scrittura, me ne sono deterso. E basta. Questo forse crea fastidi. Sul ruolo dell’invidia e della piccola crudeltà nella letteratura contemporanea: dimmi.
La misoginia degli scrittori, di alcuni. La segreta misoginia dell’intellettuale medio, o persino del cinico spinto, che ha paura delle donne? Del cripto qualcosa. Sono piccole crudeltà forse. Forse peggio delle orde di haters che digrignano i loro denti stupidamente e che non mi hanno risparmiato, per un pezzo, per un post, scomodando collettivi come i Wu Ming (presero le distanze, dalla slavofoba, a un mese dall’uscita del mio romanzo, l’anno scorso, niente male come intro) o giornalisti come Fulvio Grimaldi che in un suo scritto mi diede della razzista hitleriana o neofita dell’eugenetica Usa soltanto perché mi sono avventurata in un’analisi “letteraria” di Igor Vaclavic (il bandito, detto il russo, ricordi?). O altra gente così. Le prese per il culo articolate di Guia Soncini, le sua biografie allegre che scopro per caso. Le ho augurato di non diventare buona, casomai, più che altro per non perdere la ragione, o un adeguato posto nel mondo. Dovrebbe lanciare altrimenti margherite ai passanti o confezionare torte di mele. Sarebbe un disastro. Le cattiverie. Le allusioni dopo il tuo articolo su me e Elena Ferrante. In quel caso allusioni tutte femminili. Ma chi se ne importa.
Voglio farti parlare di politica. Da che parte stai? Che mondo è quello che vedi? T’importa il blabla dei SalviniDiMaioConte(contechi?)FicoBerlusca? Cosa rispondi: l’uscita dal mondo, lo sberleffo, la presa di posizione?
Io da che parte sto? Sto sorridendo mentre rispondo così: io sto fuori la porta. Come sempre. Ho votato il movimento, bisognava votare. L’orchestrina del Titanic-Pd stava per affondare. Bene, bravi, avrebbero suonato l’ultimo adagio? Inabissati. Voglio crederci al cambiamento, sono una visionaria, non lo so, qual era l’alternativa? Di Maio ha una faccia simpatica, dice delle cose che condivido. Nell’insieme credevo nel cambiamento, sennò uno muore. O cambi o muori. Non ho votato Salvini. Non sono di destra e non sono di una sinistra con le mani da signorina. No. Non ho mai avuto una tessera di partito. Tendenzialmente anarchica, idealmente prossima ai compari di Metello Salani (il Metello di Pratolini), del rione San Nicolò. I rivoluzionari di piazza Piattellina o Santa Maria del Fiore. Bakuniniana. Poi invece vivi in questo mondo rivelato. Fattene una ragione, bellezza, mi dico. Un mondo di socialmente indignati, facebookianamente “indignatori”, che marciano a suon di aforismi sbagliati, di iniziative gastronomiche discutibili, arancini per tutti e per la Diciotti, al porto di Catania. Intanto un paese senza Welfare State accolse con cattedratiche ovazioni l’irreprensibile del Loden e la sua claque di reindirizzatori. Lo ricordiamo questo bel preambolo? E Senza colpo ferire. Oggi le nostre resistenze da ricettario dovrebbero finire nei libri di storiografia o di Storia perché no, insieme con memorie fortissime come l’eccidio di Avola, vere rivolte con scioperanti armati di orgoglio da una parte; mentre noi ci presentiamo alla contemporaneità sollevando ferocemente sul taglio dell’orizzonte guantiere di soufflé siciliani. La grande Storia calata negli effluvi di una pasta al forno catanese (sarebbe stato il secondo passaggio?). Così riempiamo le piazze, issiamo gonfaloni accasciati amaramente su una presunta millantata tristezza civica, eppure è solo noia; saliamo su ipotetici bastioni del ridicolo e non lo sappiamo (che siano bastioni del ridicolo), come quando si è felici: qualcuno ce lo deve pur far notare che lo siamo. Felici. O ridicoli. Ci battiamo il petto seguendo il topic del momento.
Da scrittrice: ti affascina il potere (da studiare e da stanare) o la vicina con gli ultimi, i senza scampo, gli intoccabili?
