#intreccio temporale
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pier-carlo-universe · 2 months ago
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"Il Mio Segreto" di Kathryn Hughes: Un Racconto di Amore e Mistero che Unisce Passato e Futuro. Recensione di Alessandria today
Un segreto del passato può cambiare per sempre il futuro: una storia emozionante che mescola ricordi, segreti e speranza.
Un segreto del passato può cambiare per sempre il futuro: una storia emozionante che mescola ricordi, segreti e speranza. Recensione Kathryn Hughes, già autrice del bestseller La Lettera, torna a emozionare i lettori con il suo romanzo “Il Mio Segreto”. Questo libro si distingue per la sua capacità di intrecciare due periodi temporali, portando il lettore a vivere un viaggio tra presente e…
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fashionbooksmilano · 1 year ago
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Lee Ufan Resonance
Achille Bonito Oliva
Testi di: Gino Di Maggio, Achille Bonito Oliva, Lee Ufan
Fondazione Mudima, Milano 2007, 55 pagine, 27 x 23 cm, Inglese, brossura cartonata
euro 40,00
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Mostra 52 Biennale Venezia 2007 -Palazzo Palumbo Fossati. La mostra presenta 10 olii su tela di diverse dimensioni combinati con 8 installazioni realizzate con materiali naturali quali pietra e ferro. Lee Ufan, artista coreano fondatore del gruppo Mono–Ha, vive in Giappone ma è un nomade che ha saputo coniugare insieme il linguaggio delle avanguardie occidentali e la cultura di quelle orientali. Aggirando il ready made del cartesiano Duchamp ed il taglio del barocco Fontana, Lee Ufan sostituisce al principio di rappresentazione quello di presentificazione, in un percorso che corre dagli anni Sessanta, sculture e installazioni, alle "Corrispondenze" degli anni Novanta, fino alle pitture di oggi. Senza contrapposizioni ha fondato un incrocio spazio-temporale sostituendo al concetto di forma quello di "struttura", a quello di spazio quello di "campo", quale sistema di relazioni aperte a sviluppi che tendono a coniugare il pieno e il vuoto insieme. L'intera ricerca di Lee Ufan è una messa in crisi dell' "objet trouvé" e della sua metafisica: una forma morta scontornata nello spazio estetico e sottratta alla vita. Invece Lee Ufan non rappresenta ma "presentifica" un'idea di temporalità attiva che sostiene l'incontro dell'artista col mondo e dell'opera con lo spettatore. Ora una "tache" si irradia sulla superficie attiva di una pittura che sviluppa l'epifania di un incontro con il pubblico. Ora realizza pitture in cui egli è totalmente artefice del tutto. I segni orchestrati sulla tela hanno una tensione, un percorso e una durata spaziale giocati nel segno di una misura standardizzata a mano. Una misura memorizzata da un gesto che non dimentica precisione ed energia, scorrevolezza artigianale e geometria dell'estensione. Spesso questi spazi costituiscono degli architrave della visione, nell'ordine di due o tre organizzano il campo spaziale in termini di essenzialità visiva tesa ad evidenziare precisione ed indeterminazione, costrizione e potenziale modificazione. L'artista sembra voler dare al forte segno tracciato sulla superficie pittorica l'incisivo volume dell'oggetto o materia adoperata precedentemente nelle sue installazioni. La forza del tracciato serve proprio ad intensificare il momento dell'incontro tra l' opera lo spettatore mediante un intreccio tra tempo e spazio, dimensioni entrambe necessarie per realizzare il valore dell'arte, quello della "presentificazione". Ecco che Lee Ufan risolve il problema della immortalità dell'opera senza voler ipotecare il futuro, piuttosto fondando la persistenza del presente. Estendere il presente diventa per l'artista orientale un modo di eliminare da una parte il patetico sistema di previsioni del futuro e di ipotecare invece, attraverso una diversa dimensione dello spazio, un campo così vasto da accogliere il tempo del suo battito costante.
19/07/23
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ortodelmondo · 3 years ago
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ALEXANDER GARDNER L’inclassificabile tempo della fotografia. 1865. Una cospirazione ha l’obiettivo di assassinare, in un’azione concentrica, il segretario di stato americano W. H. Seward, il vice presidente Johnson e il 16º presidente degli Stati Uniti d’America Abraham Lincoln. Dei tre politici solo Lincoln trova la morte. John Wilkes Booth, l’assassino del presidente, è vittima in un conflitto a fuoco, gli altri sono quasi subito consegnati alla giustizia e più tardi condannati a morte. Tra questi Lewis Payne, che vediamo qui ritratto da Alexander Gardner (1821-1882).Guardiamo i “segni” contenuti nella fotografia. Il giovane è contro il muro della sua cella, decentrato rispetto all’inquadratura. Le mani, sfocate, benché strette da rudimentali manette, ci distolgono interesse a vantaggio degli ampi e profondi graffi sul muro della cella. L’aspetto complessivo del giovane è rilassato. Egli sa che tra breve morirà ma non sembra esserne turbato, lui è già altrove. C’è una ragione. Lewis Payne sa di essere un assassino e sa di meritare la pena comminatagli ma l’osservatore noterà il piglio di chi più che un assassino è il portavoce di un malessere che allora attraversava l’America. E’ un “ribelle con una causa”. Dunque il suo sguardo è consapevole, guarda dritto l’obiettivo come se volesse trasmettere alla posterità la convinzione di avere agito per motivi superiori, ragioni per cui sacrificare eventualmente anche la propria vita. La giustizia americana, secondo Payne, ha condannato il suo corpo non le sue idee. La fotografia invece lo consegna all’immortalità. Sappiamo che la Fotografia non necessariamente dice “ciò che non è più” ma sicuramente dice “ciò che è stato”; e mai lo dice come nel caso del ritratto di Payne. Noi conosciamo il suo destino (tra breve morirà) esattamente come lo conosce lui. Dunque per noi è “già” morto, anche se di fatto il giovane vive ancora. Questa “frattura” temporale introduce a un aspetto che vive nell’eidos della Fotografia e che si coagula intorno a una domanda: “Cos’è il Tempo in una fotografia?” cui si risponde che ��il Tempo nella Fotografia è un elemento non classificabile”. Noi attraverso una fotografia scorgiamo un “tempo assoluto” svincolato dall’ordine e dal flusso temporale: non sappiamo nulla di un minuto prima e non sapremo nulla un minuto dopo avere scattato un immagine. Il Tempo è come congelato e dunque lontano dall’essere vivo. E paradossalmente è l’interruzione di questa scansione, del flusso temporale cioè, con cui la Fotografia baratta la sua “immortalità. Tuttavia la Fotografia agita un “Tempo interiore” fortemente soggettivo. Quando riesumiamo vecchie fotografie di famiglia non è solo la commozione a essere sollecitata nella curiosità di vedere i nostri genitori più giovani di quanto non lo siamo noi adesso, siamo di fronte a un Tempo che chiede d’essere interpretato. Ma essendo un Tempo che parla al passato chiederà a noi di completare la narrativa, perché, come si è detto, la Fotografia si interrompe davanti al futuro. Dunque a “separarci” dalle vecchie fotografie di famiglia è la Storia, che noi recuperiamo in due momenti. Il primo è nell’immediato intreccio di somiglianze o, ancor più, nello slancio dedicato a stabilire le connessioni temporali tra i soggetti “com’erano” e “come sono”, connessioni che mai nessuna fotografia può stabilire autonomamente. Tornando alla foto di Gardner da cui siamo partiti, abbiamo, per così dire, l’immagine viva di una cosa morta, perché siamo a conoscenza di ciò che il soggetto “è stato”. Nella sdrucciola immobilità del giovane si coglie per intero il risultato della confusione di due concetti: Il Reale e il Vivente. Ha scritto Barthes che «attestando che l’oggetto è stato reale, esso induce impercettibilmente a credere che è vivo, a causa di quell’illusione che ci fa attribuire al Reale un valore assolutamente superiore, come eterno; ma spostando questo reale verso il passato (“è stato”), esso suggerisce che è già morto». Da qui la percezione di trovarci di fronte a un’immagine già al passato, suggestione ancor più rinforzata dalla
conoscenza del suo destino. La fotografia di Gardner è molto più di un ritratto – sebbene nasca con questo proposito –: è una specie di imago in grado di convogliare a sé numerose tematiche, un’icona costitutiva della ritrattistica futura e del delicato intreccio empatico che deve stabilirsi tra soggetto e fotografo. Il ritratto di Lewis Payne, il “ribelle con una causa” avrebbe dovuto travalicare un ambito che né il fotografo né il soggetto (qui i due hanno qualcosa in comune) potevano immaginare, proiettandosi direttamente fino a diventare linguaggio specifico, una specie di topos fotografico. L’irresponsabile baldanza del giovane, ritratto nella sua arroganza e nello spregio delle istituzioni, ricorda molto da vicino un’iconografia ribelle ripresa poco meno di un secolo dopo da una cinematografia americana che stava cambiando pelle e da cui proviene il nostro immaginario dei “ribelli senza una causa” di quella gioventù bruciata raccontata magnificamente da Nicholas Ray o il Brando de “Il Selvaggio”. Ecco dunque come un’immagine ottocentesca proietti la sua modernità in discipline assai imparentate con la Fotografia e, di rimando, su un’intera generazione di giovani. I nuovi fotografi hanno fatto il resto. Giuseppe Cicozzetti via Scriptphotography su fb
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donaruz · 5 years ago
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Lascia tracce profonde il cinico cammino del progresso
in nome di uno scientismo atroce
in un produttivo fine a se stesso.
L'intelligenza pratica
la freddezza nel raggiungere i propri obiettivi ad ogni costo
la sicurezza di sé
la leggerezza mentale che accetta i peggiori compromessi
la superficialità in qualsiasi situazione
l'esibizionismo
il narcisismo
e il graduale disuso dei sentimenti
che scompaiono nel quotidiano tirare a campare.
Ricettivo
rifletto con profonda serietà
cercando il significato celato
l'occasione di una evoluzione
di una elevazione.
Tutto il mio essere è spalancato
apro gli occhi
vedo con chiarezza la distanza che separa il reale dall’ideale
un immenso scenario si dischiude
rendendo partecipe il mio cuore distratto.
I disegni delle nuvole al termine del temporale
i raggi del sole
la vegetazione che esplode
mille note fresche di colore
infinite sfumature.
Una luce delicata abbraccia ogni cosa in un trionfo di calore.
Intreccio le impressioni del presente
con i giochi della fantasia
con i ricordi del passato
creando un panorama incantato.
Non sono qui per caso
ma la forza possente dell’essere
mi ha spinto fuori dal non essere
prima che il tempo incominciasse ad esistere
ed e lì che aspiro a ritornare.
(Gio Porta – “Non a caso”)🖋
Immagine: Dipinto di Sandra Statunato - “Viaggio di ritorno”
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noneun · 5 years ago
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Colazione con Rick and Morty
Allora, sono arrivato al nono episodio della seconda stagione di Rick and Morty. Me lo guardo mentre faccio colazione, inizia la puntata mentre verso lo yogurt nella tazza con loro due che parlano dentro la navicella spaziale, taglio la banana mentre Rick dice "Non ti ricordi quelle barrette che abbiamo preso a inizio episodio?" e un po' mi stranisco mentre aggiungo l'avena. Poi c'è un piccolo colpo di scena tipo da "fine episodio" -che non vi sto a raccontare- e partono i titoli di coda proprio mentre metto le mandorle. A questo punto, inizio a mangiare, mi dico "Che forza! Un episodio che va al contrario! Prima la scenetta finale, poi i titoli di coda... ecco adesso c'è la scena prima dei titoli ahahah ma sono proprio dei genii ma come gli vengono in mente certe idee ahahah chissà che intreccio spazio-temporale verrà fuori alla fine dell’episodio che poi sarà l’inizio della storia ahahah... aspè... ma perché ci sono di nuovo i titoli di coda? Perché durano così a lungo? Perché ci son scritte in giapponese e in polacco? E perché ora si è fermato tutto?? Ah no, era solo Netflix che ha sbarellato ed è saltato improvvisamente all'ultima parte del video mentre ero distratto a tagliarmi la banana 🤣
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drosselvene · 6 years ago
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Non so bene neanch'io che cosa provo in realtà
Sguardo profondo e luminoso,
è una stella che splende e risplende in questa buia vita di ogni giorno.
