#Fulvio Accogli
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Carlo Mollino arabeschi
a cura di Fulvio e Napoleone Ferrari
Electa Mondadori, Milano 2006, 288 pagine, 24,3x28cm, ISBN 97 888 3704 9362
euro 130,00
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Mostra Galleria Arte Moderna, Castello di Rivoli 20 settembre 2006 - 7 gennaio 2007
Un'ampia visione della ricca esperienza molliniana che chiarisce lo spirito, le tematiche e le qualità del lavoro dell'architetto, attraverso l'esposizione dei rari mobili autentici e di opere provenienti da collezioni private americane ed europee, tra cui la più completa esistente, quella del gallerista svizzero Bruno Bischofberger.
Simpatico e altero, concentrato e distratto, ogni antitesi è lecita per raccontare la personalità dell’eccezionale architetto-ingegnere, lucido sognatore sufficiente a se stesso che mai acconsentì alle “banalità” di una spiegazione della propria espressione. Raffinato outsider del mondo del progetto Mollino accoglie stimoli del Secondo Futurismo e delle avanguardie surrealiste, miscelandole in modo magico alla professione di architetto. I suoi mobili, quasi tutti commissionati e creati come pezzi unici e per luoghi specifici di cui erano parte integrante, sintetizzano tensioni creative spinte verso l’assunzione delle forme organiche come riferimento e delle curve femminili come modello. Una grande mostra, raccolta in un importante volume con interventi critici di Portoghesi, Lisa Ponti, Roggero e Marras, dedica spazio ai progetti sui mobili, agli interni e alle famose auto ma anche alla sua incredibile passione per la fotografia, dove oltre duecento esemplari, unitamente a pezzi emblematici, permetteranno di riunire i vari momenti di quella che fu sempre una componente intima nel rapporto tra Mollino e la propria creatività.
07/01/25
#Carlo Mollino#arabeschi#architectural exhibition#Castello Rivoli 2006#Fulvio Ferrari#Napoleone Ferrari#Lisa Ponti#Portoghesi#Roggero#Marras#mobili#interni#auto#fotografia#designbooksmilano#fashionbooksmilano
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Mimmo Lucano ha le mani sporche di vita di Saverio Tommasi Le sentenze non si commentano”, dicono gli osservatori a distanza, quelli che stanno sugli spalti, quelli che si fermano alla buccia, quelli con le mani pulite perché il servo li ossequia con la lingua e con il disinfettante. “Le sentenze non si commentano”, dicono gli interessati all’orto proprio, con la stessa enfasi di una scritta sull’autobus: “non si parla al conducente”. “Le sentenze non si commentano”, commentano i cattivissimi maestri con il ditino puntato mentre con l’altra mano si mangiano il porco e trafficano i suoi zoccoli. Se entri nella carne delle questioni, se della vita ti interessi non solo come speaker, o come fanno con i pozzi gli avvelenatori; se la vita non ti interessa solo per abbronzarti, se le storie che hai visto ti hanno cambiato, se quelle storie soprattutto sai che hanno cambiato le persone che le hanno vissute, allora le sentenze le puoi commentare eccome. Soprattutto non ne puoi fare a meno, di urlarlo, di scrivere un articolo, di provare a vivere per un millesimo come quelle storie ti hanno insegnato. E’ questo che prova chi oggi sente di aver cercato ad amare come Domenico Lucano gli ha insegnato. E allora lo dico chiaramente: la sentenza di condanna a Domenico Lucano a 13 anni e 2 mesi, è qualcosa di ributtante. Provoca un sorpasso della bile sulle parole, ed è difficile trattenerle e scegliere quelle giuste. Domenico Lucano, che non si è mai preso un euro, non si è mai arricchito, è stato condannato per aver troppo amato. Amato il suo lavoro, amato la sua gente e anche quella che veniva dall’altra parte del mare, che in fondo era sua anche quella gente lì, come noi siamo anche un po’ loro. Niente ci appartiene, se non le relazioni che riusciamo a creare, e Mimmo Lucano di relazioni aveva creato un modello, quello di Riace. Funzionava troppo il modello Riace, in un Paese dove i voti si prendono agitando il cappio contro i poveracci, chiudendo i porti e cavalcando una ruspa. Dovevano pur farlo saltare, quel modello, e ci sono riusciti. Al G8 di Genova uccisero un ragazzo, e torturarono una generazione, per fermare il più grande Movimento della Storia che non chiedeva niente per sé, ma tutto per gli altri. Oggi il giudice Fulvio Accurso ha raddoppiato la pena richiesta dal pubblico ministero per Domenico Lucano, condannando Mimmo a una pena spaventosa, abnorme, assurda. Condannato per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, dopo aver semplicemente favorito l’umanità. Condannato per “illeciti in relazione ai progetti di accoglienza agli immigrati”. Direi ovviamente, perché alla presenza di leggi ingiuste, qualche illecita forzatura è d’obbligo, altrimenti fai il carceriere delle speranze e sei ben pagato, ma quella non è accoglienza. E chi ben accoglie, lo sa. Il Diritto dell’Uomo è più importante di qualche riga scritta da uomini che non sono mai stati torturati in Libia, davanti ai parenti più stretti, o che in mezzo al mare hanno dovuto scegliere quale figlio salvare. Noi sappiamo che tutti i figli sono uguali, ma a chi ha le mani sporche di vita, vogliamo ancora più bene. Forza Mimmo. Forza.