Sono totalmente disinteressata al potere, ai soldi, a chi li detiene. Vivo sotto la soglia, non è che i soldi non mi siano necessari. Devo vivere, ho un figlio. Ma il potere e i soldi non sono un mito, una religione. Letterariamente mi annoiano a morte. Finisco con gli imperdonabili. Io sono un’imperdonabile. Mi hanno detto questo: potresti essere la Bess de Le onde del destino di Lars Von Trier. Cioè è verosimile che la mia logica confini con quel tipo di ottusa innocenza. Sentimentalmente preferisco finire con gli imperdonabili. I poveri. A volte ripeto un’esortazione: i miei amati poveri. Non è vero, non sono i miei amati poveri. Lo erano per una mistica, una sorella, lei li amava davvero. Io non lo so, non so se riesca davvero ad amare qualcuno. Il mio amore è insicuro, ha ambizioni universali, ma spesso è autistico, sordo. Però chi mi circonda appartiene a una comunità (o è un’enclave?): sono gli imperdonabili, restituiscono la reiterazione di un oltraggio, strisciano sulle ginocchia, hanno le labbra tumide di vino, indossano uno strano profumo, di vento e di una vita amena, primitiva, finiscono a botte, in una rissa. In una rapina. Devono chiedere scusa, sempre. E lo sanno fare. Dovrei invertire la tendenza, ho l’età giusta per farlo.
Credi in Dio? Credi in qualcosa? In che cosa credi? Un giorno mi parlasti della Consolazione… cosa agita la tua scrittura e da quale ambizione è mossa?
Dio è una continua preghiera, nella mia testa. Come fai a vivere senza Dio? La nostalgia, l’amore, la mancanza, l’assenza, cosa sono se non la deduzione dell’Eterno? Cos’è la nostalgia? Perché tendiamo all’amore? Basta leggere Sant’Agostino e le domande risuonano perenni e irrevocabili. Hanno una sola risposta: Dio. La mia scrittura forse nasce come testimonianza di Lui. Le storie che racconto nella mia vita furono straordinarie, consegnavano verità terribili e misericordiose. La misericordia è una rivoluzione. L’amore sconsiderato dell’Uomo dei Dolori è un gesto di dissidenza. La Consolazione è una grazia. I segni li riconosci, la Consolazione alla fine di un pianto inenarrabile, di una tristezza profondissima, arriva come un salmo in cui gettarsi.
Del mondo letterario odierno ti frega qualcosa? Cosa leggi, cosa hai letto, chi frequenti, cosa pensi della ‘cultura’ italiana?
Vorrei vincere un premio. Voglio vincerlo, ma poi faccio di tutto per riuscire fuori dai giri, per dire cose sconvenienti, per dire e basta. Invece di tacere. Diplomazia, accuratezza, equilibrio. Macché. Sono ingestibile. Così non frequento nessuno, geograficamente lontanissima da dove succedono le cose. La cultura italiana? Consolatoria, normalizzante, timorosa del pensiero, più che altro di non trovarlo più, impallato in ragionamenti da editor imberbi che vorrebbero rendere democratica l’eccellenza. La democratizzazione del talento è già in corso da un pezzo, è il grande male, può darsi. Negli ultimi anni leggo testi sacri perlopiù. Ma le mie letture sono stati i maestri russi, il realismo russo, il nostro neorealismo. Gli americani Evan Hunter, Saul Bellow, Henry Miller. I naturalisti francesi. I classici.
Se il dolore non ha riscatto e una parola non fa risorgere altro che la mancanza: perché scrivi?
Perché non so fare altro.
