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Hermann Hesse: lo scrittore più letto del ventesimo secolo. Un talento precoce e una decisione illuminante. A cura di Alessandria today
A soli 13 anni, Hermann Hesse decise che sarebbe diventato uno scrittore, un'aspirazione che avrebbe plasmato l'intera sua vita. Nato il 2 luglio 1877 a Calw, in Germania, Hesse mostrò fin dalla giovane età un'intensa introspezione e un'immaginazione ferv
A soli 13 anni, Hermann Hesse decise che sarebbe diventato uno scrittore, un’aspirazione che avrebbe plasmato l’intera sua vita. Nato il 2 luglio 1877 a Calw, in Germania, Hesse mostrò fin dalla giovane età un’intensa introspezione e un’immaginazione fervida. Questa vocazione lo portò a esplorare temi universali e profondamente umani, rendendolo uno degli autori più influenti della sua…
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“L’affascinante abbandono a una fantasia priva di ogni credenza”. Sia lode ad Alberto Savinio, ma non fatelo parlare di politica, è di una ingenuità surreale
Mentre scrivo ho l’impressione che un gigantesco Alberto Savinio, col volto di maschera fenicia o il becco adunco di papero, possa spuntare da un momento all’altro dalla mia finestra, così come si sporgono inquietanti le figure dei suoi dipinti. Perché sento di compiere una profanazione in quel che sto per fare; sto per mettermi a sbraitare contro di lui, ad accusarlo, a fargli una colpa di questo e di quello. E mi dispiace tanto.
Savinio è tra i migliori scrittori del Novecento, Tragedia dell’infanzia è tra i libri che prediligo. Meglio di chiunque altro ha incarnato lo spirito dell’artista a 360 gradi, l’artista che sperimenta sempre, con qualsiasi mezzo. Ma c’è una parte di Savinio che mi ha deluso, ed è il Savinio “politico”, che vorrei tener separato da tutto il resto.
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La nota stonata mi è capitata fra le mani in una libreria di Ferrara e si intitola Sorte dell’Europa, un piccolo Adelphi che raccoglie scritti di carattere politico datati 1944. Questi brani hanno suscitato in me una serie di sensazioni contrapposte e fin da subito ho provato a giustificarle con quella data terribile: 1944. Non deve essere semplice scrivere con camionette stipate di nazisti che corrono per le strade del tuo paese. Eppure è come se da Savinio mi aspettassi qualcosa di più, quel passettino in avanti che me lo ha fatto amare tra i tanti.
All’indomani della conclusione del conflitto, Savinio di interroga sul futuro dell’Europa, e mi pare fin troppo naturale. Quel che più lo preoccupa è la mancanza di pensiero e di giudizio: «Mi fa paura l’inerzia dello strumento pensante e giudicante, e il numero spaventosamente grande degli uomini che non pensano né giudicano con la propria testa».
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E come dargli torto? La massa travolge ed è in balia del proprio umore, oltre che delle influenze della propaganda, nei regimi totalitari come in quelli democratici. E ha ragione quando afferma che il “pensiero dogmatico”, il credo unico, è la rovina del nostro popolo. Quel che Savinio auspica è che gli italiani vengano educati a pensare con le proprie teste. Ma dietro questa presunta educazione si nascondono una montagna di problemi. La formazione di un popolo è un tassello troppo ghiotto per lasciarlo nelle mani del caso, e oggi, nel 2020, sempre più si sente denunciare la presenza di una intellighenzia troppo schierata, al punto da estromettere alcuni pensatori non assimilabili, autori che non concedono libere interpretazioni. Un altro punto in cui Savinio mi appare fragile, è quando afferma che si dovrebbe «addestrare l’uomo a determinare da sé quello che è bene e quello che è male, quello che è lecito e quello che è illecito, quello che è bello e quello che è brutto». Ma secondo quale metro, secondo quale principio gli uomini dovrebbero basare questi giudizi? Come può l’uomo bastare a sé stesso? A leggere Savinio si direbbe che egli abbia una limitatissima cognizione della religione cristiana, accusata di oscurantismo come fossimo in un talkshow o in un dibattito fra liceali. Si ha l’impressione che questo “uomo nuovo” di Savinio debba basare le proprie idee su ideali di fratellanza e comunione, senza però accettare che tali principi derivino proprio dal cristianesimo. È sciocco oggi come allora negare le radici giudaico-cristiane dell’Europa; è controproducente, è una perdita di tempo. Savinio si serve talvolta della stessa retorica contro cui si scaglia con tanta violenza, quando rimprovera ai cattolici un certo egoismo o quando riduce il cattolicesimo ad un “monopensiero”.
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È logico che a Savinio certi concetti come “nazione” stiano stretti, lui che non ha una patria vera e propria e ha sperimentato i migliori frutti di una Europa aperta come lo era nei primi anni del Novecento. Savinio vorrebbe che le nazioni recuperassero quello spirito espansivo che hanno perduto, ma davvero le nazioni hanno avuto in passato un siffatto spirito? La natura fragile di entità come la Società delle Nazioni non si è persa nel tempo, e se ancora oggi l’Unione Europea scricchiola lo dobbiamo al fatto che questa presunta “idea” che tanto promuove Savinio è fumosa, astratta, indefinibile. Mi è difficile credere che una simile unione sarà salda e autentica, se l’idea che la presuppone non riuscirà prima a valicare i soli interessi economici, o fintanto che ci si affiderà ad un’idea che non trascende l’uomo.
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Alla tanto criticata mentalità tolemaica, Savinio propone sé stesso. Perché dietro alla tanto invocata Idea non c’è altri che Savinio. Forse è questo il suo più grave difetto: ergersi a metro di misura per tutti i popoli europei, farsi modello per il cittadino europeo. Sperare che un giorno l’Europa possa essere popolata da tanti Alberto Savinio è un’idea assurda e balorda. Un’umanità che ama «l’amara dolcedine del romantico sentire, le sue deludenti illusioni, le seduzioni del dubbio, l’affascinante abbandono a una fantasia priva di ogni credenza, di ogni razionalismo di ogni attesa di compenso, di ogni finalità». Ma un popolo del genere che futuro può avere? Siamo di fronte all’utopia più spicciola. Savinio vorrebbe generare una nuova civiltà, «prepararla per mezzo di un complesso di cognizioni spiritualmente coordinate». Se escludiamo le radici giudaico-cristiane, quali dovrebbero essere queste cognizioni spirituali? Secondo Savinio troveremo tali cognizioni nel liberalismo, e ne La sorte dell’Europa troviamo un elogio sperticato, quasi fanatico del liberalismo: «liberalismo è un cristianesimo laico e più mansueto, meno acceso, meno patetico, meno spasimante, ma più fattivo pure, più utile e, sostanzialmente, più umano, più terrestre – più civile». Una «fraternità pulita». Va bene, è il 1944, ma viene da chiedersi quale cecità avesse colpito Savinio, incapace di scorgere i grossi limiti che il liberalismo aveva già mostrato sul finire dell’Ottocento, primo fra tutti l’allargarsi del mercato fino ad occupare gli spazi più inviolabili della società.
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Savinio si perde poi in altre banalità, come «l’autorità odia l’intelligenza». Nel libro ci sono però anche alcune intuizioni interessanti, come la seguente: «se una causa ispirata da un poeta o da un artista dà cattivi effetti, non è molte volte perché quella causa è cattiva in sé, ma perché è stata interpretata da chi non è né poeta né artista». Questa affermazione, scritta nel ’44, oggi nel 2020 andrebbe impressa a fuoco sulla carne di molti intellettuali che ancora sprecano tempo e inchiostro nel tentativo di rintracciare precursori o ispiratori di questa o quella dittatura. Una seconda affermazione da salvare e su cui riflettere è: «Il verismo è il peggior nemico della letteratura. […] la letteratura non guarda al presente con l’occhio del presente. La letteratura conosce quello che il presente ignora. La letteratura dice quello che il presente tace. […] La letteratura è la Speranza Scritta. Perché tanta dignità, perché tanta altezza nella letteratura, se la letteratura non avesse il fine di sollevare l’uomo dalla sua miseria, ossia dal suo presente?».
Questo dimostra che quando Savinio parla di letteratura non è solo interessante e originale, ma è capace davvero di suscitare qualcosa nel lettore, di stimolare una riflessione, mentre il Savinio “politico” è banale, noioso, e per certe ingenuità perfino imbarazzante.
Valerio Ragazzini
*In copertina: Alberto Savinio, “La battaglia dei centauri”, 1930, particolare
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I governi cambiano, la scure repressiva contro le lotte resta
La caduta del governo Conte Uno avvenuta lo scorso agosto e la contestuale nascita del Conte Bis “desalvinizzato”, avevano ingenerato in un settore largo della sinistra e dei movimenti sociali un sentimento diffuso di attesa per un cambiamento di passo in senso democratico.
Un attesa dettata non tanto dalla possibilità che il nuovo esecutivo “giallo-rosa”, nato in nome e per conto dell’Europa del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact, potesse imprimere un vero cambiamento nelle politiche economiche o un reale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e degli oppressi, quanto dalla speranza che l’esclusione della Lega dal governo potesse mettere almeno un freno all’ondata di odio razzista e all’escalation di misure e provvedimenti restrittivi delle cosiddette “libertà democratiche”.