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L’an mortu, Deus meu: Il Macbettu e il Carrasecare barbaricino
L’an mortu, Deus meu: Il Macbettu e il Carrasecare barbaricino
Già è stato scritto, di questo tanto caro Macbettu, che non tiene più il conto dei riconoscimenti presi, delle tappe mondiali e delle repliche: Premio Ubu del 2017, ANCT 2017, MESS Awards, Sud America, Francia, Finlandia, eccetera eccetera eccetera. Diremo che, trainato dalla regia di Alessandro Serra, ha annoverato Siena tra le sue fermate, calcando le assi del Teatro dei Rinnovati tra il 6 e…
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#Alessandro Serra#Andrea Bartolomeo#Andrea Carroni#Chiara Michelini#Felice Montervino#Fulvio Accogli#Giorgia Mascia#Giovanni Carroni#Giuliana Rienzi#Leonardo Capuano#Marcellino Garau#Maurizio Giordo#Pinuccio Sciola#Recensione Macbeth#Recensione Macbettu#Sardegna Teatro/Compagnia Teatropersona#Stefano Bardelli#Stefano Mereu#Teatro dei rinnovati
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Mollino / Insides, Carlo Mollino (Brigitte Schindler, Enoc Perez).
L’immaginario creativo complesso e raffinato di Carlo Mollino - personalità eclettica del Novecento italiano - è il fil rouge che unisce la ricerca documentata in queste pagine, che affianca una scelta di fotografie degli anni cinquanta e sessanta dello stesso Mollino, alle opere di Enoc Perez e Brigitte Schindler, artisti accomunati da uno spirito visionario e teso alla sperimentazione. Il volume si apre con gli scatti delle splendide e conturbanti modelle ritratte da Mollino (Torino, 1905-1973), attraverso le quali l’autore da un lato esplora la bellezza della natura femminile e dall’altro mira a comporre un’immagine - soggettiva e trasfigurata - della donna, quale controparte ideale della sua esistenza. Enoc Perez (San Juan, Porto Rico, 1967) ha avviato negli anni novanta una personale indagine su una serie di architetture iconiche del Novecento, da lui trasposte in quadri dal sapore indefinito, a tratti onirico: fra queste spicca Casa Mollino - ultima enigmatica e segreta dimora del celebre architetto, che ne ospita oggi il Museo -, visitata nel 2019 e oggetto delle opere qui presentate. La stessa Casa, progettata da Mollino nei minimi dettagli e concepita come specchio della sua visione del mondo, è stata fonte di ispirazione per Brigitte Schindler (Monaco di Baviera, 1972), le cui fotografie intercettano il mistero sospeso negli ambienti, le sottili connessioni tra gli oggetti accuratamente scelti e posizionati dal proprietario. Il volume accoglie i contributi di Mario Diacono, Fulvio Ferrari, Enoc Perez e Brigitte Schindler, insieme a estratti da “Il messaggio dalla camera oscura” di Carlo Mollino.