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erik595 · 3 years ago
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Per Robert Fisk non si può raccontare il Medio Oriente senza denunciare torture, esecuzioni e genocidi, senza parlare di dolore, ingiustizia e orrore, senza smascherare le bugie che da quasi un secolo hanno mandato alla morte soldati e causato il massacro di decine di migliaia di civili. Essere "corrispondente di guerra" non significa solo raccontare il chi, il dove, il come e il quando, ma indagare anche i perché. Non significa parlare di "attacchi chirurgici", "danni collaterali", "obiettivi raggiunti", ma cercare di "monitorare i centri del potere". Sfidare l'autorità, qualunque autorità, rischiare anche la vita, e tenere sempre un libro di storia in tasca perché "le dita della storia non mollano mai la presa, non ci lasciano mai in pace, e possono toccarci anche quando non immagineremmo nemmeno la loro presenza". "Cronache mediorientali" è tutto questo insieme. Non una cronologia dei conflitti in Medio Oriente, ma la narrazione di un'unica Storia scandita in diverse storie; una testimonianza di prima mano di una guerra moderna e una cronaca della difficoltà, della frustrazione, del rischio che corre chi è impegnato a stendere la prima versione dei fatti: è il libro più completo mai pubblicato sul Medio Oriente, una grande epopea tra Omero, Tolstoj e Kapuscinski. . . . . . #robertfisk #fisk #libro #libri #libros #libreria #buch #livre #book #books #bookstagramitalia #bookstagram #consiglidilettura #librodaleggere #libroconsigliato #librodelgiorno #storia #reporter #reportage #giornalista #giornalismo #medioriente #guerre #palestina #iraq #siria #afghanistan #iran #libia #yemen (presso Italy) https://www.instagram.com/ivanmaffeiwriter/p/CXkuDROMmY2/?utm_medium=tumblr
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carmenvicinanza · 3 years ago
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Giuliana Sgrena
https://www.unadonnalgiorno.it/giuliana-sgrena/
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Se fossi tornata in una bara mi avrebbero celebrata (forse) come una giornalista che cercava la verità e aveva fatto degli scoop. In realtà uno scoop, quello dell’uso del fosforo bianco a Falluja, l’avevo anche fatto, ma nessuno se n’era accorto. Invece sono tornata viva e colpevole, visto che me l’ero andata a cercare.
Giuliana Sgrena, giornalista e scrittrice.
Una professionista coraggiosa, combattiva, generosa e sempre in prima linea sul fronte dei diritti delle donne, appassionata e esperta del mondo arabo.
Più volte inviata di guerra, è stata tra le prime persone in Italia a occuparsi con competenza e umanità del movimento fondamentalista islamico.
Nata a Masera, in Piemonte, il 20 dicembre 1948, laureata a Milano, ha intrapreso la carriera giornalistica all’inizio degli anni Ottanta lavorando per la rivista Pace e Guerra.
Nel 1988 è arrivata a Il Manifesto, occupandosi soprattutto di temi relativi alla cultura islamica e alla condizione delle donne nei paesi musulmani.
Ha realizzato numerosi reportage dai teatri di guerra del Medio Oriente e dall’Africa, tra cui l’Iraq, l’Algeria e la Somalia.
È stata nominata Cavaliera dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana nel 2003.
Un lavoro pericoloso il suo, ma necessario, per raccontare al mondo intero gli orrori della guerra, le ingiustizie e tutte quelle situazioni che, altrimenti, rimarrebbero ignorate e impunite.
Il 4 febbraio 2005 è stata rapita dall’Organizzazione per la Jihad islamica mentre si trovava a Baghdad come inviata. Il 4 marzo dello stesso anno è stata liberata dai servizi segreti italiani, nell’operazione ha perso la vita Nicola Calipari, funzionario del SISMI che aveva condotto le trattative per il rilascio.
Giuliana Sgrena ha poi raccontato di quel fatidico giorno definendolo il più drammatico della mia vita: la gioia di essere stata liberata, il viaggio verso l’aeroporto di Baghdad, il confuso passaggio da un’auto all’altra, bendata, finché finalmente non si è ritrovata in mani italiane. Era stato Calipari a salire in macchina con lei. All’improvviso la vettura venne investita da centinaia di proiettili americani, e l’uomo, facendole scudo con il suo corpo per proteggerla, rimase ucciso dal fuoco amico.
Cosa sia successo veramente, perché i soldati americani abbiano aperto il fuoco contro i loro alleati, molto probabilmente non lo sapremo mai: le due versioni, italiana e americana, sono molto discordanti, sia riguardo lo svolgimento dei fatti, sia riguardo le motivazioni. C’è chi sostiene che sia stato un complotto, e alcune affermazioni in seguito rilasciate da Giuliana Sgrena sembrano lasciarlo intendere. L’altra metà dell’opinione pubblica invece crede alla versione ufficiale dei fatti, secondo la quale si sia trattato di un terribile incidente, dovuto al fatto che i soldati americani non fossero stati informati del passaggio della vettura italiana.
Quel che è certo è che Mario Lozano, il soldato americano imputato dalla Procura di Roma per l’omicidio di Calipari e il ferimento di Giuliana Sgrena, è stato giudicato non processabile perché sotto la giurisdizione americana, e che il rapporto italiano sulla tragedia fu probabilmente “rimaneggiato” per non incrinare del tutto le relazioni con Washington. (Fonte Wikileaks 2010).
