#atmosfera drammatica
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pier-carlo-universe · 10 days ago
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La gatta: un viaggio poetico tra amore e sacrificio. Recensione di Alessandria today
La poesia La gatta esplora con delicatezza e profondità i sentimenti di amore, sacrificio e protezione. Con immagini vivide e un ritmo fluido
italianewsmedia.com : Un ritratto profondo dell’amore materno.La poesia La gatta esplora con delicatezza e profondità i sentimenti di amore, sacrificio e protezione. Con immagini vivide e un ritmo fluido, il poeta narra la storia di una gatta anziana che, in una notte di tempesta, cerca rifugio per il suo gattino, compiendo un gesto di sacrificio e amore che commuove profondamente. Il contrasto…
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grazielladwan · 2 months ago
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NON È UN CADAVERE…È SOLO IN ATTESA
Episodio 10 Immagine creata con IA Episodio 10: Il compito si è concluso L’elicottero si posò con un rumore sordo sulle rocce frastagliate di Petra, sollevando un turbine di sabbia e polvere. I rotori stridevano contro il vento desertico, coprendo ogni altro suono. Nixar, zoppicando leggermente, avanzava con il passo di chi portava un peso insostenibile, il volto segnato da una determinazione…
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saveriopepe · 1 year ago
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Un viaggio artistico alla scoperta del Guercino
Il XVII secolo fu un periodo di fervente creatività artistica in Europa, un’epoca in cui l’arte barocca si stagliò come un maestoso scenario di espressione emotiva e drammatica. In mezzo a questa vivace atmosfera artistica, a cavallo tra il ‘500 e il ‘600, spiccò la figura di Giovanni Francesco Barbieri, meglio conosciuto come Guercino (Cento, 1591 – Bologna, 1666). Nato nel 1591 a Cento, in…
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tempi-dispari · 2 years ago
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Aeternum, tecnica al servizio di potenza e melodia
Gli Aeternum si muovono su coordinate speed metal classico. Questo già denota capacità tecniche rilevanti, considerando gli standard del genere. E così è. Questo non vuol dire che ai nostri manchi personalità. Tutt’altro. La tecnica che li accompagna li aiuta ad avere carattere e un suono identificabile. Il disco apre con una versione live di Soultaker. Qui si può avere un assaggio della potenza della band dal vivo. Soprattutto si ha un chiaro esempio delle capacità dei nostri.
Precisione, pulizia sono le caratteristiche principali del brano. Stilisticamente le linee sono quelle classic speed sul solco tracciato dai Judas Priest. Non mancano stacchi, cambi di passo, rallentamenti repentini e fraseggi degni di una ballata. Il tutto rende la canzone variegata, non scontata. Tra tutti spicca la performance della voce. Un continuo sali scendi tra toni altissimi e bassi. Ottimamente si comporta anche la chitarra sul solo che porta alla fine della canzone. Si passa poi ad Aeternally, brano da studio. Immancabile cambio di atmosfera. Non foss’altro che per il differente luogo di registrazione.
Inalterata resta invece la potenza, la capacità tecnica dei nostri. In fase di registrazione non sono stati utilizzati magheggi o artefatti. Anzi. Sembra proprio che la volontà sia stata quella di riportare su disco le capacità espresse dal vivo. Stilisticamente non ci sono cambi. Il brano è meno veloce, più ponderato. Questo offre la possibilità di poter gustare tutti i passaggi presenti. Ottimo il solo di chitarra che spazia tra passaggi veloci, melodia e feeling. Farewell è il brano più evocativo del disco. Fin dall’inizio. Rumore di pioggia, vento, una sensazione di autunno inoltrato si addensa con l’ingresso dell’arpeggio di chitarra. Ad accompagnarla il basso con note lunge, cariche di sustain.
La seconda chitarra, distorta e in a solo, entra con la voce. Un connubio che apre nuovi mondi interpretativi. Sempre in salsa drammatica. Il brano lentamente cresce. Si aggiunge la batteria all’accompagnamento. Il ritmo non entra subito. Un crescendo di rullante porta all’esplosione successiva. Si muta completamente scenario. Doppia cassa terzinata, ritmo spezzato, chitarre piene. Solo la voce rimane evocativa. Non va mai oltre le righe. Grande gusto per la melodia e ottima tecnica. Il solo di chitarra è un po’ manieristico per quanto breve. Il brano non è un monolite.
Tra i cambi spicca sicuramente quello sui ¾. Quelli messi in campo dalla band sono fraseggi di richiamo prog. Secondo intervento solista. Questa volta la velocità non è la sola indicazione. Gusto e melodia la accompagnano in modo egregio. Inarrestabile la batteria. Doppia cassa alternata a momenti più lineari che a loro volta si intrecciano con passaggi progressive. Hal conclude questo mini. Il riferimento diretto che può richiamare è certo quello dei Mercyfull fate. E per l’incedere, tempo lento, e per l’utilizzo della voce.
Questa diventa ancora più evocativa grazie all’inserimento di un seconda cantante, donna. L’intreccio tra le due disegna interessanti volteggi melodici. Sono assenti cambi di tempo significativi. Diversi invece sono i passaggi che caratterizzano la base ritmica. Molteplici e mai fermi. Un continuo alternarsi tra tra lento e veloce. Ad interrompere questo mare in tempesta ci pensa un breve break che apre al ritornello e porta alla chiusura con a solo di chitarra.
Tirando le somme. Un buon lavoro quello degli Aeternum. Seppur muovendosi su un territorio minato, quello dello speed al limite del power, riescono ad essere riconoscibili. Sono ben consapevoli delle proprie capacità così come dei limiti che non cercano mai di travalicare. Un disco onesto il loro, di quei lavori che trasudano semplice voglia di suonare ciò che davvero piace al di là di andamenti temporanei o tendenze. Un disco consigliato a ha già nelle orecchie determinate sonorità ma è stanco della solita cavalcata trita e ritrita. Chi invece è a digiuno di un certo riffing, lo può approcciare grazie alla grande perizia degli Aeternum e alla loro vena melodica.
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diceriadelluntore · 3 years ago
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Storia Di Musica #191 - Eloy, Ocean, 1977
L’ho scritto più volte che ci sono stati dei periodi musicali fiorentissimi, ricchissimi di gemme discografiche che sono poco conosciute rispetto alla loro qualità. Alcuni miei amici mi hanno mandato, quasi in contemporanea, delle segnalazioni e dei dischi che valgono la pena di essere raccontate. Il periodo d’oro del rock progressive, 1968-1973, portò alla ribalta gruppi entrati nell’immaginario rock, grazie anche alla meraviglia della loro musica (per citarne qualcuno, King Crimson, Genesis, Pink Floyd, Yes, Van Der Graaf Generator, Gentle Giant, la PFM, il Banco Del Mutuo Soccorso e così via) segnando la musica, soprattutto europea. Dalla metà degli anni 70 altri stili, come l’hard rock e il nascente punk, che tra gli obiettivi si prefiggeva di sgombrare il tecnicismo del prog per una musica più diretta e aperta a tutti (qui si potrebbe aprire un grande dibattito, dato che più che approccio diretto in molti casi era davvero tecnica approssimativa, per essere eufemistici) finirono per mettere un po’ da parte il mondo prog, che tuttavia continuò a sfornare grande musica. Il disco di oggi infatti esce nell’anno sacro del punk, il 1977: è il sesto disco degli Eloy, una delle band più rappresentative del prog rock tedesco. Fondati da Frank Bornemann, abilissimo chitarrista ad Hannover, presero il nome dal popolo degli Eloi nel libro La Macchina Del Tempo di H. G. Wells, cambiando solo la “i” in “y”. Vincono un concorso per giovani band nel 1970 con cui hanno un contratto con la Philips, che pubblica, prodotto da Conny Plank, il disco di debutto Eloy (1971): più rock che prog, è un discreto debutto. La band ha numerosi cambi di formazione, nel 1973 pubblicano Insider per la Harvest (che cercava gruppi europei da affiancare a colossi come Pink Floyd e Deep Purple), ma il successo è ancora scarso, tanto che nel 1975 dopo l’uscita di Power And Passion (1975, che è un disco molto più ambient che rock) Bornemann scioglie definitivamente il gruppo. Ma forte di un contratto con la EMI, riforma gli Eloy: nuova formazione con Detlev Schmidtchen alle tastiere, Jürgen Rosenthal (ex Scorpions) alla batteria, Klaus-Peter Matziol al basso. Il suono riprende quello dei primi dischi con idee e suggestioni dei grandi gruppi inglesi del prog, e il successo cambia marcia: Dawn del 1976 è il primo disco in classifica, un concept sulla storia di un uomo che si risveglia fantasma e cerca spiegazioni a tutto ciò. Nel 1977 pubblicano a dicembre, dopo due mesi passati negli studi Sound-N-Studio di Colonia, il loro disco più ambizioso: Ocean. Ispirato al mito di Atlantide, è un disco che nasconde un messaggio profondo di attenzione all’ambiente e di avvertimento sulle conseguenze del dominio umano sulle acque. Disco composto da sole 4 tracce, due lunghissime e meravigliose e due più brevi, che raccontano la creazione, l’apoteosi e il crollo di Atlantide. Poseidon’s Creation trasmette la magica atmosfera di incanto e di emozione che la costruzione della città di oricalco (una particolare lega di bronzo, cos�� Platone racconta fosse costruita Atlantide) da parte del Dio del Mare. Il disco ha tessiture meravigliose di sintetizzatori e di moog, riprese nella bellissima Incarnation Of Logos, che mantiene la tradizione filosofica della creazione del logos per esprimere l’einai (l’essere), capacità che contraddistingue l’uomo. Ma questa è un’arma profondamente problematica, e l’abuso della parola può spazzare via la via segnata delle divinità, tanto che segna la fine dell’armonia (la drammatica Decay Of Logos). E arriva conseguentemente la punizione divina: Atlantis’ Agony At June 5th – 8498, 13 P.M. Gregorian Earthtime trasmette in musica la collera di Poseidone e la distruzione della citta di oricalco, in un crescendo di atmosfere elettroniche che suscitano tensione e pathos. Il disco è un successo clamoroso, in Germania sale alle più alte vette della classifica e vende più di Queen e Genesis quell’anno. Diventa così un classico del genere e il disco più famoso del gruppo, che continuerà a scrivere musica (due scioglimenti con successive due reunion, un breve periodo di interesse in Gran Bretagna a metà anni ‘80, ma ancora oggi fanno concerti). Due curiosità: la splendida copertina, in pieno stile prog, fu opera di un disegnatore polacco naturalizzato francese, Wojtek Siudmak, che disegnò altre loro cover e che diventò famoso per aver disegnato la prima versione a fumetti di Dune di Frank Herbert in polacco; sul mito di Atlantide nel 1972 anche la band italiana dei The Trip scrisse un meraviglioso disco, Atlantide, che si può scovare insieme a questo, magnifico, di qualche anno più tardi.
