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Il Segreto di Isabel di Susan Meissner. Un intreccio tra passato e presente, amore e resilienza sotto il cielo di Londra. Recensione di Alessandria today
Susan Meissner, maestra della narrativa contemporanea, ci regala con Il Segreto di Isabel un romanzo toccante e avvincente che intreccia storie di donne attraverso epoche diverse.
Susan Meissner, maestra della narrativa contemporanea, ci regala con Il Segreto di Isabel un romanzo toccante e avvincente che intreccia storie di donne attraverso epoche diverse. Ambientato in una Londra colpita dalla Seconda Guerra Mondiale, il libro esplora i legami tra il passato e il presente, tra i sogni e i segreti che definiscono la vita di due protagoniste indimenticabili. La tramaLa…
#Alessandria today#Amore e guerra#autori americani#Google News#Il Segreto di Isabel#intreccio temporale#italianewsmedia.com#letture coinvolgenti#Letture consigliate#letture storiche#Londra del Blitz#Londra nella guerra#narrativa contemporanea#narrativa di emozioni#narrativa di qualità#narrativa emozionale#narrativa femminile#narrativa internazionale#Narrativa storica#narrativa toccante#Pier Carlo Lava#resilienza#romanzi ambientati#romanzi bestseller#Romanzi di introspezione#Romanzi di ispirazione#romanzi ispiratori#romanzi storici#romanzi sul passato#romanzi sulla resilienza
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Non cercate di ingannarmi con parole vuote; io anelo alla sincerità. Nel mare tempestoso delle apparenze, dove le maschere brillano sotto luci ingannevoli, io cerco uno sguardo autentico, una mano tesa senza secondi fini. Troppe volte le note della dissimulazione hanno suonato melodie stonate nel mio cuore, lasciandomi a danzare con ombre che svaniscono all'alba. Voglio sentire il peso delle parole che si fanno pietre, solide e vere, su cui costruire ponti di fiducia. Non temo la durezza della verità; essa non ferisce più dell'illusione che si frantuma. Preferisco il freddo taglio di una confessione sincera al caldo abbraccio di una menzogna confortevole. In questo mondo che corre veloce, inseguito da immagini riflesse in specchi deformanti, mi fermo a cercare i colori genuini, quelli che non sbiadiscono al primo temporale. Dammi occhi che raccontano storie senza veli, labbra che parlano senza filtri. Perché è nella schiettezza che si fonda l'autentica connessione, ed è nel coraggio di mostrarsi nudi che si trova la vera forza. Non chiedetemi di indossare costumi che non mi appartengono, né di recitare copioni scritti da altri. Il mio cammino è tracciato da passi sinceri, segnato dalle orme della mia essenza. Se vorrai camminare al mio fianco, lascia cadere le finzioni e mostrati per ciò che sei, con le tue luci e le tue ombre. Perché alla fine, è solo nella verità che possiamo toccare il cuore degli altri, in un intreccio di anime che risuonano all'unisono. Non c'è bellezza più grande dell'autenticità, né tesoro più prezioso di una parola onesta. Non darmi sipari calati su palcoscenici finti; apri le finestre della tua anima e lascia entrare la luce pura della verità.
Empito
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declinare il tempo
Sappiamo che la luce che proviene dai corpi celesti, come le stelle o le galassie, ci mette milioni o perfino miliardi di anni per raggiungere la Terra.
Le stelle ne sono la testimonianze di questi eventi passati, alcuni di milioni di anni fa, nonostante li vediamo nel nostro presente.
Allo stesso modo il tempo, nella nostra vita quotidiana, è un intreccio di passato, presente e futuro.
Una relazione complessa che suscita fascino.
Oggi in un mondo interconnesso, l'idea di "il futuro nel presente" non è più un paradosso, ma una realtà condivisa.
Quando interagiamo con qualcuno che si trova in un fuso orario diverso, stiamo comunicando con una persona che vive, in effetti, in una parte differente della nostra linea temporale.
È come declinare il tempo: "il futuro nel presente".
Oggi è domani per te, ieri per me.
Mentre noi siamo ancora nel nostro presente, loro si trovano già nel loro domani.
Luoghi lontani, stesso momento di conversazione, ma separati da date diverse
A dividerci non è solo la distanza, ma anche l'arco temporale.
La nostra linea temporale si restringe, e la distanza che ci separa è rappresentata non solo dai chilometri, ma anche dagli istanti che ci dividono.
Siamo connessi simultaneamente e in modo asimmetrico: dove le ore si sovrappongono ma le date divergono.
Questo ci porta a riflettere su come il tempo, un tempo considerato un flusso unidirezionale e immutabile, diventa come un tessuto che intreccia diversi momenti della nostra esistenza.
Presente, passato e futuro.
Nell'arco di poche ore abbiamo ristretto la linea del tempo.
Per comprendere meglio questa idea, possiamo fare riferimento ad alcune teorie sul tempo.
La teoria della relatività di Einstein, ad esempio, ci insegna che il tempo non è assoluto, ma relativo, attraverso fusi orari differenti, viviamo una versione tangibile di questa teoria: ci muoviamo attraverso diverse dimensioni temporali, creando una connessione che si estende oltre i confini tradizionali del tempo lineare.
Questo significa che può variare in base alla velocità a cui ci muoviamo e alla nostra posizione rispetto a un campo gravitazionale.
Anche se queste idee sono principalmente teoriche e scientifiche, ci forniscono un fondamento per la comprensione come diversi individui possono percepire il tempo in modo differente a seconda delle loro esperienze e posizioni.
Dal punto di vista della sintassi linguistica, i tempi verbali ci permettono di ancorare le nostre esperienze in una sequenza temporale: passato, presente e futuro.
Tuttavia, nel mondo globalizzato di oggi, queste distinzioni si fanno più sfumate.
Parlare di eventi futuri come se fossero presenti diventa una necessità pratica quando ci relazioniamo con persone in diversi fusi orari.
Capire e accettare questa fluidità del tempo ci offre potere.
Ci permette di empatizzare meglio con gli altri, comprendendo che la loro percezione degli eventi può differire dalla nostra.
Ci offre la possibilità di pianificare in modo più efficace, tenendo conto delle variazioni temporali globali.
Inoltre, questa comprensione può arricchire il nostro apprezzamento verso la diversità culturale e temporale, ricordandoci che il nostro domani può essere l'oggi di qualcun altro.
Declinare il tempo in "il futuro nel presente" ci ricorda che siamo tutti intrecciati in un razzo temporale che trascende i confini geografici e cronologici.
Imparare a navigare in questa complessità con le giuste teorie e strumenti sintattici non solo amplia la nostra comprensione del mondo, ma ci equipaggia anche a vivere in armonia con le diversità temporali che incontriamo.
Proprio come le stelle nel cielo notturno, il tempo ci connette tutti, passato, presente e futuro, in un'unica esperienza universale.
Tuttavia, questa divisione non deve essere vista come un ostacolo, ma come un'opportunità per arricchire la nostra esperienza umana.
Mentre intrecciamo conversazioni, collaborazioni e connessioni con persone in diversi fusi orari, abbracciamo una realtà in cui passato, presente e futuro si fondono, offrendoci una visione più ampia e profonda del mondo.
Così, il futuro non è più un concetto distante, ma una parte integrante del nostro presente, vissuta e condivisa ogni giorno nel vasto panorama dell'esistenza umana.