Le prime dichiarazioni degli esponenti del PD (con a capo Zingaretti) e di LeU non appena insediatisi al governo, alimentavano questa speranza, nella misura in cui individuavano nei due Decreti Sicurezza- Salvini al tempo stesso il simbolo e il cuore dell’offensiva reazionaria guidata dalla Lega, dichiarando solennemente che queste misure andavano abrogate o, quantomeno, radicalmente mutate.
A quattro mesi di distanza dall’insediamento del Conte bis, appare evidente che quella speranza si sia ancora una volta tradotta in una pia illusione, e che anche stavolta ci siamo trovati di fronte alla classica “promessa da marinaio” ad opera dei soliti mestieranti della politica borghese.
Il decreto Salvini- Uno
Dei due decreti- sicurezza targati Lega e convertiti in legge grazie al voto favorevole dei 5 Stelle si è parlato e si parla tanto, ma il più delle volte per alimentare in maniera superficiale una presunta contrapposizione tra “buonisti democratici” e “cattivisti destorsi” che per analizzare (e fronteggiare) la portata reale delle misure in essi contenute.
Già il primo DL, che si concentrava quasi esclusivamente contro i richiedenti asilo e i lavoratori immigrati (imponendo una stretta feroce sugli sbarchi e sulla concessione dei permessi di soggiorno, eliminando gli SPRAR e assestando un colpo durissimo all’intero sistema dell’accoglienza facendo strumentalmente leva sulle contraddizioni e sul business che spesso ruota attorno agli immigrati) in realtà puntava già molto oltre, mettendo nel mirino l’esercizio di alcune di quelle libertà che a partire dal secondo dopoguerra venivano dai più considerate “fondamentali” e costituzionalizzate come tali in ogni stato che si (auto)definisce democratico: su tutte la libertà di sciopero e di manifestazione pubblica e collettiva del dissenso.
Nella versione originaria del Decreto, quasi mimetizzato nel mezzo di una lista interminabile di norme per il “contrasto all’immigrazione clandestina” utili a soddisfare le paranoie securitarie di un’ opinione pubblica lobotomizzata dal bombardamento mediatico a reti unificate sulla minaccia dell’“invasore immigrato brutto sporco e cattivo”, ci si imbatteva nell’articolo 23, una norma di neanche dieci righe recante “Disposizioni in materia di blocco stradale”, nella quale, attraverso un abile gioco di rimandi, modifiche e abrogazioni di leggi precedenti tipico del lessico istituzionale, in maniera pressoché imperscrutabile si introduceva la pena del carcere fino a 6 anni per chiunque prendesse parte a blocchi stradali e picchetti, fino a 12 anni per chi veniva individuato come organizzatore e con tanto di arresto in flagranza, vale a dire che se a protestare sono degli immigrati, alla luce proprio di quanto previsto dal medesimo decreto, una tale condanna si sarebbe tradotta nel ritiro immediato del permesso di soggiorno e quindi nell’espulsione dall’Italia.
Dunque, in un piccolo e apparentemente innocuo trafiletto si condensava un salto di qualità abnorme contro le lotte sindacali e sociali, con pene esemplari, contro ogni forma di manifestazione di strada e ogni sciopero che non si limitasse ad un’astensione dal lavoro meramente formale e simbolica (dunque innocua per i padroni): un idea di “sicurezza” che poco avrebbe da invidiare al Cile di Pinochet se è vero, come giustamente evidenziato dall’avvocato Claudio Novaro del foro di Torino1, che ad esempio, per i partecipanti ad un’associazione per delinquere il nostro codice penale prevede sanzioni da 1 a 5 anni di reclusione, per i capi e promotori da 3 a 7, per un attentato ad impianti di pubblica utilità da 1 a 4, per l’adulterazione di cose in danno della pubblica salute da 1 a 5. Per Salvini e i compagni di merende il reato di picchetto e di blocco stradale è considerato uguale a quello di chi recluta o induce alla prostituzione dei minorenni, di chi commette violenza sessuale contro un minore di 14 anni o di chi compie violenza sessuale di gruppo ed è addirittura più alto di quello del reato di sequestro di persona, della rapina semplice e della violenza sessuale su un adulto.
Tradotto in soldoni: per la Lega interrompere anche solo per qualche ora il flusso di merci e degli “affari” a beneficio dei padroni e contro l’ordine costituito (magari per reclamare il rispetto di un contratto collettivo nazionale di lavoro, impedire un licenziamento di massa, protestare contro la devastazione dei territori o contro megaopere nocive per la salute e l’ambiente o per denunciare il dramma della precarietà e della disoccupazione) rappresenta un “pericolo per la sicurezza” più grave e penalmente più rilevante che commettere uno stupro o far prostituire minorenni!
Il fatto che l’orda reazionaria rappresentata dalla Lega, FdI possa giungere a tali livelli di delirio non sorprende più di tanto: a meravigliare (non per noi) alcuni della sinistra politica e sociale è stato invece il silenzio assordante della quasi totalità degli organi di stampa, dell’opposizione “democratica” e dei sindacati confederali CGIL-CISL-UIL, dalle cui fila non una sola parola è stata spesa per denunciare il colpo di mano dell’articolo 23, ne tantomeno per chiedere la sua immediata cancellazione: un silenzio pari o forse ancor più rumoroso dei tamburi di guerra leghisti tenendo conto che se una norma del genere fosse stata varata nella seconda metà del secolo scorso, essa si sarebbe tradotta in anni e anni di carcere, ad esempio per migliaia di iscritti e dirigenti sindacali (compreso il tanto osannato Giuseppe Di Vittorio) che in quegli anni conducevano dure battaglie sindacali all’esterno delle fabbriche o in prossimità dei latifondi agricoli, e laddove la Cgil e la Fiom di allora facevano ampio uso del picchetto e del blocco stradale quale strumento di contrattazione (fatto storico, quest’ultimo che gli attuali burocrati sindacali, epigoni di quella Cgil, preferiscono occultare, accodandosi in nome di un ipocrita legalitarismo all’ignobile campagna di criminalizzazione del conflitto sindacale…).
Un silenzio che, d’altra parte è stato quantomai “eloquente”, se si pensa che tra i principali ispiratori della prima versione dell’articolo 23 vi era Confetra, vale a dire una delle principali associazioni imprenditoriali del settore Trasporto Merci e Logistica, la quale già il 26 settembre 2018 (quindi più di una settimana prima che il testo del decreto fosse pubblicato in Gazzetta Ufficiale) per bocca del suo presidente Nereo Marcucci si precipitava a dichiarare alla stampa che tale norma era “un ulteriore indispensabile strumento di prevenzione di forme di violenza e di sopraffazione di pochi verso molti. Certamente non limita il diritto costituzionalmente garantito allo sciopero. Con le nostre imprese ed i nostri dipendenti contiamo molto sul suo effetto dissuasivo su pochi caporioni”2.
All’epoca di tale dichiarazione il testo del decreto era ancora in fase di stesura, tanto è vero che nella suddetta intervista Marcucci indica la norma antipicchetti come “articolo 25”: lasciando così supporre che i vertici di Confetra, se non proprio gli autori materiali della scrittura dell’articolo, ne fossero quantomeno i registi e gli ispiratori…
Ma chi sono quei “pochi caporioni” che Marcucci tira in ballo confidando nell’effetto dissuasivo del DL Salvini a colpi di carcere e codice penale? E che ruolo ha avuto Confetra in tutto ciò?
Il bersaglio di Marcucci, manco a dirlo, era ed è il possente movimento autorganizzato dei lavoratori della logistica rappresentato a livello nazionale dal SI Cobas e, nel nord-est, dall’ADL Cobas, che a partire dal 2009 ha operato un incessante azione di contrasto delle forme brutali di sfruttamento, caporalato, evasione fiscale e contributiva, illegalità e soprusi di ogni tipo a danno dei lavoratori, rese possibili grazie all’utilizzo di un sistema di appalti e subappalti a “scatole cinesi” e dell’utilizzo sistematico di finte cooperative come scappatoia giuridica: un azione che nel giro di pochi anni, attraverso migliaia di scioperi e picchetti (dunque riappropriandosi di quello strumento vitale di contrattazione abbandonato da decenni dai sindacati confederali integratesi nello Stato borghese ed oramai finito in disuso anche per una parte dello stesso sindacalismo “di base”) e potendo contare solo sulla forza organizzata dei lavoratori, ha portato ad innumerevoli vittorie, prima attraverso l’applicazione integrale del CCNL di categoria in centinaia di cooperative e ditte appaltatrice, e poi finanche alla stipula di ben 3 accordi-quadro nazionali di secondo livello in alcune delle più importanti filiere facenti capo all’organizzazione datoriale Fedit (TNT, BRT, GLS, SDA) e con altre importanti multinazionali del settore.
Questo ciclo di lotta ha portato nei fatti il SI Cobas e l’Adl a rappresentare nazionalmente la maggioranza dei lavoratori sindacalizzati della categoria, ma che ha dovuto fin dall’inizio fare i conti con una pesantissima scure repressiva: cariche fuori ai cancelli dei magazzini, fogli di via, divieto di dimora, sanzioni amministrative, arresti e processi a non finire, licenziamenti discriminatori e finanche l’arresto del coordinatore nazionale del SI Cobas Aldo Milani nel gennaio 2017 con l’accusa infamante di “estorsione” come conseguenza di un’ondata di scioperi che dalla logistica aveva contaminato l’”intoccabile” filiera modenese delle carni3. Confetra e le aziende ad essa associate si sono col tempo dimostrate le principali “teste d’ariete” di questa strategia, e cioè una delle controparti maggiormente ostili, refrattarie al dialogo e propense a trasformare il conflitto sindacale in un problema di “ordine pubblico” anche di fronte alle forme più intollerabili e plateali di sfruttamento e di caporalato.
