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Sciopero dei metalmeccanici ad Alessandria: protesta per il rinnovo del CCNL
La tensione tra i sindacati e le associazioni datoriali cresce a causa dell’impasse nelle trattative per il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) metalmeccanico industria.
La tensione tra i sindacati e le associazioni datoriali cresce a causa dell’impasse nelle trattative per il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) metalmeccanico industria. Dopo mesi di negoziati infruttuosi, Fim, Fiom e Uilm di Alessandria hanno annunciato otto ore di sciopero per il 21 febbraio 2025, coinvolgendo tutte le realtà lavorative che applicano il contratto. Le…
#Alessandria economia#Alessandria sciopero#Alessandria today#Assistal#aumento stipendi#azioni sindacali#condizioni di lavoro#conflitto lavoro#contrattazione CCNL#contrattazione collettiva#contratto collettivo metalmeccanico#Crisi Occupazionale#crisi occupazione#crisi sindacale#diritti dei lavoratori#Federmeccanica#Fim Fiom Uilm#Google News#industria metalmeccanica#industria pesante#italianewsmedia.com#lavoratori metalmeccanici#lotta per i diritti#lotta sindacale#manifestazioni lavoratori#metalmeccanici Italia#mobilitazione nazionale#Pier Carlo Lava#politiche del lavoro#protesta lavoratori
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L'universo morale che anima e sorregge Sparta, la nozione di libertà in cui Sparta si riconosce non è quella ordinaria della modernità. La città è un mondo conchiuso, una terra murata preclusa allo straniero, estranea allo straniero. Le essenze sono due: quella della città e quella dello straniero. E due debbono rimanere, le essenze, senza incrociarsi e senza scambiarsi. Solo i beni materiali possono scambiarsi. Il commercio è appunto uno scambio di beni e basta. Ma i beni, grandezze economiche, per il fatto di scambiarsi, non diventano imperativi morali, non comandano la Grandezza, il Bene. Se le esportazioni calano, si compra di meno all'estero, ci si contiene mangiando quel che Sparta produce - tutto qui. chiuso il discorso. La produzione è utile in quanto dia forza alla città: priorità della industria pesante, quindi. Le altre produzioni, quelle destinate al solo benessere dei vincenti, non sono fondamentali, risultano accessorie, complementari. #μολὼνλαβέ #economia
#classicismo #europa #classico #warriors #geopolotic #history #egemonia #robertonicolettiballatibonaffini #sparta
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Aumento dei prezzi al consumo e calo della produzione industriale
Produzione industriale, crollo ad aprile 2023, strage in alcuni settori. Crolla l’industria italiana, a rischio questi materiali. L'Istat certifica il calo nella produzione italiana ad aprile 2023, calo che va avanti da mesi, e in alcuni settori si registra un vero e proprio tracollo.Crolla la produzione industriale in Italia: ad aprile l’Istat certifica un calo di 1,9 punti percentuali sul mese precedente. Si tratta di un trend costante dal momento che a marzo, febbraio e gennaio si era registrato, rispettivamente, -0,6%, -0,2% e -0,7%. Il dato è una doccia fredda per chi aveva acceso i suoi entusiasmi considerando esclusivamente la crescita italiana in rapporto alla media europea. L’economia italiana dopo il Covid-19 La realtà è che il tessuto economico italiano è uscito ammaccato dalle recenti restrizioni della pandemia. E gli effetti delle sanzioni contro la Russia stanno manifestando contraccolpi anche sull’economia del Bel Paese.

Cala la produzione industriale ad aprile 2023, con alcuni settori in picchiata L’aumento verticale delle bollette ha sensibilmente ridotto la capacità di spesa delle famiglie italiane. Fatto che, come in un effetto domino, ha spinto al ribasso la domanda di beni e servizi colpendo le aziende e i professionisti. E l’inflazione al galoppo ha prodotto un taglio generalizzato al valore del denaro nelle tasche degli italiani. Ma l’aumento del costo dell’energia ha colpito direttamente le aziende, mandandone molte fuori mercato e costringendone altre a rivedere al ribasso le proprie stime. Produzione industriale: crollo ad aprile 2023 Quella di aprile è la flessione più pesante registrata dal luglio 2020, cioè da quando i lockdown hanno affossato l’economia. L’indice destagionalizzato mensile segna diminuzioni congiunturali in tutti i comparti: - beni intermedi (quelli utilizzati per produrre altri beni): -2,6% - beni strumentali (quelli utilizzati da aziende e professionisti per svolgere la propria attività): -2,1% - beni di consumo (quelli acquistati direttamente dai cittadini): -0,4% - energia: -0,3% La situazione appare in tutta la sua gravità se si osserva l’indice complessivo: - beni intermedi: -11,0% - beni strumentali: -0,2% - beni di consumo: -7,3% - energia: -12,6% Lo stato dell’industria italiana oggi L’indice generale nel comparto manifatturiero vede un calo del 7,2%. Andando a vedere voce per voce si scopre che mentre crescono alcuni settori produttivi, ce ne sono altri che sprofondano. Crescono la fabbricazione di mezzi di trasporto (+5,7%), la fabbricazione di coke (una tipologia di carbone artificiale) e prodotti petroliferi raffinati (+2,1%) e la produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (+0,6%). Calo per tutta una serie di comparti produttivi, che nei casi più gravi si traduce in un vero e proprio tracollo: - industria del legno, della carta e della stampa: -17,2% - fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria: -13,6% - metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo -10,9% - prodotti chimici: -10,9% - apparecchiature elettriche e non: -9,7% - attività estrattive: -9,7% - articoli in gomma, materie plastiche, minerali non metalliferi: -8,9% - industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori: -8,6% - attività manifatturiere: -6,7% - industrie alimentari, bevande e tabacco: -5,6% - altre industrie: -4,2% - computer ed elettronica: -2,9% - fabbricazione macchinari e attrezzature n.c.a. -1,6% Per approfondire si rimanda al report Istat sulla Produzione industriale ad aprile 2023 e relativi allegati. Ma se il settore della produzione manifatturiera piange, il settore del commercio non ride: nelle vendite al dettaglio le stime preliminari Istat di aprile indicano un aumento del +0,2% in valore e un calo del -0,2% in volume rispetto al mese precedente, mentre su base annua c’è una diminuzione del -3,2% in valore e del -4,8% in volume. Secondo l’Ufficio Studi Confcommercio “la debolezza dei consumi testimonia i molti problemi dello scenario economico”. Read the full article
#Confcommercio#EconomiaInternazionale#economiaitaliana#guerraucraina#postpandemia#prodottipetroliferi#produzioneindustriale#unioneEuropea#’industriaitaliana
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In questi giorni di tensioni internazionali altissime, si richiama più volte la via diplomatica alla risoluzione delle tensioni al confine ucraino. Diplomazia deriva da diploma, un foglio di carta piegato a due (dal greco diploos, doppio) che attestava la legittimazione dell’ambasciatore al sovrano.
Mark Kurlansky è un giornalista e scrittore americano dell’International Herald Tribune. Ha scritto dei libri molto singolari sul sale (Sale. Una Biografia, Rizzoli 2003), sul 1968, sulla non violenza, e uno sul merluzzo (Il Merluzzo. Storia del pesce che ha cambiato il mondo, Mondadori 1999) bestseller internazionale tradotto in decine di lingue.
Quello che ho letto io si lega alla diplomazia, perchè racconta, con dovizia di particolari e in modo molto suggestivo, la storia della carta. Kurlansky parte da un concetto semplice: la tecnologia è un’applicazione pratica di una conoscenza, ma non è essa stessa che forma la società, è la società che sviluppa una tecnologia per affrontare dei cambiamenti, in risposta ad una esigenza. La carta nasce in Cina, non si sa bene quando, ma nel 2 secolo a.C. i cinesi erano già padroni di tecnologie e tecniche per produrne in grande quantità: ma la carta in Cina era usata per lo più per imballare le cose, un po’ per esigenze pratiche un po’ perchè la scrittura cinese mal si prestava all’uso di un supporto leggero, economico per scriverci i laboriosi ed affascinanti caratteri. Di lì è un susseguirsi di leggende: monaci buddhisti la portano in Giappone, i giapponesi ne diventeranno maestri, tanto che la tecnica della carta washi, fatta a mano con le stesse tecniche millenarie, è patrimonio dell’Umanità (sebbene ne siano sempre meno i capaci a produrla); dei mercanti arabi fanno prigionieri dei monaci, che tramandano le tecniche, gli arabi la esportano in tutto il Mediterraneo, e per centinaia di anni ne sono esclusivi padroni. Nel 1200, Ancona è sotto assedio dei saraceni, che si stabiliscono in accampamento a Fabriano: lì insegnano ai cittadini le tecniche per la preparazione della carta, dagli stracci di lino e cotone dei vestiti, e i fabrianesi ben presto inventeranno il maglio idraulico per rendere polpa le fibre, la filigrana sulla carta, usata ancora adesso, e la risma, che anche all’epoca era di 500 fogli. In un susseguirsi meraviglioso, la carta entra come protagonista nelle riforme filosofiche e politiche: la Riforma Luterana e la Controriforma Romana fu la prima battaglia ideologica giocata anche sulla diffusione della carta, gli Illuministi stampano l’Enciclopedia sulla carta istituzionalizzando la diffusione del sapere sul mezzo scritto rispetto all’oralità, la carta è uno dei settori trainanti della rivoluzione industriale, prima come utilizzatrice degli scarti tessili, dopo, con la nascita dell’Industria pesante, come industria dei giornali, dei libri, del divertimento. Senza contare che fino alla seconda guerra mondiale metà delle cartucce militari erano fatte di carta. E per la carta sono iniziate le battaglie sulla salvaguardia dell’ambiente (per l’uso del legname come fonte primaria e dei residui chimici delle lavorazioni sversate nei fiumi). Si scopre in questo saggio che praticamente quasi ogni cosa che conosciamo ha avuto a che fare con la carta, e nell’era ipertecnologica ci sono ancora settori inscalfibili per la carta: ancora oggi non c’è nessun sostituito alla carta per le fotocopie che faccia breccia sul mercato, e il tentativo a metà riuscito dell’e-book di sostituire il libro ha frenato molti all’introduzione di qualcosa che sostituisca la carta. Kurlansky percorre la storia della civiltà attraverso le tecniche, le abitudini, le innovazioni che sono legate a questo bianco amico della nostra vita, che ci accompagna nei momenti più svariati.