Dopo la vicenda del sequestro, Giuliana Sgrena, per anni ha continuato a ricevere minacce e insulti, anche da esponenti politici e istituzionali. Ma ha continuato ad andare avanti con grande professionalità e serietà.
Oltre che con Il Manifesto, collabora con Rainews 24, il settimanale tedesco Die Zeit e l’agenzia internazionale di informazione IPS.
Autrice di diversi libri centrati sul mondo islamico, dal 2011 si è dedicata all’analisi dei movimenti rivoluzionari della Primavera Araba. Le sue ultime uscite editoriali sono state: Rivoluzioni Violate (2014), Dio odia le donne (2016) e Manifesto per la verità. Donne, migranti e altre notizie manipolate (2019).
Il suo impegno inarrestabile, la sua determinazione, la portano a non arrendersi contro chi vorrebbe tapparle la bocca.
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giancarlonicoli · 4 years ago
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15 set 2020 19:47
VALLI DI LACRIME - BERNARDO VALLI LASCIA ''REPUBBLICA'' DOPO OLTRE 40 ANNI, IN DISACCORDO CON LA LINEA DI MOLINARI SUL MEDIO ORIENTE. A MAGGIO LEONARDO COEN, TRA I FONDATORI DEL QUOTIDIANO, HA RIVELATO CHE IL DIRETTORE AVEVA CHIESTO DI MODIFICARE UN SUO PEZZO, E GIÀ IL CRONISTA NOVANTENNE AVEVA MINACCIATO LE DIMISSIONI - L'INTERVISTA A GNOLI SULLA SUA VITA AVVENTUROSA, DALLA LEGIONE STRANIERA AL CONGO, DALL'IRAN A CUBA: ''NON SONO UN LETTERATO NÉ UNO STORICO, MA SOLO UN CRONISTA. LA VERITÀ? DURA UN MOMENTO''
Da www.professionereporter.it
Bernardo Valli, definito da Repubblica cinque mesi fa, “il più grande reporter di guerra italiano della seconda metà del Novecento”, lascia Repubblica.
Il 15 aprile ha compiuto 90 anni.
Dalla sua casa parigina di rue Chaptal, nono arrondissement, ha scritto una lettera secca al direttore Maurizio Molinari. Per dire addio.
Nella lettera non lo spiega chiaramente, da gentiluomo. Ma il nuovo corso di Repubblica, con la proprietà della Gedi di John Elkann e la direzione Molinari, non lo convince. Valli è un esperto eccezionale di tutti i luoghi di crisi del mondo e qui c’è un nodo particolare, che riguarda il Medio Oriente. Molinari guarda con benevolenza al governo israeliano, Valli ne ha descritto più volte -nei decenni- errori, debolezze, cadute e anche successi. Da cronista, sempre legato strettamente ai fatti. Con la sua lingua chiara e avvolgente. Il punto di rottura anche se non dichiarato ufficialmente è questo. Molinari inoltre ha promosso collaboratrice corrispondente da Gerusalmemme Sharon Nizza, ex candidata del Pdl alla Camera dei deputati e prima collaboratrice in Parlamento di Fiamma Nirenstein, anche lei molto vicina al governo Netanyahu.
PEZZO DA MODIFICARE
A maggio, sul suo profilo social, Leonardo Coen, già firma di Repubblica, ha scritto: “Possibile che Scalfari non se ne renda conto? Gliel’avranno riferito che recentemente il direttore Molinari ha chiesto a Bernardo Valli di modificare qualcosa nel suo pezzo e che l’anziano ma ancora baldanzoso Bernardo ha minacciato di dimettersi?”.  Era un pezzo sul Medio Oriente.
Con la direzione Molinari, da Repubblica sono andati via Enrico Deaglio, Gad Lerner e Pino Corrias.
Nessuno di loro si può paragonare a Valli, presente a Repubblica dalla fondazione, un monumento del giornalismo di battaglia, colto e preciso, documentato e capace di far comprendere la complicazione dei fatti.
Valli nasce a Parma in una famiglia benestante: il padre è chirurgo, la madre crocerossina. Nel 1949, a diciannove anni, si arruola nella Legione straniera francese. Nel 1954 assiste, nella base di Sidi Bel Abbes, alla parata dei reduci dalla sconfitta diDien Bien Phu. Poco dopo, decide di lasciare la Legione.