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Lee Ufan Resonance
Achille Bonito Oliva
Testi di: Gino Di Maggio, Achille Bonito Oliva, Lee Ufan
Fondazione Mudima, Milano 2007, 55 pagine, 27 x 23 cm, Inglese, brossura cartonata
euro 40,00
email if you want to buy [email protected]
Mostra 52 Biennale Venezia 2007 -Palazzo Palumbo Fossati. La mostra presenta 10 olii su tela di diverse dimensioni combinati con 8 installazioni realizzate con materiali naturali quali pietra e ferro. Lee Ufan, artista coreano fondatore del gruppo Mono–Ha, vive in Giappone ma è un nomade che ha saputo coniugare insieme il linguaggio delle avanguardie occidentali e la cultura di quelle orientali. Aggirando il ready made del cartesiano Duchamp ed il taglio del barocco Fontana, Lee Ufan sostituisce al principio di rappresentazione quello di presentificazione, in un percorso che corre dagli anni Sessanta, sculture e installazioni, alle "Corrispondenze" degli anni Novanta, fino alle pitture di oggi. Senza contrapposizioni ha fondato un incrocio spazio-temporale sostituendo al concetto di forma quello di "struttura", a quello di spazio quello di "campo", quale sistema di relazioni aperte a sviluppi che tendono a coniugare il pieno e il vuoto insieme. L'intera ricerca di Lee Ufan è una messa in crisi dell' "objet trouvé" e della sua metafisica: una forma morta scontornata nello spazio estetico e sottratta alla vita. Invece Lee Ufan non rappresenta ma "presentifica" un'idea di temporalità attiva che sostiene l'incontro dell'artista col mondo e dell'opera con lo spettatore. Ora una "tache" si irradia sulla superficie attiva di una pittura che sviluppa l'epifania di un incontro con il pubblico. Ora realizza pitture in cui egli è totalmente artefice del tutto. I segni orchestrati sulla tela hanno una tensione, un percorso e una durata spaziale giocati nel segno di una misura standardizzata a mano. Una misura memorizzata da un gesto che non dimentica precisione ed energia, scorrevolezza artigianale e geometria dell'estensione. Spesso questi spazi costituiscono degli architrave della visione, nell'ordine di due o tre organizzano il campo spaziale in termini di essenzialità visiva tesa ad evidenziare precisione ed indeterminazione, costrizione e potenziale modificazione. L'artista sembra voler dare al forte segno tracciato sulla superficie pittorica l'incisivo volume dell'oggetto o materia adoperata precedentemente nelle sue installazioni. La forza del tracciato serve proprio ad intensificare il momento dell'incontro tra l' opera lo spettatore mediante un intreccio tra tempo e spazio, dimensioni entrambe necessarie per realizzare il valore dell'arte, quello della "presentificazione". Ecco che Lee Ufan risolve il problema della immortalità dell'opera senza voler ipotecare il futuro, piuttosto fondando la persistenza del presente. Estendere il presente diventa per l'artista orientale un modo di eliminare da una parte il patetico sistema di previsioni del futuro e di ipotecare invece, attraverso una diversa dimensione dello spazio, un campo così vasto da accogliere il tempo del suo battito costante.
19/07/23
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#Lee Ufan#art exhibition catalogue#52 Biennale Venezia 2007#Achille Bonito Oliva#Fondazione Mudima#artista coreano#gruppo Mono-Ha#10 olii su tela#art books#fashionbooksmilano
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ALEXANDER GARDNER L’inclassificabile tempo della fotografia. 1865. Una cospirazione ha l’obiettivo di assassinare, in un’azione concentrica, il segretario di stato americano W. H. Seward, il vice presidente Johnson e il 16º presidente degli Stati Uniti d’America Abraham Lincoln. Dei tre politici solo Lincoln trova la morte. John Wilkes Booth, l’assassino del presidente, è vittima in un conflitto a fuoco, gli altri sono quasi subito consegnati alla giustizia e più tardi condannati a morte. Tra questi Lewis Payne, che vediamo qui ritratto da Alexander Gardner (1821-1882).Guardiamo i “segni” contenuti nella fotografia. Il giovane è contro il muro della sua cella, decentrato rispetto all’inquadratura. Le mani, sfocate, benché strette da rudimentali manette, ci distolgono interesse a vantaggio degli ampi e profondi graffi sul muro della cella. L’aspetto complessivo del giovane è rilassato. Egli sa che tra breve morirà ma non sembra esserne turbato, lui è già altrove. C’è una ragione. Lewis Payne sa di essere un assassino e sa di meritare la pena comminatagli ma l’osservatore noterà il piglio di chi più che un assassino è il portavoce di un malessere che allora attraversava l’America. E’ un “ribelle con una causa”. Dunque il suo sguardo è consapevole, guarda dritto l’obiettivo come se volesse trasmettere alla posterità la convinzione di avere agito per motivi superiori, ragioni per cui sacrificare eventualmente anche la propria vita. La giustizia americana, secondo Payne, ha condannato il suo corpo non le sue idee. La fotografia invece lo consegna all’immortalità. Sappiamo che la Fotografia non necessariamente dice “ciò che non è più” ma sicuramente dice “ciò che è stato”; e mai lo dice come nel caso del ritratto di Payne. Noi conosciamo il suo destino (tra breve morirà) esattamente come lo conosce lui. Dunque per noi è “già” morto, anche se di fatto il giovane vive ancora. Questa “frattura” temporale introduce a un aspetto che vive nell’eidos della Fotografia e che si coagula intorno a una domanda: “Cos’è il Tempo in una fotografia?” cui si risponde che “il Tempo nella Fotografia è un elemento non classificabile”. Noi attraverso una fotografia scorgiamo un “tempo assoluto” svincolato dall’ordine e dal flusso temporale: non sappiamo nulla di un minuto prima e non sapremo nulla un minuto dopo avere scattato un immagine. Il Tempo è come congelato e dunque lontano dall’essere vivo. E paradossalmente è l’interruzione di questa scansione, del flusso temporale cioè, con cui la Fotografia baratta la sua “immortalità. Tuttavia la Fotografia agita un “Tempo interiore” fortemente soggettivo. Quando riesumiamo vecchie fotografie di famiglia non è solo la commozione a essere sollecitata nella curiosità di vedere i nostri genitori più giovani di quanto non lo siamo noi adesso, siamo di fronte a un Tempo che chiede d’essere interpretato. Ma essendo un Tempo che parla al passato chiederà a noi di completare la narrativa, perché, come si è detto, la Fotografia si interrompe davanti al futuro. Dunque a “separarci” dalle vecchie fotografie di famiglia è la Storia, che noi recuperiamo in due momenti. Il primo è nell’immediato intreccio di somiglianze o, ancor più, nello slancio dedicato a stabilire le connessioni temporali tra i soggetti “com’erano” e “come sono”, connessioni che mai nessuna fotografia può stabilire autonomamente. Tornando alla foto di Gardner da cui siamo partiti, abbiamo, per così dire, l’immagine viva di una cosa morta, perché siamo a conoscenza di ciò che il soggetto “è stato”. Nella sdrucciola immobilità del giovane si coglie per intero il risultato della confusione di due concetti: Il Reale e il Vivente. Ha scritto Barthes che «attestando che l’oggetto è stato reale, esso induce impercettibilmente a credere che è vivo, a causa di quell’illusione che ci fa attribuire al Reale un valore assolutamente superiore, come eterno; ma spostando questo reale verso il passato (“è stato”), esso suggerisce che è già morto». Da qui la percezione di trovarci di fronte a un’immagine già al passato, suggestione ancor più rinforzata dalla
conoscenza del suo destino. La fotografia di Gardner è molto più di un ritratto – sebbene nasca con questo proposito –: è una specie di imago in grado di convogliare a sé numerose tematiche, un’icona costitutiva della ritrattistica futura e del delicato intreccio empatico che deve stabilirsi tra soggetto e fotografo. Il ritratto di Lewis Payne, il “ribelle con una causa” avrebbe dovuto travalicare un ambito che né il fotografo né il soggetto (qui i due hanno qualcosa in comune) potevano immaginare, proiettandosi direttamente fino a diventare linguaggio specifico, una specie di topos fotografico. L’irresponsabile baldanza del giovane, ritratto nella sua arroganza e nello spregio delle istituzioni, ricorda molto da vicino un’iconografia ribelle ripresa poco meno di un secolo dopo da una cinematografia americana che stava cambiando pelle e da cui proviene il nostro immaginario dei “ribelli senza una causa” di quella gioventù bruciata raccontata magnificamente da Nicholas Ray o il Brando de “Il Selvaggio”. Ecco dunque come un’immagine ottocentesca proietti la sua modernità in discipline assai imparentate con la Fotografia e, di rimando, su un’intera generazione di giovani. I nuovi fotografi hanno fatto il resto. Giuseppe Cicozzetti via Scriptphotography su fb
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Lascia tracce profonde il cinico cammino del progresso
in nome di uno scientismo atroce
in un produttivo fine a se stesso.
L'intelligenza pratica
la freddezza nel raggiungere i propri obiettivi ad ogni costo
la sicurezza di sé
la leggerezza mentale che accetta i peggiori compromessi
la superficialità in qualsiasi situazione
l'esibizionismo
il narcisismo
e il graduale disuso dei sentimenti
che scompaiono nel quotidiano tirare a campare.
Ricettivo
rifletto con profonda serietà
cercando il significato celato
l'occasione di una evoluzione
di una elevazione.
Tutto il mio essere è spalancato
apro gli occhi
vedo con chiarezza la distanza che separa il reale dall’ideale
un immenso scenario si dischiude
rendendo partecipe il mio cuore distratto.
I disegni delle nuvole al termine del temporale
i raggi del sole
la vegetazione che esplode
mille note fresche di colore
infinite sfumature.
Una luce delicata abbraccia ogni cosa in un trionfo di calore.
Intreccio le impressioni del presente
con i giochi della fantasia
con i ricordi del passato
creando un panorama incantato.
Non sono qui per caso
ma la forza possente dell’essere
mi ha spinto fuori dal non essere
prima che il tempo incominciasse ad esistere
ed e lì che aspiro a ritornare.