In uno spazio immenso vago, ma a lei torno.
Ha un carattere dolce, come il suo viso,
e contro ogni problema niente è meglio del suo sorriso, che mi aiuta se ho bisogno in un momento.
La sua voce mi basta, è come una festa, è un martellare di campane che rintrona la testa.
Confondo affetto e amore in un intreccio magico, l'intesa è perfetta in un rapporto unico.
E so che può sembrarti strano, ma cerco le parole per spiegarti che effetto fa sapere che se la giornata non è stata bella, posso contare sulla mia coccinella.
Qualche volta litighiamo, ma il problema non è quello: l'amore non è bello se non è litigarello.
E si sa come vanno queste cose qua, il problema domani più non esisterà.
Lascia che il mio cuore crei una poesia,
parole in rima che riescono nel loro intento.
È una freccia scoccata che colpisce il cuore al centro,
dentro sento un grande movimento e sentimento,
sono cento voci tutte in un momento
che gridano ti chiamano, è un grande coro,
ed io mi riconosco in ognuna di loro.
Esplosioni, sento come se temporale e mare in tempesta fosse dentro di me!
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a-writesthings · 6 years ago
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Ai cinici e agli scettici voglio raccontare una storia.
Non è una storia fatta di parole, è fatta di immagini e di ricordi, di sogni e di magia.
È fatta di per sempre, che se poi voi non ci credete, non capirete mai cosa significa.
"Per sempre" è quella sensazione di eternità, libert��, spensieratezza, serenità che proviamo quando pensiamo a qualcuno o a qualcosa del passato.
"Per sempre" non è un'indicazione temporale concretamente verificabile.
"Per sempre" è quel che ami, quel che sogni.
Sono i sorrisi nati dal ricordo giusto, il "per sempre".
Ai cinici e agli scettici voglio raccontare il "per sempre", perché lo so che non ci credete.
Io l'ho visto, anzi l'ho sentito, l'ho provato, l'ho accarezzato e ora è conservato dentro di me.
È la libertà che ho sfiorato nell'aria dei miei palchi, è l'agitazione che sta nella paura dell'errore, è la voglia di essere guardata, ammirata, contemplata, scelta come punto fisso in un fluttuare di corpi, è un intreccio di anime che in un modo o nell'altro lasciano segni e ferite, è un filo rosso che lega cuori e menti, che se poi si spezza fa male, ti distrugge, ti lascia vuoto, ma sai che c'è stato, sai che l'hai vissuto e sai che rimarrà sempre il segno sul tuo polso.
Ai cinici e agli scettici voglio raccontare una storia, che non è niente di nuovo, è solo una storia d'amore.
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...si tratta di un capolavoro di divertentissima fantasia...una strabiliante favola intellettuale. Nell'intersecarsi tra due storie, il cui legame è costituito dal ritmo alternato sonno/veglia, Queneau tocca una serie di questioni formali e di contenuto con una leggerezza che solo in Calvino trova un valido termine di paragone. Con i labirintici giochi di parole, l'interazione tra più registri e tra lingue diverse, l'utilizzo dell'anacronismo, Queneau riesce a formulare un linguaggio a-storico che costituisce il surreale rumore di fondo che accompagna per mano il lettore. Ma questo intreccio interlinguistico è soltanto la superficie di un intreccio più profondo: la filosofia della storia, la filosofia e tutte le scienze sociali sono chiamate in causa dall'autore e contribuiscono a determinare il perimetro intellettuale nel quale si snoda la storia. Storia che si svolge su due livelli paralleli e complementari: le avventure del Duca d'Auge, che si muove a passi da gigante dal passato al presente, e di Cidrolin, sospeso nel presente in attesa della soluzione di un piccolo mistero, che verrà risolto grazie al ricongiungimento spazio-temporale dei due protagonisti...Sicuramente un'opera da leggere almeno due volte per comprendere al meglio ed apprezzare completamente...Un grazie a Calvino per questo capolavoro di traduzione... #libridisecondamano #ravenna #booklovers ##instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #consiglidilettura #librerieaperte #raymondqueneau (presso Libreria Scattisparsi) https://www.instagram.com/p/CRk6BW1n-HX/?utm_medium=tumblr
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pensarediverso · 3 years ago
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Separabilità fisica e non-separabilità quantistica. Tutto è uno
Lo spazio quantistico non subisce l’influsso della distanza né quello del tempo: L’unione di due particelle non è fisica, nel senso newtoniano del termine, perché non è mediata da alcun mezzo materiale. è una unione “psichica, coscienziale”. Finalmente, si affaccia all’orizzonte una nuova scienza: scopriamo che la materia non è tutto nell’universo che ci circonda.  
 Unità e separabilità.
 Le separabilità indica la possibilità, tipica di un oggetto fisico, di essere diviso in più parti. Il suo contrario è l’unità, che indica la proprietà, tipica di un oggetto fisico, di essere costituito da una parte sola.
Questa premessa può essere utile per illustrare un terzo concetto, quello di contemporaneità.
Partiamo dall’esempio del chiavistello, rappresentato nella figura, per illustrare questi tre concetti: unità, separabilità, contemporaneità.  Sono concetti che poi trasferiremo all’ambito della fisica quantistica.
 Un chiavistello con velocità infinita.
 Il chiavistello è un organo usato per bloccare meccanismi, per esempio una porta. È composto da una barra metallica che scorre lungo delle guide ad anello. Si tratta di uno strumento complesso, ma a noi interessa soltanto il corpo principale del chiavistello, cioè la barra mobile. Questa barra ha due estremità, che possiamo definire A e B.
La barra del chiavistello può rappresentare perfettamente il concetto di contemporaneità. Infatti, se la facciamo scorrere nelle guide, l’estremità A si muoverà in una certa direzione, e “contemporaneamente” anche l’estremità B si muoverà nella stessa direzione. È ovvio, in quanto il chiavistello rappresenta un oggetto “unico”.
Non esiste alcun ritardo tra l’inizio del movimento dell’estremità A e quello dell’estremità B. Come può essere facilmente intuito, il movimento delle due estremità è “contemporaneo” e ciò può avvenire solamente grazie alla caratteristica di “unità” della barra.
Poiché la contemporaneità non prevede nessun tempo tra lo spostamento della estremità A e della estremità B, diremmo che in condizione di unità la velocità di spostamento è infinita.
Se il chiavistello fosse diviso in due parti, il movimento non sarebbe più contemporaneo, neppure se la parte A, grazie ad un meccanismo di accoppiamento qualsiasi, trasferisse il movimento alla parte B.
 L’informazione ha bisogno di tempo per viaggiare tra due corpi separati.
 In effetti, se la barra d’acciaio del chiavistello fosse composta da due semi-barre, occorrerebbe del tempo per trasmettere alla barra B l’informazione relativa al movimento iniziato dalla barra A, o viceversa.
Secondo la fisica newtoniana, e secondo le teorie einsteiniane, l’informazione non potrebbe viaggiare più velocemente della luce. Certo, sarebbe un tempo bravissimo, ma pur sempre un tempo. Non esisterebbe più la “contemporaneità”. Ne consegue che la contemporaneità è possibile solo in una condizione di unità.
 La separabilità dei corpi.
 Peraltro, la fisica classica ci insegna che ogni corpo fisico può essere scisso in due o più corpi parziali. Si tratta del concetto fisico di “separabilità”. Il principio secondo cui ogni oggetto può essere scisso in più oggetti fu strenuamente contrapposto da Einstein ai sostenitori delle teorie quantistiche come Niels Bohr e Werner Heisenberg. Secondo Einstein, essendo ogni corpo separabile, la non-separabilità predetta dagli esperimenti della fisica quantistica rappresentava solo una visione parziale dell’universo.
In effetti, dobbiamo riconoscere che l’esempio del chiavistello è assolutamente parziale. Ciò risulta evidente se, anziché muovere la barra del chiavistello, proviamo a riscaldarne una estremità. Sicuramente il calore non si trasmetterà all’altra estremità tanto velocemente come il movimento. Ciò conferma il fatto che il chiavistello è chiaramente separabile in molecole, atomi e particelle elementari, a conferma del principio di separabilità.  
Tuttavia, le prove sperimentali smentiscono questa certezza.. Tutti gli esperimenti, da quello condotto da Alain Aspect nel 1982 agli altri innumerevoli successivi, dimostrano l’esistenza della non-separabilità quantistica.
 La non separabilità quantistica. Di che parliamo?.
 Ho già descritto in altri post e nei miei libri l’esperimento di Alain Aspect, che sta alla base dell’entanglement quantistico. “Entanglement” è un termine inglese che può essere tradotto come “intreccio”, per significare le condizioni di “unità” e “non-separabilità” che si instaurano tra due particelle correlate. I primi esperimenti di Aspect riguardavano due fotoni di luce. Successivamente, con il progredire della tecnica, gli esperimenti sono arrivati a coinvolgere milioni di particelle o anche interi atomi, come nell’esperimento di Serge Hariche, vincitore del Premio Nobel per la Fisica nel 2012.
 L’esperimento che travolge le certezze della fisica materialista.
 Nella versione sperimentale più primitiva, l’entanglement viene ottenuto con due fotoni “correlati”, cioè nati dallo stesso evento. I fotoni possiedono una proprietà detta “spin”, che può essere semplificata come “senso di rotazione”. Si tratta di una polarizzazione, e tra due fotoni correlati le polarizzazioni devono sempre essere perpendicolari. Diciamo che il fotone A avrà polarizzazione positiva (+1/2) e il fotone B l’avrà negativa (-1/2)
Per la verità, in base al principio di indeterminazione, il fotone assume una polarizzazione definita solamente nel momento in cui la misuriamo. In misurazioni successive, la polarizzazione potrà essere diversa. Dunque, misurando il fotone A, determiniamo la sua polarizzazione nel momento della misura. Evidentemente, attraverso misurazioni successive, causiamo successive variazioni della polarizzazione del fotone A.
Nel frattempo, che accade al fotone B?
Questo fotone ha anch’esso una polarizzazione indeterminata. Al momento della sua nascita è stato “sparato” a una distanza immensa dal fotone A.
Se misuriamo la polarizzazione del fotone A, avremo uno dei due valori possibili. Per esempio, ½ negativo. Immediatamente, anzi “contemporaneamente” il fotone B assume la polarizzazione perpendicolare al primo, cioè ½ positivo. Sarà stato un caso? Eseguiamo una nuova misurazione del fotone A, e “contemporaneamente” il fotone B adegua la sua polarizzazione per renderla perpendicolare al fotone A.
Immaginiamo di attendere un secolo ed eseguire poi una nuova misurazione del fotone A. Il fotone B, che si è allontanato anni luce nel tempo e nello spazio, adeguerà “contemporaneamente” la sua polarizzazione. Proprio come se i due fotoni fossero una sola cosa, al di là della separazione temporale e spaziale.
 Unità di due fotoni separati nello spazio e nel tempo.
 I due fotoni, per quanto separati nello spazio e nel tempo, rivelano una “unicità” incredibile. Dunque, il fotone B non cambia la sua polarizzazione “a causa” della polarizzazione del fotone A, cioè “dopo” che il fotone A l’ha cambiata: con ciò smentisce il principio di determinazione, o causalità, tanto caro alla scienza materialista.
Anzi, pare che il fotone B “sappia in anticipo” quanto avverrà al fotone A: sappia che qualcuno lo misurerà e sappia quale polarizzazione assumerà. Soltanto questa conoscenza può consentirgli di interagire contemporaneamente.
Tutto ciò ha portato a formulare la teoria della non-separabilità quantistica. Lo spazio quantistico non subisce l’influsso della distanza né quello del tempo: l’informazione che unisce i due fotoni è “contemporanea”. L’unione dei due fotoni non è fisica, nel senso newtoniano del termine, perché non è mediata da alcun mezzo materiale. è una unione “psichica”. Finalmente, si affaccia all’orizzonte una nuova scienza: scopriamo che la materia non è tutto nell’universo che ci circonda.  