Leonardo da Vinci ha lasciato poche opere pittoriche, ma migliaia su fogli di carta. Tra l’altro la carta usata da Leonardo è ancora perfetta, in quanto essendo fatta da stracci non ha lignina, che nei fogli più moderni tende a rendere i fogli più scuri (ed è il motivo per cui la carta per centinaia di anni è candeggiata, sia per renderla bianca sia per eliminare la lignina). Il suo autoritratto più famoso è su carta. A ricordarci la grandiosità di un oggetto semplice, ma essenziale nella storia dell’umanità.

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Minime - Giovanni De Mauro - Internazionale
Bezos ha un patrimonio di 186 miliardi di dollari. È l’uomo più ricco del mondo, ed è così ricco che se oggi regalasse 105mila dollari a ogni dipendente, il suo patrimonio personale sarebbe comunque uguale a quello che aveva a metà marzo. Amazon è cresciuta molto nei mesi della pandemia, approfittando dei lockdown e delle chiusure dei negozi in tutto il mondo. Nel terzo trimestre del 2020 ha triplicato l’utile rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
E per far fronte alla crescita, in dieci mesi ha assunto 427.300 nuovi dipendenti, arrivando ad averne in tutto il mondo 1,2 milioni, quasi quanti gli abitanti di Milano. La rapidità dell’aumento non ha precedenti nella storia degli Stati Uniti e l’unico paragone possibile è con la crescita occupazionale dell’intera industria pesante durante la seconda guerra mondiale.
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Come un’irruzione del vero
Un mercoledì pomeriggio di marzo si passa per strade secondarie dove, ai lati, si annidano magazzini gestiti da cinesi e giace una parte di quella media industria di provincia ormai in disuso. La sede di T.M. prese fuoco all’incirca un anno fa: nel suo abbandono trovò posto qualche senzatetto o tossicodipendente che non seppe gestire il falò pensato per scaldarsi, così si dice. Fu una perturbazione di vasta portata sulla vita di questi territori fatti di finta immutabilità. Molto tempo prima del disastro il negozio interno di tessuti a prezzi popolari era frequentato da tanti residenti nella cittadina, un negozio silenzioso, tutto sviluppato in lunghezza; in una stretta ed allegra pazzia erano impilati colori e motivi da arruffare o disseppellire.
Tra una carrozzeria efficientissima ed una fabbrica arsa, un’agenzia “VENDE CAPANNONE COMMERCIALE”, come si legge sui cartelli aggrappati alle recinzioni metalliche, da anni. Si raggiunge un incrocio e, proseguendo dritti, ma rivolgendo lo sguardo verso destra, è possibile notare una grande pozza d’acqua che segna l’asfalto e discende poco più in là: probabilmente un tubo rotto, trascurato da non si sa quando. A vigilare sulla scena del glicine che contorna l’ingresso di un’azienda. Vigilare: le telecamere a circuito chiuso di tante imprese riprenderanno in prevalenza il nulla, in parte il transito di automobili, furgoni e camion impolverati, l’andirivieni di dirigenti e dipendenti, lo sfrecciare di un ciclista, la corsa di un atleta o il passaggio di un camminatore che punta verso la vegetazione ammassata laggiù, ai bordi dell’area industriale; il bosco è come se si trovasse in una fotografia sottoesposta e dalla luce calda: dal principiare della primavera ci separa soltanto il corso semivuoto, per ora, di una strada. Battiti.
In fondo alla via, al pianoterra di un piccolo e vecchio condominio, si trova un bar con giardino dov’è possibile accomodarsi su sedie di plastica, protetti dal sole da alcuni ombrelloni sbiaditi ed un po’ sporchi. Il locale è frequentato principalmente dagli stessi condomini e dagli operai attivi in zona ed offre un servizio impeccabile. Dentro un lavoratore mima, esasperando il movimento di braccia e mani nell’aria, le mosse compiute con la fresatrice il giorno prima, secondo quanto sostiene, puntando lo sguardo su un amico che ride forte. Dietro le vetrate del locale si recita il lavoro, ad inizio oppure a fine giornata. O nelle pause. Si diventa gli attrezzi usati. La proprietaria avrà visto molti di questi spettacoli, più o meno seri, più o meno comici, talvolta costellati da qualche bestemmia e spesso marchiati da un ampio raggio di luce che irrompe dai vetri. È il loro palco. E la loro balera. La radio trasmette un tormentone. Un terzo avventore accenna dei passi di danza, pesante e goffa nelle scarpe antinfortunistiche che appaiono logore e macchiate dalle sostanze più diverse, una danza limitatissima nello spazio. Sì, è come ballare nel negozio della T.M., con altro fuoco. (2023) © Devis Bergantin
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Guide turistiche, passi avanti per la riforma della professione
Approvata al Senato la risoluzione sull’affare assegnato in tema di sostegno del turismo. Migliosi (presidente ConfGuide): “Stiamo andando nella giusta direzione”
In data 14 Aprile la 10ª Commissione permanente (Industria, commercio, turismo) al Senato, ha approvato la risoluzione “Affare sui sistemi di sostegno e di promozione dei servizi turistici e le filiere produttive associate alla valorizzazione del territorio (n.401)”. La risoluzione è composta da 16 punti che affrontano la pesante crisi che il mondo del turismo sta vivendo a causa dell’emergenza…

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L’incidente della YH in Corea del Sud
La Repubblica di Corea (da qui, Corea del Sud) è una delle potenze economiche asiatiche insieme a Cina, India e Giappone. Tuttavia, pochi conoscono la storia del movimento operaio sudcoreano, formato da quelle persone che hanno pagato con la propria vita per il profitto di cui ora si vanta il Paese.
Il motto dei padroni sudcoreani era “oppressione e sfruttamento” e le prime vittime di queste parole sono state le donne lavoratrici. La rapida crescita della Corea del Sud vedeva da una parte le entrate economiche basate sull’export più che sul consumo dei prodotti interno al Paese, e dall’altra parte – affinché questa crescita fosse possibile – lo sfruttamento, la mancanza di diritti basilari per i lavoratori – in particolare delle donne, che fornendo da sempre lavoro prolungato a basso costo, con salari da fame, compensavano per la competitività internazionale della Corea.
Non c’è quindi da stupirsi che siano state proprio le lavoratrici negli anni ’70 ad organizzare il movimento operaio femminile – e forse non facciamo un errore a dire che siano state proprio loro le radici dalle quali è cresciuta l’organizzazione del movimento operaio sudcoreano e il movimento per la democrazia.
Uno degli esempi più noti in Corea del Sud della lotta operaia femminile lo troviamo nella vicenda conosciuta come “Incidente della YH”.

La YH Trading Company Ltd era una fabbrica di parrucche fondata nel 1966 da Jang Yong-ho (dal quale prendeva il nome), iniziata con soli 10 lavoratori e un capitale di un milione di won (760 euro odierni circa). In soli quattro anni, nel 1970, divenne una compagnia di 4.000 lavoratori. Avvantaggiata dal boom di richiesta di parrucche e dalle politiche orientate sull’export del governo dittatoriale di Park, questa fama e crescita conseguite dalla compagnia si devono però al sudore e ai sacrifici delle operaie, che costituivano la maggioranza della forza lavoro nell’azienda (circa il 90% del totale).
Nel Settembre dello stesso anno, Jang Yong-ho nominò presidente della YH suo cognato Jin Dong-hee, in quanto i suoi progetti stavano diventando sempre più ambiziosi – a discapito, ovviamente, delle proprie dipendenti.
Tre anni dopo, nel 1973 Jang Yong-ho rubò una somma dell’ammontare di un miliardo di won (761.058 euro circa) e volò negli Stati Uniti per inaugurare la sede americana della compagnia, lasciando quella originale nelle mani di Jin, la cui competenza nel gestirla era poca. Infatti, la compagnia vide i propri debiti aumentare e fu costretta a ridurre il numero delle lavoratrici, iniziando la sua rapida caduta solo due anni dopo.
Tutto ciò gravava sulle spalle delle donne a contratto sotto l’azienda, che ricevevano i loro stipendi a tempo, quindi pagate secondo i risultati del loro lavoro in un certo numero di ore. In base a questo contratto, non potevano ricevere alcuno stipendio senza lavoro svolto.