(Gio Porta – “Non a caso”)🖋
Immagine: Dipinto di Sandra Statunato - “Viaggio di ritorno”
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Colazione con Rick and Morty
Allora, sono arrivato al nono episodio della seconda stagione di Rick and Morty. Me lo guardo mentre faccio colazione, inizia la puntata mentre verso lo yogurt nella tazza con loro due che parlano dentro la navicella spaziale, taglio la banana mentre Rick dice "Non ti ricordi quelle barrette che abbiamo preso a inizio episodio?" e un po' mi stranisco mentre aggiungo l'avena. Poi c'è un piccolo colpo di scena tipo da "fine episodio" -che non vi sto a raccontare- e partono i titoli di coda proprio mentre metto le mandorle. A questo punto, inizio a mangiare, mi dico "Che forza! Un episodio che va al contrario! Prima la scenetta finale, poi i titoli di coda... ecco adesso c'è la scena prima dei titoli ahahah ma sono proprio dei genii ma come gli vengono in mente certe idee ahahah chissà che intreccio spazio-temporale verrà fuori alla fine dell’episodio che poi sarà l’inizio della storia ahahah... aspè... ma perché ci sono di nuovo i titoli di coda? Perché durano così a lungo? Perché ci son scritte in giapponese e in polacco? E perché ora si è fermato tutto?? Ah no, era solo Netflix che ha sbarellato ed è saltato improvvisamente all'ultima parte del video mentre ero distratto a tagliarmi la banana 🤣
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Non so bene neanch'io che cosa provo in realtà
Sguardo profondo e luminoso,
è una stella che splende e risplende in questa buia vita di ogni giorno.
In uno spazio immenso vago, ma a lei torno.
Ha un carattere dolce, come il suo viso,
e contro ogni problema niente è meglio del suo sorriso, che mi aiuta se ho bisogno in un momento.
La sua voce mi basta, è come una festa, è un martellare di campane che rintrona la testa.
Confondo affetto e amore in un intreccio magico, l'intesa è perfetta in un rapporto unico.
E so che può sembrarti strano, ma cerco le parole per spiegarti che effetto fa sapere che se la giornata non è stata bella, posso contare sulla mia coccinella.
Qualche volta litighiamo, ma il problema non è quello: l'amore non è bello se non è litigarello.
E si sa come vanno queste cose qua, il problema domani più non esisterà.
Lascia che il mio cuore crei una poesia,
parole in rima che riescono nel loro intento.
È una freccia scoccata che colpisce il cuore al centro,
dentro sento un grande movimento e sentimento,
sono cento voci tutte in un momento
che gridano ti chiamano, è un grande coro,
ed io mi riconosco in ognuna di loro.
Esplosioni, sento come se temporale e mare in tempesta fosse dentro di me!
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Ai cinici e agli scettici voglio raccontare una storia.
Non è una storia fatta di parole, è fatta di immagini e di ricordi, di sogni e di magia.
È fatta di per sempre, che se poi voi non ci credete, non capirete mai cosa significa.
"Per sempre" è quella sensazione di eternità, libertà, spensieratezza, serenità che proviamo quando pensiamo a qualcuno o a qualcosa del passato.
"Per sempre" non è un'indicazione temporale concretamente verificabile.
"Per sempre" è quel che ami, quel che sogni.
Sono i sorrisi nati dal ricordo giusto, il "per sempre".
Ai cinici e agli scettici voglio raccontare il "per sempre", perché lo so che non ci credete.
Io l'ho visto, anzi l'ho sentito, l'ho provato, l'ho accarezzato e ora è conservato dentro di me.
È la libertà che ho sfiorato nell'aria dei miei palchi, è l'agitazione che sta nella paura dell'errore, è la voglia di essere guardata, ammirata, contemplata, scelta come punto fisso in un fluttuare di corpi, è un intreccio di anime che in un modo o nell'altro lasciano segni e ferite, è un filo rosso che lega cuori e menti, che se poi si spezza fa male, ti distrugge, ti lascia vuoto, ma sai che c'è stato, sai che l'hai vissuto e sai che rimarrà sempre il segno sul tuo polso.
Ai cinici e agli scettici voglio raccontare una storia, che non è niente di nuovo, è solo una storia d'amore.
#love story#scrittori emergenti#scrittori on tumblr#scritto da me#giovani scrittori#writing things#writeblr#writers#writers on tumblr#stories
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"Il Mio Segreto" di Kathryn Hughes: Un Racconto di Amore e Mistero che Unisce Passato e Futuro. Recensione di Alessandria today
Un segreto del passato può cambiare per sempre il futuro: una storia emozionante che mescola ricordi, segreti e speranza.
Un segreto del passato può cambiare per sempre il futuro: una storia emozionante che mescola ricordi, segreti e speranza. Recensione Kathryn Hughes, già autrice del bestseller La Lettera, torna a emozionare i lettori con il suo romanzo “Il Mio Segreto”. Questo libro si distingue per la sua capacità di intrecciare due periodi temporali, portando il lettore a vivere un viaggio tra presente e…
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...si tratta di un capolavoro di divertentissima fantasia...una strabiliante favola intellettuale. Nell'intersecarsi tra due storie, il cui legame è costituito dal ritmo alternato sonno/veglia, Queneau tocca una serie di questioni formali e di contenuto con una leggerezza che solo in Calvino trova un valido termine di paragone. Con i labirintici giochi di parole, l'interazione tra più registri e tra lingue diverse, l'utilizzo dell'anacronismo, Queneau riesce a formulare un linguaggio a-storico che costituisce il surreale rumore di fondo che accompagna per mano il lettore. Ma questo intreccio interlinguistico è soltanto la superficie di un intreccio più profondo: la filosofia della storia, la filosofia e tutte le scienze sociali sono chiamate in causa dall'autore e contribuiscono a determinare il perimetro intellettuale nel quale si snoda la storia. Storia che si svolge su due livelli paralleli e complementari: le avventure del Duca d'Auge, che si muove a passi da gigante dal passato al presente, e di Cidrolin, sospeso nel presente in attesa della soluzione di un piccolo mistero, che verrà risolto grazie al ricongiungimento spazio-temporale dei due protagonisti...Sicuramente un'opera da leggere almeno due volte per comprendere al meglio ed apprezzare completamente...Un grazie a Calvino per questo capolavoro di traduzione... #libridisecondamano #ravenna #booklovers ##instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #consiglidilettura #librerieaperte #raymondqueneau (presso Libreria Scattisparsi) https://www.instagram.com/p/CRk6BW1n-HX/?utm_medium=tumblr
#libridisecondamano#ravenna#booklovers#instabook#igersravenna#instaravenna#ig_books#consiglidilettura#librerieaperte#raymondqueneau
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Separabilità fisica e non-separabilità quantistica. Tutto è uno
Lo spazio quantistico non subisce l’influsso della distanza né quello del tempo: L’unione di due particelle non è fisica, nel senso newtoniano del termine, perché non è mediata da alcun mezzo materiale. è una unione “psichica, coscienziale”. Finalmente, si affaccia all’orizzonte una nuova scienza: scopriamo che la materia non è tutto nell’universo che ci circonda.
Unità e separabilità.
Le separabilità indica la possibilità, tipica di un oggetto fisico, di essere diviso in più parti. Il suo contrario è l’unità, che indica la proprietà, tipica di un oggetto fisico, di essere costituito da una parte sola.
Questa premessa può essere utile per illustrare un terzo concetto, quello di contemporaneità.
Partiamo dall’esempio del chiavistello, rappresentato nella figura, per illustrare questi tre concetti: unità, separabilità, contemporaneità. Sono concetti che poi trasferiremo all’ambito della fisica quantistica.
Un chiavistello con velocità infinita.
Il chiavistello è un organo usato per bloccare meccanismi, per esempio una porta. È composto da una barra metallica che scorre lungo delle guide ad anello. Si tratta di uno strumento complesso, ma a noi interessa soltanto il corpo principale del chiavistello, cioè la barra mobile. Questa barra ha due estremità, che possiamo definire A e B.
La barra del chiavistello può rappresentare perfettamente il concetto di contemporaneità. Infatti, se la facciamo scorrere nelle guide, l’estremità A si muoverà in una certa direzione, e “contemporaneamente” anche l’estremità B si muoverà nella stessa direzione. È ovvio, in quanto il chiavistello rappresenta un oggetto “unico”.
Non esiste alcun ritardo tra l’inizio del movimento dell’estremità A e quello dell’estremità B. Come può essere facilmente intuito, il movimento delle due estremità è “contemporaneo” e ciò può avvenire solamente grazie alla caratteristica di “unità” della barra.
Poiché la contemporaneità non prevede nessun tempo tra lo spostamento della estremità A e della estremità B, diremmo che in condizione di unità la velocità di spostamento è infinita.