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strawberry8fields · 5 years ago
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“Magro, senza febbre, né freddo né caldo, con gli occhi vuoti, il giovane si solleva senza camicia di sotto ai piumini, mi s’attacca al collo, mi sussurra all'orecchio: ‘Dottore, lasciami morire’. Mi guardo intorno, nessuno ha udito; i genitori stanno lì protesi, e aspettano il mio responso; la sorella ha portato una sedia per la mia borsa e frugo fra i miei strumenti; il giovane dal letto, non smette di allungar le mani verso di me per ricordarmi la sua preghiera; afferro una pinzetta, la esamino alla luce della candela e la depongo di nuovo […]
Ed ora ho trovato: si. il ragazzo è malato. Sul fianco destro, verso l’anca è aperta una ferita grande come il palmo di una mano; di color rosa, in diverse gradazioni, scura in fondo, più chiara verso gli orli, leggermente granulosa, col sangue raggrumato a chiazze, aperta come la bocca d’una miniera. Vista da lontano è così. Ma da vicino appare ancor più grave. E come guardarla senza ansar lievemente? […] Povero ragazzo, nessuno ti può aiutare. Ho scoperto la tua orrenda ferita; questo fiore nel tuo fianco ti farà morire  […]
«Mi salverai?» Mormora singhiozzando il fanciullo, abbagliato dalla vita che è nella sua ferita.”
Franz Kafka, Un medico di campagna, 1919
Il dentro ferito
“La disperazione ignora di essere disperazione.”
Buio profondo. Il tempo del mio cuore è grigio, il cielo ovattato dalle nuvole e dai fitti pensieri. Piove sempre: non traspare neanche un minuscolo brandello di cielo. Ascolto i rumori notturni. Sono raggomitolata a terra con lo sguardo perso. Mi sento desolata e fragile stanotte. Rinchiusa sempre più rigidamente nella mia interiorità. Una triste solitudine e un’angoscia lacerante sembrano essersi impossessate di me. Non riesco a tollerare questa atmosfera opprimente. Da quella sera, mi sono progressivamente trasformata in una versione incompleta di me, separata dal mondo, in un fantasma con sentimenti annullati e pensieri in pausa. Non mi riconosco, sto scomparendo. Al posto della mia anima, c’è un vuoto spettrale che viene progressivamente invaso dai mostri che mi corrodono dall'interno. Il dolore ha lasciato una traccia così profonda dentro me. Non sono più io. Di me conservo solo l’involucro. Sono una casa abitata da estranei. Sono una creatura aerea: impossibile vedermi o toccarmi. Non posso essere definita, classificata, non assomiglio a niente di compiuto, non più.
«Nel frattempo, che ne è delle tue ferite?»
Tutto rimane esattamente uguale all'esterno, sembra tutto perfettamente in ordine.  Tutto è al solito posto nella mia stanza, tutto sembra familiare: i libri sulle mensole, il piumone a righe, i peluche, le cuffie. Qualcosa vacilla. Il caos è interno. Gli sconvolgimenti emotivi non si vedono. Sono le ferite interne riaperte  a sanguinare copiosamente. È un soffrire invisibile, impalpabile ma terribilmente reale. Contrariamente da quanto si può vedere, il dolore gonfia, s’ingrossa e vive in fondo, dove si è insediato. Mi afferra ripetutamente senza preavviso. La sensazione di essere sua prigioniera è intollerabile. Inganno il tempo con la voce piena di silenzi e lo sguardo distratto. Provo ad andare avanti, provo a dirigermi verso il chiarore della luce ma sono sempre più impacciata. Mi affanno a trovare una via d’uscita, notte dopo notte. Mi trascino. Arranco. Alla fine, cedo esausta.
«Non riesci a dormire, vero?»
C’è una sofferenza in me legata a momenti precisi e concreti. È un travaglio instancabile che non conosce pause né riposo. Rivivo dolorosamente i ricordi. Sono destinata a fare i conti tutte le notti con questa dura e inevitabile realtà e con le difficoltà che solleva: non sono in grado di aggirarla né di ignorarla. I ricordi dolorosi sono sempre i più invasivi: ridestano sensazioni avvertite sulla pelle e angosce ardenti e inarrestabili. Sono loro a farmi compagnia quando è buio e non è certo una compagnia piacevole o desiderabile. Mi tornano alla mente anche i dettagli di quella sera orrenda che credevo di aver dimenticato, tornano ad emergere dai luoghi sperduti, dai quartieri abbandonati e in rovina della mente. Guardo con terrore quelle lunghe e frastagliate sequenze che si rimescolano fino a formarne una completa, ne seguo ogni movimento con lo sguardo. Mi fa male vederle scorrere. Sono la causa della mia drammatica fragilità, del mio essere ineluttabilmente vulnerabile. Rimango penosamente interdetta. Vorrei che tutte le immagini svanissero, che venissero magicamente cancellate dalla mia memoria, invece di tornare alla carica. La memoria è straordinariamente elastica: si restringe e si allarga, si conserva ma può anche trasformarsi, mi dico. Sarei felice se riuscissi a dimenticare tutti i ricordi legati a quella sera sgradevole e invece sono smarrita in una terra ignota che temo. Mi serve un lasciapassare, un passaggio sicuro. Non c’è una scappatoia possibile.
«Salvami!», dico abbassando gli occhi.
Sono un’anima ferita e lacerata in cerca di aiuto. Vorrei che qualcuno corresse a salvarmi. Vorrei trovare conforto. Vorrei ritrovare la pace della mente.
Io e i miei intensi e irrealizzabili desideri.
La vita è fatta di prigioni e di liberazioni, penso. 
Non mi resta che questo raggio di speranza.