 La coscienza dell’universo.
 La non-separabilità quantistica conferma l’esistenza di qualcosa che non è separabile e ripropone con forza il concetto di “unicità”. La non-separabilità, come la contemporaneità, richiedono un mezzo “unico”. L’universo in cui si muovono le particelle elementari deve essere un contenitore “unico”. Qualcuno obietterà che ciò è vero solo per due particelle correlate, cioè nate dallo stesso evento. La risposta è semplice: nei fatti, tutte le particelle dell’universo sono nate dallo stesso evento, il Big Bang, l’esplosione creativa iniziale che ha dato origine ad ogni “cosa”.
Il prof. Lothar Schäfer è un chimico quantistico e illustre professore presso l'Università dell'Arkansas. è autore di molti libri, tra cui “Quantum Physics of Consciousness” (Fisica quantistica della coscienza, attualmente disponibile solo in lingua inglese).
Questo studioso scrive così, e credo che il suo pensiero riassuma nel miglior modo possibile quanto detto finora:
“Gli aspetti caratteristici della realtà quantica hanno conseguenze potenzialmente considerevoli sulla nostra natura umana. Se l'universo è una rete di connessioni istantanee e non separabili, molto probabilmente anche noi facciamo parte di questa rete. Se nell’universo agisce un elemento di Coscienza, e assai probabile che questo elemento comunichi con la nostra Coscienza. Non viviamo in una gigantesca macchina deterministica. Dobbiamo considerarci protagonisti di una realtà che va oltre le nostre conoscenze. Si tratta di una realtà interconnessa, tanto metafisica quanto fisica, e con qualità spirituali”.
 Testo di Bruno Del Medico
Blogger, divulgatore, scrittore.
https://www.pensarediverso.it
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levysoft · 4 years ago
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Tutte le opere del mondo, siano essere serie TV, film, videogiochi o libri, condividono un intento comune: simulare i problemi dell’esistenza umana. Per rendere il concetto ancor più specifico: tutto quello che abbiamo mai visto, letto o giocato non è altro che una storia in cui il protagonista cerca una soluzione. Questo avviene perché tutti andiamo avanti nella vita avendo degli obbiettivi da conquistare: partner, figli, stipendio, promozioni lavorative, viaggi… E scopo della vita è trovare il modo di conquistare quegli obbiettivi. Per questi motivi, le storie si rifanno esattamente a queste necessità. Quindi, perché ci piacciono serie TV, libri, film e videogiochi?
La narrativa segue modelli mentali
L’evidenza narrativa di questo sistema è palese nella struttura di ogni opera narrativa, che segue questo semplice schema:
Storia = Personaggio + situazione difficile/problema + Tentativo di superamento
Tutte le storie sono un problem solving costante. Sia una puntata dei Griffin o il Titanic, tutte le opere del mondo funzionano secondo questa semplice struttura. L’unica variabile riguarda il problema da risolvere e se il protagonista riuscirà nel suo intento. Gli scrittori moderni come Stein, Joyce e Proust, vista questa trappola narrativa, hanno deciso di scrivere del nulla. Scrive Baxter, uno scrittore di fantascienza, che nella loro narrativa finzionale «non succede niente di importante […]. Per i nostri scopi, gli eventi non hanno importanza». Il che, purtroppo, rende quelle storie decisamente meno interessanti dal punto di vista dell’intreccio narrativo, rispetto alle opere in cui si mantiene un intreccio “ordinario”.
[...] Più l’intreccio, e quindi la sequenza degli eventi, sarà manchevole di alcuni elementi narrativi canonici (e quindi non seguirà uno schema che possiamo applicare anche nella nostra esperienza di storia quotidiana) più quella storia perderà di senso o di efficacia comunicativa.
La nostra mente segue uno schema narrativo che può essere semplificato nel semplice binomio di spazio e tempo, ovvero le categorie aristoteliche: quando pensiamo ad un avvenimento, dobbiamo necessariamente configurare anche un luogo e un momento (o un momento in una sequenza) in qui quell’avvenimento si è svolto. Aristotele, infatti, scrive:
“[…] quando sembra che un certo tempo stia trascorrendo, sembra che simultaneamente si stia verificando un certo movimento. Sicché il tempo è o movimento o, almeno, una proprietà del movimento.”
Senza questi due semplici punti fermi, la narrazione perderà di senso. Ma non è sempre così: alcune storie si agganciano all’esperienza dello spettatore, giocando con la sua capacità di comprendere gli eventi anche capovolgendo la linea temporale (ad esempio il film “Memento”) mantenendo però dei luoghi distinguibili. Ora è il momento di farci la domanda principale: perché apprezziamo le storie ben formate?
Perché ci piacciono serie TV, libri, film e videogiochi: neuroni specchio
Nella storia evolutiva umana un evento in particolare ha ampliato alla nostra capacità immaginativa: la simulazione. Ad esempio, I piloti di caccia che devono atterrare su di una portaerei devono avere un’esperienza enorme per riuscire ad agganciarsi al cavo che li fermerà. Quindi, piuttosto che rischiare la loro vita, prima di farli volare li fanno esercitare nei simulatori di volo. E cos’è più difficile di far atterrare un caccia su di una portaerei? Vivere. E quindi, come un simulatore di volo accresce un’esperienza vivendola senza rischi, le storie ci offrono la possibilità di simulare le diverse vicissitudini della vita (amore, gioia o dolore), senza pagarne il prezzo. Ecco perché ci piacciono serie TV, libri, film e videogiochi.
Questo atteggiamento, come vedremo a breve, è un condizionamento evolutivo. La natura ha plasmato i nostri antenati per fagli “piacere” le cose che gli offrono un insegnamento. La narrativa è un effetto (o la causa) del sistema biologico dell’empatia (anche nella concezione di catarsi) e del riconoscimento.
I neuroni responsabili, in quota parte, dell’empatia sono stati scoperti negli anni ’90, quasi per caso, da un gruppo di neuroscienziati italiani. Questi neuroni vengono volgarmente chiamati “neuroni specchio”. Sono stati involontariamente individuati con questo esperimento: dopo aver impiantato degli elettrodi nel cervello di una scimmia per verificare quali fossero le regioni neurali responsabili di, per dire, ordinare alla mano di raggiungere e afferrare una noce scoprirono, invece, che certe specifiche aree del cervello delle scimmie si attivano non solo quando gli animali afferrano una noce, ma anche ogni volta che vedono un’altra scimmia o una persona compiere la stessa azione. I neuroni specchio potrebbero essere alla base della capacità umana di creare nella mente potenti simulazioni di fronte a una finzione narrativa.
Vedere l’empatia
Come detto, tutto questo può essere inglobato nel più ampio esercizio che è l’empatia: capiamo gli altri perché il nostro cervello ha dei neuroni che cercano di simulare quello che prova chi sta davanti a noi. Le serie TV, i libri e i film, quindi, vengono “analizzati” da questi neuroni particolari e, come per qualsiasi cosa che interagisca con il cervello, ne provoca dei cambiamenti. Gli effetti di questi cambiamenti non sono analizzabili consciamente, ma è comunque possibile “vedere” il modo in cui si azionano.
In un laboratorio di studi cerebrali, alcuni neuroscienziati guidati dallo psichiatra Mbemba Jabbi hanno esaminato con la fMRI (risonanza magnetica funzionale) un gruppo di soggetti. Hanno svolto tre diversi esperimenti con un elemento in comune: il disgusto.
Inizialmente ai soggetti è stata mostrata una breve clip con un attore che beveva da una tazza e poi faceva smorfie di disgusto.
Successivamente li hanno esaminati mentre lo sperimentatore leggeva a voce alta una breve storia, come «immagina di camminare in città e di vedere un ubriaco che ti vomita addosso».
Alla fine hanno esaminato i soggetti mentre assaggiavano realmente delle bevande dal sapore disgustoso.
In tutti e tre i casi si è attivata l’insula anteriore, ovvero la regione cerebrale in cui si attiva il senso del disgusto. Nel primo caso avevano visto il disgusto, nel secondo lo avevano immaginato e nel terzo lo avevano sperimentato di persona. In tutti e tre i casi il cervello ha reagito nello stesso modo. I soggetti hanno provato sulla loro pelle il disgusto in tutti e tre i casi.
In base a questi esperimenti, abbiamo capito che quando ascoltiamo una storia o vediamo un film il nostro cervello attiva alcuni neuroni come se stessimo facendo noi stessi quell’esperienza e, come visto nell’approfondimento sull’intelligenza, l’esperienza acquisita cambia il modo in cui quei neuroni si connettono. Quando guardiamo qualcosa interveniamo direttamente sui neuroni così come quando alziamo pesi interveniamo direttamente sui muscoli. Ovviamente le nuove connessioni cambiano “semplicemente” il modo in cui interpretiamo alcune esperienze di vita.
Perché ci piacciono serie TV, libri, film e videogiochi: i imiti della simulazione
Detto tutto questo però, simulare ha dei limiti. La finzione narrativa può rivelarsi una guida terribile per la vita reale. Sarebbe devastante acquisire esperienza da Don Chisciotte o da Gregor Samsa. Bisogna sempre distinguere, da un punto di vista mentale, cosa è finzione e cosa è realtà. Da esseri umani questo processo sembra semplice, ma il cervello ha impiegato millenni per creare dei limiti all’immaginazione. A volte, però, fallisce lo stesso. I risultati di questi fallimenti sono, tra i tanti, gli psicotici e gli schizofrenici.
Inoltre, non ricordiamo quasi nessun dettaglio di quello che guardiamo. Questo significa che le nostre esperienze non si devono per forza sedimentare in ricordi affinché abbiano un effetto. Noi abbiamo due tipi di memoria: la memoria dichiarativa (esplicita) e la memoria implicita. La memoria dichiarativa è quella a cui possiamo accedere direttamente, ad esempio pensando ad un evento della nostra infanzia; la memoria implicita, invece, è quella inconscia, quella a cui non abbiamo accesso se non tramite l’ipnosi o altre tecniche.
Quando guardiamo un film, nella memoria esplicita ricordiamo bene o male come si è svolta la trama, ma in quella implicita conserviamo il succo, l’insegnamento di fondo di quell’esperienza. Le esperienze tratte dalla narrativa non coincidono con la storia in sé, ma solo con dall’interpretazione che ne abbiamo. Le variabili che riguardano il modo in cui interpretiamo un evento o un racconto, però, sono impossibili da definire individualmente. Ciononostante gli studi in questo ambito continuo a mostrare una verità: le opere narrative e le storie non sono e non sono mai state inutili, ma sono state alla base della stessa evoluzione umana.
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burningtheoristbeard · 4 years ago
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Vinco perché nessuno mi nota, nessuno mi vede mai arrivare: lo dice Al Pacino al giovane Keanu Reeves nel film “L’avvocato del diavolo”. Una parte che sembra attagliarsi bene a un attore come Giuseppe Conte, fino a 3 anni fa perfettamente sconosciuto. Ma il due volte premier, prima al servizio del sovranismo-populismo gialloverde e ora prediletto dall’Ue, non era l’avvocato del popolo? Tutto  tiene, se si rilegge la storia con le lenti della pellicola di Taylor Hackford, uscita nel ‘97: puoi fare bingo, se nessuno sa veramente chi sei. Quando lo scoprono è ormai troppo tardi: siedi già a Palazzo Chigi. Da lì obbedirai ai tuoi veri padrini. Dietro a Conte,  c’è lo stesso potentissimo club vaticano sul quale poteva contare l’eterno Giulio Andreotti, ininterrottamente in sella per mezzo secolo. Altra stoffa, certo. Ma identici mandanti? «Conte può, come Di Maio, «È un Di Maio 2.0 nel momento in cui Di Maio non viene creduto più». Del resto ne ha fatta, di strada, il devoto di Padre Pio. «Partito da Volturara Appula, a Roma ha costruito un network trasversale di relazioni che spazia tra il mondo dei giuristi-grand commis dello Stato e il Vaticano».