Se il chiavistello fosse diviso in due parti, il movimento non sarebbe più contemporaneo, neppure se la parte A, grazie ad un meccanismo di accoppiamento qualsiasi, trasferisse il movimento alla parte B.
L’informazione ha bisogno di tempo per viaggiare tra due corpi separati.
In effetti, se la barra d’acciaio del chiavistello fosse composta da due semi-barre, occorrerebbe del tempo per trasmettere alla barra B l’informazione relativa al movimento iniziato dalla barra A, o viceversa.
Secondo la fisica newtoniana, e secondo le teorie einsteiniane, l’informazione non potrebbe viaggiare più velocemente della luce. Certo, sarebbe un tempo bravissimo, ma pur sempre un tempo. Non esisterebbe più la “contemporaneità”. Ne consegue che la contemporaneità è possibile solo in una condizione di unità.
La separabilità dei corpi.
Peraltro, la fisica classica ci insegna che ogni corpo fisico può essere scisso in due o più corpi parziali. Si tratta del concetto fisico di “separabilità”. Il principio secondo cui ogni oggetto può essere scisso in più oggetti fu strenuamente contrapposto da Einstein ai sostenitori delle teorie quantistiche come Niels Bohr e Werner Heisenberg. Secondo Einstein, essendo ogni corpo separabile, la non-separabilità predetta dagli esperimenti della fisica quantistica rappresentava solo una visione parziale dell’universo.
In effetti, dobbiamo riconoscere che l’esempio del chiavistello è assolutamente parziale. Ciò risulta evidente se, anziché muovere la barra del chiavistello, proviamo a riscaldarne una estremità. Sicuramente il calore non si trasmetterà all’altra estremità tanto velocemente come il movimento. Ciò conferma il fatto che il chiavistello è chiaramente separabile in molecole, atomi e particelle elementari, a conferma del principio di separabilità.
Tuttavia, le prove sperimentali smentiscono questa certezza.. Tutti gli esperimenti, da quello condotto da Alain Aspect nel 1982 agli altri innumerevoli successivi, dimostrano l’esistenza della non-separabilità quantistica.
La non separabilità quantistica. Di che parliamo?.
Ho già descritto in altri post e nei miei libri l’esperimento di Alain Aspect, che sta alla base dell’entanglement quantistico. “Entanglement” è un termine inglese che può essere tradotto come “intreccio”, per significare le condizioni di “unità” e “non-separabilità” che si instaurano tra due particelle correlate. I primi esperimenti di Aspect riguardavano due fotoni di luce. Successivamente, con il progredire della tecnica, gli esperimenti sono arrivati a coinvolgere milioni di particelle o anche interi atomi, come nell’esperimento di Serge Hariche, vincitore del Premio Nobel per la Fisica nel 2012.
L’esperimento che travolge le certezze della fisica materialista.
Nella versione sperimentale più primitiva, l’entanglement viene ottenuto con due fotoni “correlati”, cioè nati dallo stesso evento. I fotoni possiedono una proprietà detta “spin”, che può essere semplificata come “senso di rotazione”. Si tratta di una polarizzazione, e tra due fotoni correlati le polarizzazioni devono sempre essere perpendicolari. Diciamo che il fotone A avrà polarizzazione positiva (+1/2) e il fotone B l’avrà negativa (-1/2)
Per la verità, in base al principio di indeterminazione, il fotone assume una polarizzazione definita solamente nel momento in cui la misuriamo. In misurazioni successive, la polarizzazione potrà essere diversa. Dunque, misurando il fotone A, determiniamo la sua polarizzazione nel momento della misura. Evidentemente, attraverso misurazioni successive, causiamo successive variazioni della polarizzazione del fotone A.
Nel frattempo, che accade al fotone B?
Questo fotone ha anch’esso una polarizzazione indeterminata. Al momento della sua nascita è stato “sparato” a una distanza immensa dal fotone A.
Se misuriamo la polarizzazione del fotone A, avremo uno dei due valori possibili. Per esempio, ½ negativo. Immediatamente, anzi “contemporaneamente” il fotone B assume la polarizzazione perpendicolare al primo, cioè ½ positivo. Sarà stato un caso? Eseguiamo una nuova misurazione del fotone A, e “contemporaneamente” il fotone B adegua la sua polarizzazione per renderla perpendicolare al fotone A.
Immaginiamo di attendere un secolo ed eseguire poi una nuova misurazione del fotone A. Il fotone B, che si è allontanato anni luce nel tempo e nello spazio, adeguerà “contemporaneamente” la sua polarizzazione. Proprio come se i due fotoni fossero una sola cosa, al di là della separazione temporale e spaziale.
Unità di due fotoni separati nello spazio e nel tempo.
I due fotoni, per quanto separati nello spazio e nel tempo, rivelano una “unicità” incredibile. Dunque, il fotone B non cambia la sua polarizzazione “a causa” della polarizzazione del fotone A, cioè “dopo” che il fotone A l’ha cambiata: con ciò smentisce il principio di determinazione, o causalità, tanto caro alla scienza materialista.
Anzi, pare che il fotone B “sappia in anticipo” quanto avverrà al fotone A: sappia che qualcuno lo misurerà e sappia quale polarizzazione assumerà. Soltanto questa conoscenza può consentirgli di interagire contemporaneamente.
Tutto ciò ha portato a formulare la teoria della non-separabilità quantistica. Lo spazio quantistico non subisce l’influsso della distanza né quello del tempo: l’informazione che unisce i due fotoni è “contemporanea”. L’unione dei due fotoni non è fisica, nel senso newtoniano del termine, perché non è mediata da alcun mezzo materiale. è una unione “psichica”. Finalmente, si affaccia all’orizzonte una nuova scienza: scopriamo che la materia non è tutto nell’universo che ci circonda.
La coscienza dell’universo.
La non-separabilità quantistica conferma l’esistenza di qualcosa che non è separabile e ripropone con forza il concetto di “unicità”. La non-separabilità, come la contemporaneità, richiedono un mezzo “unico”. L’universo in cui si muovono le particelle elementari deve essere un contenitore “unico”. Qualcuno obietterà che ciò è vero solo per due particelle correlate, cioè nate dallo stesso evento. La risposta è semplice: nei fatti, tutte le particelle dell’universo sono nate dallo stesso evento, il Big Bang, l’esplosione creativa iniziale che ha dato origine ad ogni “cosa”.
Il prof. Lothar Schäfer è un chimico quantistico e illustre professore presso l'Università dell'Arkansas. è autore di molti libri, tra cui “Quantum Physics of Consciousness” (Fisica quantistica della coscienza, attualmente disponibile solo in lingua inglese).
Questo studioso scrive così, e credo che il suo pensiero riassuma nel miglior modo possibile quanto detto finora:
“Gli aspetti caratteristici della realtà quantica hanno conseguenze potenzialmente considerevoli sulla nostra natura umana. Se l'universo è una rete di connessioni istantanee e non separabili, molto probabilmente anche noi facciamo parte di questa rete. Se nell’universo agisce un elemento di Coscienza, e assai probabile che questo elemento comunichi con la nostra Coscienza. Non viviamo in una gigantesca macchina deterministica. Dobbiamo considerarci protagonisti di una realtà che va oltre le nostre conoscenze. Si tratta di una realtà interconnessa, tanto metafisica quanto fisica, e con qualità spirituali”.
Testo di Bruno Del Medico
Blogger, divulgatore, scrittore.
https://www.pensarediverso.it
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Tutte le opere del mondo, siano essere serie TV, film, videogiochi o libri, condividono un intento comune: simulare i problemi dell’esistenza umana. Per rendere il concetto ancor più specifico: tutto quello che abbiamo mai visto, letto o giocato non è altro che una storia in cui il protagonista cerca una soluzione. Questo avviene perché tutti andiamo avanti nella vita avendo degli obbiettivi da conquistare: partner, figli, stipendio, promozioni lavorative, viaggi… E scopo della vita è trovare il modo di conquistare quegli obbiettivi. Per questi motivi, le storie si rifanno esattamente a queste necessità. Quindi, perché ci piacciono serie TV, libri, film e videogiochi?
La narrativa segue modelli mentali
L’evidenza narrativa di questo sistema è palese nella struttura di ogni opera narrativa, che segue questo semplice schema:
Storia = Personaggio + situazione difficile/problema + Tentativo di superamento
Tutte le storie sono un problem solving costante. Sia una puntata dei Griffin o il Titanic, tutte le opere del mondo funzionano secondo questa semplice struttura. L’unica variabile riguarda il problema da risolvere e se il protagonista riuscirà nel suo intento. Gli scrittori moderni come Stein, Joyce e Proust, vista questa trappola narrativa, hanno deciso di scrivere del nulla. Scrive Baxter, uno scrittore di fantascienza, che nella loro narrativa finzionale «non succede niente di importante […]. Per i nostri scopi, gli eventi non hanno importanza». Il che, purtroppo, rende quelle storie decisamente meno interessanti dal punto di vista dell’intreccio narrativo, rispetto alle opere in cui si mantiene un intreccio “ordinario”.