Dopo uno sciopero nel Marzo 1975 represso dalla polizia, le lavoratrici si ritrovavano avvilite e disperate, e sentivano la necessità di un sindacato per fermare quei poliziotti che insistevano che la loro azione collettiva – considerata un crimine contro la nazione e la società – violasse la legge, minacciandole e spaventandole.
A Maggio del 1975, il sindacato della YH era finalmente fondato, nonostante la compagnia tentasse di instaurare un sindacato dominato dalla stessa e continuasse a disturbare l’istituzione del sindacato democratico, all’interno del quale le leader effettuavano diverse attività, come l’educazione delle altre lavoratrici e l’organizzazione dei laboratori.
Nel suo diario – rispettivamente nel Maggio ’78 e nel Marzo ’79 – la sindacalista ventenne Kim Kyeong-sook scriveva:
“Si deve combattere attraverso la discussione. Unità, diritto, solidarietà, lotta, critica. Bisogna costruire un movimento operaio.”
“Non bisogna vederlo solo come un movimento di parola, bisogna guardarlo come movimento d'azione.”
Già dopo sette mesi, le lavoratrici ricevettero il 50% di bonus, il primo frutto delle lotte del sindacato della YH guadagnato per la prima volta dalla creazione della compagnia.
In merito, si espresse la presidentessa del sindacato Choi Soon-young:
“Chiedevamo di provvedere alle condizioni basilari stipulate dalla Legge sugli standard del lavoro (nda: 근로기준법 del 1953). Eravamo emozionate come fossimo in paradiso anche solo se le negoziazioni ai livelli minimi venivano mantenute.”
L’economia internazionale fu ristrutturata e l’industria pesante iniziò ad essere lavorata alla fine degli anni ’70. Negli stessi anni, precisamente nel 1978, a seguito della crisi dell’olio causata dagli eventi che accadevano nel Medio Oriente da anni, la YH, così come l’intera industria delle parrucche, iniziò a ritirarsi, i suoi export diminuirono e con essi anche il numero dei lavoratori della compagnia, che scese ad appena 500.
Le lavoratrici iniziarono una battaglia chiedendo la normalizzazione (un'elaborazione complessa il cui scopo è la trasformazione del risultato economico della società (storico, rettificato, prospettico) in un valore utile ad esprimere la capacità di reddito dell'azienda interessata) della compagnia, ma sia la YH che il governo erano disinteressati alla situazione operaia e si sbrigavano a trasferire all’uno o all’altro le responsabilità. L’anno dopo la compagnia firmò la Dichiarazione di chiusura a Marzo, e in Agosto ne prese la decisione (unilaterale) definitiva.
Il regime Yusin di Park Chung-hee, intanto, mostrava la sua violenza e invocava alla brutale repressione delle lavoratrici che stavano combattendo per i loro diritti.
E fu ciò che accadde nell’Agosto del 1979.
Circa 200 lavoratrici occuparono le sedi centrali del partito d’opposizione al regime Yusin, il “Nuovo Partito Democratico” (di riferimento per il movimento per la democrazia sudcoreano), seguite dai giornalisti che documentavano il loro sciopero. Di nuovo, si esibì lo spauracchio della violazione della legge e si chiese alle lavoratrici di disperdersi subito, ma ciò non accadde. Dopo 40 ore di sciopero, la repressione fu brutale: in 23 minuti, 1.000 poliziotti armati si scagliarono sulle scioperanti e su chiunque capitasse sotto le loro mani, compresi 30 membri del partito d’opposizione, 12 giornalisti e decine di operaie. Una di loro perse la vita: la ventunenne Kim Kyeong-sook.
Il governo coprì l’omicidio usando la scusa del suicidio, smentito solo nel 2008 con un annuncio della Commissione per la Verità e la Riconciliazione:
“Sul corpo non è presente alcun segno di tagli alle arterie, e c'è una cicatrice sul dorso della mano che si crede esser stata colpita con un tubo di ferro. Sulla laringe, c'è una ferita mortale che indica dei colpi provocati da oggetti appuntiti.”
Questa repressione, passata alla storia come “Incidente della YH”, fu la scintilla che infiammò gli animi della classe operaia sudcoreana, portando alla rivolta popolare di Busan e Masan, e alla fine al collasso del regime Yusin.
Lo spirito di Kim Kyeong-sook – assieme a quello del ventiduenne Jeon Tae-il, morto nel 1970 dopo essersi dato fuoco in protesta per i diritti dei lavoratori – diventò il catalizzatore per il movimento per la democrazia degli anni '80, di cui è fondamentale ricordare che nel suo fronte c’erano le lavoratrici e la classe operaia.
Fonti:
(ENG) Y.H. Incident in South Korea 1979 (ENG) Holding a memorial service for Martyr KIM Kyeongsook (KR) 여성노동자 김경숙을 아시나요?

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...e di là dalle montagne azzurrine, di là dai muri oltre gli sguardi delle guardie confinarie un odore di cipolle e di industria pesante premeva, la parte di un’Europa tenuta insieme da chiodi ritorti e bulloni, martelli e chiavi inglesi. Il futuro non è più quello di una volta, è stato scritto da una mano anonima, geniale su di un muro graffito alla periferia di Udine, il futuro è quello che rimane, ciò che resta delle cose convocate nello scorrere dei volti chiamati, aggiungo io. E qui, mentre intere città si muovono sulle piste ramate degli hardware e il presente irrompe con la violenza di un tavolo rovesciato, mio padre torna per sempre nella sua cerata verde bagnata dalla pioggia e schiude ai figli il suo sorridere come fosse eternamente schiuso. Se siamo ancora cosa siamo stati, io sono lo stare di quell’uomo bagnato dalla pioggia, che portava in casa un odore di traversine e ghisa e, qualche volta, la gola di Chiusaforte allagata dall’ombra si raduna nei miei occhi da occidente a oriente, piano piano a misura del passo del tramonto, bianco; e anche se le voci del mondo si appuntiscono e qualcosa divide l’ombra dall’ombra meno solo mi pare di andare, premendo un piede dopo l’altro, secondo la formula del luogo, dal basso all’alto, seguendo una salita.
Ombre, da Azzurro elementare. Poesie 1992-2010 Pierluigi Cappello
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VIDEOTELEFONIA
La videochiamata, anche famosa dall’ inglese videocall, è una delle grandi svolte tecnologiche della fine degli anni 90’. Ormai, oggi, ne facciamo uso in ogni ambito. In questo periodo difficile, tragico, spartiacque per la nostra società e che ci accomuna tutti, la videochiamata è stato un salvavita per combattere la solitudine e portare avanti la propria attività in remoto, facendo avanzare metodi e modalità di sviluppo in modo irreversibile. Lo sapevate che questo genere di tecnologia era già stato pensato nel 1876?
Fonte: Pixapay
Appena due anni dopo il deposito del brevetto del telefono, già girava voce che sarebbe stato possibile vedere l’interlocutore mentre si parlava. Di certo l’arrivo del telefono fu sconvolgente per l’intera umanità, molti erano dell’ idea che fosse addirittura magia nera. L’idea di un video era ancora fantascienza. Nel parlato popolare veniva chiamato Telephonoscope e fu citato in molti film di fantascienza e romanzi. Le potenzialità erano alla mercè di tutti e si presentarono anche molti casi di truffe e brevetti falsi, ma perfino Bell non aveva ancora le idee chiare su come realizzarlo.
Per toccare con mano una delle prime videochiamate bisogna andare nella Germania del 1936 dove il dott. Georg Shubert unì Berlino con Lipsia utilizzando 160 km di cavo coassiale a banda larga. Egli si basò sulle televisioni meccaniche riuscendo ad ottenere una risoluzione a 180 linee circa. Nel 1964 la Bell Labs, industria specializzata in videofonini, introdusse al pubblico il Picturephone, apparecchio pensato soprattutto per i sordi. Era un cubo con un piccolo schermo da 250 linee visibili che utilizzava cavi in rame (non esistendo ancora l’ ADSL) molto ingombrante e pesante per i nostri standard. Il Picturephone non ebbe molto successo, infatti bisognerà aspettare fino alla fine del 900 per osservare una valenza commerciale.
PicturePhone - Fonte: Wiki Commons
Il primo telefono portatile con videochiamata fu creato in Giappone nel 1983. Si chiamava Lumaphone e fu commercializzato da Mitsubishi Eletrcic. Era un telefono alquanto caro, costava $1500, ed era composto da uno schermo da 1,6 pollici, il quale utilizzava linee analogiche POTS, era un telefono sorprendente ma non alla portata di tutti. Per arrivare ad un costo più accettabile e un’innovazione tecnologica elevata bisogna aspettare i primi anni 2000 col rivoluzionario NEC E606. E’ stato il primo telefono a lanciare l’ Umts, ovvero il 3G, ed era in grado di fare videochiamate e navigare per un semplice costo di $400. Nel 2003 non aveva rivali ,nessuno fino al 2008 con Apple, era riuscito a commercializzare qualcosa di simile.
Il progressi in un secolo di storia sono stati notevoli e adesso questo tipo di tecnologia ci aiuta a comunicare più facilmente. Chi lo sa se fra qualche decennio non potremo interagire muovendoci con un ologramma?