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lovelybooksproject · 6 years ago
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Recensione: Road of no return di K.A. Merikan [Inedito in Italia]
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Proprio NON ci siamo. Ho messo MESI per finirlo e tutto perché ogni volta che mi mettevo tranquilla per continuare i personaggi facevano qualcosa di così idiota ed irritante che la voglia mi passava e ho dovuto sforzarmi non poco per concluderlo. Dopo aver letto altri libri delle autrici (tra cui due di questa serie) e averli AMATI alla follia mi sono ritrovata tra le mani un libro noiosissimo e con personaggi odiosi ed irritanti. Solitamente le autrici sono abilissime a creare personaggi carismatici e mai banali, rendendoli unici e speciali, con caratteristiche interessanti e talvolta sopra le righe, tanto da farli rimanere impressi nella mente anche mesi dopo la lettura, mentre in questo ci ritroviamo un cretino e un gorilla. Zak dovrebbe essere il personaggio con un cervello e in un primo momento sembrava carismatico, pensavo potesse combattere le lusinghe dell'energumeno e mostrare che essere gay non significa per forza andare a letto con il primo che passa soprattutto se questo se ne esce con un bel "Sei gay? Allora succhiamelo" mi sarei aspettata un uomo combattivo e che avrebbe spinto Stitch a cambiare decentemente per conquistare il suo affetto e invece crolla come una pera, bastano due moine per trasformarlo in una troietta assatanata che se ne frega degli insulti e delle offese! Accetta di stare con un uomo che in un primo momento lo ha etichettato come una prostituta solo perché omosessuale e quando dovrebbe reagire o incazzarsi <spoiler>esempio la morte del povero e santo Cox</spoiler> non ha reazioni umane rimanendo indifferente o fregandosene di tutto ciò che non riguarda il suo uomo e quest'ultimo... AHHH!! Ok... non mi aspettavo un principe azzurro e profumato con tanto di rose e uccellini della Disney al suo fianco ma un UOMO vero SI! Si comporta fin da subito come un uomo delle caverne molestando un povero innocente a caso, si sente in dovere di trattarlo come il suo oggetto personale senza neanche preoccuparsi di definire una relazione con lui o fargli capire che ci tiene e quando il nostro povero protagonista vuole essere indipendente osa offendersi! Raccapricciante la scena in cui Zak semplicemente vuole uscire con un amico che non vede da tempo e lui nell'ordine: si incazza, lo accusa di volersi scopare pure il postino, si sente offeso nell'onore dopo che il poveraccio in uno sprazzo di dignità lo ha mandato a quel paese, decide di vendicare l'onore ferito andando direttamente a minacciare l'amico di Zak in negozio (facendo non poco preoccupare il tizio che ha l'unica colpa di essere amico della crush di un pazzo), rompe una finestra a casa di Zak e non si preoccupa minimamente del povero cagnolone del "fidanzato" che rischia di morire dissanguato dopo aver camminato sui vetri... insomma dimostra di essere un uomo maturo e per nulla inquietante e da manicomio! Un personaggio irritante all'ennesima potenza che stando alla logica perversa delle autrici dovrebbe fare pena essendo la povera vittima del mondo che non lo vuole gay perché peccato mortale e ostaggio della stronzissima ex moglie omofoba che alla notizia della relazione tra i due gli impedisce di vedere la figlia ma che mi ha solo fatto arrabbiare. Per la prima metà del libro è uno stronzo arrogante e violento che picchierebbe chiunque solo per aver respirato nella sua direzione e nella seconda metà diventa un cucciolone vittima di tutto e tutti, sempre pazzo e maniaco, ma di colpo smielato da far venire il diabete a tal punto da piagnucolare e quasi supplicare Zak di fidanzarsi con lui ed essere esclusivi. Due personaggi insomma caratterizzati malissimo e che mi hanno solo fatto venire il nervoso. L'unico personaggio decente di tutta la storia è Cox, l'uomo di legge che cerca seppur a momenti un po' bruscamente di far ragionare Zak e fargli capire che stare con un violento ex carcerato e coinvolto in attività illegali non è l'aspirazione massima della vita, un uomo che ci tiene davvero al ragazzo provando dei sentimenti genuini per lui e che per tutta risposta verrà ricompensato con il regalo prezioso che ricevono tutti i personaggi di George R. Martin! Una fine indecorosa e che purtroppo rimarrà pure impunita in quanto nessuno si ricorderà di lui.... neppure Zak che per ringraziarlo delle sue premure non ci penserà due volte a fare sesso con il suo boy dimenticandosi della sua esistenza tre secondi dopo La storia di fatto poteva essere interessante ed esplorare bene l'omofobia che dilaga in certi ambienti, soprattutto quelli più illegali in cui se non ti scopi una donna in pubblico non sei un vero uomo. Poteva mostrarci Zak come un ragazzo gentile e sensibile, senza per forza renderlo uno stereotipo gay (e questo le autrici SANNO farlo, basta vedere come hanno caratterizzato altri personaggi nei loro libri, esempio Ryan e Liam, due ragazzi normalissimi rispetto ad altri, omosessuali dichiarati e che non per questo appaiono come donnicciole, anzi!), un personaggio che avrebbe potuto combattere il bruto e far capire a Stitch la realtà delle cose, che essere gay non è una colpa da nascondere e che si può essere un vero uomo anche senza infilarsi tra le gambe di una donna. Potevano esserci lacrime, momenti dolci e intensi, anche violenti vista la natura del club in cui si trova Stitch. Una storia drammatica, sensuale e intensa e invece NULLA. Troviamo due che per 3/4 del libro scopano o litigano come una coppietta sposata e nell'ultimo quarto... un tentativo di dramma e di realismo che però mi ha lasciato totalmente indifferente tanto da preferire di gran lunga per una volta un bad ending con tanto di morte di uno dei due o l'arresto di Stitch, anche solo per rispetto all'anima di Cox, tutto rispetto alla finta redenzione della ex moglie bitch e le coccoline dei due orsetti del cuore. Un libro che... non vale neanche la traduzione. Ai tempi mi ero arrabbiata tantissimo a vedere che in italiano si può trovare questa serie con solo certi volumi tradotti e in ordine random ma mi rendo conto che questa scelta vista la qualità di questo romanzo non è stata dettata dal caso. Ringrazio quasi la scelta delle sante traduttrici della serie perchè se avessi iniziato a leggere da questo volume molto probabilmente avrei tagliato fin da subito i ponti con queste autrici perdendomi così romanzi meravigliosi come Special Needs. Il libro è scritto bene e molto erotico dimostrazione che le autrici ci sanno fare e sanno creare la giusta atmosfera in camera da letto ma non c'è nulla di più. Una delusione totale che non mi sento di consigliare. Vi consiglio per trama, personaggi e amore/erotismo "The Devil's Ride" e "No Matter What", secondo e quarto libro della serie che trovate anche in italiano e che ho avuto il piacere di leggere e mixano alla perfezione bei personaggi, tormentati e sexy ad argomenti delicati e per nulla scontati e in cui i club motociclistici non sono visti come il luogo del demonio ma anche posti in cui si può trovare amore, affetto e una famiglia sincera nonostante le attività illegali. Romanzi in cui anche la trama conta e che mi sono piaciuti molto regalandomi delle emozioni che in questo libro ahimè sono mancate completamente. Lo voto due stelline solo per le scene erotiche ben scritte ma nulla più.
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allaboutheadphone · 4 years ago
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Dichiarazione Sfumature di intensificare il Vostro Stile di Gioco
È sempre il pezzo che si usura di più che non si senta il bisogno di sostituire. Succede anche a me un sacco con i jeans. Ho avuto un paio di buone coppie e sentire come non ho mai bisogno di guardarsi intorno per quelli nuovi. Allo stesso modo, gli occhiali da sole sono qualcosa che i ragazzi indossare su una base quotidiana (a parte quei pochi giorni di nuvole) e, tuttavia, la maggior parte dei ragazzi hanno solo un paio o due. Nessuno pensa di creare una collezione di occhiali, perché se tu hai uno hai abbastanza. Ma per qualcosa che si usura in modo che, spesso, non si dovrebbe avere la possibilità di scegliere? La risposta è sì, sì, si dovrebbe. Qualsiasi stile uomo dovrebbe avere un ben fornito arsenale di accessori per tirare da. Basta fare in modo che ogni pezzo ha uno scopo specifico. Ecco alcuni consigli su cosa prendere, se siete alla ricerca di una scorta di sfumature.
Classico CoolL'adagio che tutto ciò che nella moda torna sempre in giro è sicuramente vero. Per un po', di ispirazione vintage, la moda ha dominato il trend grafici e liste. Stesso vale per il torinese. Classici come i Ray-Ban Wayfarer (sopra) sono ovunque, e per una buona ragione. Sembrano maledettamente bene su quasi tutti. Ma se vuoi un classico con un tocco di moderno provare queste Persols. Hanno una silhouette classica, ma con un moderno tavolozza di colori.
Audaci in NeroHo uno stile confessione da fare. Ho iniziato solo da poco vestita di nero. Fino a cinque o sei anni fa, non ho proprio nulla di nero, tranne forse un paio di scarpe da ginnastica. Non ho mai indossato. Mi sentivo come il nero era drammatica e ha fatto una dichiarazione. E, in certa misura, suppongo che fa. Il nero può essere stridente e audace, ma che male c'è? Il tuo stile dovrebbe fare una dichiarazione. Questo paio di occhiali da sole RetroSuperFuture (sopra) a prima vista sembrano così semplici, ma quando si guarda più da vicino a loro il telaio strutturale e di finitura nero opaco sono in realtà un'incredibile opera d'arte.
Una Nuova TartarugaPer alcuni, vestita di nero frame può essere troppo audace di una scelta, e chiaramente lo capisco. Una grande opzione per coloro che vogliono rifuggire dall'audacia del nero è di andare con una tartaruga. Sembra buono su tutti e ha un atmosfera senza tempo. Questa coppia di Pacifico Ottico (sopra) è un classico tartaruga montatura in acetato, ma con questi pazzi fresco lenti specchiate blu che danno un netto vantaggio sulla concorrenza. Sono perfettamente in equilibrio classico e fresco. E questa è una pesante responsabilità.
La Vera TrasparenzaPer il ragazzo che ha letto la loro raccolta frames per qualcosa di un po ' al di fuori della scatola, un paio di occhiali da sole con telai trasparenti è perfetto. Entrambi attirare l'attenzione e sono discreti. Ottenere? Perché sono chiaro... Comunque, questa coppia di sabato è una coppia è sicuramente bisogno di prendere in considerazione raccogliendo. Chiunque può rock un paio di occhiali da sole nero, ma quelli chiari? Che vuole un uomo che è veramente elegante.