[...] Più l’intreccio, e quindi la sequenza degli eventi, sarà manchevole di alcuni elementi narrativi canonici (e quindi non seguirà uno schema che possiamo applicare anche nella nostra esperienza di storia quotidiana) più quella storia perderà di senso o di efficacia comunicativa.
La nostra mente segue uno schema narrativo che può essere semplificato nel semplice binomio di spazio e tempo, ovvero le categorie aristoteliche: quando pensiamo ad un avvenimento, dobbiamo necessariamente configurare anche un luogo e un momento (o un momento in una sequenza) in qui quell’avvenimento si è svolto. Aristotele, infatti, scrive:
“[…] quando sembra che un certo tempo stia trascorrendo, sembra che simultaneamente si stia verificando un certo movimento. Sicché il tempo è o movimento o, almeno, una proprietà del movimento.”
Senza questi due semplici punti fermi, la narrazione perderà di senso. Ma non è sempre così: alcune storie si agganciano all’esperienza dello spettatore, giocando con la sua capacità di comprendere gli eventi anche capovolgendo la linea temporale (ad esempio il film “Memento”) mantenendo però dei luoghi distinguibili. Ora è il momento di farci la domanda principale: perché apprezziamo le storie ben formate?
Perché ci piacciono serie TV, libri, film e videogiochi: neuroni specchio
Nella storia evolutiva umana un evento in particolare ha ampliato alla nostra capacità immaginativa: la simulazione. Ad esempio, I piloti di caccia che devono atterrare su di una portaerei devono avere un’esperienza enorme per riuscire ad agganciarsi al cavo che li fermerà. Quindi, piuttosto che rischiare la loro vita, prima di farli volare li fanno esercitare nei simulatori di volo. E cos’è più difficile di far atterrare un caccia su di una portaerei? Vivere. E quindi, come un simulatore di volo accresce un’esperienza vivendola senza rischi, le storie ci offrono la possibilità di simulare le diverse vicissitudini della vita (amore, gioia o dolore), senza pagarne il prezzo. Ecco perché ci piacciono serie TV, libri, film e videogiochi.
Questo atteggiamento, come vedremo a breve, è un condizionamento evolutivo. La natura ha plasmato i nostri antenati per fagli “piacere” le cose che gli offrono un insegnamento. La narrativa è un effetto (o la causa) del sistema biologico dell’empatia (anche nella concezione di catarsi) e del riconoscimento.
I neuroni responsabili, in quota parte, dell’empatia sono stati scoperti negli anni ’90, quasi per caso, da un gruppo di neuroscienziati italiani. Questi neuroni vengono volgarmente chiamati “neuroni specchio”. Sono stati involontariamente individuati con questo esperimento: dopo aver impiantato degli elettrodi nel cervello di una scimmia per verificare quali fossero le regioni neurali responsabili di, per dire, ordinare alla mano di raggiungere e afferrare una noce scoprirono, invece, che certe specifiche aree del cervello delle scimmie si attivano non solo quando gli animali afferrano una noce, ma anche ogni volta che vedono un’altra scimmia o una persona compiere la stessa azione. I neuroni specchio potrebbero essere alla base della capacità umana di creare nella mente potenti simulazioni di fronte a una finzione narrativa.
Vedere l��empatia
Come detto, tutto questo può essere inglobato nel più ampio esercizio che è l’empatia: capiamo gli altri perché il nostro cervello ha dei neuroni che cercano di simulare quello che prova chi sta davanti a noi. Le serie TV, i libri e i film, quindi, vengono “analizzati” da questi neuroni particolari e, come per qualsiasi cosa che interagisca con il cervello, ne provoca dei cambiamenti. Gli effetti di questi cambiamenti non sono analizzabili consciamente, ma è comunque possibile “vedere” il modo in cui si azionano.
In un laboratorio di studi cerebrali, alcuni neuroscienziati guidati dallo psichiatra Mbemba Jabbi hanno esaminato con la fMRI (risonanza magnetica funzionale) un gruppo di soggetti. Hanno svolto tre diversi esperimenti con un elemento in comune: il disgusto.
Inizialmente ai soggetti è stata mostrata una breve clip con un attore che beveva da una tazza e poi faceva smorfie di disgusto.
Successivamente li hanno esaminati mentre lo sperimentatore leggeva a voce alta una breve storia, come «immagina di camminare in città e di vedere un ubriaco che ti vomita addosso».
Alla fine hanno esaminato i soggetti mentre assaggiavano realmente delle bevande dal sapore disgustoso.
In tutti e tre i casi si è attivata l’insula anteriore, ovvero la regione cerebrale in cui si attiva il senso del disgusto. Nel primo caso avevano visto il disgusto, nel secondo lo avevano immaginato e nel terzo lo avevano sperimentato di persona. In tutti e tre i casi il cervello ha reagito nello stesso modo. I soggetti hanno provato sulla loro pelle il disgusto in tutti e tre i casi.
In base a questi esperimenti, abbiamo capito che quando ascoltiamo una storia o vediamo un film il nostro cervello attiva alcuni neuroni come se stessimo facendo noi stessi quell’esperienza e, come visto nell’approfondimento sull’intelligenza, l’esperienza acquisita cambia il modo in cui quei neuroni si connettono. Quando guardiamo qualcosa interveniamo direttamente sui neuroni così come quando alziamo pesi interveniamo direttamente sui muscoli. Ovviamente le nuove connessioni cambiano “semplicemente” il modo in cui interpretiamo alcune esperienze di vita.
Perché ci piacciono serie TV, libri, film e videogiochi: i imiti della simulazione
Detto tutto questo però, simulare ha dei limiti. La finzione narrativa può rivelarsi una guida terribile per la vita reale. Sarebbe devastante acquisire esperienza da Don Chisciotte o da Gregor Samsa. Bisogna sempre distinguere, da un punto di vista mentale, cosa è finzione e cosa è realtà. Da esseri umani questo processo sembra semplice, ma il cervello ha impiegato millenni per creare dei limiti all’immaginazione. A volte, però, fallisce lo stesso. I risultati di questi fallimenti sono, tra i tanti, gli psicotici e gli schizofrenici.
Inoltre, non ricordiamo quasi nessun dettaglio di quello che guardiamo. Questo significa che le nostre esperienze non si devono per forza sedimentare in ricordi affinché abbiano un effetto. Noi abbiamo due tipi di memoria: la memoria dichiarativa (esplicita) e la memoria implicita. La memoria dichiarativa è quella a cui possiamo accedere direttamente, ad esempio pensando ad un evento della nostra infanzia; la memoria implicita, invece, è quella inconscia, quella a cui non abbiamo accesso se non tramite l’ipnosi o altre tecniche.
Quando guardiamo un film, nella memoria esplicita ricordiamo bene o male come si è svolta la trama, ma in quella implicita conserviamo il succo, l’insegnamento di fondo di quell’esperienza. Le esperienze tratte dalla narrativa non coincidono con la storia in sé, ma solo con dall’interpretazione che ne abbiamo. Le variabili che riguardano il modo in cui interpretiamo un evento o un racconto, però, sono impossibili da definire individualmente. Ciononostante gli studi in questo ambito continuo a mostrare una verità: le opere narrative e le storie non sono e non sono mai state inutili, ma sono state alla base della stessa evoluzione umana.
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Vinco perché nessuno mi nota, nessuno mi vede mai arrivare: lo dice Al Pacino al giovane Keanu Reeves nel film “L’avvocato del diavolo”. Una parte che sembra attagliarsi bene a un attore come Giuseppe Conte, fino a 3 anni fa perfettamente sconosciuto. Ma il due volte premier, prima al servizio del sovranismo-populismo gialloverde e ora prediletto dall’Ue, non era l’avvocato del popolo? Tutto tiene, se si rilegge la storia con le lenti della pellicola di Taylor Hackford, uscita nel ‘97: puoi fare bingo, se nessuno sa veramente chi sei. Quando lo scoprono è ormai troppo tardi: siedi già a Palazzo Chigi. Da lì obbedirai ai tuoi veri padrini. Dietro a Conte, c’è lo stesso potentissimo club vaticano sul quale poteva contare l’eterno Giulio Andreotti, ininterrottamente in sella per mezzo secolo. Altra stoffa, certo. Ma identici mandanti? «Conte può, come Di Maio, «È un Di Maio 2.0 nel momento in cui Di Maio non viene creduto più». Del resto ne ha fatta, di strada, il devoto di Padre Pio. «Partito da Volturara Appula, a Roma ha costruito un network trasversale di relazioni che spazia tra il mondo dei giuristi-grand commis dello Stato e il Vaticano».