A cura di Thomas Ferraris
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En 1945 se consolida lo que con el tiempo llamaremos “el imperio”, “el imperialismo yanqui”, “el american empire”. EE.UU. queda al frente entre todas las naciones del planeta. Su aparato industrial no sólo es el mayor y el menos dañado sino que además se aprovecha de los otros grandes nudos industriales existentes entonces, semidestruidos: el alemán y el japonés.
Los dirigentes estadounidenses empiezan a sentir que ahora sí cosechan un tiempo propio, vanguardizando el planeta, un american century. Y bien pragmáticamente, tendrán buena parte de razón: la segunda mitad del siglo XX tendrá como referencia al futuro lo que de EE.UU. provenga. Para bien, dirán sus panegiristas. La resistencia cultural será muy débil, aunque la disputa política con la URSS y secundariamente con China estarán sí presentes y pesantes. 1 Se impuso la tecnologización generalizada, el “use y tire”, las rubias oxigenadas, el auto individual, la comida más dulce y más grasa −la que con el tiempo se llamará chatarra− y los ojos que nos “prestaron”, en Hollywood.
Se tardó décadas en reaccionar y ver que los presupuestos de un mundo así artificial e infinito eran falsos; que nutrirnos con pastillas arruinaba nuestros intestinos, que “mejorar” nuestros alimentos con aditivos era contaminante (y a menudo, directamente tóxico); que la energía no era infinita ni malgastable, que el aire acondicionado constituía una pesadilla; en suma, que la contaminación existe y es problemática (¡y en qué dimensiones!).
Los grupos y constelaciones de poder en EE.UU. absorbieron esos “golpes” al optimismo radical, y gracias al empuje cultural, la disponibilidad material y la superioridad militar, retuvieron el control político-ideológico de nuestro presente. La crisis del “estado de bienestar” en la Europa de los ’70 y ’80, que era la carta socialdemócrata alternativa al dominio american, y el colapso soviético a comienzos de la última década de ese siglo, parecieron reafirmar el dominio cultural indiscutible, aunque crecientemente discutido, de EE.UU.
Así que cuando en el año 2000, con su informe, “REBUILDING AMERICA’S DEFENSES. Strategy, Forces and Resources For a New Century” (Reconstruyendo la defensa de EE.UU. Estrategia, fuerzas y recursos para un nuevo siglo) la craneoteca demócrata estadounidense anuncia reiterativamente “A Report of the Project for the New American Century” (Informe del Proyecto para un nuevo siglo de EE.UU), firmado por Eliot Cohen (Nitze School of Advanced International Studies, Johns Hopkins University); Thomas Donnelly (Project for the New American Century); Gary Schmitt (Project for the New American Century); Paul Wolfowitz (Nitze School of Advanced International Studies, Johns Hopkins University) y una treintena más de conspicuos intelectuales del establishment, muchos entendimos que los grupos dirigentes de EE.UU. pensaban superar con creces la preponderancia gozada en aquella segunda mitad del siglo XX, en beneficio ahora de un predominio mucho más radical y absoluto que lo que ya habíamos vivido en el siglo pasado.
Y sin embargo, apenas a dos décadas de semejante comienzo, estamos ante una situación conflictiva que pocas veces hemos visto en EE.UU. con el grado de conmoción y desajuste que entiendo vemos hoy.
Un presidente que prometió acabar con la globalización que estaba arruinando las economías locales, estaduales, a partir de todas las deslocalizaciones de las industrias, quebrando la tendencia y prometiendo el retorno de industrias “a casa”; un presidente que se entusiasmó patrocinando un “Acuerdo del siglo” entre EE.UU. e Israel, aunque se trate del conflicto entre Israel y los palestinos a quienes ni siquiera se les consultó en instancia alguna, porque efectivamente era un acuerdo entre Israel y EE.UU.; un presidente que vio llegar el covid 19 como lo vería un cowboy desde su caballo, sin miedo y con desprecio, aunque “el recién llegado” no pudo ser domeñado ni confundido como pretendió insistentemente el presidente que cosechó en pocas semanas el total de muertos de 14 años de asistencia e intervención militar de EE.UU. en Vietnam (1962-1975), 2 y que a las pocas siguientes semanas, ya había duplicado ese registro oficial de muertos; 3 un presidente que al mismo tiempo que critica de la globalización la pérdida de puestos de trabajo dentro de fronteras, la afirma en términos político-militares con sus alianzas y rechazos y un intervencionismo activo en el Cercano Oriente, así como en el Caribe, patrocinando, por ejemplo, una marioneta como el seudopresidente venezolano Juan Guaidó; un presidente empeñado en reproducir conflictos entre “grandes potencias” para dirimir el alcance del imperio global, en relación con China o Rusia; un presidente que reafirmó un giro a la derecha con el cual despreció atender uno más de esos “pequeños asesinatos” que la policía estadounidense parece complacerse en ejercer asfixiando a detenidos en la calle, preferentemente negros, claro.
Pero la situación parece complicarse aún más. Lo que señalamos al principio: pocas veces se ve tan fuerte el deterioro institucional de “la primera potencia mundial”, como se la suele designar desde la evaporación de la URSS. La vocación de policía mundial no ha cedido; basta ver a lo largo de este año, el desembozado asesinato de Quassem Suleimani en Irak, iniciando el 2020: un militar iraní considerado el nro . 2 del estado persa y clave en sus funciones dentro de su país y en el intervenido Irak, y el desembarco poco afortunado de algún soldier of fortune de origen estadounidense en Venezuela hace apenas un mes, reeditando una deslucida Bahía de los Cochinos (no con miles sino apenas con decenas), como para probar que no todo proyecto mejora o supera su precedente.
Pero el decurso del covid 19 y su alta contagiosidad parecen haber disparado otra serie de cuestiones hasta hoy fuera de los focos mediáticos, y por lo tanto hasta hoy dadas como inexistentes.
En los últimos años, décadas en EE.UU., la globalización galopante y la atomización social consiguiente ha ido destruyendo las estructuras alimentarias basada en la familia, porque las tareas, las dificultades temporales, la pérdida de autonomía económica, el aumento de familias monoparentales, fue llevando a que un porcentaje cada vez mayor de niños se alimentara en las escuelas y centros de enseñanza, reforzando la tendencia “a comer afuera de casa”. Con el aislamiento dispuesto ante “la pandemia”, en EE.UU. hay millones de niños y menores de 18 años que no tienen lo necesario para alimentarse. Se estima que un quinto de la población menor está ahora subalimentada. Lea bien: de unos 70 millones de menores de 16 años que viven en EE.UU., el déficit alimentario se estima para unos 14 millones… Consultadas madres de menores de 12 años, un 40% declaró “padecer inseguridad alimentaria”. 4 La situación, empero, viene de lejos. No Kid Hungry [sin niños con hambre] es una organización dedicada a combatir el hambre infantil, de 2010 (ibídem).
Este cuadro de situación para un estado reputado como principal del mundo, considerado dentro de los países enriquecidos, centrales, del “Primer Mundo”, y que presenta índices que se asemejan tanto a los de países dependientes, empobrecidos, satelitarios, como por ejemplo Uruguay o Argentina, considerados indisputablemente como del todavía llamado Tercer Mundo (aunque gocen Argentina y Uruguay de algunas ventajas respecto de otros países empobrecidos, aún más carenciados, tantos caribeños o africanos), expresa una situación anómala.
Procuremos caracterizar, siquiera preliminarmente, la condición de país dependiente, neocolonizado (es decir con bandera nacional propia pero con mundo empresario ajeno), como los que se han ido configurando desde fines de la 2GM y durante toda la segunda mitad del s XX, con el “proceso de descolonización” promovido por la ONU, con globalización creciente y expansión presunta permanente. – la política exterior es definida fuera de fronteras (desde un estado condicionador o desde instancias supranacionales), – la política económica es definida desde el mundo empresario transnacional y global que va adaptando la economía del país neocolonial a las necesidades globales, generalmente ajenas y contrarias a las del país que estamos tomando de ejemplo: extranjerización y sujeción de la economía local a las necesidades y perspectivas globales; – la política militar, lo que llamamos ahora con un anglicismo, securitaria, también abandona el marco y las referencias locales, nacionales, y va siendo configurada al servicio de estrategias globales, en todo caso asentadas en el interés de un poder ajeno.
LOS 5 OJOS
Desde 1948, luego de la guerra que aplastó al nazismo y al imperio japonés, EE.UU., Australia, Nueva Zelandia, Reino Unido y Canadá tejieron un acuerdo de alcance planetario llamado Echelon, que pasó a controlar toda la información circulante en el planeta; entonces, la de teléfonos, telegramas, teletipos, correspondencia, radios de toda onda y posteriormente de frecuencia modulada. La Red Echelon fue instalada, se supone, para asegurar la democracia y evitar el terrorismo. Pero quejas de empresarios alemanes y franceses, permiten suponer un control comunicacional generalizado que les ha permitido a sus cinco estados constituyentes, “Los 5 Ojos”, anudar jugosos negocios y convenios validos de la interceptación de mensajes, salvo los de palomas mensajeras.
Echelon ha procesado ampliaciones: Israel, por ejemplo, ha sido designado como “el observador” de los 5 ojos. Los 5 Ojos son 6.