Quando il suo nome viene ufficiosamente fatto pervenire sul tavolo di Sergio Mattarella da Di Maio e Salvini, a maggio del 2018, si avviano discreti sondaggi (non solo da parte del consigliere Ugo Zampetti) per avere qualche notizia in più  su questo  giurista, «che il capo dello Stato non conosce personalmente»,. Si attiva così un informale giro di pareri, «nessuno dei quali si rivelerà negativo». Viene tenuto in considerazione Giacinto Della Cananea, un altro giurista (allievo di Sabino Cassese) che Di Maio aveva messo a capo di una strana entità, il “Comitato per valutare la compatibilità del programma M5S con i programmi degli altri partiti”. I commenti provenienti dal mondo di più influenti giuristi romani pervengono a Bernardo Giorgio Mattarella, figlio del presidente della Repubblica e docente di diritto amministrativo a Siena, oltre che condirettore del master in management della pubblica amministrazione alla Luiss di Roma (dove anche Conte tiene corsi). «I rapporti accademici di questo avvocato pugliese sono, insomma, ben coltivati». Conte figura tra i relatori – ben più illustri – del forum annuale sulla strategia energetica nazionale: tra questi il consigliere di Stato Luigi Carbone, lo stesso Bernardo Giorgio Mattarella e un altro Cassese-boy, Giulio Napolitano, figlio di Re Giorgio e professore di diritto amministrativo a Tor Vergata.
Insomma, Conte ha un profilo pacato e ben inserito». E, ciò che più conta, «non attiva veti di nessuno sulla sua figura: è talmente poco noto e silente che non fa rumore, si muove abbastanza in sordina, non è osteggiato da influenti colleghi giuristi del Palazzo». Spiega “l’avvocato del diavolo”, nel film di Hackford, all’aitante apprendista: «Non se ne devono accorgere, che arrivi. Devi mantenere un profilo basso. Sembrare insignificante: uno stronzetto, emarginato. Sottovalutato, dal giorno della nascita». Mario Calabresi, all’epoca direttore di “Repubblica”, osserva che è singolarissima la circostanza di un uomo che arriva sulla soglia di Palazzo Chigi senza che nessuno abbia mai sentito il suo tono di voce, o sappia se è in grado di parlare in pubblico. «Conte però sa eseguire, e non è uno con la cattiva fama di voler strafare». «L’esecuzione potrebbe aver trovato il suo uomo. Una capacità che, forse, è stata affinata fin da ragazzo tra le felpate stanze di Villa Nazareth, il collegio cattolico che aiuta i giovani studenti di famiglie non abbienti a mantenersi (anche Conte ci  ha studiato, ma da non residente all’interno della struttura; per essere residenti bisognava che in famiglia entrasse un solo stipendio)».
L’Istituto Nazareth – fondato nel dopoguerra da monsignor Domenico Tardini, che dopo la morte darà il nome alla Fondazione che gestisce il centro – è un luogo simbolo del cattolicesimo democratico italiano. «Dietro i suoi cancelli, andando a ritroso, sono transitati negli anni, come professori o come ospiti, Sergio Mattarella, Romano Prodi, Oscar Luigi Scalfaro, fino ad Aldo Moro». Il porporato di peso che tiene d’occhio nella sua prima formazione lo studente Conte è – guardacaso – monsignor Pietro Parolin, oggi segretario di Stato del Vaticano. «Nel corso degli anni si fa sempre più stretto il rapporto di affetto di Conte verso monsignor Parolin, un uomo che in più di una occasione – a Roma come a Washington, e all’ambasciata presso la Santa Sede – Luigi Di Maio ha incontrato e consultato, spesso nella massima riservatezza, nel processo di avvicinamento del Movimento Cinque Stelle alle stanze vaticane, e al governo». In quella fase, a metà maggio 2018, non sono in pochi, anche nel mondo cattolico romano delle più diverse ispirazioni – non solo a Villa Nazareth – a interessarsi a quel movimento «così plasmabile, malleabile, apparentemente romanizzabile», e quindi «così potenzialmente utile per tramandare l’eterna struttura, immutata, del potere temporale e spirituale della romanità».
Certo  – è assai diverso il cattolicesimo di Parolin da quello del cardinale Raymond Burke, l’ultraconservatore amico di Steve Bannon, l’ex “strategist” della Casa Bianca, «anche lui di casa sia Oltretevere che nella politica italiana post-4 marzo, e in particolare nel Movimento Cinque Stelle con cui, come sappiamo, Bannon ha dichiarato di aver avuto diversi incontri». Tra parentesi: l’ideologo sovranista Bannon, massone reazionario, è stato formato alla Georgetown University di Washington, culla del potere gesuitico negli Usa. E dunque, si domanda Iacoboni: quale Vaticano sta vincendo, nel 2018, con l’insediamento del primo governo guidato dal premier Giuseppe Conte? Il Vaticano di Parolin o quello di Burke? «Chi prevale nel conflitto, che da allora diventerà endemico di questa stagione italiana: il Conte teorico del sovranismo, allineato agli interessi di Salvini e Casaleggio, o il Conte apprezzato nell’ambiente dei giuristi romani, e nel Vaticano moderato e più “politico”, il Conte che a dicembre del 2018 porta a casa – certamente incoraggiato e quasi guidato  dalla presidenza della Repubblica – il negoziato con l’Europa per evitare la procedura d’infrazione, che a un certo punto il suo governo era sembrato quasi cercare?».
La figura del premier-esecutore «riassume in sé tutta l’ambiguità di questo biennio, le ombre e i poteri che si addensano e circondano l’esecuzione, e il fatto che molti segmenti istituzionali, o pezzi di centrosinistra, siano ancora convinti, o a volte semplicemente fiduciosi, di poter disarticolare il Movimento, e usarlo, assimilarlo, ricondurlo nelle spire sempre avvolgenti della romanità». E tuttavia, di nuovo: «L’esecuzione è esecuzione di cosa, e per conto di chi?». Il fine ultimo di questo intreccio così appassionante di storie e relazioni, umane e politiche, resta controverso,  «Sebbene il governo Lega-Movimento e la pulsione estremista-sovranista appaiano resistenti e tenaci, nell’autunno-inverno del 2018-2019, degli spread, del degrado dei rapporti dell’Italia con l’Unione Europea e degli editti dei Cinque Stelle contro i giornali, una cosa è certa: non tutto cambia, nel “governo del cambiamento”. Molti poteri sono all’opera per resistere immutati, cambiare tutto per non cambiare nulla o, al limite, staccare il Movimento dalla Lega». Il potere che ha messo Conte a Palazzo Chigi con la Lega ora si gode il Conte-bis col Pd. «Tu non mi crederesti mai un padrone dell’universo, non è vero?», domanda Al Pacino a Keanu Reeves, a cui l’anonimo e insignificante “avvocato del diavolo” svela la sua arma infallibile: «La gente non mi vede arrivare».
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ilarywilson · 7 years ago
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La camera degli ospiti del numero 10 di Kennington Road è dipinta d'un tenue azzurrino su cui baluginano le ombre create dalle numerose candele accese sul davanzale della finestra e sul mobilio presente. Sul letto a una piazza e mezza sono strette due ragazzine biondissime che sarebbero minuscole in maniera uguale se solo una delle due non fosse in dolce attesa e occupasse, per questo, gran parte della superficie morbida disponibile. Ilary è avvolta nella sua camicina da notte gialla, la schiena rivolta ad Alice e i piedini puntellati su uno dei pomelli della pedaliera del letto, le ginocchia pigiate contro il petto, tenute strette dalle braccia che le avvolgono protettivamente, mentre le dita della Darcy le scorrono delicatamente fra i capelli, per pettinarli e intrecciarli.
«Ti va di parlarne?»  la voce di Liz rompe per prima quel silenzio. Pacata e tranquilla, come sempre.
«Non ho niente da dire, Liz» perentoria e bugiarda, la voce di Illy replica secca a quella domanda e non sembra voler ammettere repliche. «Mi dispiace di averlo mandato via, ma...non-non» la voce ha un tremolio spiacevole. «Non riesco a perdonarlo» confessa così, abbassando lo sguardo sull`intreccio delle proprie dita. «Schiva bolidi che a quanta velocità andranno, Liz? Ma Rachel Polland è inevitabile, è davvero agilissima quando si tratta di saltare addosso al mio ragazzo. Razza di morgana, sfacciata senza precedenti, egoista, insensibile e crudele». Di rado la si sente perdere la bussola a quel modo, ma quella sera sembrava proprio che Ilary Wilson non ne avesse per nessuno di gentilezza, pazienza, comprensione o correttezza.
«Rachel è proprio una z***» Alice Darcy sa certo andare incontro alla sua amica, solo con molta meno finezza di termini, ma uguale succo finale. Stranamente non riserva lo stesso trattamento a Sebastian, però. «Seb mi è sembrato davvero dispiaciuto, sai? Aspetta solo che tu ti faccia viva ma... secondo me non devi perdonarlo» azzarda così la Darcy, accigliandosi appena. «Cioè, deve essere lui a farsi perdonare, e che bolide!»
«Lo è sempre, Liz. Ma sono umana anche io e non ce la faccio più a scusarlo, sono stufa di scusarlo, stufa di stare male» le lacrime salgono ad inondare le iridi chiare, tradendo il dolore che quella rabbia vorrebbe celare. «Ci voglio restare con lui, Liz» l'inaspettata replica che segue quasi pare contraddire tutto il precedente detto. «Ma... adesso non ci riesco» e un avverbio temporale si è già aggiunto, per stemperare la durezza di quella che prima sembrava una convinzione incontrovertibile. Adesso non lo è più poi troppo. 
«Se è quello che vuoi, allora resta» la fa molto semplice, Alice Darcy, in fin dei conti. Ma ha una clausola. «Ma non permettergli più di trattarti in quel modo. Nessuno, neanche la persona che ami, ha il diritto di darti per scontata, Ily. Non si stancherà di aspettare, se davvero prova quello che dice ti darà tutto il tempo che ti serve. Non può pretendere che tu lo perdoni solo perché ti ama, deve anche tornare a farti stare bene». Sembra ragionevole quel suo discorso. Abbastanza da far annuire distrattamente Ilary Wilson, gli occhi dilatati di improvvisa convinzione.
«Grazie, Liz» non ha altro da aggiungere la voce appena incrinata di Illy, un broncio leggerissimo ad incurvarle le labbra mentre le dita giocherellano ancora con il pomello della pedaliera del letto, raggomitolata scomodamente su sé stessa, mentre Alice finisce di chiuderle l'intreccio dei capelli con un nastrino celeste. E le sorride, con l'aria perennemente triste che aveva in quei giorni lontana da Seth e sempre più vicina a Liam. «Ti va se» è di Ilary la voce che rompe nuovamente quel silenzio. «Facciamo un pigiama party ogni sera finché...non vai via?» perché nessuna delle due vuol restare da sola, ma nessuna delle due lo ammetterebbe mai esplicitamente. Col pigiama party hanno decisamente una buona scusa per tenersi compagnia. E sorridersi di colpo come se il punto fosse solo quello, come se avessero ancora sedici anni nella sala comune di Grifondoro e stessero organizzando solo l'ultimo festino prima dei MAGO. Come se andasse tutto bene. Come se andasse davvero tutto bene.
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matildelegge-blog · 7 years ago
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Libro 14. David Foster Wallace, “Infinite Jest” (Stile Libero Einaudi)
“L’ho finito. L’ho letto in tutti i modi che ho trovato [9] e l’ho finito. Mi sento strana, un sacco, come se niente fosse più come prima o come quando ti manca l’aria e tipo vai veloce veloce da sott’acqua ed esci e prendi un sacco di aria e tossisci. Niente è più come prima” (sms Marta a Giuseppe, 18 Dicembre 2017).