Quando il suo nome viene ufficiosamente fatto pervenire sul tavolo di Sergio Mattarella da Di Maio e Salvini, a maggio del 2018, si avviano discreti sondaggi (non solo da parte del consigliere Ugo Zampetti) per avere qualche notizia in più su questo giurista, «che il capo dello Stato non conosce personalmente»,. Si attiva così un informale giro di pareri, «nessuno dei quali si rivelerà negativo». Viene tenuto in considerazione Giacinto Della Cananea, un altro giurista (allievo di Sabino Cassese) che Di Maio aveva messo a capo di una strana entità, il “Comitato per valutare la compatibilità del programma M5S con i programmi degli altri partiti”. I commenti provenienti dal mondo di più influenti giuristi romani pervengono a Bernardo Giorgio Mattarella, figlio del presidente della Repubblica e docente di diritto amministrativo a Siena, oltre che condirettore del master in management della pubblica amministrazione alla Luiss di Roma (dove anche Conte tiene corsi). «I rapporti accademici di questo avvocato pugliese sono, insomma, ben coltivati». Conte figura tra i relatori – ben più illustri – del forum annuale sulla strategia energetica nazionale: tra questi il consigliere di Stato Luigi Carbone, lo stesso Bernardo Giorgio Mattarella e un altro Cassese-boy, Giulio Napolitano, figlio di Re Giorgio e professore di diritto amministrativo a Tor Vergata.
Insomma, Conte ha un profilo pacato e ben inserito». E, ciò che più conta, «non attiva veti di nessuno sulla sua figura: è talmente poco noto e silente che non fa rumore, si muove abbastanza in sordina, non è osteggiato da influenti colleghi giuristi del Palazzo». Spiega “l’avvocato del diavolo”, nel film di Hackford, all’aitante apprendista: «Non se ne devono accorgere, che arrivi. Devi mantenere un profilo basso. Sembrare insignificante: uno stronzetto, emarginato. Sottovalutato, dal giorno della nascita». Mario Calabresi, all’epoca direttore di “Repubblica”, osserva che è singolarissima la circostanza di un uomo che arriva sulla soglia di Palazzo Chigi senza che nessuno abbia mai sentito il suo tono di voce, o sappia se è in grado di parlare in pubblico. «Conte però sa eseguire, e non è uno con la cattiva fama di voler strafare». «L’esecuzione potrebbe aver trovato il suo uomo. Una capacità che, forse, è stata affinata fin da ragazzo tra le felpate stanze di Villa Nazareth, il collegio cattolico che aiuta i giovani studenti di famiglie non abbienti a mantenersi (anche Conte ci ha studiato, ma da non residente all’interno della struttura; per essere residenti bisognava che in famiglia entrasse un solo stipendio)».
L’Istituto Nazareth – fondato nel dopoguerra da monsignor Domenico Tardini, che dopo la morte darà il nome alla Fondazione che gestisce il centro – è un luogo simbolo del cattolicesimo democratico italiano. «Dietro i suoi cancelli, andando a ritroso, sono transitati negli anni, come professori o come ospiti, Sergio Mattarella, Romano Prodi, Oscar Luigi Scalfaro, fino ad Aldo Moro». Il porporato di peso che tiene d’occhio nella sua prima formazione lo studente Conte è – guardacaso – monsignor Pietro Parolin, oggi segretario di Stato del Vaticano. «Nel corso degli anni si fa sempre più stretto il rapporto di affetto di Conte verso monsignor Parolin, un uomo che in più di una occasione – a Roma come a Washington, e all’ambasciata presso la Santa Sede – Luigi Di Maio ha incontrato e consultato, spesso nella massima riservatezza, nel processo di avvicinamento del Movimento Cinque Stelle alle stanze vaticane, e al governo». In quella fase, a metà maggio 2018, non sono in pochi, anche nel mondo cattolico romano delle più diverse ispirazioni – non solo a Villa Nazareth – a interessarsi a quel movimento «così plasmabile, malleabile, apparentemente romanizzabile», e quindi «così potenzialmente utile per tramandare l’eterna struttura, immutata, del potere temporale e spirituale della romanità».
Certo – è assai diverso il cattolicesimo di Parolin da quello del cardinale Raymond Burke, l’ultraconservatore amico di Steve Bannon, l’ex “strategist” della Casa Bianca, «anche lui di casa sia Oltretevere che nella politica italiana post-4 marzo, e in particolare nel Movimento Cinque Stelle con cui, come sappiamo, Bannon ha dichiarato di aver avuto diversi incontri». Tra parentesi: l’ideologo sovranista Bannon, massone reazionario, è stato formato alla Georgetown University di Washington, culla del potere gesuitico negli Usa. E dunque, si domanda Iacoboni: quale Vaticano sta vincendo, nel 2018, con l’insediamento del primo governo guidato dal premier Giuseppe Conte? Il Vaticano di Parolin o quello di Burke? «Chi prevale nel conflitto, che da allora diventerà endemico di questa stagione italiana: il Conte teorico del sovranismo, allineato agli interessi di Salvini e Casaleggio, o il Conte apprezzato nell’ambiente dei giuristi romani, e nel Vaticano moderato e più “politico”, il Conte che a dicembre del 2018 porta a casa – certamente incoraggiato e quasi guidato dalla presidenza della Repubblica – il negoziato con l’Europa per evitare la procedura d’infrazione, che a un certo punto il suo governo era sembrato quasi cercare?».
La figura del premier-esecutore «riassume in sé tutta l’ambiguità di questo biennio, le ombre e i poteri che si addensano e circondano l’esecuzione, e il fatto che molti segmenti istituzionali, o pezzi di centrosinistra, siano ancora convinti, o a volte semplicemente fiduciosi, di poter disarticolare il Movimento, e usarlo, assimilarlo, ricondurlo nelle spire sempre avvolgenti della romanità». E tuttavia, di nuovo: «L’esecuzione è esecuzione di cosa, e per conto di chi?». Il fine ultimo di questo intreccio così appassionante di storie e relazioni, umane e politiche, resta controverso, «Sebbene il governo Lega-Movimento e la pulsione estremista-sovranista appaiano resistenti e tenaci, nell’autunno-inverno del 2018-2019, degli spread, del degrado dei rapporti dell’Italia con l’Unione Europea e degli editti dei Cinque Stelle contro i giornali, una cosa è certa: non tutto cambia, nel “governo del cambiamento”. Molti poteri sono all’opera per resistere immutati, cambiare tutto per non cambiare nulla o, al limite, staccare il Movimento dalla Lega». Il potere che ha messo Conte a Palazzo Chigi con la Lega ora si gode il Conte-bis col Pd. «Tu non mi crederesti mai un padrone dell’universo, non è vero?», domanda Al Pacino a Keanu Reeves, a cui l’anonimo e insignificante “avvocato del diavolo” svela la sua arma infallibile: «La gente non mi vede arrivare».
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La camera degli ospiti del numero 10 di Kennington Road è dipinta d'un tenue azzurrino su cui baluginano le ombre create dalle numerose candele accese sul davanzale della finestra e sul mobilio presente. Sul letto a una piazza e mezza sono strette due ragazzine biondissime che sarebbero minuscole in maniera uguale se solo una delle due non fosse in dolce attesa e occupasse, per questo, gran parte della superficie morbida disponibile. Ilary è avvolta nella sua camicina da notte gialla, la schiena rivolta ad Alice e i piedini puntellati su uno dei pomelli della pedaliera del letto, le ginocchia pigiate contro il petto, tenute strette dalle braccia che le avvolgono protettivamente, mentre le dita della Darcy le scorrono delicatamente fra i capelli, per pettinarli e intrecciarli.
«Ti va di parlarne?» la voce di Liz rompe per prima quel silenzio. Pacata e tranquilla, come sempre.
«Non ho niente da dire, Liz» perentoria e bugiarda, la voce di Illy replica secca a quella domanda e non sembra voler ammettere repliche. «Mi dispiace di averlo mandato via, ma...non-non» la voce ha un tremolio spiacevole. «Non riesco a perdonarlo» confessa così, abbassando lo sguardo sull`intreccio delle proprie dita. «Schiva bolidi che a quanta velocità andranno, Liz? Ma Rachel Polland è inevitabile, è davvero agilissima quando si tratta di saltare addosso al mio ragazzo. Razza di morgana, sfacciata senza precedenti, egoista, insensibile e crudele». Di rado la si sente perdere la bussola a quel modo, ma quella sera sembrava proprio che Ilary Wilson non ne avesse per nessuno di gentilezza, pazienza, comprensione o correttezza.