E non è un caso se proprio Confetra risulta essere la parte datoriale “amica” di Cgil-Cisl-Uil, come dimostra non solo una condotta decennale tesa ad escludere i cobas dai tavoli di trattativa nazionali, ma anche la vera e propria comunione d’intenti, al limite della sponsorizzazione reciproca da essi operata sia dentro che fuori i luoghi di lavoro (appelli comuni alle istituzioni, eventi, convegni, biografie dei dirigenti Confetra in bella mostra sui siti nazionali dei confederali, “tavoli della legalità”, ecc.).
Una tale condotta da parte di Cgil-Cisl-Uil, che ha da tempo abbandonato il conflitto (seppur per una politica tradeunionista) per farsi concertativa e infine a tutti gli effetti consociativa, non poteva di certo tradursi in una qualsivoglia opposizione alle misure “antipicchetto” ideate da Salvini su suggerimento di Confetra…
Discorso analogo per l’intero panorama della sinistra istituzionale, del mondo associativo e della “società civile”, per le ragioni che vedremo in seguito.
Dunque, nell’autunno del 2018 gli unici ad opporsi coerentemente, organicamente e radicalmente al primo DL Salvini sono stati, ancora una volta, il sindacalismo conflittuale con in prima fila il SI Cobas, i movimenti per il diritto all’abitare (in particolare a Roma e Milano), alcuni centri sociali e collettivi studenteschi, la parte tendenzialmente classista, estremamente minoritaria, del mondo associativo e della cooperazione, alcune reti di immigrati col circuito “no-border”, i disoccupati napoletani del movimento “7 novembre”, qualche piccolo gruppo della sinistra extraparlamentare comunista, antagonista o anarchica, i No Tav e poco altro.
Buona parte di queste realtà hanno aderito all’appello lanciato dal SI Cobas per una manifestazione nazionale che si è svolta il 27 ottobre 2018 a Roma riempendo le vie della capitale con circa 15 mila manifestanti, in larghissima maggioranza lavoratori immigrati della logistica e non solo. Ma non si è trattato di un evento isolato: a latere di quella riuscitissima manifestazione il SI Cobas, supportato al nord da centri sociali e studenti e al centrosud da disoccupati e occupanti casa, ha indetto una numerose altre iniziative nazionali e locali, fino ad arrivare al vero e proprio assedio all’allora vicepremier 5 Stelle Luigi di Maio nella sua natìa Pomigliano d’Arco con una contestazione promossa da licenziati FCA e collettivi studenteschi il 19 novembre 2018.
E ancora una volta si è avuta la riprova che “la lotta paga”, due settimane dopo, all’atto della conversione in legge del DL- Sicurezza, la norma persecutoria prevista dall’articolo 23 è stata cancellata e ripristinata la norma precedente che in caso di picchetto o blocco stradale non prevede alcuna pena detentiva bensì una sanzione amministrativa da 1000 a 4000 euro (come si vedrà nel caso delle lotte alla Tintoria Superlativa di Prato, questa misura, disapplicata e di fatto finita in desuetudine per decenni, verrà rispolverata con forza e con zelo durante tutto il 2019 contro operai in sciopero e disoccupati). Ad ogni modo, le proteste autunnali hanno probabilmente ricondotto a più “miti consigli” almeno una parte dei 5 Stelle, già all’epoca dilaniati dalla contraddizione insanabile tra le aspettative suscitate nella componente operaia del suo elettorato e le imbarazzanti performance governative fornite dai suoi vertici finiti a braccetto prima con la Lega di Salvini, poi col tanto vituperato PD.
Alla luce di questo parziale ma preziosissimo risultato, ottenuto con la mobilitazione di alcune decine di migliaia di manifestanti, qualcuno dovrebbe chiedersi cosa sarebbe rimasto del DL-Salvini se quelle organizzazioni sindacali confederali che tanto sono “maggiormente rappresentative” sui luoghi di lavoro, se non fossero ormai integrate nello stato a difesa degli interessi capitalisti si “ricordassero” quale dovrebbero essere il loro ruolo e fossero scese in piazza contro questa legge reazionaria e razzista: con ogni probabilità (e come sta insegnando in queste settimane il movimento francese contro la riforma pensionistica di Macron), quel decreto sarebbe divenuto in poche ore carta straccia…
Lega, 5 stelle e padronato ritornano alla carica: il Decreto Salvini- Due
Come insegna l’intera storia del movimento operaio, le conquiste e i risultati parziali strappati con la lotta possono essere difesi e preservati solo intensificando ed estendendo le lotte stesse.
Purtroppo, l’esempio tangibile dato dal SI Cobas e dai settori scesi in piazza contro il primo Decreto-Salvini non è riuscito a smuovere sufficientemente le acque e a portare sul terreno del conflitto reale quel settore di lavoratori, precari, disoccupati, studenti e immigrati ancora legati ai sindacati confederali e al resto del sindacalismo di base, ne è riuscito a coagulare attorno a se quel che resta dei partiti e dei partitini della sinistra “radicale”, dai comitati antirazzisti e ambientalisti spalmati sui territori, i movimenti delle donne come NUDM ( in realtà, queste ultime attive e con un seguito importante sulle tematiche di loro specifica pertinenza, ma incapaci di sviluppare un opposizione a tutto campo e di collegarsi alle lotte sui luoghi di lavoro e alle principali emergenze sociali).
E, inevitabilmente, l’offensiva di governo e padroni è ripartita in maniera incessante, prendendo la forma del “Decreto-sicurezza bis”.
Il canovaccio è stato grosso modo identico a quello del primo DL: immigrazione e “ordine pubblico” restano le due ossessioni di Salvini. A cambiare è tuttavia il peso specifico assegnato a ciascuna emergenza: il Dl bis “liquida” in soli 5 articoli il tema- immigrazione prevedendo una pesante stretta repressiva sugli sbarchi e “pene esemplari” per chi viene ritenuto colpevole di favorire l’immigrazione clandestina (dunque in primo luogo le tanto odiate ONG, i cui comandanti delle navi possono essere condannati a multe fino a un milione di euro), per poi concentrarsi con cura sulle misure tese a schiacciare sul nascere ogni possibile sollevazione di massa in chiave antigovernativa.
E così si prevede, negli articoli 6 e 8 un forte inasprimento delle pene per l’uso dei caschi all’interno di manifestazioni, per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e finanche per l’uso di semplici fumogeni durante i cortei.
Il decreto, entrato in vigore il 15 giugno 2019, viene definitivamente convertito in legge l’8 agosto, dunque a pochi giorni dalla sceneggiata del Papeete Beach e della fine anticipata dell’esecutivo gialloverde.
Va peraltro notato che in questa occasione, contrariamente a quanto avvenuto col primo decreto, durante l’iter di conversione le pene previste, sia in caso di sbarchi di clandestini sia riguardo l’ordine pubblico alle manifestazioni, vengono addirittura inasprite: il tutto con il voto favorevole dell’intero gruppo parlamentare pentastellato!
Il resto della storia è noto come abbiamo accennato all’inizio dell’articolo.
Nel corso dei primi mesi di insediamento del Conte Bis, lungi dall’assistere a un ammorbidimento della stretta repressiva, abbiamo assistito invece ad un suo inasprimento: a partire dalla primavera del 2019 ad oggi gli scioperi nella logistica e i picchetti sono quotidianamente attaccati dalle forze dell’ordine a colpi di manganello e gas lacrimogeni, ma soprattutto si moltiplicano le misure penali, cautelari e amministrative e addirittura le Procure tirano fuori, come per magia, procedimenti pendenti per manifestazioni, scioperi e iniziative di lotta svoltesi anni addietro e tenute a lungo nel cassetto. La scure colpisce indiscriminatamente tutto ciò che sia mosso nell’ultimo decennio: scioperi, movimento No-Tav, lotte dei disoccupati, occupazioni a scopo abitativo, iniziative antimilitariste, e persino semplici azioni di protesta puramente simbolica.
Tuttavia, per mettere bene a fuoco il contesto generale che portano a questa vera e propria escalation bisogna fare un passo indietro e tornare al 2017.
E’ in questo periodo, infatti, che il governo Gentiloni a guida PD vara il Decreto- sicurezza Minniti, contenente gran parte delle norme e delle pene di cui si servono le Procure per scatenare questa vera e propria guerra agli sfruttati e agli oppressi.
Il DL Minniti-Orlando
Roma, 25 marzo 2017: in occasione del vertice dei capi di stato UE per celebrare i 60 anni dei Trattati, le strade della capitale sono attraversate da diversi cortei, tra cui quello del sindacalismo di base e dei movimenti che esprimono una radicale critica alle politiche di austerity imposte da Bruxelles. Ancor prima dell’inizio della manifestazione avviene un vero e proprio rastrellamento a macchia di leopardo per le vie di accesso alla piazza: 30 attivisti vengono fermati dalla polizia e condotti in Questura, laddove saranno sequestrati per ore e rilasciati solo a fine corteo. Questo controllo “preventivo” ha come esito l’emissione di 30 DASPO urbani per tutti i fermati: la loro unica colpa era quella di indossare giubbotti di colore scuro e qualche innocuo fumogeno. In alcuni casi gli agenti pur avendo potuto appurare la mancanza di precedenti penali, decidono di procedere ugualmente al fermo in base all’“indifferenza ed insofferenza all’ordine costituito con conseguente reiterazione di condotte antigiuridiche sintomatiche”.