Si revisamos someramente la situación de EE.UU, ¿qué vemos? El presidente Trump, como cualquier presidente de país dependiente, pero no globalista, como las elites colonizadas de países dependientes, sino nacionalista, como una élite que resiste satelizarse, esforzándose para frenar la desaparición de puestos de trabajo que el capital transnacional lleva a cabo para mejorar su rentabilidad (siempre es preferible para el dueño del capital pagar mano de obra y servicios en un país empobrecido que pagar mano de obra y servicios “caros” en su propio país). Es decir, actúa como élite de país dependiente, resistiendo la globalización. Veamos, un poco más detalladamente, el papel de Israel dentro de EE.UU. Y correlativamente, de los judíos, que se estima son entre 6 y 7 millones en el país, más que la propia población judía en el Estado de Israel. El papel de supervisión del Estado de Israel sobre la política de seguridad de EE.UU. se expresa en multitud de factores, generalmente no muy explícitos. 5
Un ejemplo bien fresquito: EE.UU. presenta “El Acuerdo del Siglo” que ya hemos señalado que Israel viene diseñando para acabar con la resistencia palestina y apropiarse definitiva y totalmente de la Palestina histórica. 6
¿Por qué es EE.UU. el estado que presenta este plan como solución final con los palestinos? Llamativamente en 1947, cuando EE.UU. estaba rehaciendo geopolíticamente el mundo de posguerra, sustituyendo al Reino Unido, agotado, en aquella función, fue decisivo en la ONU, por su peso específico para entregarle al sionismo el territorio palestino. Cumplía así una promesa británica al barón de Rothschild, pero sobre todo, mantenía la geopolítica occidentalista de control sobre el Cercano Oriente. Para aquella tarea EE.UU. contó con la UNSCOP (Comité Especial de la ONU sobre Palestina). EE.UU. quiere ahora cerrar el ciclo con su “Acuerdo del Siglo”. El chico de los mandados quiere terminar la tarea encomendada.
El control de Israel sobre EE.UU. se expresa de muchas otras maneras. El Congreso de EE.UU. tiene hoy 435 representantes; unos 300 al menos de entre ellos se consideran amigos y/o aliados del Estado de Israel. En realidad, reciben jugosas partidas de apoyo de AIPAC (American Israel Public Affairs Committee, Comité de Negocios Públicos de EE.UU. e Israel, también autodenominado con indudable precisión, “Americas Pro-Israel Lobby”, El lobby pro-israelí de EE.UU.), que engrosan el presupuesto de tales legisladores. En rioplatense tendríamos que decir que la inmensa mayoría de tales “representantes del pueblo” están untados.
Pero el lobby está sacralizado en EE.UU. Es la razón por la cual, cuando Beniamin Netanyahu quiso abofetear en términos de ceremonial al presidente de EE.UU., a la sazón Barack Obama, a causa del enojo que le produjo la negociación de EE.UU. con Irán, marzo 2015, para regular la producción nuclear de este último, hizo una visita directamente al Congreso de EE.UU., salteando una visita “entre pares”, para “explicarles” a los legisladores el peligro en que EE.UU. se encontraba, “bajo la amenaza iraní”.
Como EE.UU. no es un país bananero típico, tiene en sus estructuras sociales e intelectuales sectores totalmente conscientes del papel de chirolita que su país cumple ante las presiones y los condicionamientos israelíes y los del poderoso lobby judío norteamericano. Hay intelectuales y políticos que no aceptan esa dependencia; algunos desde el Partido Republicano, como Paul Craig Roberts; otros desde la izquierda como Noam Chomsky, James Petras, Jeremy Hammond, o periodistas de investigación que llegan a verdades siempre incómodas para los poderes constituidos, como Nick Turse o Whitney Webb; otros finalmente, denuncian esa sumisión de la estructura política norteamericana a la batuta israelí como periodistas críticos, pese a su origen conservador, como Philip Giraldi o Ron Unz.
Los manejos israelíes de políticas ajenas vienen de tiempo atrás. Dedicados a quitarle la tierra a la población palestina, allí asentada milenariamente, el sionismo se articuló con mucho secreteo, lobby y bambalinas. Algunos episodios, como El escándalo Lavon pudieron ser descubiertos porque Israel era todavía “principiante”. En 1954, para lograr que el Reino Unido frenara la expansión de Egipto dirigido por Gamal Abdel Nasser, los aparatos clandestinos sionistas no encontraron nada mejor que instalar bombas en cines y bibliotecas egipcias, estadounidenses y británicas en territorio egipcio, para que estallaran luego del horario de cierre. Es decir, no querían matar a nadie (¿salvo serenos?), como sí habían hecho en reiterados atentados años atrás; ahora querían generar pánico y acusar “del intento asesino” a la Hermandad Musulmana, a comunistas egipcios y otros nacionalistas árabes. Probablemente porque todavía no estaban tan afiatados como luego se los podrá observar, al ser descubiertos, dos de los saboteadores se suicidaron y otros dos, detenidos por la policía egipcia fueron ejecutados. Aun sin constituir una acción expresamente asesina, quedó claro el uso de cualquier mentira como procedimiento del servicio secreto israelí.
Esa dependencia del coloso estadounidense a la batuta israelí es lo único que puede explicar
secuencias como las vividas con el barco de la marina de EE.UU. Liberty, en 1967, durante la llamada “Guerra de los 6 Días”.
Apostada entonces la Marina de Guerra de EE.UU. en el Mediterráneo, el Liberty se desplazaba
por el Mediterráneo Oriental, y fue de pronto atacado por aviación israelí, ocasionándole grandes daños y decenas de muertos en su tripulación. Israel pidió disculpas alegando haberlo confundido con un navío egipcio. Versión intragable por la cantidad (habitual) de banderas norteamericanas en el barco y porque la identificación del barco está en abecedario occidental a diferencia de la de los navíos egipcios. Tan inaceptables resultaron las excusas que hasta Wikipedia con su sesgo occidentalista y proisraelí, defendiendo cierta objetividad, asumió investigaciones que “sostienen que los israelíes no querían que el buque interceptara sus propias comunicaciones y ése habría sido el motivo del ataque. Además, el
historiador Gabby Bron afirma haber presenciado ejecuciones de prisioneros egipcios por parte de la
milicia israelí en la ciudad El Arish, mientras el USS Liberty se encontraba a menos de 13 millas del lugar […] podrían haber escuchado las comunicaciones de los oficiales israelíes ordenando ejecutar a los prisioneros de guerra. Por otro lado, el analista Adrián Salbuchi sostiene [que] dicho ataque constituyó una operación de bandera falsa del ejército israelí en un intento por tratar de hundir el buque para poder culpar a Gamal Abdel Nasser y así arrastrar a EE.UU. a la guerra del lado israelí contra Egipto. 7
Hay que tener en cuenta que en la guerra anterior en la región, 1956, desencadenada por Israel,
EE.UU. obligó a los atacantes (Israel, Francia y el Reino Unido) a retirarse de lo conquistado. Y es
precisamente luego de la guerra de “los 6 días” que EE.UU. inicia un plegamiento absoluto a la voluntad
israelí. Por eso, cuando el Liberty fue avistado cerca de los fusilamientos israelíes a egipcios, que
violaban todas las normas de guerra auspiciadas por la ONU, se puede suponer que los mandos israelíes no querían que los estadounidenses se enteraran; todavía entonces, 1967, los militares de EE.UU. guardaban ciertas formas democráticas (el proceso de degradación y brutalización empezaba justo entonces, en Vietnam).
Cuando Ariel Sharon, el que organizó la matanza de miles de mujeres, niños y ancianos en los campamentos palestinos de Sabra y Shatila, en 1982, 8 decidió, en 2005, como comandante en jefe del ejército israelí, la evacuación de la Franja de Gaza, hasta entonces ocupada por fuerzas represivas israelíes y por unos 8 000 colonos sionistas, instaurando una nueva “agenda de combate”, ahora sitiando a la Franja por aire, mar y tierra (con apoyo de los militares egipcios), hubo israelíes que temieron la reacción de EE.UU. ante tanta independencia. Sharon solía tranquilizarlos: “Nosotros, el pueblo judío, controlamos Estados Unidos y los estadounidenses lo saben”. 9 Testimonios de esa dependencia de EE.UU. hacia Israel hay muchos. Solo que los medios de incomunicación de masas se cuidan de espigarlas (y cuando hablamos de este secreto a voces, nos referimos tanto a la prensa más derechosa, racista y clasista como a mucha prensa progresista).
Veamos apenas un ejemplo, descrito por el actual periodista de investigación, en otro tiempo agente de la CIA, Philip Giraldi: “EE.UU. está muy preocupado con ‘su mejor amigo y aliado’ que lo ha espiado, le ha robado tecnología, ha corrompido procesos gubernamentales y mentido sistemáticamente acerca de sus vecinos para generar un casus belli, de modo tal que los estadounidenses puedan morir en innumerables guerras en lugar de hacerlo los israelíes.” 10 Giraldi da como ejemplo de la dependencia, en este caso del presidente Trump a Israel, el de haber designado como embajador en Israel a David Friedman, “un archisionista que ve como su misión promover los intereses de Israel más que los de EE.UU.” Ejemplifica como Friedman ha adoptado el lenguaje israelí en casos en que EE.UU., al menos teóricamente, sigue el lenguaje de la ONU. Por ejemplo, la Margen Occidental (palestina) oficialmente “ocupada” por Israel ha devenido en las palabras del nuevo embajador un “territorio en disputa” (frase de batalla de la diplomacia israelí). Como frutilla del postre, Giraldi nos recuerda que el embajador norteamericano ha aprobado el “trabajo” de los francotiradores israelíes durante las Marchas por la Tierra que desde 2018 llevan adelante los palestinos sin armas, ni siquiera piedras, que ha significado la muerte de varios cientos de palestinos y las heridas de balas (certeras) de francotiradores sobre miles de manifestantes pacíficos. 11 Un récor prácticamente mundial.