Reggio Emilia, Collezione Maramotti, ottobre 2020 – marzo 2021
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27 nov 2020 10:49
DALLA VASCA A FORMA DI CONCHIGLIA DEI BOSS DELLA CAMORRA, ALL'ARRESTO PER COCA: IL LATO OSCURO DI MARADONA – LA FOTO CON I FRATELLI GIULIANO, PADRONI DELLA NAPOLI CRIMINALE, MACCHIO’ I SUOI ANNI PARTENOPEI - LA RELAZIONE CON CRISTIANA SINAGRA E IL FIGLIO RICONOSCIUTO SOLO 17 ANNI DOPO, L’ACCUSA (INFONDATA) DI EVASIONE FISCALE E LA DIPENDENZA DALLA DROGA SOSTITUITA NELL’ULTIMO PERIODO CON L’ALCOL – CHI SI PRESE CURA DI LUI FU CASTRO – IL BALLO CON IL CULO DI FUORI – VIDEO
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Fulvio Bufi per il Corriere della Sera
E adesso che alla sua vita sempre fuori controllo ha pagato il conto definitivo, adesso che nessuno può più rimproverargli né rinfacciargli nulla, adesso che è precipitato in quel buio già tante volte scansato per un amen, tutto torna ad appartenere ai ricordi. Racchiusi in album azzurri e biancocelesti, ma anche in un album nero che forse è pure quello più doppio. Perché troppe volte Diego ha sfidato la vita e il destino. E ora che quelle sfide lo hanno portato dove non si torna indietro, conviene sfogliarlo l' album nero, senza paura. Perché lui paura non ne ha mai avuta.
La foto di copertina è sempre la stessa: lui nella vasca a forma di ostrica insieme con i fratelli Giuliano di Forcella, che negli anni Ottanta erano i veri padroni della Napoli criminale. Maradona non l' ha mai negata quella frequentazione. I Giuliano volevano che l' altro re di Napoli, quello di tutta Napoli, sedesse al loro fianco. Avevano donne e cocaina da offrirgli e furono forse i primi a capire che Diego Armando Maradona era un uomo fragile. Scaltro, intelligente, geniale. Ma fragile. Uno che si lasciava imprigionare.
Forse per generosità, oppure per coraggio o anche solo per superficialità. I Giuliano se ne approfittarono e Diego approfittò della loro cocaina e delle donne che una signora del giro gli trovava anche alle 3 del mattino, se lui lo chiedeva.
Quello fu certo l' incontro peggiore che Maradona fece nei suoi anni napoletani. Gli anni in cui concepì anche il primo figlio, con Cristiana Sinagra, una ragazza incontrata in discoteca. Per riconoscerlo, però, impiegò 17 anni, quando finalmente accettò di incontrare quel ragazzo che la mamma aveva battezzato Diego Armando jr.
Con Cristiana forse non fu una storia d' amore, ma nemmeno una storia nera. Altre ne sarebbero venute dopo aver lasciato Napoli, dove si è trascinato per anni un' accusa (infondata) di evasione fiscale, il ritiro dal calcio e il ritorno in Argentina. C' è un' altra immagine difficile da dimenticare. Diego che esce tra due poliziotti dalla casa del cognato a Buenos Aires. È l' aprile del 1991: lo arrestano perché in quella casa la polizia trova droga e trova lui. Non ci sono narcos ma c' è Maradona, e la notizia fa il giro del mondo, come se fosse stato preso el Chapo.
Invece Diego resterà detenuto solo 48 ore. Ma quella vicenda conferma che è ancora vittima della cocaina, e intorno a lui non c' è nessuno in grado di aiutarlo. Ci sono giovanissime e bellissime fidanzate cone le quali spesso finisce male. E ci saranno quelli che di mestiere fanno l' entourage di Maradona, cioè campano con i suoi soldi. Ma il primo a prendersi veramente cura di lui è un uomo che appartiene alla storia del mondo: Fidel Castro. Il Lider maximo accoglie il Pibe de oro a Cuba 2000, dopo che Diego ha avuto l' ennesima crisi dovuta all' abuso di coca.
Fidel gli assicura le cure di cui ha bisogno e Diego finalmente si disintossica davvero. Avrà altri tre figli. Ma è un uomo diverso quello che torna in Argentina e per prima cosa va a farsi tatuare sul polpaccio il volto del suo amico cubano, morto tra l' altro anche lui un 25 novembre, quello del 2016.
Gli eccessi sembrano passati, ma l' estate scorsa sui social compare un video: lui che balla goffamente. È grasso, spettinato, la barba incolta.