I suddetti Daspo urbani rappresentano la prima applicazione concreta del DL Minniti, varato dal governo Renzi il 17 febbraio 2017 e definitivamente convertiti in legge il successivo 12 aprile contestualmente all’approvazione di un secondo decreto “Orlando-Minniti” sull’immigrazione. Tale misura, che prende a modello anche nel nome gli analoghi provvedimenti già sperimentati sulle curve calcistiche, nelle dichiarazioni di Minniti si prefigge di tutelare la sicurezza e il decoro delle città attraverso l’allontanamento immediato di piccoli criminali o di semplici emarginati (clochard, viandanti, parcheggiatori abusivi, ambulanti), con ciò svelando fin dal principio la una visione securitaria analoga a quella della Lega. Ma i fatti di Roma dimostrano in maniera chiara che il bersaglio principale del DL Minniti è il dissenso sociale e politico: la linea guida è quella di perseguire le lotte sociali in via preventiva, non più attraverso le leggi e le norme del codice penale ad esse preposte e per i reati “tipici” riconducibili a proteste di piazza, bensì attraverso l’uso estensivo e per “analogia” di fattispecie di reato ascrivibili alla criminalità comune: a sperimentarlo sulla loro pelle saranno ad esempio i 5 licenziati della FCA di Pomigliano d’Arco, che l’11 ottobre 2018 si vedono rifilare un Daspo immediato da parte della Questura a seguito di un’iniziativa simbolica e pacifica su un palazzo di piazza Barberini in cui si chiedeva un incontro col l’allora ministro Di Maio.
In realtà il Daspo urbano codifica ed accelera un processo che è già in atto e che nelle aule di Tribunale ha già prodotto numerosi precedenti: su tutti basterebbe pensare alla feroce repressione abbattutasi nel 2014 contro decine di esponenti del movimento dei disoccupati napoletani, incarcerati o condotti agli arresti domiciliari per diversi mesi con l’accusa di “estorsione” associata alla richiesta di lavoro, o al già citato caso di Aldo Milani, condotto agli arresti con la stessa accusa il 26 gennaio 2017 a seguito di un blitz delle forze dell’ordine a un tavolo di trattativa sindacale in cui si stava discutendo di 55 licenziamenti nell’azienda di lavorazione carni Alcar Uno e della possibilità di interrompere le agitazioni nel caso in cui i padroni avessero sospeso i licenziamenti e pagato quanto dovuto ai lavoratori…
In secondo luogo, il Daspo urbano va ad affiancarsi a un già ampio ventaglio di misure restrittive e limitative della libertà personale: fogli di via obbligatori, obblighi e divieti di dimora, avvisi orali, sorveglianza speciale, ecc.: riguardo quest’ultima, il caso forse più eclatante è rappresentato dalla sentenza del 3 ottobre 2016 con cui il Tribunale di Roma ha imposto un rigido regime di sorveglianza speciale a carico di Paolo Di Vetta e Luca Faggiano, due tra i principali esponenti del movimento romano per il diritto all’abitare (questa misura è poi diventata, negli ultimi anni, il principale strumento repressivo teso a colpire il movimento anarchico in varie città). D’altra parte va evidenziato che rispetto alle misure sovracitate, il Daspo Urbano si contraddistingue per la tempestività di attuazione in quanto diviene immediatamente esecutivo senza dover attendere l’iter processuale.
L’approvazione nello stesso giorno della legge Minniti, intitolata “Disposizioni urgenti per la tutela della sicurezza delle città” e della legge Minniti- Orlando intitolata “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale e per il contrasto dell’immigrazione illegale” non è casuale, bensì risponde a una precisa strategia tesa ad associare l’“emergenza-sicurezza” con l’“emergenza immigrati”, presentandole agli occhi dell’opinione pubblica come due facce della stess medaglia. D’altrone, le norme contenute nella legge immigrazione voluta dal PD, per il loro tenore discriminatorio e repressivo non si fanno mancare davvero niente. Al suo interno sono previsti, tra l’altro: l’ampliamento e la moltiplicazione dei centri di espulsione (ribattezzati CPR al posto dei CIE creati dalla Bossi-Fini) che da 5 passano a 20; l’accelerazione delle procedure di espulsione attraverso l’abolizione del secondo ricorso in appello per le richieste di asilo; l’abolizione dell’udienza (il testo del decreto, poi modificato, prevedeva addirittura la creazione di tribunali speciali ad hoc, vietati dalla Costituzione) e l’introduzione del lavoro volontario, cioè gratuito, per gli immigrati. Contestualmente, nelle stesse settimane il governo Gentiloni siglava un memorandum con il governo libico in cui veniva garantito il massimo supporto in funzione anti-Ong alla guardia costiera libica, cioè a coloro che sono universalmente riconosciuti come responsabili di violenze e torture nei campi di detenzione. Non è un caso che questa legge abbia ricevuto dure critiche persino dall’ARCI e dalle ACLI (senza però mai tradursi in mobilitazioni concrete per la sua cancellazione).
Da questa ampia disamina dovrebbe dunque apparire chiaro come i due decreti- Salvini siano tutt’altro che piovuti dal cielo, e men che meno il semplice frutto di un “colpo di mano” ad opera di un estremista di destra: al contrario, Salvini e i suoi soci hanno camminato su un tappeto di velluto sapientemente e minuziosamente preparato dai governi a guida PD.
Il messaggio di questi provvedimenti è sostanzialmente analogo: se sei italiano devi rigare dritto e non osare mai disturbare il manovratore, pena il carcere o la privazione della libertà personale; se sei immigrato, o accetti di venire in Italia, come uno schiavo non avrai alcun diritto e sarai sfruttato per 12 ore al giorno in un magazzino o in una campagna a 3-4 euro all’ora, oppure sarai rimpatriato.
L’escalation repressiva degli ultimi mesi contro il SI Cobas
Avendo a disposizione un menu di provvedimenti tanto ampio, nel corso del 2019 lo stato concentra ancor più le proprie attenzioni contro le lotte sindacali nella logistica e i picchetti organizzati dal SI Cobas col sostegno di migliaia di lavoratori immigrati.
Ancora una volta la città di Modena diviene il laboratorio di sperimentazione del “pugno di ferro” da parte di Questure e Procure. La ribellione delle lavoratrici di ItalPizza, sfruttate per anni con contratti-capestro non corrispondenti alle loro mansioni e discriminate per la loro adesione al SI Cobas, diviene il simbolo di una doppia resistenza: da un lato ai soprusi dei padroni, dall’altro alla repressione statale.
La reazione delle forze dell’ordine è durissima: lacrimogeni sparati ad altezza-uomo, responsabili ed operatori sindacali pesatati a freddo, lavoratrici aggredite mentre sono in presidio. Addirittura si mobilitano a sostegno dei padroni le associazioni delle forze di polizia con in testa il potente SAP.
Ad ottobre si arriva addirittura a un maxiprocesso a carico di ben 90 tra lavoratori, sindacalisti e solidali. Ma la determinazione delle lavoratrici è più forte di ogni azione repressiva, e nonostante l’azione congiunta di padroni, forze dell’ordine e sindacati confederali, la battaglia per il riconoscimento di pieni diritti salariali e sindacali è ancora in corso.
Ma Modena è solo la punta dell’iceberg: nella vicina Bologna, una delle principali culle del movimento della logistica, ad ottobre i PM della Procura della Repubblica tentano addirittura di imporre 5 divieti di dimora per alcuni tra i principali esponenti provinciali del SI Cobas, compreso il coordinatore Simone Carpeggiani, accusati di minare l’ordine pubblico della città per via di uno sciopero con picchetto che si era svolto un anno prima (misura alla fine respinta dal giudice).
Nelle stesse settimane alla CLO di Tortona (logistica dei magazzini Coop), dopo un innumerevole sequela di attacchi delle forze dell’ordine al presidio dei lavoratori a colpi di manganelli e lacrimogeni, il 25 novembre la Questura di Alessandria decide di intervenire a gamba tesa ed emette 8 fogli di via contro lavoratori e attivisti.
A Prato, città attraversata da più di un anno da imponenti mobilitazioni operaie nel settore tessile, dapprima (a marzo 2019) vengono emessi due fogli di via nei confronti dei responsabili SI Cobas locali; poi, a dicembre, nel pieno di una dura vertenza alla Tintoria Superlativa di Prato (in cui tra l’altro i lavoratori pachistani denunciano un consolidato sistema di lavoro nero e sottopagato), si passa ai provvedimenti amministrativi, con la Questura che commina 4 mila euro di multa a 19 lavoratori e due studentesse solidali con le proteste.
Il 9 gennaio il gip di Brescia emette otto divieti di dimora nel comune di Desenzano del Garda a seguito delle proteste del SI Cobas contro 11 licenziamenti alla Penny Market.