Examinemos como frutilla del postre, los planteos de JINSA, Jewish Institute for National Security of America (Instituto Judío para la Seguridad Nacional de EE.UU.) Dicen ser “profesionales de la defensa de EE.UU. y como tales ven los acontecimientos en el Cercano Oriente a través del prisma de los intereses de la seguridad de EE.UU.” Exactamente lo opuesto que Giraldi detallaba como la política real del embajador, judío, de EE.UU. en Israel. ¿Tenemos que creer que el embajador de EE.UU., defiende a Israel y que los del Instituto Judío para la Seguridad de EE.UU. defienden a EE.UU. y no a Israel? Prosigue JINSA: EE.UU. e Israel han establecido una cooperación en seguridad durante la Guerra Fría y hoy ambos países enfrentan la amenaza común del terrorismo de quienes temen la libertad y las libertades. […] Compartimos los servicios de inteligencia y los entrenamientos militares bilaterales […] La policía de EE.UU. y sus oficiales han recibido el beneficio de una estrecha cooperación con profesionales israelíes en las áreas de contraterrorismo doméstico.” No hay sino que alegrarse; los israelíes instruyen a los bisoños norteamericanos; y les enseñan que toda protesta es terrorismo. Humildemente, “Israel comparte [con EE.UU.] nuestra vocación de libertad, por la libertad personal y la vigencia de la ley.” ¿Se incluirá en ese reinado de la ley y la igualdad a los palestinos? Tal vez, como a los nativoamericanos y a los afros…
ADDENDA. Con este trabajo realizado me llega el muy documentado artículo de Max
Blumenthal, “La ‘israelificación’ de la seguridad interna de EE.UU.” reeditado el 9 jun 2020
pero originalmente escrito en 2011, que no hace sino ratificar mis observaciones.
Notas
1 El unicato de 1945 perdurará apenas media década; en 1951, la URSS pasa al frente en la
navegación espacial y desde entonces se empezará a hablar de “las dos superpotencias”, del
conflicto Este-Oeste, de las dos Coreas, las dos Alemanias, los dos Vietnam… 2 Cincuenta y ocho mil. 3 Al 10 de junio, 112 mil. 4 Eleanor Bader, “Fracaso americano”, Brecha, 29 mayo, 2020. 5 Para examinar más ejemplos del llamativo amorío y dependencia de algunos dirigentes
estadounidenses hacia Israel hay que reparar en el fondo doctrinario común del Antiguo
Testamento o Torah. Véase, por ejemplo, mi nota: “Amor, desprecio, poder entre EE.UU. e
Israel”. 6 Vale la pena tener en cuenta que las dirigencias sionistas tienen su propio lenguaje que
no coincide con el del cotidiano presente: los forjadores del Estado de Israel entienden que
deben satisfacer el mandato divino de asentarse en la vieja Sion; el Génesis define un
territorio del Nilo al Éufrates, que abarca prácticamente el oriente egipcio, Palestina,
Jordania, buena parte de Irak y áreas de Siria y Arabia. Hay que suponer que la proverbial
resistencia de Israel a fijar fronteras se vincula con aspiraciones territoriales bíblicas. 7
https://es.wikipedia.org/wiki/USS_Liberty_(AGTR-5)
8 El papel de los mandos israelíes en la matanza perpetrada por cristianos fanáticos fue tan
insoslayable que finalmente, se abrió un juicio contra Ariel Sharon en Bélgica, en un tribunal
de “Jurisdicción Universal para el Castigo de las Violaciones Graves del Derecho
Internacional Humanitario”. Un militar libanés, declaró públicamente su intención de
atestiguar contra Ariel Sharon por su responsabilidad en las matanzas. Elie Hobeika, que
fuera comandante de la fuerza exterminadora, estaba al parecer indignado de que sólo los
fanáticos cristianos hayan tenido que soportar el peso de las condenas (varios ejecutantes
están en cadena perpetua) por las masacres en Sabra y Shatila, actos tipificados como
crímenes de lesa humanidad.
Hobeika murió días después de su anuncio, junto a su hijo y a tres guardaespaldas volando
con su auto. 24 de enero de 2002. El tribunal, careciendo de otras pruebas, canceló el
juicio. El periódico francés L’Humanité informó que Hobeika disponía de pruebas contra
Sharon. El presidente libanés Émile Lahoud, sin citar a Israel, hizo implícitamente
responsable a Ariel Sharon del asesinato. La frutilla del postre: “Según fuentes israelíes, la
decisión de eliminar a Hobeika partió de Damasco.” Los israelíes le tiran el muerto a los
sirios… fte.:
https://es.wikipedia.org/wiki/Elie_Hobeika
. 9 Germán Gorraiz López, “¿Es EE.UU. un simple vasallo de Israel?”, 8/5/2018. 10 “Israel to Annex the United States”, 12/5/2020. 11 Sobre la Marcha por la Tierra, léase por ejemplo, Pablo Jofré Leal, “Israel, el mundo al
revés de una sociedad enferma”, 2 abril 2018. Y por la cuestión palestino-israelí, más
general, mi artículo “Sionismo: de la emancipación judía a nación de amos”, abril 2019.
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Industria, con +3% vola alimentare spinto dal Natale #abbuffatediNatale #agroalimentare #Alimentare #Capodanno #cibo #Coldiretti #Food #Industria #Italia #Italyinfofood #Ristorazione In controtendenza con l’andamento generale, vola la produzione alimentare che fa segnare un aumento del 3% ad ottobre rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. E’ quanto emerge da una analisi della Coldiretti sulla base dei dati Istat sulla produzione Industriale. In un clima di preoccupazione generale si tratta di un segnale positivo nella preparazione delle scorte per il Natale in cui tradizionalmente – sottolinea la Coldiretti – si verificano i valori più elevati di consumi alimentari di tutto l’anno. L’agroalimentare con regali enogastronomici, pranzi e cenoni è, infatti, la voce più pesante del budget che le famiglie italiane destinano alle… Link: https://www.foodinfo.it/news/industria-con-3-vola-alimentare-spinto-dal-natale/ https://www.instagram.com/p/B57k-HpnQiM/?igshid=3te45rkpovzu
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RECENSIONE: Melanie Martinez - K-12 (Atlantic, 2019)
Melanie Martinez è un’artista curiosa ed intrigante del panorama pop alternativo degli ultimi anni. E’ uno di quei casi in cui difficilmente si riesce ad immaginare l’artista senza il proprio personaggio, un personaggio estremamente gradevole a livello estetico, ma anche fortemente determinante a livello artistico che sin dal debutto, all’interno del programma televisivo The Voice, l’ha distinta dagli altri concorrenti ed ha continuato ad incuriosire il pubblico anche dopo. Il personaggio scenico di Martinez diventa espressione della sua personalità creativa e della sua esperienza personale come una outsider. La cosa appartiene così tanto a Martinez che al momento del suo primo disco Cry Baby, pubblicato nel 2015, quel personaggio diventa protagonista con un nome proprio ed un vissuto tramite il quale l’artista racconta metaforicamente di traumi ed insicurezze. Dopo quattro anni ritorna con K-12, un secondo attesissimo disco ancora più ambizioso nel concept rispetto al precedente, ma piuttosto simile a livello di esecuzione.
L’universo dentro cui Cry Baby viveva era davvero peculiare, fatto di colori pastello e popolato da giocattoli e bambole, la stessa Martinez era l’eterna bambina che con atteggiamento infantile ed apparentemente innocuo insinuava provocazioni e visioni macabre. Con un personaggio così pesante che abita la sua musica, un personaggio che ormai la identifica, rinunciarci per qualcosa di nuovo sarebbe stato forse un azzardo troppo grande. In questi quattro anni Martinez ha preferito dedicarsi - con relativo successo - all’evoluzione di questo personaggio, arricchendo la sua storia di dettagli e quindi espandendone il contesto, ma rimanendo forse troppo poco sostanziale nell’esplicitazione, motivo per cui probabilmente sotto il punto di vista esecutivo non si nota invece nessun cambiamento particolare.