L'estate non è finita ragazzi, c'è ancora un sacco di sole per essere avuto. Inoltre, avete bisogno di occhiali da sole l'anno, è il momento di intensificare il vostro gioco e ottenere su alcuni di questi dichiarazione di occhiali da sole. La prossima volta che vi trovate di schermatura per i vostri occhi dai raggi del sole, speriamo che sarete raggiungendo per un paio di occhiali da sole alla moda come questi.
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iltrombadore · 5 years ago
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1960: “Il Gattopardo è di destra o di sinistra?”. Come Aragon liquidò un dibattito fasullo...
Criticato da Vittorini e Moravia, guardato con diffidenza appena uscito dai critici letterari di sinistra e da autorevoli intellettuali del PCI (tra questi Mario Alicata), il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa venne invece apprezzato in Francia dallo scrittore Louis Aragon, esponente del PCF, che gli dedicò nel 1959 e nel 1960 due interventi su “Les Lettres francaises”, la rivista di impronta marxista da lui diretta. Palmiro Togliatti, che dirigeva “Rinascita”, la rivista  ideologica del PCI, colse allora l’occasione di pubblicare il saggio di Aragon senza alcun commento, il che equivaleva ad una tacita condivisione...Ecco il testo di Aragon nella versione italiana:
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Il Gattopardo e la Certosa Che cosa conosciamo di Tomasi di Lampedusa, oltre il suo romanzo,Il Gattopardo? Ben poco, qualche aneddoto che stimola la curiosità: che ha cominciato a scrivere Il Gattopardo a 55 anni, che l’ha terminato in due anni ed è morto prima che il libro venisse pubblicato, che era duca e principe. E, come risulta dalla lettura del libro, che era uomo della sua classe, il quale, almeno apparentemente, giudicava le cose dal punto di vista di questa classe. Pensate se di Stendhal non conoscessimo altro che la professione del padre, e il fatto che Henry Beyle si dette uno pseudonimo straniero con tanto di particella nobiliare, e che fu console di Francia a Civitavecchia. Anche di lui si direbbe che il suo era il giudizio di un borghese di quei tempi, e l’indagine si fermerebbe qui. Senonché, una rivista fiorentina, “Paragone”, ha pubblicato di recente alcune Lezioni su Stendhal, scritte da Tomasi di Lampedusa nel 1955, e “Stendhal-Club” ha avuto la felice idea di tradurne due, che sono rispettivamente una nota su Il Rosso e il Nero e su La Certosa di Parma. 
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La lettura di queste note è abbastanza illuminante e, a mio avviso, ci fa apprendere sul suo autore molte più cose di quante ne conoscessimo fino ad oggi. In generale, la critica aveva la tendenza a vedere nel Gattopardo il punto di vista dello stesso Tomasi di Lampedusa, tanto più che nel suo eroe era facile individuare la figura di un suo bisnonno: I giudizi di quest’ultimo, cioè di un aristocratico che ha il senso della decadenza dell’aristocrazia, erano identificati generalmente con le idee dello stesso autore. Personalmente, avevo in proposito più di un dubbio, e l’ho manifestato in questa stessa sede (Lettres françaises”). Ma mi mancava la conferma che queste Note, invece, ora mi offrono. Proprio quando parla di Stendhal, infatti, un romanziere è portato a parlare più apertamente di se stesso; davanti all’arte di Stendhal è costretto a parlare della propria arte, e senza barare. La grande virtù di questa straordinaria personalità è proprio questa, di scivolare nella vostra coscienza e di costringervi a dire apertamente, senza infingimenti, cose che vorreste dissimulare. Naturalmente, sempre che si abbia un’anima stendhaliana. Nulla, nel Gattopardo, autorizzava ad affermarlo a proposito di Tomasi di Lampedusa, eppure tutto portava a crederlo. Una certa atmosfera. 
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Forse per questo mi sono tanto meravigliato quando, incontrando per caso Moravia, gli ho parlato del Gattopardo e mi sono sentito dire: “È un successo della destra”. Gli ho chiesto allora cosa intendesse dire: “Voglio dire – aggiunse – che sono stati gli uomini di destra a decretarne il successo”. E, perché non vi fosse cioè possibilità di equivoco, alla mia osservazione – che non si poteva che prendersela con gli uomini di sinistra per aver mancato di farne un successo di sinistra – l’autore de Le ambizioni sbagliate precisò: “Intendo dire che è un libro di destra”. L’affermazione non mancò di stupirmi, poiché, per quanto mi riguarda, non so davvero che cosa sia un libro di destra. Nello stesso modo, per esempio, molti hanno giudicato Stendhal uno scrittore per happy few: come poteva un uomo di sinistra scrivere per questa piccola élite felice? E così via. Esiste tutta una esegesi stendhaliana che insiste sul suo carattere di uomo di destra. Di conseguenza, i suoi libri sarebbero stati, lui vivente, degli insuccessi di destra, dei libri di destra. Affermazioni come questa, oggi, non fanno nemmeno più sorridere.
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Ma le note stendhaliane dell’autore de Il Gattopardo – oltre a quanto ci dicono del suo modo di leggere Stendhal, oltre a sottolineare il suo interesse “per certi aspetti tecnici” del romanzo stendhaliano, che studia da uomo del secolo che ha conosciuto Proust, Joyce, Virginia Woollf.. – queste note stendhaliane di Tomasi di Lampedusa, dicevo, oltre alle osservazioni sul tempo, il monologo interiore, l’atmosfera, il dialogo, contengono soprattutto un rilievo, espresso dapprima a proposito de Il Rosso e il Nero, ma ripreso poi, con insistenza ancora maggiore, per La Certosa. Mi soffermerò unicamente sullo sviluppo che ne è stato fatto per quest’ultimo romanzo, senza insistere in questa sede sugli altri elementi, se non quando illuminino simultaneamente Stendhal e il so commentatore, e soprattutto diano un più preciso profilo di quest’ultimo. Innanzi tutto, il nostro autore di destra segna all’attivo di Stendhal una serie di intenzioni che spesso la stessa critica di sinistra gli ha negate. Riconosce in lui l’intento essenziale di descrivere la realtà storica, e per di più da scrittore partigiano: “So benissimo – dice – che Ernesto VI è un immondo personaggio, delineato ricalcando le figure di Francesco II d’Austria e del giovane Carlo Alberto; so che di ‘fiscali Rassi’ la terra (e l’inferno) sono pieni, so che la Torre di Parma è un luogo di supplizio degno del Piranesi e del resto desunta tanto dalla realtà di Rubiera che dalle narrazioni di Pellico e Maroncelli circa lo Spielberg, mi rendo conto che il conte Mosca è un perfetto ritratto di quei ministri e ministrucoli, assolutamente egoisti e privi di scrupoli, copia ridotta e peggiorativa del loro grande modello Metternich, mi accorgo di quanti tradimenti, pastille avvelenate e colpi di pugnale è tessuta la trama del romanzo; dirò di più, so benissimo che Stendhal voleva indignare il lettore contro tali uomini e tali metodi…”.