A queste e tante altre analoghe misure restrittive si accompagnano altrettanti provvedimenti amministrativi tesi a colpire economicamente le tasche dei lavoratori e del sindacato.
Intanto, i PM del Tribunale di Modena sono ricorsi ( seppure la macchina amministrativa giudiziaria sia intasata da milioni di processi non compiuti) in appello, contro la sentenza di assoluzione piena avvenuta in primo grado nei confronti di Aldo Milani nel già citato processo sui fatti in Alcar Uno.
E’ evidente che un azione talmente incessante e sistematica da parte di Questure e Procure risponde a un organico disegno politico: neutralizzare e decapitare un sindacato combattivo e in continua espansione serve ad assestare l’ennesimo colpo al diritto di sciopero e all’esercizio della libertà di associazione sindacale, entrambi già gravemente compromessi nella gran parte dei luoghi di lavoro e ulteriormente ridotti all’indomani dell’approvazione del Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, grazie al quale il riconoscimento sindacale diviene un privilegio ottenibile solo in cambio della rinuncia sostanziale allo sciopero come arma di contrattazione.
L’oramai più che decennale processo di blindatura da parte dello Stato verso ogni forma di dissenso e di conflitto è in ultima istanza il prodotto di una crisi economica internazionale che, lungi dall’essersi risolta, si riverbera quotidianamente in ogni aspetto della vita sociale e tende ad alimentare contraddizioni potenzialmente esplosive e tendenzialmente insanabili.
Le leggi e i decreti sicurezza, i quali, una volta scrostata la sottile patina di colore ad essi impressa dai governi di questo o quello schieramento, mostrano un anima pressoché identica, rappresentano non la causa, bensì il prodotto codificato e “confezionato” di questi processi, a fronte dei quali il razzismo e le paranoie securitarie divengono forse l’ultima “arma di distrazione di massa” a disposizione dei governi per occultare agli occhi di milioni di lavoratori e di oppressi una realtà che vede continuare ad acuirsi il divario sociale sfruttatori e sfruttati, capitalisti e masse salariate.
Alla luce di ciò, è evidente che ogni ipotesi “cambiamento” reale dell’attuale stato di cose, ogni movimento di critica degli effetti nefasti del capitalismo (razzismo, sessismo, devastazione ambientale, guerra e militarismo, repressione) può avere concrete possibilità di vittoria o quantomeno di tenuta solo se saremo capaci di collegare in maniera sempre più stretta e organica il movimento degli sfruttati. Unire le lotte quotidiane portate avanti dai lavoratori, dai disoccupati, dagli immigrati, dagli occupanti casa, di chi difende i territori sottoposti a devastazione ambientale e speculazione ecc.
Come dimostra anche la storia recente, affrontare la repressione come un aspetto separato rispetto alle cause reali e profonde che generano l’offensiva repressiva, significa porsi su un piano puramente difensivo e alquanto inefficace.
L’unico reale rimedio alla repressione è l’allargamento delle lotte sociali e sindacali, così come l’unico antidoto agli attacchi alla libertà di sciopero sta nel riappropriarsi dello strumento dello sciopero. Ciò nella consapevolezza che a fronte di un capitalismo sempre più globalizzato diviene sempre più urgente sviluppare forme stabili di collegamento con le mobilitazioni dei lavoratori e degli sfruttati che, nel silenzio dei media nostrani, stanno attraversando i quattro angoli del globo (dalla Francia all’Iraq, dall’Algeria all’India), il più delle volte ben più massicce di quelle nostrane sia per dimensioni che per livelli di radicalità.
Senza la ricostruzione di un vero e forte movimento politico e sindacale di classe, combattivo e autonomo dalle attuali consorterie istituzionali e dai cascami dei sindacati asserviti, saremo ancora a lungo costretti a leccarci le ferite.
Nell’immediato, diviene sempre più necessario costruire un fronte ampio contro le leggi-sicurezza, per chiedere la loro cancellazione immediata e costruire campagne di informazione e sensibilizzazione finalizzate a fermare la scure repressiva che sta colpendo migliaia di lavoratori, attivisti, giovani e immigrati.
Per tale motivo una delle iniziative che vogliamo fare è quella di mettere in campo un’assemblea l’8 febbraio a Roma per un fronte unico di tutti quelli che si battono contro le politiche anti proletarie e repressive borghesi.
SI Cobas
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La tavolozza di Anders Zorn
Il nome del pittore svedese Northern Light: Nordic Art at the Turn of the Century
ha scritto: “Zorn era noto perché eseguiva i suoi quadri usando una scala di colori molto sobria, limitata a bianco, ocra, vermiglione e nero avorio.” Hans Henrik Brummer, scrisse nel libro 1986 catalog on Zorn
, “fondamentalmente il suo registro si limitava a nero, bianco terra gialla e vermiglione; Altri pigmenti sono usati raramente e solo se necessitano accenti locali.” Parecchi insegnanti di pittura contemporanei, come Jeff Watts, usano la "Tavolozza di Zorn" (a volte sostituendo il rosso di cadmio chiaro al vermiglione) come strumento didattico perché costringe gli studenti a lavorare con una gamma limitata di colori dai quali però devono cavare abbastanza scelte tonali da coprire le esigenze di gamma della maggior parte dei soggetti pittorici. Il grigio nel contesto di una tavolozza tanto limitata può - per interferenza - apparire con un tono bluastro. Recentemente, alcuni autori, hanno sollevato dubbi sull'uso di questa tavolozza tanto limitata da parte di Zorn. Bob Bahr dell'American Artist, ha cercato di stabilire che la "cosiddetta" tavolozza di Zorn "si può considerare un ottimo mezzo di pittura ma è un errore attribuire la sua paternità a Anders Zorn.” Bahr cita Birgitta Sandström, la direttrice del museo della Collezione Zorn a Mora, in Svezia, che dichiara di avere “difficoltà anche a comprendere l'ipotesi che Zorn abbia lavorato con la tavolozza specializzata che viene considerata associata a lui” a causa del fatto che il blu e e il verde sono stati trovati in alcuni dei suoi dipinti, e perché quei colori sono stati trovati tra i materiali del suo studio. La Sandström ci fa sapere che “17 tubetti di blu di cobalto sono presenti tra i 243 tubetti di colore lasciati da Zorn nel suo studio a Mora.” Merit Laine, curatore delle stampe e dei disegni conservati nel Museo Nazionale di Stockholm, “concorda con la constatazione che il concetto di una "tavolozza Zorn" è un po' un termine improprio.”
Non pretendo di essere un esperto del pittore Zorn, ma parlando da pittore, credo che questi commentatori si sbaglino non avendo colto il nocciolo della questione. Nessuno vuole affermare che Zorn abbia sempre usato esclusivamente quella tavolozza ultra limitata. Ovviamente, molti dei suoi dipinti (come quella qui a fianco) utilizzano una gamma più ampia di colori, tra cui blu. Credo che ci sia anche un problema logico nel tirare in ballo la presenza di tubi di colore blu superstiti. Il fatto non prova gran che. Nel mio caso, il fondo della mia cassetta dei colori è zeppa di decine di colori che non uso mai. Alcuni di questi, come il"Verde Aubusson" e il "Blu Tuareg", sono stati comprati solo perché costavano pochissimo e non sono mai stati usati; altri non sono stati mai toccati da vent'anni. Certi sono così costosi che non me la soo mai sentita di "consumarli". Altri ancora hanno perso l'etichetta e non so più che cosa sono. Certi sono così tossici che li evito come se fossero scorie radioattive. Alcuni sono attaccata al fondo del cassetto perché hanno perso olio di lino che seccando li ha incollati li. Io uso spesso tavolozze limitate, ma non avrei mai immaginato che qualcuno in futuro potrebbe cercare di capire che colori uso frugando nella mia cassetta dei colori.
Quali sono invece le prove che Zorn abbia spesso usato la famosa tavolozza di quattro colori? Prima di tutto moltissimi dei suoi dipinti sono evidentemente realizzati usando una gamma cromatica molto stretta, che potrebbe essere stata dipinta proprio con quei pochi colori. Teoricamente un pittore potrebbe ottenere dipinti con un'apparenza simile a quella ottenuta da Zorn anche lavorando con una tavolozza estesa. Una analisi chimica potrebbe dare risposte più sicure, ma la maggioranza dei pittori che Zorn nominava come suoi esempi ispiratori, come Frans Hals, Diego Velasquez, and James M Whistler, usavano tavolozze molto limitate. Parlare di tavolozze limitate per gli artisti del periodo di Zorn era argomento consueto e comune nell'ambiente professionale artistico del suo periodo. Esistono inoltre moltissime testimonianze di colleghi pittori del periodo che parlano nei loro scritti della tavolozza limitata che questo pittore utilizzava. Per esempio, il pittore di formazione europea Landscape Painting” del 1909, scrive: “Un pittore esperto non si lascia disturbare da pigmenti inutili. Seleziona quei pochi toni che sono realmente essenziali e getta da parte il resto come legname inutile. L'artista svedese, Zorn, usa solo due colori: vermiglio e giallo ocra, dato che gli altri due pigmenti presenti sulla sua tavolozza: bianco e nero, sono la negazione del colore. Con questa tavolozza, semplice fino alla povertà, egli ha tuttavia ritenuto - con ragione - che fosse possibile dipingere una immensa varietà di paesaggi e figure.