Si trasferisce a Milano, dove fa il praticantato da giornalista al quotidiano L’Italia. Nel 1956 è al neonato Giorno, dove si occupa di cronaca nera. Dopo solo un anno passa dalla cronaca alla politica internazionale. E’ testimone della  rivoluzione algerina. Negli anni sessanta è presente a Cuba e racconta la Guerra dei Sei Giorni in Medio Oriente.
DILETTANTE E PROFESSIONISTA
Nel 1971 si trasferisce al Corriere della Sera, scrive dal Vietnam, dall’India, dalla Cina, dalla Cambogia. Nel 1975 rientra in Europa, come corrispondente da Parigi. Nel 1979 racconta la rivoluzione khomeinista in Iran.
Lascia il Corriere per Scalfari. Con base a Parigi continua a seguire tutti i più grandi eventi di politica e di cronaca nel mondo.
Nell’intervista al suo giornale per i 90 anni, ha detto: “Se dovessi fare una diagnosi sbrigativa, il mio lavoro è stato un miscuglio di dilettantismo e professionismo. I due aspetti si sono sempre incrociati. Raramente ho fatto dei servizi giornalistici senza conoscere le radici storiche profonde del Paese che raccontavo, ma allo stesso tempo mi sentivo libero dal peso della conoscenza. Così una certa disinvoltura che puoi anche chiamare sfacciataggine o leggerezza si è sempre sposata con un impegno professionale quasi arcigno”.
2. BERNARDO VALLI - “NIENTE LETTERATURA, NIENTE STORIA SONO E RESTO UN GIORNALISTA INQUIETO”
Antonio Gnoli per ''la Repubblica'' - 1 marzo 2015
Dopo una conversazione durata quasi tre ore e che ci inoltra nel pieno di una sera parigina, Bernardo Valli mi invita in un ristorante non lontano da casa. Vive nel nono arrondissement. «Un tempo fu il regno dei letterati e degli artisti. La chiamavano la Nouvelle Athènes. Ci stavano stabilmente Baudelaire e Zola; ci venivano George Sand e Turgenev. Non distante c’è il liceo Condorcet dove Proust studiava. Qui offrì a una compagna un mazzolino di fiori prima di scoprire la sua omosessualità ». Valli ha buone letture. E straordinari ricordi. Non mi sorprende. I suoi articoli (una parte è uscita qualche mese fa da Mondadori) aprono a mondi narrativi costruiti con la precisione del grande meccanico. Usciamo dal ristorante che è quasi mezzanotte. Fa freddo. Un tratto di strada a piedi. Poi improvvisamente Pigalle: uno schiaffo di luci rosse. «In quarant’anni che vivo a Parigi non sono mai stato al Moulin Rouge», confessa. Penso che l’ombelico del turismo famelico non gli interessi. Non gli susciti alcuna emozione. Che “animale” ho di fronte? Sfuggente, certo. Ma anche abile nella caccia. Mansueto e duro. Capace di coprire grandi distanze ma anche di starsene tranquillo nella tana.
Non hai mai pensato di tornare in Italia?
«A volte. Alla fine la pigrizia ha avuto la meglio».
Non sembri un uomo pigro.
«La pigrizia scherma le mie esigenze. I miei rituali. Il mio lavoro che organizzo. Le mie partenze, a volte repentine. Sono appena tornato da Vilnius. Un tempo era la Gerusalemme d’Europa. Ne hanno ammazzati tanti di ebrei, allora. Circa duecentomila. Sai chi era di Vilnius?».
Un sacco di gente è di Vilnius.
«No, no. Guarda pensavo a uno scrittore. Romain Gary. L’ho conosciuto bene. Siamo stati anche amici. Come ebreo lituano era sentimentale e dotato di grande fantasia. Pensavo a lui quando ero a Vilnius. Il fantasma che mi accompagnava».
È morto suicida.
«Si tirò un colpo di pistola alla testa. Era il 1980».
L’anno prima si era suicidata la sua ex moglie Jean Seberg.
«Ho conosciuto bene anche lei. Ma non mi va di parlarne. È raro che ci si uccida per mancanza di talento. Per eccesso, forse sì».
Come Tommaso Besozzi, l’inviato speciale e grande cronista de L’Europeo.
«Tu scavi nel passato. Morì nel 1964. Gli ero stato amico. Vedevo in lui crescere l’angoscia. Farsi smisurata. Si lasciò esplodere con una bomba».
Tu hai scritto che a un certo punto della vita non riuscì più ad adeguare le parole ai fatti.