K-12 è un disco pop fino al midollo, ma non sembra volersi arruffianare gli ascoltatori o le classifiche, semplicemente rimane fedele a sé stesso e al piccolo patrimonio dell’artista che ha contribuito allo sviluppo del genere, tra le altre cose anticipando di qualche anno un certo cambio contenutistico all’interno delle canzoni pop - soprattutto di quelle al femminile - intenzionate sempre più spesso a svuotarsi di argomenti frivoli ed affrontare questioni impegnate riguardanti proprio le problematiche della cultura popolare, quali standard impossibili e poco realistici dettati da industria musicale, mass media e social network. Quindi si tratta di una musica pop molto anti-pop, esattamente come si è proposta inizialmente, un pop che non vuole proprio assecondare tutti i canoni, ma vuole metterci del suo. Non sentiamo nulla di esageratamente originale, sia perché con artisti come Billie Eilish ci siamo tutti abituati a questa idea del pop alternativo sia perché questa formula l’abbiamo già sentita in Cry Baby. Come dicevamo prima, non cambia molto rispetto al disco d’esordio in materia di sonorità, produzione e testi, potremo dire che K-12 espande quell’universo estetico e concettuale continuando a narrare le disavventure dell’omonimo personaggio di fantasia Cry Baby su una musica che come in passato è un melting pot di hip-hop low-key ed elettronica simpatizzante indie, però stavolta mansueta e forse un po' troppo prevedibile nella produzione.
Prima di addentrarci è doveroso fare almeno menzione dell’omonimo film che costituisce l’altra metà di questa esperienza. D’altra parte il cinema e la musica non viaggiano più su rette parallele, talvolta con piacere di recente si sono incontrati sfruttando al meglio i mezzi di diffusione che la tecnologia ci fornisce - come Netflix o Youtube - per dare vita a vere e proprie esperienze artistiche concettuali, immersive e visionarie. Di recente abbiamo visto Thom Yorke abbracciare la realizzazione di un cortometraggio per accompagnare il suo ultimo disco solista, ma basta andare indietro di pochi anni per trovare esempi di veri e propri film musicali pubblicati in contemporanea coi dischi, vedi l’iconico Lemonade di Beyoncé o il Dirty Computer di Janelle Monáe che per impostazione ricorda molto il lungometraggio concettuale della nostra Martinez. Ma qui arriviamo anche al problema sostanziale del disco, ovvero, che senza film annesso non funziona con la stessa immediatezza e quindi chiarezza perché perde tanto, ma veramente tanto nella comprensione dei testi e secondo il nostro criterio riteniamo che un album debba potersi reggere in piedi anche senza informazioni aggiuntive.
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Sopra dei synth ed una tastiera molto zuccherati ma non particolarmente interessanti Wheels On The Bus apre il disco sull’interminabile e psicologicamente tortuoso tragitto in bus tra casa e scuola, durante il quale ne succedono di tutti i colori: compagni agitati in preda agli ormoni, commenti sgradevoli e spinelli contesi. L’autista sbircia il tutto dallo specchietto ma non dice nulla, un metafora per commentare le molestie sessuali ed il consumo di droghe in una società in cui gli adulti invece di supervisionare i giovani mostrano sempre più inadeguatezza e menefreghismo. I synth giocosi proseguono nella successiva Class Fight dove gli animi si scaldano e la tensione accumulata dalla protagonista sfocia in una rissa dove si scontra con una compagna di classe che oltre a prenderla in giro è la preferita del ragazzo per cui si è presa una cotta. “The teacher broke us up after I broke her / And my one true love called me a monster”. Le immagini evocate dal testo sono piuttosto sanguinose e cupe, per la prima volta la protagonista si rende conto che la sua rabbia l’ha portata a ferire qualcun altro. Fino a questo momento le strumentali si rivelano piuttosto piatte, minimali e schematiche, mentre i ritornelli faticano a caratterizzare i brani, discorso che continua in The Principal dove a discapito di una critica più esplicita sulle figure al potere che seguono solo i propri interessi senza preoccuparsi della sofferenza e della subordinazione altrui si ci mette una strumentale che stavolta ricorda i momenti infantili e fastidiosi di Chainsmokers o Diplo - non esattamente un bel riferimento. Per spezzare una lancia a favore di Martinez l’inclusione all’inizio dei brani di suoni stravaganti ed ambientali come il motore del bus che si accende, la campanella o il telefono che squilla è una bella trovata.
Finalmente a centrare l’attitudine più sinistra che ha caratterizzato i momenti maggiormente intriganti dell’artista ci pensa Show & Tell, dove la vediamo più coinvolta anche a livello vocale, una traccia un pò fuori dal coro a livello tematico che spiega il disagio di Martinez piuttosto che del suo alter-ego Cry Baby riguardo la fama e la mercificazione degli artisti. Anche Nurse’s Office continua sulla buona strada, con una strumentale più fantasiosa che appunto usa campionamenti di cerotti che si strappano, colpi di tosse e starnuti per dipingere lo scenario dell’infermeria della scuola, luogo in cui la protagonista si rifugia fingendo malesseri per sfuggire ai soprusi della sua compagna di classe. In generale tutta la seconda parte del disco si rivela più memorabile, soprattutto Drama Club, unica traccia in cui ritorna il produttore dell’album precedente e non a caso sentiamo una produzione più pungente ed animata con kick-bass profondi, insieme ad un testo che intende ribellarsi al “ruolo tradizionale” assegnato alla donna sia nell’ambito privato sia in quello dello spettacolo.
Per Martinez la scuola è una versione condensata del mondo esterno, con tutte le sue difficoltà ed ingiustizie, in più le permette di usare un linguaggio adatto alla sua estetica, un punto di vista di chi si scontra per la prima volta con queste problematiche e ne rimane profondamente traumatizzata. Tuttavia, se nel film la critica all’oggettificazione ed ipersessualizazione del corpo femminile, l’ignoranza riguardo problemi come bulimia, bullismo e molestie sessuali, tossicodipendenza e controllo da parte delle corporazioni che operano un vero e proprio lavaggio del cervello sulla gente sono tematiche trattate in modo marcato e molto più aspro rispetto al disco, dove invece tutto si perde tra le righe ed a mala pena si riesce a capire quale sia il vero problema. Ci sono delle scene in cui la professoressa sniffa del gesso prima della lezione, un alunno viene trascinato con forza fuori dalla classe dopo essersi rifiutato di intonare l’inno nazionale, il preside licenzia una professoressa in quanto transessuale oppure in bagno le ragazze fanno dei commenti sulla difficoltà nell’accedere ai prodotti di igiene femminile. Episodi che sarebbe stato utile citare nell’album per delinearne meglio l’intenzione, ma che sono completamente assenti. C’è qualche eccezione come in Strawberry Shortcake, dove ci si riesce ad immedesimare nella pressione sociale e nel disagio provato della protagonista verso il proprio corpo, un corpo che inizia a ricevere attenzioni da parte del sesso maschile e del quale arriva a sentirsi in colpa. “Instead of making me feel bad for the body I got / Just teach him to keep it in his pants and tell him to stop”.
A parte qualche frase incisiva e qualche momento musicalmente più interessante K-12 è un disco nella media che sembra più bello sulla carta, coi suoi difetti ma anche coi suoi pregi. Non ce la sentiamo di demonizzare un prodotto pop come questo principalmente perché le intenzioni dell’artista sono buone ed altrettanto buono è il messaggio, forse non sempre veicolato nel modo giusto, ma almeno tentato in connubio ad un’estetica che, saranno gusti, ma a noi non dispiace.
TRACCE MIGLIORI: Nurse’s Office; Drama Club; Strawberry Shortcake
TRACCE PEGGIORI: The Principal
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Ombre
Sono nato al di qua di questi fogli
lungo un fiume, porto nelle narici
il cuore di resina degli abeti, negli occhi il silenzio
di quando nevica, la memoria lunga
di chi ha poco da raccontare.
Il nord e l’est, le pietre rotte dall’inverno
l’ombra delle nuvole sul fondo della valle
sono i miei punti cardinali;
non conosco la prospettiva senza dimensione del mare
e non era l’Italia del settanta Chiusaforte
ma una bolla, minuti raddensati in secoli
nei gesti di uno stare fermi nel mondo
cose che avevano confini piccoli, gli orti poveri, le cataste
di ceppi che erano state un’eco di tempo in tempo rincorsa
di falda in falda, dentro il buio. E il gatto che si stende
in questi posti, sulle lamiere di zinco, alle prime luci
di novembre, raccoglie l’aria di tutte le albe del mondo;
come i semi dei fiori, portati, come una nevicata leggera
ho sognato di raggiungere i miei morti
dove sono le cose che non vedo quando si vedono
Amerigo devoto a Gina che cantava a voce alta
alla messa di Natale, il tabacco comprato da Alfredo
e Rino che sapeva di stallatico, uomini, donne
scampati al tiro della storia
quando i nostri aliti di bambini scaldavano l’inverno
e di là dalle montagne azzurrine, di là dai muri
oltre gli sguardi delle guardie confinarie
un odore di cipolle e di industria pesante premeva,
la parte di un’Europa tenuta insieme
da chiodi ritorti e bulloni, martelli e chiavi inglesi.
Il futuro non è più quello di una volta, è stato scritto
da una mano anonima, geniale
su di un muro graffito alla periferia di Udine,
il futuro è quello che rimane, ciò che resta delle cose convocate
nello scorrere dei volti chiamati, aggiungo io.
E qui, mentre intere città si muovono
sulle piste ramate degli hardware
e il presente irrompe con la violenza di un tavolo rovesciato,
mio padre torna per sempre nella sua cerata verde
bagnata dalla pioggia e schiude ai figli il suo sorridere
come fosse eternamente schiuso.