Guardando le sue tavolozze, quelle conservate nel museo Zorn, possiamo notare qualche tocco di giallo cadmio, e forse piccole quantità di blu o verde, ma ci troviamo di fronte a una piccola tavolozza ed a una piccola scatola, cosa che sembra sottolineare la prevalenza dei principali quattro colori.
Infine, ecco il suo autoritratto, dove è chiaramente visibile la sua tavolozza, con i quattro colori in bella mostra: bianco, ocra, rosso e nero. Zorn era consapevole della propria immagine, era certamente consapevole di ciò che stava comunicando con la sua immagine agli altri artisti mostrando orgogliosamente la propria tavolozza di soli quattro colori. Ciò che i dubbiosi devono comprendere è che quella tavolozza limitata, non è segno di impoverimento, piuttosto di padronanza sicura delle proprie risorse. Con le parole di Brummer, “disporre di risorse limitate potrebbe essere un bene.” Gli esperimenti di Zorn con la sua tavolozza limitata sono la dimostrazione del suo virtuosismo, un segno della sua forza come pittore. LINK UTILI Anders Zorn complete works (website) Anders Zorn on Wikipedia LIBRI Northern Light: Nordic Art at the Turn of the Century
Anders Zorn: Paintings and Drawings: Volume 19
Landscape Painting
by Birge Harrison Color and Light: A Guide for the Realist Painter
Un ringraziamento a Tim Adkins per la foto della tavolozza. Read the full article
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TUTTI I RACCONTI di FLANNERY O' CONNOR EDIZIONE BOMPIANI
A Mardilibri accadono un sacco di cose belle e il "corso racconto " della scuola Carver tenuto dal professor Lorenzo Bianchi è una di queste!
Se è vero che l' obiettivo è quello di imparare a scrivere un racconto ,il mezzo è la lettura e le spiegazioni fluide, dettagliate e simpatiche del nostro grande prof mi hanno fatto rivalutare la lettura di racconti, specialmente di alcuni autori come Carver o in questo caso di una grande autrice americana ,vissuta tra gli anni venti e sessanta, Flannery O'Connor.
Se avete voglia di ritmo serrato come conviene ad un racconto, di personaggi stravaganti, di oggetti, protagonisti e ispiratori ,di dinamiche spesso perverse e surreali vi consiglio di acquistare questa raccolta di racconti e in particolare di soffermarvi sulla lettura di "Brava gente di campagna"
Qui troverete la protagonista con una gamba di legno, il suo ammiratore munito di una grande vailigia, e altri personaggi tutti "brava gente di campagna", che pensa e agisce secondo tale epiteto.
Una sottile ironia si mescola ad una critica feroce dedicata ai bigotti religiosi americani, parole scelte con cura meticolosa vi faranno sorridere, pensare e trascorre un tempo in sintonia con la vita.
parola di libraia
Silvia
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La mafia è buona!, Il Sessantotto a Napoli, Il Merito di Napoli, 70… ma non li dimostra, L’idea che avevo di tutto il resto, Rosso Velázquez, Il suono dell’amore.
Un mese ricco di libri e di appuntamenti per Rogiosi Editore che apre il suo calendario lunedì 5 novembre, alle 16.00, nella Sala Emeroteca della Biblioteca Nazionale, con “Il Sessantotto a Napoli. Frammenti di vita” di Massimiliano Crocco. Con l’autore interverranno Tristana Dini, docente di Etica dell’ambiente all’Università Federico II di Napoli e Mariagrazia Gravina, docente di Storia e Filosofia al liceo “Galileo Galilei” di Napoli. Modera Rosanna Borzillo, giornalista di “Nuova Stagione”. Massimiliano Crocco parte dal desiderio di inquadrare immagini del Sessantotto a Napoli, a cinquant’anni esatti da quei mesi così vivi e densi di avvenimenti. Allora, a tentoni, cerca un’icona, una storia, e va quasi a “sbattere” – così racconta – contro un frammento apicale di femminismo napoletano: Lina Mangiacapre.
Mercoledì 7 novembre, alle 18.00, lo spazio eventi laFeltrinelli Libri e Musica di via Santa Caterina 23 (piazza dei Martiri) ospita la presentazione del libro “La mafia è buona”, scritto a quattro mani dal magistrato Catello Maresca, Sostituto Procuratore della Repubblica e da Paolo Chiariello, un “giornalista scomodo alla mafia”. Con gli autori interverranno Franco Roberti, assessore alla Sicurezza Regione Campania e Federico Monga, direttore del quotidiano Il Mattino. “La mafia non uccide solo d’estate. La mafia ci uccide tutti i giorni, sporcando il nostro passato, sfruttandoci nel presente, privandoci del futuro – scrivono gli autori –. In questo libro proviamo a spiegare perché la mafia non è stata sconfitta e perché la parola mafia è sparita da anni dall’Agenda politica del Paese”.
Lunedì 12 novembre, alle 17.00, il PAN Palazzo delle Arti Napoli, ospita la presentazione della collana di libri “Il merito di Napoli”, edita da Rogiosi e realizzata con il coordinamento di Gianpasquale Greco. I titoli in collana sono “Fabrizia Ramondino tra Napoli e il Mondo” di Marina Diano, “L’avvento dei Motori. L’automobilismo nella Napoli del primo Novecento” di Luigi Casaretta, “La fortuna di Caravaggio nell’Ottocento Napoletano” di Alessandra Trifari, “Il sistema dell’arte contemporanea a Napoli: gallerie, fondazioni, musei” di Rosaria Carlomagno, “Le mie stagioni” di Stefano Cortese, “L’Arcipelago Imbriani” di Anna Rita Rossi. L’evento è organizzato in collaborazione con l’Associazione Culturale Creativi Attivi.
Mercoledì 14 novembre, alle 17.00, la Bibliomediateca Ethos e Nomos, in via Bernini 50, ospita la presentazione di “70… ma non li dimostra. La costituzione spiegata ai ragazzi” di Gianpaola Costabile. Con l’autrice interverranno il magistrato Nicola Graziano, Pasquale Malva, già dirigente scolastico Liceo “G. Mazzini” di Napoli, Davide Estate, presidente Fondazione Antiracket Vomero. Modera la giornalista Daniela Merola. L’obiettivo del libro è quello di presentare agli studenti gli articoli fondanti del dettato costituzionale, rinforzati da citazioni di personaggi illustri circa il valore della Costituzione e corredati di racconti, che aiutino gli educatori di riferimento a sviscerarne contenuti e principi ispiratori.. Il libro “70… ma non li dimostra. La costituzione spiegata ai ragazzi” sarà presentato anche alla Feltrinelli di Caserta, martedì 20 novembre alle 18.00.
Venerdì 16 novembre, alle 18.00, al Gran Caffè Gambrinus si terrà la presentazione del libro “L’idea che avevo di tutto il resto” di Alfonso Cusano. Con l’autore interverrà Antonio Tricomi, giornalista del quotidiano La Repubblica. Reading affidato all’attrice Stefania Stella Granato.Il libro racconta la storia di Ettore che vive sprofondato nei suoi pensieri, e tutto quello che lo circonda fatica ad assumere un significato netto e preciso. A Napoli il suo laboratorio di scene teatrali è uno dei più apprezzati sulla piazza. Lui lavora fino a tardi. Va a mangiare qualcosa al pub di un amico al centro storico, oppure un po’ di pesce al porto del Granatello. Insegue qualche avventura facile, ascolta buona musica. In fondo, non chiede di più. Eppure, la notte fatica a dormire, e se ne sta spesso a guardare le stelle. Si porta dentro i cocci di un matrimonio fallito, e la vita che è andata come è andata: l’Accademia, l’arte e la politica; gli anni giovani delle “grandi idee”, che sono passati lasciando l’amaro in bocca. Adesso sono gli anni Ottanta e tutto sta cambiando. Ma il futuro, quando arriva, non è mai come ce l’eravamo immaginato. Perché intanto gli amici partono, i genitori si fanno vecchi, il lavoro ti ruba la vita. E poi c’è l’amore, che è sempre una cosa complicata, un equilibrio difficile da centrare.
Mercoledì 21 novembre, alle 18.00, al Gran Caffè Gambrinus sarà presentato “Rosso Velázquez” di Roberto Middione. Nel libro, che rientra nella collana di gialli Rosso&Nero, il mondo dell’arte e oscuri risvolti thriller sono i punti cardinali di una trama in bilico tra passato e presente, tra Napoli e Madrid. Entro queste coordinate muove Rosso Velázquez, romanzo di esordio che segue i percorsi del giallo storico, del saggio, del racconto di caratteri. Ne è protagonista Glauco Sampieri, un addetto ai lavori impegnato a organizzare una memorabile mostra sui tre geni del pennello, Tiziano, Rubens e Velázquez. Indizi, antefatti, incognite del presente e slanci per il futuro agiteranno i suoi percorsi, con la saltuaria presenza della sua compagna Angela e dei suoi singolari colleghi, oltre alle entrate in scena di personaggi surreali o inquietanti, tutti sopra le righe. Sullo sfondo, irresistibile chimera, occhieggia il capolavoro dimenticato e poi cercato, quel Rapimento d’Europa del sivigliano Velázquez, ponte di unione tra la Napoli seicentesca capitale del Viceregno spagnolo e la convulsa metropoli di oggi.