«È così. Le esigenze dello scrittore presero il sopravvento sulla realtà. Poteva rimanere per ore davanti al foglio bianco senza scrivere una parola».
A te è mai accaduto?
«Raramente, non sono un letterato».
Lo ritieni quasi un insulto.
«È il destino, nel bene e nel male, del giornalismo italiano ».
Il bello scrivere?
«Scrittura impressionista che più che guardare all’Inghilterra, come credeva Albertini, si ispirava alla Francia. Giornalismo pamphlettario. Molta denuncia e pochi dati».
Qual è la tua idea di giornalismo?
«È prima di tutto un servizio. Una cosa pratica. Informa: dagli orari delle farmacie a quello che accade in una guerra. È un lavoro artigianale. Non letterario».
È come se tu volessi allontanare una tentazione.
«Non ho mai avuto queste tentazioni. Certo, oggi è diverso. Un tempo, quando ero in Africa o in Asia, un articolo lo dettavo al telefono, se lo trovavo; o lo trasmettevo per telex. Capitava che arrivassi in un posto alle sei del pomeriggio e alle dieci di sera dettassi il pezzo. Cosa mi spingeva a fare tutto questo? La curiosità, prima di tutto. E poi, l’incoscienza. Che è una risposta all’ignoranza ».
Sembra tutto molto eccitante.
«È un’immagine sbagliata. Ho vissuto in un’epoca in cui i tempi erano maledettamente lunghi. Estenuanti. Viaggiavo spesso in solitudine. La sola cosa che alla fine facevo era leggere».
Che tipo di lettore sei?
«Calvino diceva che ci sono letture intellettuali, colte; e letture che puntano al godimento immediato. Sono un lettore che legge per piacere. Anche se a volte non mi sono tirato indietro davanti a costruzioni impegnative. In Medioriente tentai di leggere l’ Ulisse di Joyce. In Thailandia lessi tutto L’uomo senza qualità di Musil ».
Cosa ti spingeva a leggere Musil in quel mondo così remoto?
«Pensavo che il regno di Kakania non fosse poi così diverso da quello thailandese. Leggere è un modo per staccare. Riprendere fiato. Durante l’assedio di Phnom Penh, in una biblioteca abbandonata, ho riletto buona parte di Dumas. Era un modo per liberare la testa».
Forse anche di riempirla con qualcosa che sarebbe riecheggiata nei tuoi articoli.
«Qualcosa resta. Il ritmo. Certe parole. Ma, al tempo stesso, so che non c’entro niente con Stevenson o Conrad o, magari, Graham Greene. Ho sempre letto. Fin da giovane. Sono stato un cattivo studente. Ma spesso leggevo i libri che al liceo Attilio Bertolucci consigliava a mio fratello maggiore».
Hai una classifica di buoni libri?
«Ho letto spesso in maniera disordinata. Negli anni in cui ho abitato a Singapore lessi tutto Balzac e Zola. E a proposito di francesi, a Saigon feci leggere a Terzani – che amava soprattutto i libri di storia e di viaggio – Un cuore semplice di Flaubert. Venne da me con le lacrime agli occhi. Non prenderlo come un vezzo. Le letture più belle sono state per me quelle più occasionali».
Di Terzani sei stato molto amico.
«Oggi ne hanno fatto una specie di guru. È un’immagine che mi infastidisce. Quello che ho conosciuto e del quale sono stato amico era una persona dolcissima che non aveva nulla del santone. Alla fine evitavamo di parlare di ciò che ci divideva».
Cosa esattamente?
«Io restavo un cronista. Lui inseguiva le idee. Una delle ultime volte che ci vedemmo fu a Kabul nel 2001. Ebbi netta la sensazione di un uomo incalzato dalla morte e alla ricerca della verità. Sembrava spoglio, come un albero d’inverno. Dormiva a terra. Quando partii gli lasciai il mio sacco a pelo».
Della verità che idea ti sei fatto?
«Ho dato come titolo alla raccolta dei miei articoli: La verità del momento . Per un cronista non c’è altro».
È duro da accettare.
«Sì, lo è. Ho passato buona parte della vita a correggere quello che ho scritto. Le situazioni cambiano. Il mondo cambia. Ne ho dovuto prendere atto».
La “verità del momento” è una forma di ateismo.Non trovi?
«Dio c’entra poco con le verità relative».
Che ricordo hai della Fallaci che certo non si nutriva di verità relative?