Indossa una t-shirt e pantaloncini che gli scendono e scoprono il sedere. È chiaro che di nuovo non sta bene.
diego armando maradona fa festa in cina nel 2003 diego armando maradona e famiglia con fidel castro
«Ha sostituito la droga con l' alcol», dirà il suo medico. E forse questo gli ha finito di devastare il cuore. Che non era nero, era grande. Ma non gli è servito a non farsi del male.
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Edicola Elbana Show del 1 Novembre 2019
Arriva Fulvio da Roma e lo accoglie Stix al Bar con due quesiti seri,ovvero: ma è giusto che i Residenti, diciamo “ veri” abbiano la precedenza a rientrare all'Elba prima dei residenti “ par time”?
Seconda questione: ma i morti vanno ricordati solo il primone due Novembre o forse è meglio portare rispetto alle persone da vivi?
Come al solito tra goliardia e mezza serietà, l'Edicola Elbana Show non le manda a dire, anzi s'incazza in vecchiaia con maggiore facilità.
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MACERATA – Venerdì 8 e sabato 9 febbraio, alle 21, con Macbettu di Alessandro Serra prosegue la stagione del Teatro Lauro Rossi promossa dall’assessorato alla Cultura del Comune di Macerata e dall’AMAT in collaborazione con la Regione Marche e il MiBAC.
Macbettu è lo spettacolo vincitore del prestigioso Premio Ubu 2017 e del Premio ANCT 2017 (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro), osannato dalla critica e amato dal pubblico, reduce dai recenti successi in Argentina è un vero cameo, da vedere, organizzato registicamente con la consapevolezza lucida del testo shakespeariano metafora della violenza fine a se stessa, ma soprattutto interessante per l’autonomia di azione e di estetica, per come esce dai percorsi risaputi della nuova scena italiana. È una produzione che nasce con Sardegna Teatro in collaborazione con Compagnia Teatropersona, una rilettura originale del Macbeth di Shakespeare in lingua sarda con sovratitoli in italiano.
“Siamo molto felici di avere a Macerata uno spettacolo tanto prestigioso e riconosciuto tra le migliori produzioni di questi anni. – afferma Stefania Monteverde assessore alla Cultura del Comune di Macerata.- L’idea nasce anche nell’ambito della rete delle città finaliste a Capitale Italiana della Cultura 2020, nella volontà di scambiare progetti culturali. Infatti, Macbettu nasce a Nuoro, una delle dieci città finaliste insieme a Macerata, con cui si sono avviate collaborazioni con lo spirito di promuovere le nostre città su scala nazionale”.
Lo spettacolo al Teatro Lauro Rossi viene presentato anche nell’ambito del progetto Waiting For Mof19/Rossodesiderio che anticipa un tema della prossima stagione 2019 del Macerata Opera Festival, il Macbeth di Giuseppe Verdi.
Imperdibile l’appuntamento “Gente di Teatro” sabato 9 febbraio alle 17.30 alla Biblioteca Mozzi – Borgetti, l’incontro del pubblico con gli attori della compagnia per parlare dello spettacolo e scoprire il lavoro di produzione, un’occasione per conoscere e approfondire, aperto a tutti e gratuito.
Il Macbeth di Shakespeare recitato in sardo è, come nella più pura tradizione elisabettiana, interpretato da soli uomini. L’idea nasce nel corso di un reportage fotografico tra i carnevali della Barbagia. I suoni cupi prodotti da campanacci e antichi strumenti, le pelli di animali, le corna, il sughero. La potenza dei gesti e della voce, la confidenza con Dioniso e al contempo l’incredibile precisione formale nelle danze e nei canti.
Le fosche maschere e poi il sangue, il vino rosso, le forze della natura domate dall’uomo. Ma soprattutto il buio inverno. Sorprendenti le analogie tra il capolavoro shakespeariano e i tipi e le maschere della Sardegna. La lingua sarda non limita la fruizione ma trasforma in canto ciò che in italiano rischierebbe di scadere in letteratura. Uno spazio scenico vuoto, attraversato dai corpi degli attori che disegnano luoghi ed evocano presenze. Pietre, terra, ferro, sangue, positure di guerriero, residui di antiche civiltà nuragiche. Materia che non veicola significati, ma forze primordiali che agiscono su chi le riceve.