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In altri termini, Tomasi di Lampedusa, identifica perfettamente l’intento politico di Stendhal, scrittore di sinistra. Ma, al pari di Stendhal – il quale, dopo aver intuito l’essenza della realtà politica del suo tempo, afferma che nel romanzo la politica fa lo stesso effetto di un colpo di pistola – l’autore del Gattopardo aggiunge subito alle righe precedenti: “Lo so, ma affermo che non me ne importa niente; in quanto a me, Stendhal ha fallito il colpo: voleva dipingere l’Inferno, ha creato il più adorabile Purgatorio dantesco “. Prima di lasciare che si spieghi, come non ritorcere questo stesso rilievo a Tomasi di Lampedusa, o almeno a coloro che si lasciano prendere unicamente dall’apparenza del Gattopardo? Anche a supporre che abbia voluto descrivere una specie di Purgatorio dell’aristocrazia siciliana, egli ha fallito il colpo, perché il suo romanzo è l’immagine perfetta della perdizione di questa aristocrazia, l’immagine colpevole, politica, di questa perdizione, come poteva descriverla solo un uomo che della sua classe avesse fatto una critica spietata, una critica di sinistra. Ma continuiamo, vediamo in che modo egli spiega come possa leggere La Certosa, romanzo politico, senza esserne commosso nella sua coscienza di classe e, nonostante gli orrori che vi sono accumulati, conservare per tutta la lettura di questa drammatica storia un sentimento di leggerezza, d’incanto, di dolcezza, e giurarci che Stendhal narra le cose peggiori in tono di scherzo, tanto è vero che “il risultato di questa accumulazione di parole leggere trattando d’un argomento violento, è l’andatura leggiadra che la narrazione di questi fatti violenti viene a prendere”. Devo dire che questa notazione è estremamente pertinente e che mette a fuoco a meraviglia un certa abilità stendhaliana. Non la trascrivo per controbatterla, ma per sottolineare che questa giusta osservazione è espressa soprattutto per giustificare il duca di Palermo, principe di Lampedusa, per la passione con la quale legge un libro che egli stesso, praticamente, deve riconoscere scritto contro la propria classe. Subito si affretta a spiegare le ragioni per cui Stendhal scrive così. E devo dire che questi nuovi argomenti sostenuti con notevole abilità dal Lampedusa confortano la tesi, già tante volte espressa, di quell’apparente distacco con cui Stendhal guarda alle atroci situazioni che descrive, la tesi per la quale l’autore avrebbe cercato allora di mantenersi distaccato dalla realtà che descrive perché non gli si potessero imputare idee che pure erano le sue, per difendersi eventualmente dall’inquisizione poliziesca. Dice Tomasi di Lampedusa: “Questo è sempre il tono che Stendhal assume nel momento in cui narra i fatti più violenti. Quando li narra, spesso li lascia indovinare. Perché fa questo in un romanzo che vuol esser tragico ed ‘accusatore’? Per una ragione assai semplice: perché i fatti non intendono essere narrati come sono ma come appaiono al temperamento frivolo, ma nello stesso tempo coraggioso e ‘strafottente’ di Fabrizio, temperamento di ‘uomo di società’ che riduce al proprio livello il mondo esteriore “ E completa quanto ha detto: “Questo modo di narrare è di una difficoltà prodigiosa: l’autore deve restare sempre nella pelle del suo protagonista; e poiché il mondo è visto tutto intero attraverso gli occhi di questi, anche il lettore contempla tutto attraverso quella mente svagata, simpatica, accomodante, signorile e non troppo intelligente…”. “E il lettore è trascinato nel supremo piacere di levità e di spettacolo che effettivamente il mondo fu per Fabrizio del Dongo”. Più avanti ancora: “Il prodigio operato da Stendhal consiste nel aver trasfuso il lettore del 1838 (e del 1955) nell’anima di un simpatico signorino nobile, noncurante, voluttuoso, tiepidamente sentimentale, dei primi dell’Ottocento, e di avergli fatto capire la Paura della Contro-Rivoluzione così come questi poteva capirla…”. 
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Come non comprendere che questa meravigliosa spiegazione, questa giusta spiegazione de La Certosa di Parmanon si adatta soltanto a Stendhal? Allo stesso modo in cui il pittore che ripete incessantemente il ritratto di un altro finisce per prestargli il suoi propri tratti, Tomasi di Lampedusa comprende così a fondo Stendhal proprio perché qui, in realtà, egli spiega Il Gattopardo. Nel Gattopardo tutto è visto con gli occhi non di un giovane Frabizio, ma del vecchio aristocratico: identificare questo vecchio aristocratico con l’autore sarebbe un arbitrio altrettanto grave quanto confondere Fabrizio con Stendhal. Ma, in verità, qualunque sia il piacere che si prova prendendo uno scrittore di questa tempra con la mano in un sacco che ha lasciato bene in vista appunto perché voi e io ve lo cogliessmo, la Nota su La Certosa non mi avrebbe indotto a questo lungo commento se non vi fosse stato, proprio tra le ultime due frasi che ho citato, un periodo il cui valore e la cui portata sono bene altrimenti generali. È là dove Tomasi di Lampedusa scrive: “Quanti Fabrizi ho conosciuto! Gente per i quali i Federali, i più biechi Prefetti, le guardie carcerarie, gli imbroglioni più sinistri, le sgualdrine più dichiarate erano avvertiti soltanto attraverso i loro lati più superficiali e spesso piacevoli, e con ciò non già per difetto di penetrazione ma per faciloneria e puerile fiducia nella vita. Attraverso tali occhi il mondo è popolato di ‘bravi ragazzi’ e di ‘buone donnette’ e se questi loro eccellenti compagni ne fanno una proprio grossa e irrefutabile è facile scusarli non parlandone, anzi cercando di annullare il ricordo delle loro azioni per timore che quel mondo così armonioso che si era venuto costruendo caschi in briciole…”. Ammirevole apertura sul mondo fascista: queste poche righe contengono quanto basterebbe a dar vita a un romanzo del fascismo, e la loro profondità, pur con quel tono di leggerezza, ci informa sul carattere vero dell’autore del Gattopardo. Nessuna casualità nella scrittura: l’accento inimitabile di testimone del fascismo si accorda musicalmente con quello che ci ha incantati in un romanzo del 1860. L’uomo che in poche parole ha saputo cogliere questa specie di complicità dei Fabrizi con il loro tempo, non ha certo potuto scrivere Il Gattopardo senza che un certo giuoco di specchi, in fondo alla sua coscienza, abbia illuminato al suo spirito, insieme, e l’altro secolo e questo. Cose che ci rivela, e cose che ci nasconde. Una sfida a se stesso del romanziere, che costruisce un mondo in base all’esperienza che ha di un mondo diverso. Stendhal che racconta una storia del XIX secolo sulla falsariga della cronaca di Vannoza Farnese…In questo nostro tempo abbondano i “bravi ragazzi” tipo quel Jean-Paul Guillaume che l’Algeria ci ha un po’ fatto dimenticare, le “buone donnette” come quella moglie di generale che vorrebbe vedere il marito fare a pezzi i giornalisti, gli “eccellenti compagni” che hanno fatto saltare in aria il monumento al Pensiero incatenato di Calandre, e non mancano i Fabrizi per scusarli, o almeno per sforzarsi di “comprenderli”; perché, se si dovesse giudicarli, ciò rischierebbe di ridurre in polvere questo gaio mondo armonioso che è stato costruito dopo il 13 maggio, in nome del Minor Male e in cui, con il pretesto della grandeur, dell’autorità ristabilita, si è lasciato proliferare tanto canagliume, si è snaturata la missione naturale dell’esercito, si è abituata una fazione all’idea, che solo da essa, e non dalla massa, discende effettivamente il potere, si sono portati al governo uomini che come unico merito avevano quello di aver tradito lo Stato, et coetera…Ma manca a noi uno Stendhal o un Tomasi di Lampedusa che ne tratteggino il ritratto con la levità di uno spettacolo.
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L’uomo che ci induce a tali idee, questo duca e principe che, in tredici righe, sa dirci sul fascismo assai più di quanto abbia saputo fare in quattro ore di uno spettacolo l’autore de I sequestrati di Altona (sia ben chiaro, intendo fare un complimento a Tomasi di Lampedusa, non una critica a Jean-Paul Sartre), possiamo davvero giudicarlo con una parola? È veramente di destra? E se lo è, questo che cosa cambia, Signore Iddio? È una vecchia controversia riproposta da Balzac: non mancano i testi dotti o per convincerci che l’autore de Le illusioni perdute era un reazionario. Ci si mettono sotto il naso progetti di legge o di Costituzioni di cui egli vagheggiava. Si insiste fino alla nausea sulla sua mondanità. Eppure, l’opera di Balzac, in definitiva, come quella di Stendhal, è realmente di destra? Ho conosciuto molti autori di sinistra che non si sono mai sognati di ornarsi di una particella nobiliare, che non cercavano di frequentare l’aristocrazia, che anzi potevano vantarsi di essere usciti dal popolo, che dal popolo traevano ispirazione per i loro eroi, che descrivevano unicamente la vita del popolo. Per quanto mi riguarda, se questo può far loro piacere, vengano pure considerati degli scrittori di sinistra (per quel che significa ai miei occhi!). Ma la loro opera, il loro populismo, la loro predilezione per la tranche de vie o per il microscopio li rendono ai miei occhi, assai più di un Balzac o di un principe di Palermo dei reazionari. Non mi permettono, loro, di comprendere il meccanismo del mondo sociale in cui vivo, mentre un duca di Palermo, un Balzac che ha tenuto ad ornarsi del nome di Honoré de Balzacposseggono alla perfezione l’arte di comprendere l’evoluzione della società. Quali che siano le loro idee personali, magari anche reazionarie, la loro opera, immersa com’è nel movimento reale della storia, non può avere alcun carattere reazionario. Forse non sarà di sinistra, ma considerarla di destra è assolutamente un non senso. Comunque sia, la fame vien mangiando: e si vorrebbe almeno leggere in francese le Lezioni su Stendhal integrali. Ma sono davvero solo questi gli scritti che Tomasi di Lampedusa ci ha lasciato? Qualsiasi abbozzo di un pensiero come il suo, qualsiasi confessione scritta da un intelletto vigoroso come il suo, dopo Il Gattopardo, è di tale importanza che forse la signora Alessandra di Lampedusa, dopo essersi risolta a pubblicare le note su Stendhal, ci offrirà, acconsentirà ad offrirci altri scritti, magari semplici abbozzi, per completare l’eredità lasciata dal marito. Il quale appartiene senza dubbio alcuno agli happy few, vale a dire a tutti coloro che hanno occhi per leggere, un cuore per sentire, un cervello per comprendere. “Rinascita”, XVII, n.3, marzo 1960, pp.223-226 
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pangeanews · 5 years ago
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“I morti sono un mondo, eccentrico o spirituale, da cui poter entrare e uscire per tutta la vita”. Le note di Francesca Ricchi intorno al suo romanzo (che squarcia il tema fondamentale) “L’incanto dei morti”
C’è una atmosfera da favola gotica, un sogno sfrenato dei fratelli Brontë, esagerato all’unisono. E l’acme della distopia, il fermento di J.G. Ballard. “L’incanto dei morti” già di per sé, nell’alcova del titolo, dice. I vivi vivevano nell’incantamento dei morti: i morti vegetano come un incantesimo sulla vita. Per questo, a loro intonano canti, i vivi – per vincere l’incantesimo e costruire un patto, con i morti. D’altronde, l’incanto è la vendita a chi fa l’offerta migliore – un patto in denaro. I morti, privi di incantesimi e di personalità, vengono venduti all’incanto – quasi ovvio il rimando meditato a Gogol’. In effetti, è uccidendo i morti che sregoliamo la vita. “Le tre bianche città di Belvisto si erano arricchite grazie ai morti. Rinnegandoli prima e sfruttandoli poi, trasformando i funerali nel più prodigioso circo di affari”. La ‘quarta’ de “L’incanto dei morti” (Emersioni, 2019) pare già l’aggancio al narrare. Il libro, che parte in annuncio (“Anche i morti hanno un cuore. Era inciso sul cassettone del tavolo che avevano comprato in un paesino tutto legno e mucche…”), ha una scrittura sospesa, arricchita in simboli (fin nella cruna dei nomi: Esmeralda, Melusina, Serafina, Adelaide…), raffinata, come una firma su oro: “La città funeraria, a nord dell’altopiano, era l’avanguardia sul dominio intrattabile di catene montuose immolate a indomabili freddi. Ed era l’ultimo gemito di vita su cimiteri sconfinati”. In realtà, il libro si legge proprio come un romanzo – dozzine di dialoghi, fatti, ‘storie’ – ma a me conquista il carato ‘morale’ della vicenda, la scrittura scandita. Che rapporto intratteniamo con i morti? Quale lotta al soffocamento? E come ci devia la mancanza? C’è, nel libro, una donna potente, un paese che ghigna, la scienza che alligna, l’ugola dell’amare. Contatto Francesca Ricchi per chiederle motivo del libro, attraverso una intervista. Lei, in sostanza, mi risponde con una specie di inatteso breviario, che mi pare l’ottima camera d’attesa al suo libro – e che dice del ‘carattere’ della scrittrice. Qui, quindi, ricalco le sue frasi. Prive di domande, che non hanno necessità.