«Rachel è proprio una z***» Alice Darcy sa certo andare incontro alla sua amica, solo con molta meno finezza di termini, ma uguale succo finale. Stranamente non riserva lo stesso trattamento a Sebastian, però. «Seb mi è sembrato davvero dispiaciuto, sai? Aspetta solo che tu ti faccia viva ma... secondo me non devi perdonarlo» azzarda così la Darcy, accigliandosi appena. «Cioè, deve essere lui a farsi perdonare, e che bolide!»
«Lo è sempre, Liz. Ma sono umana anche io e non ce la faccio più a scusarlo, sono stufa di scusarlo, stufa di stare male» le lacrime salgono ad inondare le iridi chiare, tradendo il dolore che quella rabbia vorrebbe celare. «Ci voglio restare con lui, Liz» l'inaspettata replica che segue quasi pare contraddire tutto il precedente detto. «Ma... adesso non ci riesco» e un avverbio temporale si è già aggiunto, per stemperare la durezza di quella che prima sembrava una convinzione incontrovertibile. Adesso non lo è più poi troppo.
«Se è quello che vuoi, allora resta» la fa molto semplice, Alice Darcy, in fin dei conti. Ma ha una clausola. «Ma non permettergli più di trattarti in quel modo. Nessuno, neanche la persona che ami, ha il diritto di darti per scontata, Ily. Non si stancherà di aspettare, se davvero prova quello che dice ti darà tutto il tempo che ti serve. Non può pretendere che tu lo perdoni solo perché ti ama, deve anche tornare a farti stare bene». Sembra ragionevole quel suo discorso. Abbastanza da far annuire distrattamente Ilary Wilson, gli occhi dilatati di improvvisa convinzione.
«Grazie, Liz» non ha altro da aggiungere la voce appena incrinata di Illy, un broncio leggerissimo ad incurvarle le labbra mentre le dita giocherellano ancora con il pomello della pedaliera del letto, raggomitolata scomodamente su sé stessa, mentre Alice finisce di chiuderle l'intreccio dei capelli con un nastrino celeste. E le sorride, con l'aria perennemente triste che aveva in quei giorni lontana da Seth e sempre più vicina a Liam. «Ti va se» è di Ilary la voce che rompe nuovamente quel silenzio. «Facciamo un pigiama party ogni sera finché...non vai via?» perché nessuna delle due vuol restare da sola, ma nessuna delle due lo ammetterebbe mai esplicitamente. Col pigiama party hanno decisamente una buona scusa per tenersi compagnia. E sorridersi di colpo come se il punto fosse solo quello, come se avessero ancora sedici anni nella sala comune di Grifondoro e stessero organizzando solo l'ultimo festino prima dei MAGO. Come se andasse tutto bene. Come se andasse davvero tutto bene.
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Libro 14. David Foster Wallace, “Infinite Jest” (Stile Libero Einaudi)
“L’ho finito. L’ho letto in tutti i modi che ho trovato [9] e l’ho finito. Mi sento strana, un sacco, come se niente fosse più come prima o come quando ti manca l’aria e tipo vai veloce veloce da sott’acqua ed esci e prendi un sacco di aria e tossisci. Niente è più come prima” (sms Marta a Giuseppe, 18 Dicembre 2017).
Una delle mie attuali ossessioni è contare tutto. Di questo forse dovrebbe parlarne Giuseppe – che ne ha più coscienza di me - ma ad ogni modo so di aver letto un quantitativo di libri che sfugge al mio controllo e ai miei conteggi. Libri belli, libri lunghi, libri senza i quali non posso immaginarmi a vivere alcunché, libri di cui vergognarsi, libri noiosissimi, libri simpatici, libri istruttivi. Una smania consumistica che mi ha fatto passare da un libro all’altro per accrescere il mio egocentrismo culturale – la mia erudizione - e poter dire “ecco: sono nella cultura, sono nel giusto, sono nell’intelligenza e nella coscienza critica” in questa smania opprimente di investimento immaginario secondo cui la libreria è vista come luogo di culto, il libraio come un santone in quanto sempre nell’inopinabilità, l’oggetto libro come reliquia e il tempo di lettura come l’unico che valga davvero la pena vivere in quanto “arricchimento”. È molto difficile scrivere quanto detto “ad alta voce” perché sono consapevole di stare mettendo in evidenza tutta la mia miseria in modo assolutamente inassolvibile. E continuo dicendo che quando ero bambina preferivo stare ferma in un luogo a leggere Roal Dahl piuttosto che mettermi a giocare con altri bambini. A otto anni lessi Jane Eyre e m’immersi nella dimensione temporale del romanzo ed ero l’orgoglio dei più, sfoggiandomi come una me necessariamente staccata dalla realtà e dalla necessità, dunque “più” di tutti gli altri e di tutto il resto. Quando ero adolescente iniziai a frequentare le persone che non avevano niente in contrario a parlare con me con cui parlavo poco perché per parlare e per ascoltare qualcuno prendevo un libro e col senno di poi io non posso che guardare con una certo disaccordo e disappunto questo approccio di cui purtroppo la maggior parte dei lettori – convinti del proprio fondamentale ruolo all’interno della società – non si rende neanche conto. E forse è anche giusto così.
Per quanto questa mia consapevolezza sia estremamente fresca, non posso che guardarmi indietro e comprendere (e contare) tutti quei crash nel mio sistema che hanno interrotto questo vizioso trastullarsi in se stessi. Il problema reale di questi crash risiede in quello che una volta disse Deleuze: “[…] quello in cui credo sono gli incontri. E gli incontri non si fanno con le persone. Si crede sempre che gli incontri si facciano con le persone, ma è terribile, quello fa parte della cultura […]. […] gli incontri non si fanno con le persone, ma con le cose: incontro un quadro, un’aria musicale, una musica. Ecco cosa sono gli incontri”. E il 12 Dicembre 2017, in una catarsi senza rimedio, scrissi banalmente un post su Facebook in cui elencai tutti gli incontri che cambiarono il mio quotidiano (cosa significherebbe d’altronde “Vita”?) e dopo il quale mi è stato praticamente e fisicamente impossibile leggere per un lasso di tempo prolungatissimo qualsiasi altra cosa. Scrissi:
“In ordine, i motivi per cui No U Turn e rabbie e dolori sparsi: Fernando Pessoa, Il Libro dell'Inquietudine; Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione; James Joyce, Ulisse; la Bibbia; Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra; Dante Alighieri, La divina commedia. HO DIMENTICATO L’ETICA DI SPINOZA!”
Quarantanove mesi – in un totale sezionato in parti ineguali nel tempo – in cui abbandonai la letteratura (per la vita? per la quiete?). Ma il primo libro di questo elenco (omesso appositamente nel copiato del post in quanto oggetto di questo articolo/recensione) il cui incontro ha spazzato via tutto il resto, altri titoli compresi, è Infinite Jest di David Foster Wallace.
“Un grosso libro vuol dire che il lettore passerà molto tempo a leggere […]*: 17 mesi, per l’esattezza.