Una delle mie attuali ossessioni è contare tutto. Di questo forse dovrebbe parlarne Giuseppe – che ne ha più coscienza di me - ma ad ogni modo so di aver letto un quantitativo di libri che sfugge al mio controllo e ai miei conteggi. Libri belli, libri lunghi, libri senza i quali non posso immaginarmi a vivere alcunché, libri di cui vergognarsi, libri noiosissimi, libri simpatici, libri istruttivi. Una smania consumistica che mi ha fatto passare da un libro all’altro per accrescere il mio egocentrismo culturale – la mia erudizione - e poter dire “ecco: sono nella cultura, sono nel giusto, sono nell’intelligenza e nella coscienza critica” in questa smania opprimente di investimento immaginario secondo cui la libreria è vista come luogo di culto, il libraio come un santone in quanto sempre nell’inopinabilità, l’oggetto libro come reliquia e il tempo di lettura come l’unico che valga davvero la pena vivere in quanto “arricchimento”. È molto difficile scrivere quanto detto “ad alta voce” perché sono consapevole di stare mettendo in evidenza tutta la mia miseria in modo assolutamente inassolvibile. E continuo dicendo che quando ero bambina preferivo stare ferma in un luogo a leggere Roal Dahl piuttosto che mettermi a giocare con altri bambini. A otto anni lessi Jane Eyre e m’immersi nella dimensione temporale del romanzo ed ero l’orgoglio dei più, sfoggiandomi come una me necessariamente staccata dalla realtà e dalla necessità, dunque “più” di tutti gli altri e di tutto il resto. Quando ero adolescente iniziai a frequentare le persone che non avevano niente in contrario a parlare con me con cui parlavo poco perché per parlare e per ascoltare qualcuno prendevo un libro e col senno di poi io non posso che guardare con una certo disaccordo e disappunto questo approccio di cui purtroppo la maggior parte dei lettori – convinti del proprio fondamentale ruolo all’interno della società – non si rende neanche conto. E forse è anche giusto così.
Per quanto questa mia consapevolezza sia estremamente fresca, non posso che guardarmi indietro e comprendere (e contare) tutti quei crash nel mio sistema che hanno interrotto questo vizioso trastullarsi in se stessi. Il problema reale di questi crash risiede in quello che una volta disse Deleuze: “[…] quello in cui credo sono gli incontri. E gli incontri non si fanno con le persone. Si crede sempre che gli incontri si facciano con le persone, ma è terribile, quello fa parte della cultura […]. […] gli incontri non si fanno con le persone, ma con le cose: incontro un quadro, un’aria musicale, una musica. Ecco cosa sono gli incontri”. E il 12 Dicembre 2017, in una catarsi senza rimedio, scrissi banalmente un post su Facebook in cui elencai tutti gli incontri che cambiarono il mio quotidiano (cosa significherebbe d’altronde “Vita”?) e dopo il quale mi è stato praticamente e fisicamente impossibile leggere per un lasso di tempo prolungatissimo qualsiasi altra cosa. Scrissi:
“In ordine, i motivi per cui No U Turn e rabbie e dolori sparsi: Fernando Pessoa, Il Libro dell'Inquietudine; Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione; James Joyce, Ulisse; la Bibbia; Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra; Dante Alighieri, La divina commedia. HO DIMENTICATO L’ETICA DI SPINOZA!”
Quarantanove mesi – in un totale sezionato in parti ineguali nel tempo – in cui abbandonai la letteratura (per la vita? per la quiete?). Ma il primo libro di questo elenco (omesso appositamente nel copiato del post in quanto oggetto di questo articolo/recensione) il cui incontro ha spazzato via tutto il resto, altri titoli compresi, è Infinite Jest di David Foster Wallace.
“Un grosso libro vuol dire che il lettore passerà molto tempo a leggere […]*: 17 mesi, per l’esattezza.
Definire la struttura di Infinite Jest è estremamente difficoltoso. La storia (che può essere descritta così solo a posteriori, in quanto il libro è strutturato in un processo di presentazione dei fatti dal minuscolo al gigantesco e avvolgente tutto) si sviluppa attorno a un nucleo centrale, cioè la presenza fantomatica di un film d’intrattenimento - dal titolo omonimo – “così appassionante  e ipnotico da cancellare in un istante ogni desiderio se non quello di guardarne le immagini all’infinito, fino alla morte” (come troviamo scritto nella quarta di copertina). Il nucleo centrale snoda da sé due macrostorie a sé stanti (ma confluenti nel nucleo stesso): la vita all’interno dell’Eta, un’accademia tennistica agonistica, e la vita all’interno dell’Ennet, un centro di recupero dalla dipendenza da qualsiasi sostanza. Di fianco, quasi come collante e rimando continuo tra le due parti tra loro e tra loro col nucleo, vi è la vita sotto copertura di coloro che disperatamente cercano Infinite Jest. Da queste due macrostorie (più appendice) si sviluppano a propria volta davvero non so quante altre storie e quanti altri racconti, ognuno assolutamente indipendente dagli altri, ma rientranti necessariamente in un quadro che serve a riportarci - per intreccio, simbologia, riferimento, citazione - alla propria macrostoria di riferimento o alla seconda, per sfociare nel nucleo e chiudere un cerchio che ad una prima lettura sembra non poter aver quadratura. Potremmo persino dire che l’intrattenimento filmico Infinite Jest sia il cuore di tutto l’apparato libro, un cuore da cui parte strutturalmente una grande vena e una grande arteria e da cui le storie si diramano capillarmente ed entro cui ritornano – grazie alle valvole (le storie sottocopertura) - in un ciclo infinito dal movimento rotatorio di ripetizione senza il rischio di collasso. O ancora una struttura a piramide che dalla vetta si dirama sempre più giù, sempre più in basso, dall’ “idea filmica” Infinite Jest alla merda che tocchiamo con mano di un dato tossico cacatosi nelle mutande o alla disperazione di pori dilatati e sudore di quel giocatore ragazzino. O ancora, potremmo usare la spiegazione convincentissima tratta da una conversazione del 1996 tra Michael Silverblatt e l’autore (https://www.youtube.com/watch?v=DlTgvOlGLns):
M.S.: “Non so come, esattamente, parlare di questo libro […] ma a volte mi è venuta in mente questa idea, magari immaginaria, cioè che il libro è scritto in frattali. […] Ho pensato che il materiale sia presentato in modo da permettere a un argomento di essere introdotto in piccolo, dopodiché si apre un ventaglio di tematiche, di altri argomenti, e poi eccoli di nuovo presentati in una seconda forma che include, anche loro in piccolo, altri argomenti e poi presentati di nuovo come se quello che viene raccontato fosse…. Non sono molto pratico di questa scienza, è solo che mi sono detto che i frattali dovevano essere così”
D.F.W.: “Avevo sentito che sei un lettore in gamba. È una cosa presente a livello strutturale. In effetti è strutturato come una cosa che si chiama Triangolo di Sierpinski che è un genere di frattale piramidale anche se a essere strutturata come un Triangolo di Sierpinski era la bozza che consegnai a Michael [Pitch, editore] nel 1994 e che ha subito alcuni tagli provvidenziali e mi sa che ne è venuto fuori un Triangolo di Sierpinski un po’ sbilenco. Ma è interessante, è uno dei modi strutturali in cui bene o male dovrebbero comporsi”
[…]
M.S.: “[…] mi sembra che in questo libro - che contiene sia la banalità sia la straordinarietà di veramente molti tipi di esperienza, oltre alla banalità dell’esperienza straordinaria … -”
D.F.W.: “E alla straordinarietà dell’esperienza banale”
M.S.: “… andava trovato un modo [di organizzarsi] e mi entusiasmava il fatto che fosse strutturale, che il libro trovasse un modo di organizzarsi capace di farti sapere. Sono analogie che poi ricorrono in tutto il libro […]”
D.F.W.: “Si tratta di capire se una cosa è vera o no. […] Voglio dire che molta della struttura che c’è dentro è più o meno decisa lì per lì a seconda di cosa mi sembrava vero e cosa no. […] è solo quando arrivi all’incirca a metà [del libro] che secondo me si comincia a vedere il barlume di una struttura. Poi, certo, il grande incubo è che la struttura la vedi solamente tu mentre per gli altri è un gran casino”.
In prima istanza, arrivati come dice Wallace a metà del libro, è dunque la struttura – oltre alla grandezza/lunghezza del volume  (“I libri grossi sono più una sfida, sono intimidatori. […] Infinite Jest all’inizio non era pensato per essere così lungo. Iniziò come una narrazione frammentata, multipla, con alcuni personaggi principali e  […] a un certo punto diventò chiaro che sarebbe stato molto lungo”*) – a rendere certamente cerebrale e affascinante la lettura. Il fascino è amplificato dalla presentazione caotica di nomi di sconosciuti che raccontano la propria personalissima storia di abuso, violenza, aggressione, disperazione, gioia fittizia, quotidianità spicciola e bellezza in una frammentazione davvero difficile da digerire e tremendamente spiazzante. Le microstorie scorrono veloci (nella prima parte del libro) come sangue nei capillari fino a raggiungere i vasi sempre più grossi, sempre più grossi per arrivare al cuore (3/4 del libro) e vivere il ricircolo, tornando indietro (fino alla fine del libro, ricominciando). È questo un movimento che si percepisce non solo leggendo, ma anche fisicamente: una spinta frenetica, un trascinamento - ecco, sì - un trascinamento forzato che ostacola la parte dentro di te che continua a dire NO NO NO BASTA COSì NO NON POSSO LEGGERE PIÙ! E il perché di tutti questi no - quantomeno all’inizio, perché poi subentra una sorta di rassegnazione e abbandono totale alla lettura – è non tanto il modo in cui Wallace ironizza gli avvenimenti, rendendoli ancora più disperati, ma la normalità violenta e la violenza normalizzata che permea il quotidiano in e di ogni persona che respira in tutti i qui e in tutti gli adesso del pianeta. Per quanto Wallace abbia detto come Infinite Jest volesse essere “qualcosa che avesse la stessa densità mentale dell’America di oggi, una sorta di gigantesco tsunami di roba che ti travolge”*, questo distacco che confinerebbe tutto il travolgente agli Stati Uniti è totalmente annullato, ritrovandoci in una globalizzata impotenza che ci fa rientrare in una dimensione in cui tutto il descritto “è proprio così” e non potrebbe essere vissuto altrimenti. Credo sia corretta l’affermazione di David Lipsky secondo cui “leggere David Foster Wallace era come spalancare gli occhi sul mondo”: vediamo davvero Kate Gompert a digrignare i denti e provare pietà mai per se stessa, ma per uno psicotico depresso uguale a lei; vediamo e sentiamo davvero il respiro di Joelle sul suo velo; sentiamo davvero l’odore acido della sostanza uscire dai pori di quella prostituta senza denti, per le troppe pipe fumate, che partorisce il suo bambino morto che porterà sempre attaccato a sé e che puzzerà nella sua graduale decomposizione sotto il sole cocente dell’estate. “[…]ho provato una specie di … non lo so … tenerezza nei confronti dei personaggi e il narratore per lo straordinario sforzo impiegato a scriverlo. Non sembrava una difficoltà fine a se stessa. Sembrava come una difficoltà immensa ben spesa perché c’era qualcosa di importante da dire riguardo alla difficoltà di essere umani. Aveva bisogno di essere triste e non c’erano altre vie per raccontare ciò” (Michael Silverblatt).
Potrei scrivere moltissimo sull’intreccio della storia, sulla personalità dei personaggi, sui nove modi possibili per leggere questo libro, sulla voluta assenza di narrazioni sessuali (due sole eccezioni) ad evidenziare un’impossibilità empatica nel controsenso per cui  raccontare una storia a persone troppo prese a narrare se stesse rende ogni narrazione puro fiato. Potrei parlare delle note (la più lunga è di 19 pagine) o potrei incentrarmi sulle specifiche pedantesche e maniacali di ogni farmaco/sostanza riportati nel volume o la precisione di Wallace nella descrizione degli stati emotivi verbali di alcuni personaggi [es. Hal Incadenza: pag.3: siedo _  pag.1023: ero _  pag.1039: camminai _  pag.1076: stavo _ pag.1089: forse sonnecchiai / forse avevo sonnecchiato / pensai _ pag.1130: .... _  pag.1140-41: ricordavo/ricordo/ricordavo]. Non lo farò. Leggerlo?
Infinite Jest è un libro geniale non tanto per gli elementi descritti, non solo per gli elementi non descritti, non esclusivamente per questa enorme fatica dell’autore. Credo che lo sia perché davanti al Povero Tony (il personaggio che ho amato di più non solo per la sua storia, per la descrizione, ma soprattutto per il modo in cui è perennemente inserito in tutto il testo) e alla sua disperazione così lontana dalla mia io non posso far altro che zittirmi. Non si ride. Non si piange. Qualche volta un ghigno. Ma è il silenzio a caratterizzare ogni pagina, questo silenzio invadente, questa tenerezza sconcertante che elimina la possibilità di giudicare anche l’atto più meschino, anche la situazione più repellente, a favore di una nuda consapevolezza della miseria mia, tua, di tutti loro, di tutti noi.