***
Le tre città di Belvisto sono innanzitutto un’ossessione poetica, insieme a un richiamo alla tradizione letteraria distopica intesa non come realizzazione del peggior mondo possibile, ma come accettazione della già avvenuta attuazione del peggior uomo possibile, a prescindere dai mondi, e a partire dal nostro.
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L’ossessione persecutoria è l’inevitabile incomprensione del male, e porterà all’inevitabile mancanza di risposta, se è una risposta quello che cerchiamo. L’ossessione poetica è la possibilità di una visione (comprensione) prima dell’errore.
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La risposta è l’errore, se come pare, ha bisogno della razionalità che subisce la manipolazione dell’inconscio, e dunque del diabolico filtro: il vetro di Ritsos, che separa i vivi dai morti, non permette si tocchino e soprattutto si comprendano, o l’occhio di vetro sulla fronte dei morti in una casa di morti, da cui non si può uscire visto il fiume rosso che la circonda, se non accompagnati a un’uscita che è “un’altra morte, necessaria, inevitabile, scaltra”. Come se qualsiasi contatto fosse davvero impossibile, e quindi la Quarta Dimensione irraggiungibile, se non, forse, come effettiva verità prima della risposta, che Ritsos cerca nel “senza tempo” del mito (o meglio nei morti senza tempo del mito), e Belvisto annienta nel genocidio del sé.
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Le città dell’Incanto dei morti sarebbero dunque proprio il manipolatore, la dittatura inconscia, la tempesta di neve che si stende sui vivi e sui morti (“lievemente” direbbe Joyce, ma “continua” e quindi inesorabile), e al tempo stesso la sospensione intesa come quella verità che nulla ha a che fare con i “dati di fatto”, ma piuttosto con una dimensione di quiete, di coscienza, di beatitudine (Baudelaire) o contemplazione (Eliot), che è l’ossessione di partenza. Questa sospensione Belvisto parrebbe averla vissuta, ma l’ha perduta, colpevolmente, e deve annientare ogni rigurgito (indistruttibile) e ogni persona che immancabilmente la riproponga.
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Se Char è definito da Caproni “oscuro per troppa folgorazione” e Mallarmé vuole rievocare il senso delle cose dall’oscurità, dal non detto, solo tramite allusioni che possono apparire incomprensibili (e quindi sembrerebbe temere – o essere consapevole – che qualcosa potrebbe venire a disintegrare questa verità se solo la si nominasse), Belvisto deve mantenere la non-visione attraverso la luce accecante della neve, bianca, quindi a specchio, e non gialla, quindi penetrante. Il reale e l’irreale appaiono così come due specchi che si riflettono, non escludendosi ma definendosi in totalità e quindi in mancanza.
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La morte di Belvisto è insana in quanto viva imposizione di risposte, e dunque lontana dalla morte come verità, o liberazione in un’altra possibilità. Somiglia alla “morte apparente” di Artaud, richiamo a una certa condizione dell’uomo, che come “mummia”, quindi rinchiuso in un sepolcro (che è il mondo stesso, dapprima interiore), svolge unicamente i riti necessari per sopravvivere, o almeno non decomporsi: “E l’eternità ti sorpassa, poiché non puoi passare il ponte”, A. Artaud.
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La verità potrebbe esistere, ma sta nella tomba del più sperduto cimitero di Belvisto, in bilico sull’abisso in quanto in bilico sulle ipotesi: accettare l’abisso della grande rupe è accettare il vuoto della mancanza di risposta, come nucleo profondo in cui trovare la risposta. Se e quando si troverà una via, la tomba si potrà di nuovo svuotare, e rischiare una nuova presa sul mondo dei vivi.
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L’incanto dei morti narra di una società che svende le salme (e le speranze, e se stessa) nel fallimento più totale dell’essenziale, ma che si potrebbe salvare se dai morti si lasciasse sedurre (la doppiezza del termine incanto ne è testimone). Impone a tutti di avere un ruolo, pratico, legato alla catena di produzione mortuaria, che comincia dalla malattia: attrarre (ma anche fabbricare) malati è prodromico all’arricchimento. Immancabilmente questo paradigma subisce perdite, come guizzi vitali, da ogni poro, in una guerra serrata tra tutti (morti viventi, spiriti, e vivi che appartengono ai morti), sotto lo sguardo attonito e assoluto dell’abisso: “Non ho paura. Ho solo la vertigine” (R. Char).
*
Le risposte sono necessità mortali (assassine), che annientano qualsiasi opzione di domanda, e uccidersi in vita per ottimizzarne l’ideale è il necessario prezzo o sacrificio alla luce bianca, che permette l’unica visione rassicurante. Morti viventi o drogati di infusi misteriosi, poco importa, le porte di Belvisto non si apriranno mai alla vita, né alla salvifica luce della morte. Non c’è salvezza benché non ci sia crimine, nessuno infatti (che non sia rinnegato) percepisce più il crimine come tale anche se commesso dai potenti, che sono ormai gli unici a commetterlo: Belvisto in questo è la dittatura perfetta, di cui non si percepiscono gli orrori, proprio come quelli che può arrivare a imporci l’inconscio, se in essa si fonde o meglio si realizza. La violenza repressiva è direttamente proporzionale alla debolezza delle vittime, e la razionalità è la più debole di tutte.
*
“Vivo sotto un’eterna repressione, che non si allenta mai, se non quando scrivo” (John Keats).
*
Nella morte intravedo la chiave di risoluzione di alcune ossessioni predominanti, o tormenti che ci appartengono più di quanto ne siamo consapevoli, e che cerchiamo di allontanare proprio navigando solo sulla superficie della quotidianità, facendoci violenti con noi stessi e con gli altri per non affondare, non credendo che proprio sul fondale si possa celare la quiete, o verità, e si dipani il mistero.
*
Cesellare e limare l’anima, grattare in sottrazione di costrizioni, di interruzioni di orizzonti, del peso dei limiti, seppur evidentemente impossibile, porterebbe a una condizione essenziale, a un eccesso di vita, che potrebbe consentire di afferrare il mistero da vivi. Questo tentato avvicinamento si può scorgere in molti luoghi della storia filosofico-letteraria, ma anche nella psicologia (magari in una delle intuizioni più importanti di Freud, per cui nell’inconscio non esisterebbe il tempo), nella pittura, nell’arte globalmente intesa, che sarebbe lei stessa un mondo altro che indaga questa opportunità.