Se siamo ancora cosa siamo stati,
io sono lo stare di quell’uomo bagnato dalla pioggia,
che portava in casa un odore di traversine e ghisa
e, qualche volta, la gola di Chiusaforte allagata dall’ombra
si raduna nei miei occhi da occidente a oriente, piano piano
a misura del passo del tramonto, bianco;
e anche se le voci del mondo si appuntiscono
e qualcosa divide l’ombra dall’ombra
meno solo mi pare di andare, premendo un piede
dopo l’altro, secondo la formula del luogo,
dal basso all’alto, seguendo una salita.
Pierluigi Cappello
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TRA REALISMO E SUBLIME BELLEZZA NELLE PIEGHE DELLA TESSITURA
ARTISTICA DELLA LIGURIA ITALIANA DAL XV AL XIX SECOLO
Introduzione
Siamo ai primi decenni del 1600, il secolo del Barocco, sfarzoso e ricco e le tre dame*, raffigurate nei loro sontuosi e magnifici abiti, rappresentano l’epitome della straordinaria qualità e raffinatezza raggiunta dalle manifatture tessili, nell’ambito della produzione ligure di sete, broccati, damaschi e velluti di pregevole fattura, che già nel Medioevo e nel Rinascimento avevano raggiunto traguardi ragguardevoli.
Questi preziosi panni serici avevano dei costi molto elevati e se li potevano permettere solo i nobili o le classi molto agiate, per loro venivano confezionati abiti di seta, arricchiti da ricami e trame broccate dorate, sottolineando così una evidente differenza sostanziale tra gli abbienti, le classi di alto lignaggio e il popolino che vestiva sempre di scuro.
Un ulteriore impulso a questa manifattura venne favorito, nel 1500, dalla richiesta di tessuti pregiati per l’arredamento delle già opulente residenze, che si consolidò nel secolo successivo. Erano pannelli utilizzati come termoregolatori del caldo estivo e della rigidezza del rigore invernale, ma ben presto assunsero il ruolo di status symbol: gli interni delle dimore vennero ovunque rivestiti con preziosi arazzi di seta riccamente decorati, armonicamente assortiti nelle sfumature di colore tanto che, per un certo periodo, assunsero un valore aggiunto preminente rispetto alla pur apprezzabile mobilia.
Arte della seta a Genova: alcuni cenni storici
Fino all’ inizio del 1300 non si può parlare di una vera e propria produzione locale, ma piuttosto di commercio delle sete, perché Genova era il porto di transito per i tessuti provenienti da diverse zone del sud Italia e del Mediterraneo,che avevano come meta il nord d’Italia e diversi paesi europei.
Nella fase tumultuosa dei primi anni del XIV secolo, mentre Lucca era sconvolta dalla lotta fra Guelfi Bianchi e Guelfi Neri, due mercanti lucchesi decisero di trasferirsi a Genova per tessere “zendado”, una stoffa impalpabile, simile al taffetà, che assunse tale importanza da essere citata più volte sia dal Boccaccio nel Decameron sia dall’ Ariosto nell’ Orlando Furioso, per descrivere l’abbigliamento della maga Alcina quando si reca all’ incontro amoroso col guerriero saraceno Ruggiero:
… benché né gonna né faldiglia avesse;
che venne avolta in un leggier zendado…
Durante il secolo successivo, nel 1400, il numero degli artigiani setieri, provenienti da altre città in crisi, come Venezia per esempio, aumentò e contribuì a consolidare le basi dell’industria serica genovese. Con gli Statuti approvati nel 1432, si riconobbe all’ Arte della Seta la supremazia sulle altre arti per numero di artigiani raccolti, per il prestigio che dava alla città e per l’incremento dei beni pubblici e individuali.
Nella seconda metà del 1500 si era giunti all’ apice di queste manifatture: la lavorazione, la produzione e il commercio della seta impegnavano circa 38000 abitanti di Genova su un totale di 60000 che allora vivevano nella città. A maggior gloria di questo straripante successo, un artista lucchese, tale Baldo, come si può evincere dagli atti notarili stilati allora, si impegnava a fornire di nuovi disegni per i broccati e i velluti un nutrito gruppo di “setaiuoli” genovesi di fama e, nella sua scia, altri ne arrivarono.
Gli artigiani di origine toscana, che giunsero a Genova per svolgere la loro attività,portarono con sé anche una certa confusione, perché oltre a possedere doti artistiche eccellenti, avevano anche buone cognizioni tecniche nel comporre e riparare i telai ma, soprattutto, c’era fra di essi un continuo scambio tra i ruoli di pittori, ricamatori e disegnatori,che finivano per sovrapporsi nei lavori da svolgere.
Le stoffe di Genova, dette “Jeane” dal nome della città d’origine, ormai non temevano confronti in nessun paese europeo. I ricchi, i nobili, i principi, persino i re facevano a gara per arredare i propri palazzi con i damaschi, i velluti, i broccati, le sete genovesi con ricami e decorazioni sempre nuove e dalle nuances sempre più varie e armoniose,a costi inverosimili. Persino nell’ inventario stilato dopo la morte di Enrico VIII, si trovano descritte varie tipologie di questi velluti.
Anche il potente cardinal Mazzarino, primo ministro di Luigi XIV, in Francia, chiedeva continuamente che gli fossero inviati campioni di broccati, velluti e damaschi in varie tonalità di colore, per il tramite di uno dei molti rappresentanti che Genova aveva dislocato in tutto il territorio europeo, perché curassero i suoi interessi e ne sviluppassero il commercio.
Industria serica genovese: tecnica e commercio
Il grande apprezzamento che suscitavano i manufatti serici genovesi era dovuto all’ altissima qualità del prodotto. In origine, per la lavorazione, veniva utilizzata la seta greggia proveniente dalla Cina e dall’ Asia Minore ma, in seguito, tra il Cinquecento e il Seicento, il quantitativo maggiore di materia prima arrivava dall’ Italia meridionale.
Il livello di perfezione raggiunto era il frutto di una complessa filiera produttiva, a cominciare dal baco da seta per arrivare al manufatto, alla quale lavoravano numerosi artigiani molto abili ed esperti, che compivano al meglio ogni fase della lavorazione fino alla tessitura, coadiuvati dai tecnici, che si occupavano dei telai, delle loro componenti e della manutenzione.
L’industria serica genovese, dopo aver raggiunto l’acme nel 1500, vide l’avvio del suo declino nella seconda metà del 1600 quando, all’ interno della città, diminuì in modo drastico il numero degli imprenditori, a causa della crisi finanziaria che aveva provocato il rialzo del prezzo degli alimentari, della manodopera e una diminuzione del potere d’acquisto dei mercati europei, tartassati dalle guerre e dalle epidemie.
Il mercato, comunque, conservò una sua nicchia, grazie a facoltosi clienti aristocratici che prediligevano le stoffe genovesi, rinomate per qualità e resistenza e grazie all’ ascesa di nuove famiglie facoltose o di fresca nobiltà come Balbi, Durazzo, Moneglia, Saluzzo, Brignole, desiderose di emulare i nobili di antico lignaggio.
Il setaiolo doveva godere di cospicua disponibilità finanziaria per poter sostenere la sua impresa, poiché esercitava diverse tipologie di attività, anche se apparentemente affini. Svolgeva il ruolo di mercante, commerciante, ma anche di imprenditore che, in quanto proprietario sia delle materie prime sia del prodotto finito, rispondeva del successo o dell’insuccesso dell’intero processo produttivo ed era responsabile anche di tutte le maestranze che ne facevano parte.
A lungo andare, si crearono anche contrasti tra artigiani e imprenditori per le retribuzioni, sempre a causa della crisi finanziaria e la conseguenza fu l’esodo dei tessitori dalla città verso le zone rivierasche,causando molti problemi ai tessitori rimasti.
Questo fenomeno si rivelò positivo per la manifattura della seta, perché bilanciò la pesante diminuzione della produzione cittadina,strozzata dai problemi economici e,anche se non vennero raggiunti nel corso del secolo seguente i successi passati, tessuti come il velluto piano, operato e i damaschi mantennero sempre una qualità altissima e il primato anche in ambito europeo, senza cedere ai dettami della moda, che propendeva per l’introduzione di nuovi disegni; la parola d’ordine rimaneva sempre la medesima: alta classe e qualità indiscussa.
Tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento questo orientamento si affermò sempre più, grazie anche alla maggiore diversificazione tra tessuti destinati all’arredamento e quelli destinati all’abbigliamento, ognuno caratterizzato da una gamma di diversificazioni ben distinta. I primi erano contrassegnati da elementi decorativi di grandi dimensioni, spesso incorniciati da temi vegetali disposti a specchio ai lati della pezza. I secondi, invece, presentavano piccoli motivi sempre più soggetti a variazioni col procedere del secolo.
La vigilanza dei setaioli sulla produzione è sempre ferrea sia sulla qualità sia sulla esecuzione tecnica, a scapito però della creatività e delle novità proposte dalla moda.
* n. 1 – Dama genovese con bambino
* n. 2 – Marchesa Balbi
* n. 3 – Dama rossa di Bernardo Castello
Un articolo di Maria Cristina Cantàfora © per “La Camelia Collezioni”
STORIA DELLA TESSITURA LIGURE – I ° PARTE di 5 TRA REALISMO E SUBLIME BELLEZZA NELLE PIEGHE DELLA TESSITURA ARTISTICA DELLA LIGURIA ITALIANA DAL XV AL XIX SECOLO…
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