Giovedì 29 novembre, alle 18.00, sempre al Gran Gaffè Gambrinus sarà presentato “Il suono dell’Amore” di Carlo Giordano. Con l’autore interverrà Gianpasquale Greco. Modera la giornalista Valentina Amore. In questo libro, che rientra tra i gialli della collana Rosso&Nero Rogiosi, l’ispettore Molinari torna a indagare sulla sua amata città, Napoli: questa volta quanto mai cosmopolita, da sempre pronta ad accettare qualsivoglia attività lavorativa, nonché magnanima verso si industria a vivere unicamente di fantasia. Una Napoli che ha da sempre concesso il suo abbraccio ospitale a chiunque lo chiedesse e, ancora una volta, accetta di essere palcoscenico di una variegata moltitudine di personaggi. Improbabili attori che attraversano la vita come fosse una commedia, e nonostante i percorsi diversi, finiscono tutti per cadere in amore, rifugiandosi in storie che sembrano impossibili, ma sono pur sempre improntate sul più classico dei sentimenti. Partenope, fiera delle sue antiche leggende, si inventa di tutto per proteggere ogni anelito e far splendere ogni luce. Ma l’amore, nelle sue forme più disparate, è la più complessa delle passioni, e Matteo Molinari deve saper trovare il bandolo di una matassa ingarbugliata più che mai.
Tutti gli appuntamenti di novembre di ROGIOSI EDITORE La mafia è buona!, Il Sessantotto a Napoli, Il Merito di Napoli, 70… ma non li dimostra, L’idea che avevo di tutto il resto,
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Triscaidecalogo: cos'è e cosa si vuole comunicare con i suoi punti?
Triscaidecalogo: cos’è e cosa si vuole comunicare con i suoi punti?
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PORTO RECANATI – A Porto Recanati appuntamento martedì sera 21 agosto con la grande musica de la Compagnia di Musicultura, riflettori puntati su: “Scalinatella, la canzone napoletana dalla villanella al rock blues” una produzione dell’applauditissima serie di spettacoli la “Storia cantata” scritta e diretta da Piero Cesanelli. Un atteso evento del calendario estivo di Porto Recanati aperto al pubblico, che andrà in scena alle 21,15 all’Arena Gigli,
Un emozionante viaggio nel panorama della musica napoletana dalla villanella al rock blues, un percorso che sottolinea i mutamenti della scrittura musicale di questo grande popolo di artisti. Dalle villanelle del 1600 si sale alla prima tarantella, per poi proseguire dalla canzone classica al rock blues dei giorni nostri individuando i grandi temi ispiratori: Napoli l’America e la ricerca del lavoro, l’amore, la malavita, l’innocenza perduta.
“Quando parliamo della canzone popolare e d’autore – ha dichiarato Piero Cesanelli– l’Italia è ancora conosciuta e riconosciuta nel mondo per il genere musicale partenopeo. Tutto si può dire è partito da lì quando alla fine del 1800 due autori classici come Bellini e Donizetti si sono messi al servizio della canzone popolare.” Oltre ad un doveroso omaggio alla canzone tradizionale, Cesanelli propone anche una selezione partenopea delle nuove generazioni tra cui Pino Daniele, Bennato, Gragnaniello e lo stesso Murolo.
“Scalinatella” ha anche una parte recitata: un canovaccio sulla storia della canzone raccontata da Piero Piccioni a cui si aggiungono gli interventi recitati di Andrea Di Buono, una figura teatrale chiaramente napoletana, che contestualizza le varie canzoni: un personaggio colto e guitto, ironico e malinconico, moderno e tradizionale.
Protagonista dello spettacolo la musica dell’ ensemble La Compagnia: Adriano Taborro, chitarre e mandolino; Chopas, voce, chitarra e percussioni; Elisa Ridolfi, voce; Carlo Simonari, piano e voce; Andrea di Buono, voce recitante; Piero Piccioni, voce narrante.
Tra i brani che si potranno ascoltare: Michelemmà, Fenesta ca lucive, Te voglio bene assaje, O sole mio, Marechiaro, Mare chiaro mare scuro, Tamurriata nera, Tu vuò fa l’americano, Perché nun ce ne jammo in America, Reginella, Malafemmena, Chella là, Je so pazzo, Na tazzuelella e café, Era di maggio, Canzone appassionata, Passione, Marinariello, ‘A città ‘e Pulecenella, O surdato innamorato.
Inizio spettacolo ore 21.15– Ingresso libero Info 071-759971
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3 lug 2018 18:08
PIERO ANGELA E I (SUOI) DEMONI - ''IN IRAQ MI ARRESTARONO PER SPIONAGGIO. ERO LÌ DOPO LA GUERRA DEI SEI GIORNI. IMPICCAVANO LE PERSONE. IO DOVEVO FARE UN SERVIZIO SUL PETROLIO E FILMAMMO DI NASCOSTO UNA RAFFINERIA. QUALCUNO CI VIDE... I POLIZIOTTI CI ARRESTARONO E IN PRIGIONE C'ERA UNA GABBIA CON UNA VENTINA DI PERSONAGGI CHE NON TI DICO. IO DISSI ALLA MIA TROUPE…'' - DAL 5 LUGLIO TORNA IN PRIMA SERATA CON ''SUPERQUARK''
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Massimo Sideri per ''Corriere Innovazione - Corriere della Sera''
L'intervista che avrebbe voluto fare? «Leonardo da Vinci: mi piacerebbe fargli vedere quante cose sono state inventate. Ho sempre pensato che fare il divulgatore per lui sarebbe stato divertente».
Non un divulgatore qualunque. Il maestro dei divulgatori.
Eppure sono in pochi a sapere che la vita di Piero Angela, prossimo ai 90 anni, richiederebbe una serie di documentari al netto di Quark: prima di diventare divulgatore è stato:
1) un pianista (suona ancora);
2) inviato di guerra («In Iraq sono stato arrestato per spionaggio, una stupidaggine (sic). Ero lì dopo la Guerra dei sei giorni. Impiccavano le persone. Io dovevo fare un servizio sul petrolio e filmammo di nascosto una raffineria. Qualcuno ci vide... i poliziotti ci arrestarono e in prigione c' era una gabbia con una ventina di personaggi che non ti dico. Io dissi alla mia troupe, scherzando ma non troppo: stanotte dormiamo legati schiena contro schiena. Poi per fortuna a mezzanotte arrivò un capitano dei servizi segreti che parlava inglese e ci portò via»);
3) mancato direttore Rai per sua scelta («Nel '75 alla Rai andava fatta una lottizzazione da manuale Cencelli per cui il direttore del Tg2 doveva essere suggerito dal Partito repubblicano. Mi volle incontrare Rossetti. Gli dissi che non andavo nelle sedi dei Partiti così ci vedemmo in un bar del Corso. L' onorevole Ugo La Malfa aveva pensato a me. Io ringraziai ma dissi di no, per tante ragioni. Io volevo fare il giornalista, i direttori si devono occupare di tante altre cose, soprattutto grane. Insistette molto. Mi disse che era l' occasione giusta, che finalmente i Tg sarebbero diventati più liberi, che non potevo tirarmi indietro. Alla fine gli risposi: io per la patria posso anche farlo però ogni settimana mi presento in una conferenza stampa con tutta la lista delle cose che i politici mi chiederanno di fare. Non li ho più sentiti»);
4) cronista del primo videoregistratore («Ero corrispondente da Parigi e alla Fiera del 1960 venne presentato Ampex (il sistema che poi perse la battaglia con lo standard concorrente Vhs, ndr). E allora feci vedere in video una tv con sopra una specie di lavatrice e dissi: vedete questo è un videoregistratore e permette di vedere immediatamente ciò che si registra. Spinsi il bottone e feci vedere che riapparivo sul monitor. Uno degli ingeneri Ampex disse che in qualche anno avremmo avuto dei modelli a tracolla».
Oggi portiamo tutti un "videoregistratore" in tasca senza meravigliarci.). Non ha mai avuto rimpianti. Senza ispiratori («semplicemente non c' erano»). E non è stato nemmeno un grande studente! («Mi annoiavo, puntavo al minimo sindacale. L' insegnamento era punitivo, ancora è così»).
Ma nonostante tutto questo Piero Angela, che dal 5 luglio torna in prima serata con SuperQuark (il regista storico è sempre Gabriele Cipollitti così come rimane la squadra degli autori), è l' uomo che ha unito più generazioni di fronte al piccolo schermo parlando di una cosa che in Italia non ha mai goduto di buona fama come dimostrano ancora oggi le discussioni surreali sui vaccini: la Scienza. Ed è anche l' uomo che, a distanza, ha ispirato il Corriere Innovazione con il suo amore per la divulgazione tecnico-scientifica.
Noi al «Corriere Innovazione» diciamo che in Italia sui temi dell' innovazione andrebbe fatto ciò che lei ha fatto per la scienza: robot, intelligenze artificiali, reti neuronali che collegano gli umani alle macchine, bio e nanotecnologie. La stessa ansia da nuove tecnologie è la riprova che questi argomenti andrebbero conosciuti e spiegati di più, magari anche per governarli.
Non le sembra che ancora oggi gli intellettuali siano portatori magari involontari di questo atteggiamento anti-scientifico?