“Un libro per tutti e per nessuno” è questo Infinite Jest che non lascia tregua, ti fracassa il cranio e spezza il cuore. Non leggetelo. Fatelo per voi. Perché dopo non si torna indietro. A meno che non accettiate la possibilità di non leggere alcunché, dopo, continuando a vivere questo silenzio, almeno per un po’.
M.
Ci rivedremo in Gennaio
 * THE END OF THE TOUR (tratto dal libro intervista di David Lipsky a David Foster Wallace)
*Charlie Rose intervista Wallace https://www.youtube.com/watch?v=9lVHhliP5s4
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#1 : "Leggo, io"
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#2 : "imparate"
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#3 : luoghi comuni
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#4 : "che cazzo è l'acqua?"
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#5 : cicloide
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#6 : "quando il sangue esce davvero"
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#7 : urlare
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#8 : le Cose Vere
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#9 : "il mondo delle arti degli Usa"
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#10 : la Cosa = depressione
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#11 : i tossicodipendenti eterosessuali
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#12 : credetemi
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armagio · 5 years ago
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Intreccio Lukaku Aubameyang
L’Inter rimane in pressing sul Manchester United per avere al più presto Romelo Lukaku. Bisogna convincere il Manchester United, che non è stato particolarmente felice della prima proposta di prestito biennale con obbligo di riscatto. Una ipotesi che avrebbe pareggiato la richiesta economica dei Red Devils ma solo in un arco temporale più lungo di quello atteso, e che soprattutto caricherebbe…
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fondazioneterradotranto · 6 years ago
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/06/14/palazzo-dei-celestini-a-carmiano-memorie-di-barocco-e-tabacco/
Palazzo dei Celestini a Carmiano: memorie di barocco e tabacco
Fig.1. La facciata
  di Maria Elena Petrelli
La storia di una comunità è inestricabilmente legata ai suoi luoghi ed ogni luogo può restituire al presente i frammenti di un’identità collettiva in costante ridefinizione. Ciò che siamo stati non ci dice tutto su ciò che saremo ma è certamente il punto da cui partire per costruire le basi del nostro futuro. From roots to routes. Dalle radici sotterranee alle strade da percorrere. Dalle memorie già scritte alle storie ancora da scrivere.
Carmiano è un piccolo comune in provincia di Lecce che da anni sembra in attesa di una svolta. Tra i tesori che i giovani carmianesi hanno ereditato dal passato ci sono fotografie sbiadite di una chiesa cinquecentesca demolita negli anni ’60 del secolo scorso e la facciata decadente di un palazzo baronale abitato per tre secoli e mezzo dai Padri Celestini. Il destino di questo palazzo sembra essere stato ormai decretato da una sentenza non scritta: per anni l’indifferenza e la rassegnazione hanno relegato questo bene architettonico, il cui valore è stato riconosciuto anche dalla Soprintendenza per i Beni Ambientali, Artistici e Storici della Puglia, ai margini della strada provinciale per Lecce, percorsa ogni giorno da moltissimi cittadini inconsapevoli.
Recuperare la storia di questo edificio significa ridare senso ai luoghi che abitiamo, assumendo consapevolezza di ciò che ci circonda e restituendo al presente l’importanza che indubbiamente questo luogo ha rappresentato nel corso dei secoli per l’intera comunità locale.
Fig.2. Una delle due statue della facciata
  I Celestini giunsero a Lecce nel 1353 per volontà del conte di Lecce e duca di Atene Gualtieri VI di Brienne e furono dotati di un consistente patrimonio immobiliare[1]. Segno tangibile del loro passaggio sono le opere leccesi di Santa Croce e del monumentale palazzo adiacente, oggi sede della Prefettura e dell’Amministrazione Provinciale. Nel 1448 i Celestini acquistarono i feudi di Carmiano e Magliano dal principe Giovanni Antonio Orsini Del Balzo, figlio della regina Maria d’Enghein, come testimonia l’atto rogato il 29 settembre di quell’anno dal notaio Adamo Argenteriis di Lecce[2].
lo stemma dei Celestini sulla facciata
  Occorre precisare che, a partire dal XV secolo, la frantumata geografia feudale in Terra d’Otranto fu caratterizzata da una marcata precarietà del possesso: tale instabilità nel mercato della terra era stata causata dal diffuso sistema della compravendita che rendeva precaria la presenza delle famiglie nobili nei vari feudi; l’investimento signorile era stato per molte casate un modo per consolidare la propria ascesa sociale oltre che lo strumento per collocare e valorizzare le fortune economiche[3]. Questo fenomeno di precarietà non toccò la feudalità ecclesiastica che non si lasciò coinvolgere dalla compravendita feudale e non rimase implicata nella crisi che aveva invece investito l’antica nobiltà laica[4]. La durata della titolarità signorile per le istituzioni religiose non ebbe alcuna interruzione temporale, terminando il suo ciclo vitale con le leggi francesi del 1806 che sancirono l’abolizione della feudalità nel Regno di Napoli; i Celestini di Santa Croce sono un esempio evidente di questa tendenza, in quanto rimasero i signori del feudo di Carmiano e Magliano sino al 1807[5].
È chiaro che, nel corso di quasi quattro secoli, tra Lecce e Carmiano venne ad instaurarsi un intreccio di rapporti molto stretto, riconducibile non solo al semplice esercizio del governo feudale ma riguardante anche la vita interna dell’istituzione religiosa.
Fig.4
  La presenza della baronia celestiniana lasciò il segno nella storia di Carmiano e Magliano non soltanto sui luoghi ma anche sul carattere e sul vissuto religioso della comunità: il monaco celestino veniva guardato sempre con rispetto e con timore in quanto da un lato celebrava gli uffici divini e dall’altro si occupava di riscuotere le decime, amministrare la giustizia e dettare le regole del comportamento civile. L’amministrazione ecclesiastica non si differenziava da quella degli altri baroni feudali tuttavia, in alcuni casi, i Celestini si dimostrarono sensibili alle necessità della popolazione, spesso infatti permisero concessioni enfiteutiche di case e terre, credito per i proprietari, affitto di beni rustici e arrendamento di introiti: ciò che veniva raccolto con le entrate feudali tornava in parte agli stessi contribuenti sotto forma di finanziamenti[6]. Effettuando un bilancio complessivo della loro permanenza feudale a Carmiano, è certamente innegabile il contributo apportato dai Padri allo sviluppo locale e alla formazione morale della comunità.
lo stemma dell’ordine religioso nell’interno della chiesa di Carmiano
  Uno dei primi obiettivi perseguiti dal monastero fu quello di far crescere l’impianto urbanistico del casale e di sostenere attivamente il popolamento del territorio, fatto che avrebbe certamente incrementato il gettito decimale. Le circostanze storiche furono favorevoli a tale iniziativa poiché la pressante minaccia turca sul litorale salentino per tutto il XV e XVI secolo favorì la concentrazione demografica verso l’interno della provincia[7]. Secondo alcuni studi, fu proprio con la presenza strutturata dei Celestini che le due comunità di Carmiano e Magliano acquistarono la piena configurazione di universitas civium, sebbene non si escluda, già nel periodo precedente, l’esistenza dei due insediamenti umani non ancora solidi perché minacciati dalla presenza dei lupi e non in grado di avviare lavori di dissodamento della foresta circostante[8].
Quando i Celestini decisero di costruire la propria residenza baronale a Carmiano scelsero una zona distante da quella del primo nucleo abitativo, stanziandosi nell’immediata periferia del paese, lungo un’importante arteria di comunicazione con la città di Lecce, la cosiddetta via dell’Osanna[9]. La scelta non fu affatto casuale poiché veniva in questo modo facilitato il trasporto delle merci come olio, grano e vino verso i depositi, inoltre la posizione era anche ideale per raggiungere facilmente la comunità di Magliano, anch’essa sotto la giurisdizione feudale dei Padri[10].
Fig.6
  Secondo alcune ipotesi, il palazzo baronale venne ampliato e rimodernato da parte dei Celestini nel corso del tempo a partire da un nucleo preesistente[11]. La facciata del monastero venne iniziata nel 1659, come dimostra un’iscrizione, oramai non più visibile, incisa sul cornicione del semiprospetto inferiore e, secondo quanto riportato da un’altra iscrizione incisa sull’estremità opposta, essa venne terminata nel 1695[12]. Molto probabilmente contribuì alla costruzione della facciata anche il famoso architetto del barocco leccese Giuseppe Zimbalo che nel 1667 era certamente a servizio dei Celestini[13].
Fig.7
  Lo Zimbalo era nato a Lecce nel 1620 da Sigismondo e Lucrezia Lecciso, forse originaria di Carmiano; grazie agli insegnamenti dello zio paterno Francesc’Antonio e di Cesare Penna, egli venne qualificato, all’età di soli diciotto anni, come «mastro scoltore di pietra» mentre lavorava già da tempo alla chiesa e al convento delle Carmelitane Scalze[14]. Giuseppe nel 1644 sposò Vittoria Indricci proprio nel casale di Carmiano dove risiedette con certezza documentaria a partire dal 1656, quando acquistò «una casa terranea scoverta, con l’uso per l’uscita alla curte sita dentro Carmiano nel luogo detto volgarmente del trappeto vecchio»[15].
Quasi sicuramente appartengono allo Zimbalo le due statue lapidee presenti nelle nicchie che affiancano il portale cinquecentesco del palazzo baronale (figg.1, 2). Nonostante l’avanzato stato di degrado delle statue e la bassa qualità della pietra utilizzata nella costruzione, è possibile evidenziare una somiglianza con le due figure dalle folte capigliature poste sulla facciata della chiesa di Santa Croce a Lecce, quest’ultima opera indubbia dello Zimbalo: si tratta delle virtù dell’Umiltà e della Sapienza, caratterizzanti l’ordine monastico dei Celestini[16]. Alla metà degli anni cinquanta del ‘600 appartengono anche l’altare maggiore, che tuttavia nella configurazione attuale mostra un certo rimaneggiamento, e il portale, entrambi appartenenti alla chiesa dell’Immacolata, il primo edificio di Carmiano in cui è possibile notare la presenza di alcuni elementi formali tipici del linguaggio zimbalesco. Gli interventi operati dallo Zimbalo in questa chiesa suburbana sono testimonianza del processo di integrazione che l’architetto visse all’interno della comunità locale. Il prestigio attribuitogli non derivava soltanto dai rapporti molto stretti che egli aveva instaurato con i “baroni” locali ma soprattutto dal ruolo di primo piano che egli aveva ormai assunto sulla scena artistica provinciale[17]. Il legame che lo Zimbalo aveva instaurato con la comunità di Carmiano rimase molto forte come testimonia un episodio del 1668: di fronte all’usurpazione di una strada pubblica da parte di due sacerdoti, si decise di ricorrere alla Regia Udienza ma, poiché l’Università di Carmiano si trovava oppressa da debiti e vessazioni, fu proprio Giuseppe Zimbalo a rendersi disponibile per il pagamento di tutte le spese a sostegno della causa fino alla sentenza definitiva[18].
Fig.8
  Per questa importante presenza dello Zimbalo a Carmiano, possiamo affermare che Palazzo dei Celestini fu anche un cenacolo culturale, all’interno del quale l’architetto attinse le grandi conoscenze teologiche e concettuali che ispirarono la sua arte barocca.
Fig.9
  Il palazzo baronale di Carmiano si erge con imponenza e questo grazie alle sue ragguardevoli dimensioni pari a 45,50 metri di lunghezza e 13 metri di altezza. Alla seconda metà del XVI secolo è riconducibile l’insegna della Santa Croce al centro del portale catalano-durazzesco: tale datazione viene ipotizzata per la presenza dei nastri laterali, utilizzati in quel periodo nella decorazione degli scudi gentilizi ecclesiastici; anche la cornice del portale è interrotta alla sommità per far posto allo stesso stemma[19] (fig. 3).