Definire la struttura di Infinite Jest è estremamente difficoltoso. La storia (che può essere descritta così solo a posteriori, in quanto il libro è strutturato in un processo di presentazione dei fatti dal minuscolo al gigantesco e avvolgente tutto) si sviluppa attorno a un nucleo centrale, cioè la presenza fantomatica di un film d’intrattenimento - dal titolo omonimo – “così appassionante e ipnotico da cancellare in un istante ogni desiderio se non quello di guardarne le immagini all’infinito, fino alla morte” (come troviamo scritto nella quarta di copertina). Il nucleo centrale snoda da sé due macrostorie a sé stanti (ma confluenti nel nucleo stesso): la vita all’interno dell’Eta, un’accademia tennistica agonistica, e la vita all’interno dell’Ennet, un centro di recupero dalla dipendenza da qualsiasi sostanza. Di fianco, quasi come collante e rimando continuo tra le due parti tra loro e tra loro col nucleo, vi è la vita sotto copertura di coloro che disperatamente cercano Infinite Jest. Da queste due macrostorie (più appendice) si sviluppano a propria volta davvero non so quante altre storie e quanti altri racconti, ognuno assolutamente indipendente dagli altri, ma rientranti necessariamente in un quadro che serve a riportarci - per intreccio, simbologia, riferimento, citazione - alla propria macrostoria di riferimento o alla seconda, per sfociare nel nucleo e chiudere un cerchio che ad una prima lettura sembra non poter aver quadratura. Potremmo persino dire che l’intrattenimento filmico Infinite Jest sia il cuore di tutto l’apparato libro, un cuore da cui parte strutturalmente una grande vena e una grande arteria e da cui le storie si diramano capillarmente ed entro cui ritornano – grazie alle valvole (le storie sottocopertura) - in un ciclo infinito dal movimento rotatorio di ripetizione senza il rischio di collasso. O ancora una struttura a piramide che dalla vetta si dirama sempre più giù, sempre più in basso, dall’ “idea filmica” Infinite Jest alla merda che tocchiamo con mano di un dato tossico cacatosi nelle mutande o alla disperazione di pori dilatati e sudore di quel giocatore ragazzino. O ancora, potremmo usare la spiegazione convincentissima tratta da una conversazione del 1996 tra Michael Silverblatt e l’autore (https://www.youtube.com/watch?v=DlTgvOlGLns):
M.S.: “Non so come, esattamente, parlare di questo libro […] ma a volte mi è venuta in mente questa idea, magari immaginaria, cioè che il libro è scritto in frattali. […] Ho pensato che il materiale sia presentato in modo da permettere a un argomento di essere introdotto in piccolo, dopodiché si apre un ventaglio di tematiche, di altri argomenti, e poi eccoli di nuovo presentati in una seconda forma che include, anche loro in piccolo, altri argomenti e poi presentati di nuovo come se quello che viene raccontato fosse…. Non sono molto pratico di questa scienza, è solo che mi sono detto che i frattali dovevano essere così”
D.F.W.: “Avevo sentito che sei un lettore in gamba. È una cosa presente a livello strutturale. In effetti è strutturato come una cosa che si chiama Triangolo di Sierpinski che è un genere di frattale piramidale anche se a essere strutturata come un Triangolo di Sierpinski era la bozza che consegnai a Michael [Pitch, editore] nel 1994 e che ha subito alcuni tagli provvidenziali e mi sa che ne è venuto fuori un Triangolo di Sierpinski un po’ sbilenco. Ma è interessante, è uno dei modi strutturali in cui bene o male dovrebbero comporsi”
[…]
M.S.: “[…] mi sembra che in questo libro - che contiene sia la banalità sia la straordinarietà di veramente molti tipi di esperienza, oltre alla banalità dell’esperienza straordinaria … -”
D.F.W.: “E alla straordinarietà dell’esperienza banale”
M.S.: “… andava trovato un modo [di organizzarsi] e mi entusiasmava il fatto che fosse strutturale, che il libro trovasse un modo di organizzarsi capace di farti sapere. Sono analogie che poi ricorrono in tutto il libro […]”
D.F.W.: “Si tratta di capire se una cosa è vera o no. […] Voglio dire che molta della struttura che c’è dentro è più o meno decisa lì per lì a seconda di cosa mi sembrava vero e cosa no. […] è solo quando arrivi all’incirca a metà [del libro] che secondo me si comincia a vedere il barlume di una struttura. Poi, certo, il grande incubo è che la struttura la vedi solamente tu mentre per gli altri è un gran casino”.
In prima istanza, arrivati come dice Wallace a metà del libro, è dunque la struttura – oltre alla grandezza/lunghezza del volume (“I libri grossi sono più una sfida, sono intimidatori. […] Infinite Jest all’inizio non era pensato per essere così lungo. Iniziò come una narrazione frammentata, multipla, con alcuni personaggi principali e […] a un certo punto diventò chiaro che sarebbe stato molto lungo”*) – a rendere certamente cerebrale e affascinante la lettura. Il fascino è amplificato dalla presentazione caotica di nomi di sconosciuti che raccontano la propria personalissima storia di abuso, violenza, aggressione, disperazione, gioia fittizia, quotidianità spicciola e bellezza in una frammentazione davvero difficile da digerire e tremendamente spiazzante. Le microstorie scorrono veloci (nella prima parte del libro) come sangue nei capillari fino a raggiungere i vasi sempre più grossi, sempre più grossi per arrivare al cuore (3/4 del libro) e vivere il ricircolo, tornando indietro (fino alla fine del libro, ricominciando). È questo un movimento che si percepisce non solo leggendo, ma anche fisicamente: una spinta frenetica, un trascinamento - ecco, sì - un trascinamento forzato che ostacola la parte dentro di te che continua a dire NO NO NO BASTA COSì NO NON POSSO LEGGERE PIÙ! E il perché di tutti questi no - quantomeno all’inizio, perché poi subentra una sorta di rassegnazione e abbandono totale alla lettura – è non tanto il modo in cui Wallace ironizza gli avvenimenti, rendendoli ancora più disperati, ma la normalità violenta e la violenza normalizzata che permea il quotidiano in e di ogni persona che respira in tutti i qui e in tutti gli adesso del pianeta. Per quanto Wallace abbia detto come Infinite Jest volesse essere “qualcosa che avesse la stessa densità mentale dell’America di oggi, una sorta di gigantesco tsunami di roba che ti travolge”*, questo distacco che confinerebbe tutto il travolgente agli Stati Uniti è totalmente annullato, ritrovandoci in una globalizzata impotenza che ci fa rientrare in una dimensione in cui tutto il descritto “è proprio così” e non potrebbe essere vissuto altrimenti. Credo sia corretta l’affermazione di David Lipsky secondo cui “leggere David Foster Wallace era come spalancare gli occhi sul mondo”: vediamo davvero Kate Gompert a digrignare i denti e provare pietà mai per se stessa, ma per uno psicotico depresso uguale a lei; vediamo e sentiamo davvero il respiro di Joelle sul suo velo; sentiamo davvero l’odore acido della sostanza uscire dai pori di quella prostituta senza denti, per le troppe pipe fumate, che partorisce il suo bambino morto che porterà sempre attaccato a sé e che puzzerà nella sua graduale decomposizione sotto il sole cocente dell’estate. “[…]ho provato una specie di �� non lo so … tenerezza nei confronti dei personaggi e il narratore per lo straordinario sforzo impiegato a scriverlo. Non sembrava una difficoltà fine a se stessa. Sembrava come una difficoltà immensa ben spesa perché c’era qualcosa di importante da dire riguardo alla difficoltà di essere umani. Aveva bisogno di essere triste e non c’erano altre vie per raccontare ciò” (Michael Silverblatt).
Potrei scrivere moltissimo sull’intreccio della storia, sulla personalità dei personaggi, sui nove modi possibili per leggere questo libro, sulla voluta assenza di narrazioni sessuali (due sole eccezioni) ad evidenziare un’impossibilità empatica nel controsenso per cui raccontare una storia a persone troppo prese a narrare se stesse rende ogni narrazione puro fiato. Potrei parlare delle note (la più lunga è di 19 pagine) o potrei incentrarmi sulle specifiche pedantesche e maniacali di ogni farmaco/sostanza riportati nel volume o la precisione di Wallace nella descrizione degli stati emotivi verbali di alcuni personaggi [es. Hal Incadenza: pag.3: siedo _ pag.1023: ero _ pag.1039: camminai _ pag.1076: stavo _ pag.1089: forse sonnecchiai / forse avevo sonnecchiato / pensai _ pag.1130: .... _ pag.1140-41: ricordavo/ricordo/ricordavo]. Non lo farò. Leggerlo?
Infinite Jest è un libro geniale non tanto per gli elementi descritti, non solo per gli elementi non descritti, non esclusivamente per questa enorme fatica dell’autore. Credo che lo sia perché davanti al Povero Tony (il personaggio che ho amato di più non solo per la sua storia, per la descrizione, ma soprattutto per il modo in cui è perennemente inserito in tutto il testo) e alla sua disperazione così lontana dalla mia io non posso far altro che zittirmi. Non si ride. Non si piange. Qualche volta un ghigno. Ma è il silenzio a caratterizzare ogni pagina, questo silenzio invadente, questa tenerezza sconcertante che elimina la possibilità di giudicare anche l’atto più meschino, anche la situazione più repellente, a favore di una nuda consapevolezza della miseria mia, tua, di tutti loro, di tutti noi.
“Un libro per tutti e per nessuno” è questo Infinite Jest che non lascia tregua, ti fracassa il cranio e spezza il cuore. Non leggetelo. Fatelo per voi. Perché dopo non si torna indietro. A meno che non accettiate la possibilità di non leggere alcunché, dopo, continuando a vivere questo silenzio, almeno per un po’.
M.
Ci rivedremo in Gennaio
* THE END OF THE TOUR (tratto dal libro intervista di David Lipsky a David Foster Wallace)
*Charlie Rose intervista Wallace https://www.youtube.com/watch?v=9lVHhliP5s4
#1 : "Leggo, io"
#2 : "imparate"
#3 : luoghi comuni
#4 : "che cazzo è l'acqua?"
#5 : cicloide
#6 : "quando il sangue esce davvero"
#7 : urlare
#8 : le Cose Vere
#9 : "il mondo delle arti degli Usa"
#10 : la Cosa = depressione
#11 : i tossicodipendenti eterosessuali
#12 : credetemi
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