*
I morti per me sono appunto un mondo, eccentrico o spirituale che si voglia definire, da cui poter entrare e uscire per tutta la vita. I richiami, i consigli, le disperazioni o speranze, sono un flusso comunicativo costante, se ci si dispone all’ascolto, e credo siano una parte essenziale dell’esistenza, l’accesso ai quali dipende più da un eccesso di consapevolezza che di follia. La violenza più drammatica è tutta nell’etichettamento, che non è solo una teoria criminologica per cui noi tendiamo a diventare ciò che ci dicono che siamo, ma un subdolo modo per denigrare qualsiasi visione un minimo più alta che il descrittivo quotidiano, dotata dell’improbabile benedizione della certezza.
*
Le letture che sconfinano tra le righe del libro sono tante, alcune più tangibili, altre disperse in emozioni, e molte le sto dimenticando. È difficile non scorgere subito il connubio neve-morte di Thomas Mann, e forse lo stesso incanto che altro non è che aver valicato già il passaggio, senza alcuna possibilità di ritorno a valle, che è semplicemente indietro, e dunque una montagna come sogno non onirico, ma palpabile premessa a una rivelazione dl cui assedio l’uomo per terrore e inconsapevolezza si ritrova terrorizzato, ancora più se ne percepisce la calma.  Anche Joyce scorge una livella tra i vivi e i morti nella neve, che tutti ricopre senza distinzione, quieta, appunto, ma inesorabile.
Le atmosfere vagamente sospese della sorpresa, della frattura interiore come richiamo a una diversità necessaria, ricordano anche Henry James, la sua convinzione che agli scrittori spetti il compito di moltiplicare le visioni del mondo, e certamente il suo sentimento di emarginazione, che preferiva simboleggiare tramite figure femminili. Come forse certe atmosfere non di orrore, ma di paura come ineluttabile chiave di volta per il ripristino di coscienza, richiamano Lovecraft, e con lui il suo mentore Arthur Machen come simbolo dell’eterno desiderio (e mito) dello ‘scienziato pazzo’. Nel suo Il grande Dio Pan, l’uomo nel suo delirio di impossessarsi dell’aldilà vede sciogliersi il corpo umano pezzo per pezzo, e scomporsi di estasi in estasi fino a ridursi al bramato “principio della vita” in un’apoteosi di potenza, ma dura poco, in breve il principio diviene orribile, e muore, quasi che la verità del corpo sia solo orrore e la punizione necessaria sia mortale, e ancora una volta la pace stia altrove.
C’è molto dei surrealisti sudamericani: Pedro Paramo di Juan Rulfo è uno dei migliori dialoghi con i morti siano mai stati scritti. Non si possono non citare Gogol’, e le sue Anime Morte, o l’isteria della Pietroburgo di Belyj, ma anche il Diavolo di Bulgakov da qualche parte fa certamente capolino.
Rimanendo in Italia, si potrebbe pensare che la rupe di Belvisto somigli in qualche modo alla Fortezza di Buzzati: sollevando nuovamente l’inquietudine del non ritorno, come terrore e insieme invincibile necessità. I canti della mezza morte di Savinio richiamano la necessità dell’abisso come distruzione dei canoni prima di tutto dell’immaginario, per la liberazione non dall’ordine come concetto, ma dalla estrema inettitudine degli ordini umani. Belvisto somiglia pure ai luoghi impossibili di Landolfi, e qualche cosa del torbido, dello stregato interiore della Pietra Lunare gli appartiene, come la tensione verso il simbolo astrale per l’unica forse pensabile liberazione.
Per concludere in Esmeralda c’è anche Kaguyahime, la principessa lunare che cade sulla terra e prova a restarci, ma le è impossibile nonostante ogni tentativo, mentre di lei resta l’aleggiare del soprannaturale, senza motivi né un destino, ma come ineludibile restare del suo passaggio con cui nessuno avrebbe potuto sperare di non fare eternamente i conti.
*
La repressione di cui parla Keats mi è profondamente chiara: tutto quello che non è creazione è costrizione, e se si prescinde da questo sarà difficile anche solo tentare di essere un solo gradino più verso l’alto.
Francesca Ricchi
*Venerdì 11 ottobre il libro di Francesca Ricchi, “L’incanto dei morti” sarà presentato a Roma, presso La Nuova Pesa (via del Corso, 530), alle ore 17,30, da Arnaldo Colasanti e Andrea Caterini
**In copertina: William-Adolphe Bougereau, “L’eguaglianza davanti alla morte”, 1848
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tmnotizie · 5 years ago
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MONTEFIORE DELL’ ASO – Dal 9 al 13 agosto Montefiore dell’Aso (AP) respirerà la magica atmosfera del cinema grazie al festival “Sinfonie di cinema” organizzato dal Comune di Montefiore dell’Aso per la direzione artistica di Giancarlo Basili. Durante la diciannovesima edizione, dal titolo “
Dal 9 al 13 agosto Montefiore dell’Aso (AP) respirerà la magica atmosfera del cinema grazie al festival “Sinfonie di cinema” organizzato dal Comune di Montefiore dell’Aso per la direzione artistica di Giancarlo Basili. Durante la diciannovesima edizione, dal titolo “Il bianco e nero e il colore nell’immagine cinematografica”, si potrà assistere a proiezioni di film importanti e dibattiti con personaggi illustri del cinema italiano.
L’evento, nato da un’idea di Pepi Morgia, si distingue per essere una delle maggiori rassegne cinematografiche della Regione Marche calamitando ogni anno turisti ed appassionati provenienti da tutta la Regione Marche e dalle regioni vicine.
Tra le presenze storiche si annoverano Fabrizio Bentivoglio, Marco Tullio Giordana, Neri Marcorè, Angelo Turetta, Michelangelo Barbieri, Umberto Montiroli, Angelo Barbagallo, Luca Bigazzi, Elio Germano, Giuseppe Battiston, Peppino Mazzotta, alcuni tra i volti noti del mondo del cinema italiano, ospiti nelle varie edizioni a Montefiore dell’Aso.
Quest’anno, ospiti d’eccezione della prima serata, Elisa Del Genio e Ludovica Nasti, attrici protagoniste delle prime puntate della serie tv “L’amica geniale”.
E per finire la location…Il suggestivo chiostro del Polo Museale di San Francesco che contribuisce ad aumentare la magia delle serate ed a creare un’atmosfera unica e indimenticabile.  All’interno del Polo Museale di San Francesco  sotto il vigile  e malizioso sguardo  della nostra Maddalena  Crivellesca, il centro di documentazione scenografica l’unico nella Regione Marche. Ricostruzioni di scenografie, backstage fotografici, bozzetti e disegni che raccontano decenni di cinema italiano.
Qesto il programma completo
VENERDÌ 9 AGOSTO ore 21.15
Proiezione prime puntate “L’AMICA GENIALE” di Saverio Costanzo
Premiata al Monte Carlo Television Festival 2019 come miglior serie drammatica
e al Giffoni Film Festival 2019
Ospiti della serata Elisa Del Genio (Lenù) e Ludovica Nasti (Lila)
attrici protagoniste vincitrici del Premio Flaiano della Presidenza
SABATO 10 AGOSTO ore 21.15
Proiezione film ��DOGMAN” di Matteo Garrone
Nastro d’argento 2018 come miglior film e miglior regista
David di Donatello 2019 come miglior film e miglior regista
DOMENICA 11 AGOSTO ore 21.15
serata ragazzi
Proiezione film “DILILI A PARIGI” di Michel Ocelot
Vincitore del César award come miglior film di animazione 2019
LUNEDÌ 12 AGOSTO ore 21.15
Proiezione film “LAZZARO FELICE” di Alba Rorhwacher
Miglior sceneggiatura al Festival di Cannes 2018
MARTEDÌ 13 AGOSTO ore 21.15
Omaggio a Martin Scorzese
Proiezione film “TORO SCATENATO” di Martin Scorzese
Il film verrà proiettato in forma restaurata.
Restauro curato dalla Cineteca di Bologna
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ggdbcheapforsale-blog · 6 years ago
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ultimavoce · 7 years ago
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È uno dei contest di fotografia più prestigiosi al mondo, ed è organizzato dal Natural History Museum di Londra. Il vincitore di questo concorso è il fotografo sudafricano Brent Stirton, col suo scatto “Funerale di una specie” (Memorial to a Species).
“Traffico mortale” è il fotoreportage da cui è tratta la foto vincitrice. Un servizio dell’ottobre 2016, che documenta il terribile mondo del traffico clandestino di corni di rinoceronte. Si tratta di un contrabbando pericoloso, che minaccia gravemente una tra le specie più sensibili all’estinzione.
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(adsbygoogle = window.adsbygoogle || []).push({}); Un lavoro per cui Brent Stirton si è aggiudicato non solo il Grand Title del Wildlife Photographer of the Year 2017, ma anche il premio Wildlife Photojournalist dell’anno.