«La cultura che abbiamo in particolare in Italia andava bene in un mondo contadino perché le cose non cambiavano e ognuno accettava il suo ruolo. I cambiamenti o non esistevano o erano lentissimi e la cultura era il giardino dei piaceri: la pittura, la poesia, l' arte, la lettura. Purtroppo è su questi argomenti che oggi spendono i soldi pubblici gli assessori. Sono argomenti ancora importanti, certo, ma purtroppo questa vecchia cultura letteraria non è più in grado di reggere il suo tempo e di interpretare la modernità.
Oggi per essere dei saggi bisogna sapere raccontare l' innovazione tecnologica e anche l' economia. Perché questo sistema tecnologico è intimamente legato all' economia».
"Quark" è il programma di divulgazione più longevo della storia italiana: ha superato la Prima, la Seconda e si appresta ora con "SuperQuark" ad affrontare la Terza Repubblica. Si sarà fatto un' idea in tanti anni di cosa manca...
«Manca oggi una filosofia della tecnologia. C' è la filosofia della scienza che si occupa di massimi sistemi. Ma manca una filosofia della tecnologica che spieghi come tutta questa rivoluzione ci ha permesso di studiare, di vivere sani, di avere un reddito più alto, di liberare uomini e donne da sudditanze antiche e soprattutto ci ha permesso di creare delle società che sono competitive in un mondo in cui conta la capacità di essere innovatori per riuscire a vincere la concorrenza. Dunque è importante che i politici sappiano gestire questa società moderna».
Eppure viviamo questa contraddizione enorme: il livello scientifico in Italia è altissimo. I nostri scienziati, anche in campi modernissimi come le biotecnologie, sono apprezzati in tutto il mondo. Siamo stati grandi innovatori nella storia, come nell' invenzione del pianoforte, ma ci siamo sempre dimenticati di dare a Bartolomeo Cristofori quello che è di Bartolomeo Cristofori...
«Per la cultura di stampo crociano la tecnologia è l' intendenza come si diceva una volta. Si dà per scontata, eppure senza perdi la guerra. Il nostro ruolo di divulgatori, in tv come nei giornali, non è tanto quello di spiegare le teorie scientifiche. Questo è il ruolo della scuola. Il nostro è spiegare quali conseguenze avranno queste scoperte e innovazioni in vari campi della conoscenza.
Alla fine di questi discorsi non è che la gente deve conoscere tutto dei computer, basta che ne comprenda l' importanza che ha la ricerca in innovazione e dunque l' importanza di investire in uomini e mezzi. Questa è la macchina della ricchezza; l' altra, quella della politica, è la macchina della povertà perché non crea nulla, come la distribuzione di un reddito di cittadinanza. E non mi riferisco tanto ai politici attuali, sono stati tutti così.
Chi più dà più riceve voti, è la legge del mercato elettorale. Ma un Paese deve sapere anche come si crea la ricchezza. In Germania un' organizzazione tecnica aiuta le aziende medio piccole a costruire i propri prodotti e a trovare soluzioni dal 1949. Se un Paese ha la preveggenza di fare anche queste cose diventa più forte. È una specie di obbligo negli investimenti. Non possiamo farne a meno. Come dire che non investiamo in educazione perché rende poco. Sono le ricchezze di base. Che permettono di crescere anche attraverso la meritocrazia».
Cosa le rimane dopo tanti anni del suo pubblico intergenerazionale?
«Il nostro pubblico ci assomiglia: è un pubblico di curiosi, di persone intelligenti, vogliono sapere cosa c' è dentro il giocattolo».
Un' ultima cosa: il mistero scientifico che l' ha appassionata di più?
«Ah, quella che io chiamo la macchinetta, il funzionamento del cervello umano. È la cosa più straordinaria che ci sia».
Di certo il cervello di Piero Angela, a 90 anni, è sempre straordinario.
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Paul Graham, Paris 11-15 november 2015
di Massimo Santinello
--- Nessuno ha dimenticato la notte del 13 novembre 2015, l’attacco terroristico a Parigi, al teatro Bataclan e al nostro bisogno di sicurezza. Le oltre 100 vittime inermi, colpite mentre si stavano “divertendo”, sono immagini ancora ben incise nella nostra mente. Un evento terribile che aveva “costretto” gli organizzatori di Paris Photo a chiudere la manifestazione solo due giorni dopo la sua apertura.
Nell’immaginario collettivo quella lunga notte di dolore, di rabbia e sconforto ha trovato eco in numerose rappresentazioni da parte di artisti in campi diversi.
Ero partito con l’intenzione di parlare dell’audiovisivo fotografico di Paolo Cambi “Non avrete il mio odio” (https://youtu.be/XfEhBiUkmGI) che ha fatto molto discutere e che è risultato 5 volte primo e 3 volte secondo nelle tappe del 10° circuito nazionale DIAF. Al circuito nel 2016 si sono confrontati 70 autori, e Cambi ha vinto anche la classifica complessiva. Ma nel circuito il tema degli attentati parigini è stato affrontato anche da altri autori, per esempio Emio Lanini (Helene), a dimostrazione dell’impatto emotivo di quella notte.
Ma poi mi sono imbattuto nel libro di Paul Graham e, come spesso mi capita con i suoi libri, ne sono stato rapito.
In questo libro, Paul Graham sembra continuare la sua esplorazione di come mondo interiore e mondo reale siano strettamente interconnessi, già iniziata con il precedente libro “Does Yellow Run Forever?” nel quale foto di arcobaleni o di gente sognante vengono usate per porci domande su cosa sia importante nella vita quotidiana, attraverso un itinerario fotografico che ci sorprende continuamente.
In questo suo ultimo libro, la successione delle foto recupera in parte anche il tema già affrontato in “The present”, foto di street scattate a New York a distanza di pochi secondi l’una dall’altra a raccontarci il tempo che passa, il flusso della vita.
Qui ci troviamo con scatti di interni, le stesse stanze, inquadrature che si ripetono molto simili tra loro in sequenza di 2 – 3 foto separate da pagine bianche vuote; dalla luce si intuisce che il tempo sta fluendo e, nella prima parte del volume sembra che tende, divani, caloriferi ci stiano conducendo verso sera… poi improvvisamente la sequenza è interrotta da 5 pagine nere senza fotografie, forse gli spari del Bataclan, forse l’ansia e la paura di quei giorni (che il titolo del volume chiaramente indica come ispiratori delle foto). E poi arriva quella foto: un bambino piccolo in braccio alla mamma, al centro di una stanza nell’ombra; la mamma è seduta chiaramente in un atteggiamento protettivo.
© Paul Graham
Nelle pagine seguenti si torna allo sfondo bianco, ancora interni, pavimenti di legno nei quali la luce si fa via via più intensa, porte o finestre che fanno filtrare scie luminose sempre più forti e infine una tapparella dalla quale si scorge un sole alto quasi estivo. Laddove Cambi ci racconta del dolore e del perdono, qui Graham ci parla della paura e del bisogno di sicurezza e di rifugio, forse minato per sempre o forse con uno spiraglio di ottimismo.
Graham continua a sorprendere con opere complesse, usando la fotografia, meglio il libro fotografico come strumento espressivo. Un autore affascinante per come usa il linguaggio fotografico, che potrà risultare non immediato, forse anche ermetico, ma difficilmente si esce dai suoi libri indifferenti.
Paul Graham Paris 11-15 November 2015 - (MACK editore), 2016
https://vimeo.com/192136965
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Un gesto di solidarietà – Cinzia Perrone. Un articolo che illumina la forza della generosità e dell’empatia. Recensione di Alessandria today
Cinzia Perrone, autrice di grande sensibilità, ci propone un articolo emozionante dal titolo
Cinzia Perrone, autrice di grande sensibilità, ci propone un articolo emozionante dal titolo Un gesto di solidarietà. Questo contributo, pubblicato su Alessandria today, riflette sulla potenza di un’azione solidale e sull’importanza di riconoscere e valorizzare i piccoli gesti che fanno la differenza. Una narrazione che coinvolge.L’articolo racconta un’esperienza personale in cui la solidarietà…
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Il Segreto di Isabel di Susan Meissner. Un intreccio tra passato e presente, amore e resilienza sotto il cielo di Londra. Recensione di Alessandria today
Susan Meissner, maestra della narrativa contemporanea, ci regala con Il Segreto di Isabel un romanzo toccante e avvincente che intreccia storie di donne attraverso epoche diverse.
Susan Meissner, maestra della narrativa contemporanea, ci regala con Il Segreto di Isabel un romanzo toccante e avvincente che intreccia storie di donne attraverso epoche diverse. Ambientato in una Londra colpita dalla Seconda Guerra Mondiale, il libro esplora i legami tra il passato e il presente, tra i sogni e i segreti che definiscono la vita di due protagoniste indimenticabili. La tramaLa…
#Alessandria today#Amore e guerra#autori americani#Google News#Il Segreto di Isabel#intreccio temporale#italianewsmedia.com#letture coinvolgenti#Letture consigliate#letture storiche#Londra del Blitz#Londra nella guerra#narrativa contemporanea#narrativa di emozioni#narrativa di qualità#narrativa emozionale#narrativa femminile#narrativa internazionale#Narrativa storica#narrativa toccante#Pier Carlo Lava#resilienza#romanzi ambientati#romanzi bestseller#Romanzi di introspezione#Romanzi di ispirazione#romanzi ispiratori#romanzi storici#romanzi sul passato#romanzi sulla resilienza
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