«È stata un gran personaggio. Era uno spettacolo vederla nella stanza di un albergo lottare con la macchia scrivere. Intensità. Passione. A volte passava ore davanti al foglio. Cercava i fatti. Ma poi i fatti sotto il suo sguardo diventavano un’altra cosa. Per quello che ricordo, Oriana non ha mai usato il condizionale».
E tu?
"E' una pratica salutare per un cronista"
Oltre che cronista sei un viaggiatore
«Mai per il solo gusto di viaggiare. Sono stato complessivamente sette anni in Asia; diversi altri in Africa e poi l’America, l’Europa. Che dire? Sono il risultato di una carta geografica».
Cosa ti è restato?
«Tutto. Ti confesso che ho amato particolarmente l’Asia. L’ho vista distruggersi, modificarsi, cambiare volto. Macao è sparita ed è diventata una Las Vegas. La Cina che vidi la prima volta che vi entrai nel 1970 non c’è più. Il Giappone che mi affascinava per la fierezza ha vissuto il dramma di un legame sempre più incerto con la tradizione. L’India ha cambiato radicalmente i propri connotati. E nonostante ciò l’Asia continua ad affascinarmi. È difficile da capire».
Perché? Dopotutto lì c’è un pezzo della tua vita.
«La mia vita è quella di un provinciale. Un tempo la provincia era importante. Sarà per stupido sentimentalismo, mi è restata attaccata come una seconda pelle ».
Sei nato a Parma.
«Da una famiglia borghese. Mio padre era medico. Non volevo avere niente a che fare con quelle radici borghesi ».
La chiameresti inquietudine?
«Non lo so. Andai via di casa molto giovane. Ma non perché ce l’avessi con la famiglia. Eppure sono scappato. E, forse, ancora continuo a scappare».
Si può dire che la prima fuga sia stata quella più importante?
«A cosa ti riferisci?».
Ai tuoi anni giovanili trascorsi nella Legione Straniera.
«Quella fu una fase che non ha aggiunto niente alla mia vita successiva».
Non hai mai voluto parlare di quel periodo. E non credo che tu lo faccia per qualche forma di vergogna o di pudore. Né di snobismo. Del resto molta gente importante è finita lì.
«Vuoi che non lo sappia? Anche Ernst Jünger e Curzio Malaparte. Ma cosa significa?».
Ci si andava per i più diversi motivi.
«Allora ti dico che ero un ragazzo quando scelsi la Legione. Forse perché avevo la testa piena di certe letture. Forse perché cercavo un punto estremo dove posarmi. Ci sono rimasto cinque anni. Ho disertato. Fui ripreso. Ho fatto anche una certa carriera. Ma è stata una parentesi, capisci? Non ha avuto nessun riflesso sugli eventi successivi».
Permettimi di dubitare.
«In effetti qualcosa ha lasciato. Mi ha insegnato a marciare. Ancora oggi, malgrado l’età, ho gambe forti. Mi ha dato il senso della disciplina. E un’altra cosa. L’ultima: mi ha lasciato come un senso di indignazione. Un bisogno di andare dalla parte opposta. In fondo, se sono diventato terzomondista, contrario al colonialismo, è stata una reazione a quella scelta che feci da giovane».
Quell’esperienza fu anch’essa una “verità del momento”. Ma vorrei domandarti qualcosa in merito alla caduta di Dien Bien Phu. Cioè di come i francesi persero l’Indocina. In un lungo articolo tu racconti quella battaglia e l’assedio che durò circa due mesi.I francesi avevano schierato in prima linea la Legione Straniera. Tu dove eri esattamente?
«Non c’ero».
Mi risulta il contrario.
«Perché dovrei mentirti?».
Sei come il pescatore di perle che ingoia o nasconde la perla più grossa.
«Non sono stato in quella battaglia. L’ho raccontata, è vero. Ma perché conoscevo gli ufficiali. Conoscevo quel mondo. Il luogo, la porta per il Laos. Dopo che Dien Bien Phu cadde nelle mani del comandante Giap ci fu a Sidi Bel Abbes, la cittadella dei legionari, una grande cerimonia alla quale assistetti».
Cosa vedesti?