La foto premiata mostra un rinoceronte nero ucciso da poco e successivamente scornato dai bracconieri. L’animale si trova nella riserva di caccia Hluhluwe Imfolozi Park, in Sudafrica. Molto probabilmente i cacciatori sono entrati illegalmente di notte nella riserva, quindi hanno ucciso il rinoceronte servendosi di fucilli con silenziatore. Hanno poi tagliato i due corni all’animale e infine sono riusciti a scappare prima che la pattuglia di guardia se ne accorgesse. Un bottino prezioso, quello degli assassini, che infine sarebbe destinato alla vendita in Mozambico o in Cina.  (adsbygoogle = window.adsbygoogle || []).push({});
La natura drammatica
FONTE: brentstirton.com
L’orrore del contrabbando è un tema molto caro a Brent Stirton: nel 2013 infatti aveva immortalato questa realtà nel progetto The violation of Eden. Già allora il fotografo aveva affermato: “Vedo gli umani come predatori di questo pianeta”. In occasione del Festival della fotografia etica, a Lodi, nel 2013 aveva risposto alle mie domande, e le sue risposte risultano ancora attuali.
  Cosa significa fare il tuo lavoro in mezzo alle persone del luogo? C’è diffidenza o piuttosto collaborazione?
Ho vissuto con loro per molto tempo e il lavoro è pericoloso. A volte per aiutarmi si sono messi in situazioni rischiose, con i bracconieri, con le bande criminali, ma anche col governo. Mi sento sempre molto fortunato a lavorare con le persone con cui lavoro.
Il colore è molto vivido nelle tue foto, è una scelta?
Penso che la natura sia piena di colore, credo che gli animali siano spettacolari, che stare nella natura sia un’esperienza bellissima e se riesco a trasmettere qualcosa di tutto ciò nelle mie fotografie, tanto meglio. Credo anche che si possa utilizzare il colore per esaltare una certa atmosfera.
Il premio al più giovane
Al Wildlife Photographer of The Year 2017 sono arrivate 50mila fotografie, che rappresentano la natura drammatica e selvaggia. Inoltre è stato assegnato un premio a Daniël Nelson, come fotografo più giovane del concorso, coi suoi 17 anni e la sua foto di un gorilla che mangia un frutto nella Repubblica del Congo.
FONTE: nationalgeographic.it
Iolanda Verri
#BrentStirton vince il premio #WildlifePhotographeroftheYear con la #fotografia drammatica del rinoceronte mutilato È uno dei contest di fotografia più prestigiosi al mondo, ed è organizzato dal Natural History Museum di Londra.
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persinsala · 7 years ago
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Al teatro Vascello di Roma, per Teatri di Vetro, è andato in scena il Macbettu, l’opera breve del Bardo di Stratford Upon Avon nella versione neolatina di Alessandro Serra.
Tragedia tutt’altro che mastodontica, almeno se comparata alle altre sorelle, il Macbeth fu un’opera scritta in maggioranza in versi e per un cospicuo numero di personaggi. Nata da una vicenda storica realmente accaduta e stravolta dall’autore per esigenze poetiche, essa rappresenta con adamantina efficacia la capacità del poeta di dare forma a storie eterne, fuori dal tempo e dallo spazio, e così plasmare autentici archetipi per la coscienza a venire.
Particolare fortuna ebbe il character di Lady Macbeth, donna tentatrice e diabolica, laico alter ego dell’Eva veterotestamentaria, talmente carismatica e psicologicamente complicata che, in lei, l’interpretazione freudiana vide il lato oscuro della controparte maschile. Quello tra Macbeth e consorte, con l’inaudita polarizzazione in monade della dualità naturale, fu, infatti, uno dei matrimoni meglio riusciti nel teatro shakesperiano (e non solo) e vederla sostanzialmente soppressa in questo Macbettu suscita istintivamente un’intrinseca curiosità.
Dedicando la propria attenzione alla realtà di una regione tra le più isolate dal contesto europeo e, di conseguenza, conservative rispetto ai propri mores, Serra declina l’inattualità del Macbeth sulla questione di lingua, pardon della limba, quale dispositivo identitario del popolo sardo.
La scena, quasi vuota ma abilmente plasmata dalla densità di una scenografia minima e modulare, è cupa e ferina. In essa, tra materiali poveri (pietre e pani, sabbia e ferro) e sonorità ridondanti, troveranno riuscita contestualizzazione non solo, o non tanto, gli essenziali e suggestivi movimenti scenici dei suoi protagonisti, letteralmente straordinari per tenuta e tensione scenica, quanto la bella atmosfera di una cruda arcaicità al cui interno la coscienza di Macbeth non potrà che smarrirsi, lacerata dal timore di perdere non tanto il potere tout court, quanto ciò cui esso – il potere – lo aveva consegnato.
A questo Macbettu, grazie all’esperta messa in scena di Serra, non mancano i toni sinistri dell’inferno in terra, tra profezie di streghe (la cui presenza, purtroppo, patisce una non riuscita vis comica) ed esseri umani bardati di nero, cappucci e maschere, dilaniati dal conflitto etico e dal peso del dominio e della responsabilità. Dunque, nella sublimazione teatrale, da sangue, e dolore, e morte. E non a caso, le note di regia citano esplicitamente dai Quaderni di Simone Weil per ricordare come la drammatica commistione tra la paura e un potere che assolutizza la propria ambizione diventi disumanità, folle aspirazione al controllo totale sul corpo e sulle menti, ossia dispositivo di coercizione dell’identità («La lezione è questa: l’ambizione è illimitata, mentre le possibilità reali non lo sono mai; nell’oltrepassarle si cade»).
«Recitato in sardo e, come nella più pura tradizione elisabettiana, interpretato da soli uomini», l’ambizione di Serra coglie, però, senza particolare profondità «analogie tra il capolavoro shakespeariano e i tipi e le maschere della Sardegna».
Dal punto di vista linguistico, la scelta «non limita la fruizione ma trasforma in canto ciò che in italiano rischierebbe di scadere in letteratura», compiendo un’autentica traduzione che elude il rischio del tradimento e supera di slancio la stucchevole e controversa polemica nata nelle ultime settimane tra auctoritas del settore, divisi tra l’opinione preventiva dell’Alto Passero della carta stampata e l’esaltazione per contrarietà della new age dell’intellighènzia online. Tuttavia, complice la scelta di ridurre Macbeth alla tematica dell’homo homini lupus e di indugiare scolasticamente sull’anima e sui nervi di un territorio solcato, fin dalla sua preesistente civiltà nuragica, dal diritto alla violenza sancito da leggi non scritte e dal riscatto del e dal sangue, l’operazione rimane ancorata a un semplicistico didascalismo antropologico e risulta, in termini squisitamente drammaturgici, lontana tanto dal rispetto del testo originario, quanto dal tentativo di un suo rinnovamento.
Sia chiaro come non sconcerti la mancanza di rispetto per l’autore, al contrario suscita interesse il tentativo di soppressione del protagonismo di Lady Macbeth (oltre che la conversione linguistica), ma dopo averne estirpato la centralità senza aver proposto una valida interpretazione alternativa e aver sfumato il dramma su momenti ironici a forte rischio stereotipia, Serra orienta con poca audacia questo Macbettu su un terreno di straordinaria inattualità e, senza riuscire a gettare del tutto il cuore oltre l’ostacolo, lo posiziona di fatto sul piano del prodotto teatrale, tra l’altro, non privo di significative sbavature.
Pur offrendo spunti di estremo interesse, in particolar modo a livello interpretativo, visivo e sonoro, l’allestimento soffre, infatti, una collocazione a metà tra due registri linguistici troppo divergenti fra loro che trasforma parte del testo shakespeariano in farsa grottesca e inficia parzialmente un’operazione che, senza nulla togliere alle musiche di Pinuccio Sciola e alla scenografia e alle luci dello stesso Serra, regge quasi interamente su una restituzione attorale di ineccepibile potenza, mentre, attorno a essa, la novità del testo tende a costituirsi con pesante manierismo nei costumi e negli accostamenti rituali, così andando a discapito della pur forte intenzione di base e a disperderne le potenzialità drammaturgiche, nonostante in diversi momenti sia stato estremamente semplice riconoscere a Serra una significativa dose di talento (dal pasto dei porci alla caduta dei fari che tagliano le figure da dietro in controluce rispetto alla platea fino al glaciale monologo finale).
Un’operazione che provoca i puristi e, forse, accontenta i contemporanei, ma che non riesce a far andare oltre la percezione di uno spettacolo complessivamente ben fatto/prodotto e diretto con estremo rigore ed esperienza, ma incoerente e incapace di brillare al di là del fulgore offerto da Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano (un gigantesco Macbeth), Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu e Felice Montervino.
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Macbettu
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Lo spettacolo è andato in scena all’interno di Teatri di Vetro Teatro Vascello via Giacinto Carini, 78, Roma 2 ottobre 2017, ore 21.00
Macbettu di Alessandro Serra tratto dal Macbeth di William Shakespeare con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini musiche pietre sonore Pinuccio Sciola composizioni pietre sonore Marcellino Garau regia, scene, luci, costumi Alessandro Serra produzione Sardegna Teatro e compagnia Teatropersona con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola, Cedac Circuito Regionale Sardegna
Macbettu / Teatri di Vetro Al teatro Vascello di Roma, per Teatri di Vetro, è andato in scena il Macbettu, l'opera breve del Bardo di Stratford Upon Avon nella versione…
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