Una porta – che risulta più bassa rispetto alle altre della facciata e, dunque, presumibilmente più antica – immette all’interno di una chiesetta dedicata a San Donato, ormai spoglia del corredo religioso ma ricca ancora di un altare fregiato da stucchi e marmi di vario colore (fig. 4). All’interno di questa cappella erano precedentemente collocate due opere dei primi decenni del Seicento, attribuibili a Paolo Finoglio: La Madonna di Loreto e santi, tela dell’altare maggiore, e L’incoronazione di S. Carlo Borromeo[20].
Nell’atrio del palazzo è presente un affresco che rappresenta la glorificazione dell’ordine Benedettino: vi sono dipinti quattro tondi disposti simmetricamente e collegati a quello centrale rappresentante lo stemma della Santa Croce sorretto da due angeli; questo è sormontato da una corona reale, dal mitra e dalla pastorale e ciò indica che il palazzo era posto sotto la giurisdizione della massima autorità dei Celestini presenti in Terra d’Otranto[21] (fig. 5).
Il primo dei quattro tondi circostanti raffigura la vegliarda immagine di San Benedetto seduto sul trono abaziale e circondato dai suoi seguaci ai quali mostra il libro della Regola come l’unica strada da seguire per poter raggiungere il cielo[22]. Nell’altro tondo troviamo la raffigurazione di Santa Scolastica in abiti monacali che nella mano regge il pastorale; sopra il suo capo compare una colomba che si dirige verso il cielo e tale simbologia si riferisce ad un episodio miracoloso: San Benedetto, fratello della santa, nel momento della morte di lei vide l’anima della sorella raggiungere il paradiso sotto forma di colomba[23] (fig. 6). Nel terzo tondo campeggia una delle prime immagini raffigurate in Italia di Santa Gertrude, la quale, a differenza dell’iconografia tradizionale, non indossa gli abiti cistercensi ma è rappresentata come una monaca benedettina. In questo dipinto Santa Gertrude appare inginocchiata e con lo sguardo rivolto al cielo; accanto a lei è possibile notare un tavolino su cui poggia una clessidra e un crocifisso[24] (fig. 7). Infine, nel quarto tondo è raffigurata l’immagine di San Celestino che, in abiti pontificali, è intento a compiere il famoso e coraggioso gesto del rifiuto: il volto sembra segnato dalla sofferenza ma nello stesso tempo il gesto di allontanare la tiara pontificia mostra una grande risolutezza e forza spirituale[25]. A compensare la staticità dei medaglioni troviamo gli affreschi circostanti caratterizzati da un movimento di nastri annodati ad un anello che svolazzano nell’aria ed anche la raffigurazione dinamica di cinquantadue angeli che si affannano a tirare corde cariche di fiori e di frutta e a reggere simboli di potere, come ad esempio una corona regale (figg. 8, 9); due di questi angeli, posizionati nella lunetta interna al di sopra del portone dell’atrio, sorreggono anche un cartiglio contenente un’iscrizione latina, dove la data del 1688 indica probabilmente l’anno in cui venne affrescato l’atrio[26] (fig. 10). Il dipinto nel suo complesso vuole dimostrare la continuità tra passato e presente e nello stesso tempo esaltare la storia dell’Ordine: dalla raffigurazione dei fondatori, San Benedetto e Santa Scolastica, si passa a quella dei rinnovatori e mistici, San Celestino e Santa Gertrude, ma è la presenza della nuova comunità dei Padri Celestini a garantire la continuità con la grandezza dei vecchi tempi: la rievocazione del passato è nello stesso tempo celebrazione del presente[27].
Fig.10
  In una stanza adiacente alla cappella di San Donato compare sul muro un altro affresco che riproduce la Madonna del Riposo, conosciuta anche come Maria col Bambino dormiente, in cui il sonno del fanciullo diventa metafora della sua futura morte (fig. 11).
Nell’affresco, oggi in pessime condizioni, la figura della Madonna è profondamente umanizzata, lontana da una forma di esaltazione eroica ed idealizzante, infatti viene raffigurata come una madre qualunque che cerca di far addormentare il figlio con dolcezza[28]. Tuttavia, un velo di malinconia traspare dal suo volto: Maria tiene in braccio quel bambino come se volesse difenderlo dal mondo, proteggendolo da un destino inevitabile; lei sa bene che non potrà mai essere una madre come le altre e che quel figlio prezioso, tenuto stretto tra le braccia, non è soltanto suo ma appartiene al mondo.
Nel soggiorno, che è la stanza più danneggiata, troviamo la presenza di un camino decorato con due putti che reggono una cornice ellittica; le loro membra sembrano bloccate ma questa staticità delle figure contrasta con il fluttuante drappeggio che cade alle loro spalle[29] (fig. 12).
Fig.12
  Il chiostro, che appartiene al nucleo più recente dell’edificio, è dominato da un pozzo del XVII secolo decorato con grande fastosità barocca. Il pozzo è formato da quattro colonne sormontate ciascuna da un capitello ionico. Al di sopra dei capitelli, presi a due a due, è posizionata una balaustra scanalata in pietra leccese (figg. 13, 14).
Fig.13
  Fig.14
  Il pozzo era, inoltre, sormontato da un blocco superiore contenente due stemmi: sul lato nord quello della Santa Croce, recante la data del 1627, e sul lato sud un’insegna con tre figure – la fascia, le rose e la stella – (fig. 15); oggi il pozzo si presenta privo di tale blocco in seguito ad un furto avvenuto nel 1991. Presso il lato sud del cortile è possibile individuale la presenza di un portale, ora murato, affiancato da una colombaia a muro[30] (fig. 16).
Fig.15
  Fig.16
  Infine, il piano superiore del palazzo comprende una serie di stanze comunicanti con un ampio e luminoso salone ricoperto da stucchi eleganti che incorniciano le porte di accesso ed alcuni riquadri ormai spogli di tele (fig. 17).
Fig. 17
  Come accennato precedentemente, i Padri Celestini furono spodestati del loro feudo nel 1807 e alcuni di loro trovarono ospitalità a Carmiano nella dimora attigua alla chiesa dell’Immacolata, dove vissero in eremitaggio. Alla loro morte furono sepolti nella stessa chiesa, dove esistono ancora le loro tombe[31].
Con la fine della feudalità si svilupparono nuove forme contrattuali di conduzione della terra ed ebbe avvio la diffusione della piccola proprietà contadina che contribuì alla crescita economica e sociale della popolazione[32]. A Carmiano la presenza dei monaci aveva anche inciso sull’indole della cittadinanza, alimentando la diffusione di sentimenti come rassegnazione distaccata e accettazione apatica della realtà: la fine della feudalità contribuì a scuotere la popolazione, risvegliando le coscienze e indirizzandole al raggiungimento di nuovi traguardi di libertà[33].
In seguito alla cacciata dei Celestini e alla soppressione degli ordini religiosi possidenti e mendicanti[34], il palazzo baronale seguì il destino dei feudi di Carmiano e Magliano che, in un primo momento, vennero affittati a privati per poi essere messi in vendita con un’asta pubblica.
Il palazzo venne acquistato nel 1832 da Luigi Giusso, negoziante di origini genovesi che domiciliava a Napoli, per poi essere venduto alla fine del’800 alla famiglia Foscarini che lo utilizzò come residenza fino ai primi anni del ‘900, modificandone sensibilmente gli ambienti nel corso del tempo[35]. Infine, il palazzo venne acquistato nel 1931 dalla famiglia Portaccio di Lecce che riunificò lo stabile, adibendolo a locale di essicazione e di deposito di tabacco[36] (fig. 18).
Fig.18
  Non era insolito che locali di grandi dimensioni, appartenuti agli ordini religiosi soppressi, vedessero cambiare la loro destinazione d’uso originaria: anche i conventi di San Domenico intra moenia ed extra moenia di Lecce, ad esempio, vennero riutilizzati, il primo, come Regia Manifattura dei Tabacchi e, il secondo, come mattatoio, poi come stabilimento vinicolo ed infine come Consorzio Agrario provinciale[37].
La prima licenza di coltivazione del tabacco fu rilasciata ai coniugi Portaccio nel 1929 quando l’ex palazzo baronale divenne “magazzino generale”, all’interno del quale avvenivano tutte le diverse fasi di produzione del tabacco. Come scrive Antonio Monte:
Fig.19
  Negli 11 ambienti del piano terra erano ubicati la caldaia, i depositi delle casse e del tabacco sciolto, il vano scala e il monta carichi; nei 23 vani del primo piano vi erano le stufe, i depositi delle casse, del tabacco in colli e degli attrezzi, gli spogliatoi, la sala di allattamento, la caldaia della stufa a legna, le latrine, il vano scala e il monta carichi. Mentre nella nuova costruzione di recente realizzazione, collocata al secondo piano, erano ubicati un grande ambiente dove avveniva la lavorazione delle foglie, il corpo scala e il monta carichi[38].
Fig.20
  Nel magazzino lavoravano circa 130 persone tra tabacchine e operai che seguivano il seguente orario di lavoro giornaliero: dalle 7.30 alle 15.30 nel periodo invernale e dalle 7.00 alle 15.00 durante il periodo estivo[39]. In quelle stesse stanze affrescate che un tempo avevano ospitato abati ed artisti, era possibile ora sentire l’odore acre del tabacco che rendeva amare le mani infaticabili delle lavoratrici. Molto probabilmente quegli ambienti – dove erano echeggiati, nel corso dei secoli, gli inni sommessi degli abati, le discussioni importanti di amministratori ed intellettuali, ma anche i segreti di giovani contesse – venivano adesso riempiti col fruscio logorante delle foglie di tabacco e con il canto disperato delle tabacchine. Costoro ebbero una funzione fondamentale nel processo di emancipazione della donna, affermandosi come ceto sociale produttivo nel corso del Novecento: il loro ruolo era duplice poiché si occupavano sia di produrre ricchezza per l’intera società salentina, in quanto il tabacco levantino era destinato al mercato mondiale, sia di procurare risorse per la sopravvivenza della propria famiglia. Tuttavia, a Carmiano, come nel resto del Salento, il lavoro delle tabacchine restava un lavoro stagionale mal pagato.
Il magazzino di Carmiano rimase attivo fino al 1974-75 quando finì la lavorazione e lo stabile chiuse definitivamente. In questo periodo vennero apportate delle modifiche architettoniche che servirono ad adattare l’ex residenza baronale dei Celestini ad una fabbrica di tabacco[40]. Ancora oggi all’interno dell’edificio è possibile notare la presenza di macchine ed attrezzature per la lavorazione del tabacco che necessiterebbero di essere pulite e restaurate in quanto rappresentano un’importante documentazione di storia locale (figg. 19, 20). Nel 1991 il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali dichiarò l’immobile d’interesse particolarmente importante ai fini della Legge n.1089 (1° giugno 1938), per via dell’attività produttiva che era stata svolta al suo interno per oltre cinquant’anni[41].
  Come abbiamo dimostrato attraverso questa breve trattazione, il palazzo baronale è stato nel corso dei secoli un luogo centrale per la comunità di Carmiano: durante la baronia celestiniana rappresentò il luogo cardine dell’amministrazione feudale e fu anche cenacolo culturale di grande rilievo, soprattutto per la presenza di intellettuali e artisti del calibro di Giuseppe Zimbalo; successivamente assunse un notevole ruolo socio-economico, diventando la fabbrica di tabacco più importante del paese e radunando al suo interno un grande numero di operai e tabacchine. Questo palazzo, dunque, ha accompagnato la nascita e lo sviluppo di una comunità, partecipando al destino amaro della sua popolazione e diventando espressione di un cammino faticoso e contraddittorio verso il presente.
Di fronte a queste certezze storiche e constatando l’attuale stato di abbandono e decadenza in cui versa Palazzo dei Celestini, vogliamo oggi interrogarci provocatoriamente sul futuro: questo luogo può ancora essere un centro di aggregazione sociale e culturale attorno a cui radunare la comunità? La risposta a questa domanda dipende soltanto dalle scelte che avremo il coraggio di compiere.