«Vidi una grande parata in omaggio all’eroismo o meglio al coraggio con cui avevano combattuto a Dien Bien Phu. La Legione aveva resistito. Era tutta schierata davanti al Maresciallo di Francia Juin. Vidi un mondo che stava finendo, almeno per come lo avevo immaginato. Vidi i mutilati schierati in bella vista. Segno delle ferite e del sacrificio. Del prezzo che era stato pagato. Percepii il gusto per il macabro che la Legione Straniera aveva spesso esibito. E alla fine pensai che lì, in quel piccolo mondo, dove un ladro di polli poteva trasformarsi in soldato vero, si fabbricava qualche eroe e molti mitomani. Quell’anno, era il 1954, lasciai la Legione».
Sei stato definito (da Franco Contorbia che ha curato, scelto e raccolto i tuoi scritti) un “avventuriero disciplinato”. Ti riconosci?
«Come ossimoro non mi dispiace. Mi fa pensare, visto che ne abbiamo parlato, alla Legione Straniera come a un collegio di correzione. Anche se oggi è un’altra cosa».
Correzione, educazione, disciplina. Cosa ti affascina? Non sembri così succube di queste pratiche.
«Non lo sono, è vero. Mi piace pensare l’umanità divisa tra chi ha una mentalità militare e chi non ce l’ha. La prima è fatta di cose semplici: la mattina rifarsi la branda, marciare, obbedire a certe regole. Ecco, il lavoro del giornalista contempla anche questo che può sembrare il lato meno creativo».
È l’altra faccia della luna.
«I miei occhi hanno visto molto. Sono stato testimone della rivoluzione algerina nel 1958. Ho raccontato il Vietnam, Cuba, la Guerra dei sei Giorni e la rivoluzione khomeinista. Sono stato ovunque: dal Congo al Sudafrica. Ho visto facce che sembravano eroi trasformarsi in spietati dittatori. Ho vissuto pericoli e rischiato la vita, come quando nella città di Takeo fui circondato dai khmer rossi. E ogni volta era come la prima volta. Come ricominciare da capo. Perché la cronaca è un lampo. Uno squarcio che si richiude. E tu sei lì, insignificante, a chiederti se stai facendo la storia. Ma la storia è un’altra cosa».
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peccatidipenna · 6 years ago
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Nel Mirino di Azad Cudi dal 16 maggio in libreria per @longanesi_editore. #TRAMA Nel 2011, quando in Siria scoppiò la guerra civile, i curdi del nord si ribellarono e cercarono di liberare la loro terra natale da secoli di repressione fondando uno Stato progressista che chiamarono Rojava. Per la mentalità medievale dell’ISIS, quel rifugio di pace e democrazia – fondato su parità dei sessi e femminismo, laicità e tolleranza – nato proprio ai confini del suo nuovo califfato fu un affronto e, per schiacciare la rivolta, ammassò al confine dodicimila uomini, carri armati e schiere di attentatori suicidi. Contro questa imponente armata combatterono appena 2500 volontari – uomini e donne – muniti di fucili vecchi di quarant’anni: Azad Cudi era uno di loro. Nel 2002 Azad è un ragazzo curdo-iraniano di diciannove anni costretto al servizio militare nell’esercito iraniano. Rifiutandosi di combattere contro i suoi fratelli curdi, decide di disertare e fugge nel Regno Unito, dove chiede asilo, impara l’inglese e ottiene la cittadinanza. Dopo circa un decennio, quando esplode la guerra civile in Siria, Azad torna in Medio Oriente come volontario in missioni umanitarie. Nell’autunno 2014, dopo soli ventun giorni di addestramento, diventa uno dei diciassette tiratori scelti schierati dai curdi per difendere dall’attacco dell’ISIS la città di Kobane, nella regione autonoma curda del Rojava. Nel mirino è il racconto dei nove mesi di battaglia tra i ribelli curdi e lo Stato islamico, un viaggio straziante che rivela anche il ruolo essenziale dei cecchini che hanno portato alla sconfitta dell'ISIS. Intessendo gli eventi brutali della guerra con riflessioni personali e descrizioni di aspetti poco noti della cultura curda, Azad medita sul prezzo incalcolabile della vittoria, pagato pur di tenere accesa la fiaccola della libertà. —— #libri #pubblicazioni #ebook #leggerefabene #leggeremania #booklovers #leggere #letture #booknow #booklover #leggerechepassione #leggeresempre #bookaddicted #bookaddict #bookish #bookaholic #booknerd #bookworm #bookstagram #igreaders #bookaddiction #bookblogger #booklove #peccatidipenna https://www.instagram.com/p/BxfBJ3oodMb/?igshid=uphiyte37l7t
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