Oggi la ristrutturazione di questo luogo è quanto mai urgente e necessaria: senza un intervento tempestivo, le tracce della storia di una comunità saranno smarrite per sempre. Non si tratta di perdere semplicemente un pezzo importante della nostra memoria, il rischio è quello di sprecare un’opportunità sociale, economica e culturale per le generazioni future.
Gli affreschi di un palazzo, l’odore del tabacco, il legame con l’evoluzione artistica del barocco leccese sono tutti frammenti organici di una stessa storia che le nostre coscienze civili non potranno continuare a rinnegare per lungo tempo.
From roots to routes: sta a noi adesso scegliere la rotta giusta.
Appendice fotografica
  Bibliografia
A. Caputo, Il ciclo di vita di una baronia ecclesiastica, I, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008.
M. Cazzato, L’abate e l’architetto. Giuseppe Zimbalo (1620-1710) e i Celestini di S. Croce tra Lecce e Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità salentina in epoca moderna. Carmiano tra XV e XIX secolo, Galatina (Le), Congedo editore, 1991, pp. 313-334.
M. De Luca, Il Palazzo dei Celestini a Carmiano: un’emergenza architettonica in disuso, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 77-91.
S. Macchia, Sul sito del Palazzo baronale dei Celestini, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 63-76.
A.Monte, Tra storia feudale e archeologia industriale. Il Palazzo-fabbrica per la lavorazione del tabacco, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 137-148.
A.R. Pati, Le epigrafi latine di Carmiano, Tipografia Schirinzi, Carmiano, 2005.
G.Paticchia, Carmiano e Magliano. Compendio di storia patria, Galatina (Le), Libri Mitos, 2000.
M. Spedicato, Feudalità, crisi finanziaria e potere locale a Carmiano tra XVI e XVIII secolo, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità salentina in epoca moderna. Carmiano tra XV e XIX secolo, Galatina (Le), Congedo editore, 1991, pp. 97-122.
M. Spedicato, La signoria dei Celestini di S. Croce di Lecce nel feudo di Carmiano e Magliano (secc. XV-XIX), in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 19-61.
R. Trianni, Da residenza baronale a luogo di produzione. La storia di Palazzo dei Celestini dalla soppressione napoleonica ai primi del ‘900, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 93-136.
A. Vetrugno, L’arte in «Regola». Il programma iconografico del Palazzo dei Celestini di Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 155-174.
  La maggior parte delle foto in appendice è stata gentilmente messa a disposizione da Antonio Vadacca.
Note
[1] A. Caputo, Il ciclo di vita di una baronia ecclesiastica, I, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, p. 13.
[2] Ivi, p. 103. Tuttavia, di questo atto, segnalato solo all’inizio del XVII secolo, non è stata ancora trovata alcuna traccia: in mancanza di documenti certi, è lecito presumere che non si trattò di un vero e proprio acquisto ma di una forma surrettizia di donazione effettuata in merito ad accordi precedenti e/o per disposizione di Maria d’Enghein. Cfr. M. Spedicato, La signoria dei Celestini di S. Croce di Lecce nel feudo di Carmiano e Magliano (secc. XV-XIX), in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce…cit., p. 26.
[3] A. Caputo, op. cit., pp. 9-10.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, pp. 155-157.
[7] M. Spedicato, Feudalità, crisi finanziaria e potere locale a Carmiano tra XVI e XVIII secolo, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità salentina in epoca moderna. Carmiano tra XV e XIX secolo, Galatina (Le), Congedo editore, 1991, p. 98.
[8] M. Spedicato, La signoria dei Celestini di S. Croce…cit., pp. 19, 25.
[9] M. Spedicato, Feudalità, crisi finanziaria…cit., p. 104.
[10] S. Macchia, Sul sito del Palazzo baronale dei Celestini, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p.70.
[11] M. De Luca, Il Palazzo dei Celestini a Carmiano: un’emergenza architettonica in disuso, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p. 77.
[12] M. Cazzato, L’abate e l’architetto. Giuseppe Zimbalo (1620-1710) e i Celestini di S. Croce tra Lecce e Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità…cit., p. 323.
[13] Ibidem.
[14] Ivi, p. 313.
[15] Ivi, p. 318.
[16] Ivi, pp. 324-325.
[17] Ibidem.
[18] Ivi, p. 327.
[19] M. De Luca, op. cit., p. 81.
[20] Ivi, pp. 84-85.
[21] Ibidem. Bisogna anche ricordare che questo palazzo godeva dell’immunità ecclesiastica: chiunque fosse ospitato in esso passava sotto la tutela dell’abate di S. Croce.
[22] A. R. Pati, Le epigrafi latine di Carmiano, Tipografia Schirinzi, Carmiano, 2005, pp. 49-53.
[23] M. De Luca, op. cit., pp. 86-88.
[24] Ibidem.
[25] Ibidem.
[26] M. Cazzato, op. cit., p. 323.
[27] P. A. Vetrugno, L’arte in «Regola». Il programma iconografico del Palazzo dei Celestini di Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p. 166.
[28] Ivi, p. 165.
[29] M. De Luca, op. cit., p. 83.
[30] Ivi, p. 84.
[31] G. Paticchia, Carmiano e Magliano. Compendio di storia patria, Galatina (Le), Libri Mitos, 2000, p. 40.
[32] A. Caputo, op. cit., pp.155-157.
[33] Ibidem.
[34] La soppressione degli ordini religiosi nel Regno di Napoli avvenne ad opera di Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat con ripetuti decreti, il primo emesso il 2 luglio 1806, poi il 13 febbraio 1807, il 12 gennaio 1808 fino a quello del 7 agosto 1809. Cfr. A. R. Trianni, Da residenza baronale a luogo di produzione. La storia di Palazzo dei Celestini dalla soppressione napoleonica ai primi del ‘900, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p. 93.
[35] Ivi, passim.
[36] Ivi, pp. 104-105.
[37] A. Monte, Tra storia feudale e archeologia industriale. Il Palazzo-fabbrica per la lavorazione del tabacco, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., pp. 146-147.
[38] Ibidem.
[39] Ibidem.
[40] Ibidem.
[41] Ivi, p. 148.
Qui il link per poter votare Palazzo dei Celestini sul sito del Fai: https://www.fondoambiente.it/luoghi/palazzo-celestini?ldc
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La storia delle api di Maja Lunde
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Le api ronzavano ancora in me. E le sue parole, le sue parole avevano liberato le parole che avevo dentro di me.
“La Storia delle api” è il primo romanzo per adulti della scrittrice norvegese Maja Lunde, edito in Italia per Marsilio editori. Oramai chi mi segue da tempo sa che ho una leggerissima ossessione per i libri che parlano di api e anche questo non fa eccezione, è un racconto straordinario che lega epoche diverse in un passaggio avvincente e incredibilmente ben costruito, che pone l’attenzione su tante problematiche che affliggono la società moderna e che potrebbero distruggere il mondo così come lo conosciamo. Un lucido disegno di un mondo distopico fin troppo reale.
Tra passato presente e futuro, legate dal progetto di un rivoluzionario modello di alveare, le vicende di William, biologo inglese vissuto a metà dell'Ottocento, di George, apicoltore dell'Ohio che si affida alla tradizione per contrastare la misteriosa moria del 2007, e di Tao, giovane madre che, in un futuro non molto lontano, si dedica all'impollinazione manuale in una Cina dove le api e i colori sono ormai scomparsi, ripercorrono il rapporto tra l'uomo e la natura nel corso del tempo. Dall'Europa all'America, quel plico di preziosi disegni, racchiuso in un baule al seguito di una donna sola e appassionata, attraversa terre e secoli con il suo bagaglio di invenzioni e regole, depositario di una conoscenza, e di una speranza, da affidare alle generazioni che verranno. Custode di un sogno che deve diventare tale per tutti noi. "La storia delle api" è un romanzo epico nel quale, accanto al tema dell'equilibrio ambientale, sono i sentimenti che realmente muovono la nostra vita a determinare l'azione. L'amore soprattutto: per il coniuge, per i figli per cui desideriamo solo il meglio, per la scienza, per la propria passione.
Quella delle api è una società di stampo matriarcale, che dalla regina prosegue in linea gerarchica fino all’ultima delle api operaie. Non c’è spazio per le scansafatiche, ogni insetto alato ha il suo ruolo in uno spazio contenuto, un compito che sommato a quelli delle altre definisce le linee guida per la sopravvivenza di tutto l’alveare. È questo che mi ha sempre colpito delle api, quell’indissolubile certezza che si tratta di un gruppo compatto. Sentinelle del nostro ecosistema, le api riecheggiano un’alleanza indistruttibile, che rifugge anche le regole della nostra convivenza civile. Quello che più mi ha colpito del libro della Lunde è stata la sua capacità di prendere tre storie completamente diverse, per luogo geografico e periodo storico e impiantarle in un intreccio ben costruito e un’evoluzione inesorabile ma straordinaria. I tre personaggi William, George e Tao, infatti, sono collegati nello spazio e nel tempo da questi insetti meravigliosi, e vivono quasi in simbiosi alternando la loro vita quotidiana in un contesto più ampio, che coinvolge aspetti imprevisti e meravigliosi. E se da un lato abbiamo William, un naturalista inglese di fine ottocento, dall’altra abbiamo George un apicoltore americano degli anni 2000 e infine Tao una giovane madre lavoratrice nella Cina del futuro. Il fil rouge sono le api che proprio nei primi anni del secondo millennio hanno iniziato a subire una moria tanto inaspettata quanto incontrastabile. William è un uomo prostrato dai moti di rifiuto di un professore che non comprende il suo bisogno di mettere radici, un uomo che cerca per tutta una vita una passione tanto forte da superare il suo bisogno di fermarsi, immobile, a digerire le disfatte. È uno di quelli che cerca per una vita di trovare qualcosa di nuovo, diverso, unico e alla fine finisce per essere un disadattato compreso solo dalla figlia, in un perenne ciclo depressivo e disfattista. Dall’altro lato George è un uomo convinto che la sua salvezza sia nelle api, nel suo lavoro, nel podere in cui ha investito sudore e fatica. Convinto di lasciarlo in eredità al figlio Tom, è un uomo serio, dedito al suo lavoro, incapace di abbandonare la sua terra anche quando le cose si fanno difficili, anche quando sembra tutto perduto, anche quando non c’è molto spazio per errori o dimenticanze. George si abbatte ma in fondo non vuole arrendersi, nonostante le parole della moglie e del figlio. Quando l’attacco lo investe continua stoicamente ad andare avanti. Ed è questa contrapposizione tra forza e debolezza, convinzione e paura, che rendono George un personaggio reale, con i contorni amplificati a 180 gradi. E dall’altra parte della linea temporale compare Tao, con le sue fragilità di madre, le ossa spaccate dal lavoro manuale, la vita spartana, e un intelletto vivace e trascurato per colpa delle condizioni di povertà e insicurezza in cui versa la sua vita. Tao che vorrebbe solo il meglio per suo figlio e si ritrova per le mani un mistero che non avrebbe mai immaginato. Ma le rivoluzioni arrivano quando meno te lo aspetti ancorate a movimenti istintivi e trascurabili della propria vita. Ogni passo in avanti, ogni scoperta avviene alle spese di chi non ha mezzi per difendersi, ma anche se la vita è grama, ogni essere umano può diventare la spinta per migliorare, per modificare i pattern che hanno condotto alla disfatta.
L’ambientazione, diversificata e stratificata, è assolutamente meravigliosa, i luoghi, l’Inghilterra di tardo ottocento, l’Ohio e i campi di mirtilli degli anni duemila e la Cina futuristica, rappresentano le infinite declinazioni di una vita che non si ferma, ma arriva a sconvolgere le esistenze comuni di gente che cerca di sopravvivere.
 Il particolare da non dimenticare? Un barattolo di susine…
 Il meraviglioso intreccio di tre vite, indissolubilmente legate dal fil rouge delle api e della vita, in un racconto organico e variopinto, che esce dagli schemi e urla la premura di non distruggere un ecosistema e un mondo con l’avventatezza di migliaia di piccoli gesti. Un mondo fugace e irresistibile, che non è solo intrattenimento, ma anche monito, per una storia vividissima e indimenticabile.
Buona lettura guys!
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