Gli attori in scena sono Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino. La traduzione in sardo e la consulenza linguistica è di Giovanni Carroni, la collaborazione ai movimenti di scena di Chiara Michelini, le musiche pietre sonore di Pinuccio Sciola, regia, scene, luci e costumi di Alessandro Serra. La produzione è realizzata con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola, Cedac Circuito Regionale Sardegna.
Informazioni e biglietti: Biglietteria dei Teatri, piazza Mazzini, tel. 0733 230735, www.comune.macerata.it .
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“Sarò trasformato in una parola”: riscopriamo Nichita Stanescu, il poeta che mangiava le libellule, usava la spada e il verbo, in battaglie senza tempo, e fu candidato al Nobel
Fu come un clangore, questa poesia piena di elmi e di sauri, di visioni medioevali e di astrali, stralunate astrazioni, di sangue e di verbo. Nichita Stanescu, che quest’anno compirebbe 85 anni – non fosse morto, troppo giovane, a 50 anni, nel 1983 – è tra i grandi poeti in lingua rumena di sempre, lo dice anche la Treccani: “la sua opera ha segnato un momento di svolta nel panorama letterario degli anni Sessanta, imponendo uno stile e un linguaggio che si allontanano in modo deciso dai canoni estetici della poesia impegnata in voga nell’immediato dopoguerra”. La sua opera è raccolta, in Italia, in un volume ormai irreperibile, La guerra delle parole, a cura di Fulvio Del Fabbro, edito nel 1999 da Le Lettere, nella bella collana poetica ‘Il Nuovo Melograno’. Esordio nel 1960, con Il senso dell’amore, riconoscimenti in tutta Europa, compresa una nomination al Nobel per la letteratura nel 1979, Stanescu “due mesi prima della sua morte, davanti a una platea di studenti, dirà: ‘Se mai morirò, sono sicuro che non sarò cibo per i vermi, poiché io sarò trasformato in parola’” (Del Fabbro). Le sue poesie, dai titoli impareggiabili (Raid nell’interno delle pietre; Alcune generalità sulla velocità; La lotta di Giacobbe con l’angelo ovvero dell’idea di ‘tu’; Il freddo, ovvero la seconda confessione del cattivo sognatore), si stagliano, spesso, come iscrizioni d’oro nel senza tempo.
***
Una cavalcata all’alba
Il silenzio urta contro i tronchi, vi si interseca, si fa lontananza, si fa sabbia. Ho rivolto verso il sole il mio unico volto, le mie spalle strappano foglie nella corsa. Tagliando il campo, su due zampe il mio cavallo si erge sull’argilla, schiumante. Ave, mi volto verso di te. Ave! Il sole irrompe nel mondo gridando.
Il sole balza dalle cose, gridando ne muove i contorni sordi e solenni. La mia anima lo accoglie, ave! Il mio cavallo si erge su due zampe. La mia criniera bionda arde nel vento.
*
Il mangiatore di libellule
Mangio le libellule perché sono verdi e hanno gli occhi neri, perché hanno due paia di ali trasparenti perché volano senza fare rumore perché non so chi le abbia fatte e come mai le abbia fatte perché sono belle e soavi, perché non so come mai siano belle e soavi; perché non parlano e perché non sono convinto che non parlino. Mangio le libellule perché non mi piace il loro sapore perché sono velenose e perché non mi fanno bene.
Mangio le libellule perché non le capisco, le mangio perché sono loro contemporaneo le mangio perché ho provato a mangiare prima persino le mie mani ed erano infinitamente più disgustose, le mangio perché ho provato a mangiarmi la lingua la mia lingua di carne e spaventato ho visto che essa aveva abbandonato le sue parole verdastre, dagli occhi neri, lontano da me, nella fame.
*
Nodo 6
Mi ricordo, ero caduto da cavallo, e stavo nell’erba, sanguinante, come un corpo ovale percorso dalle formiche. Il mio dolore era un principato un paese putrido, muto, quello che era stato il mio occhio era un palazzo, il mio cuore, un sole nero. Mi ricordo, ero caduto da cavallo quando tu hai detto di me che mi farai rinascere di nuovo regale, e fra dolori divini – e mi darai di nuovo la stessa stella e lo stesso cavallo, di nuovo, di nuovo mi farai montare in sella, facendomi parola, eco.
*
Segno 12
Lei era divenuta pian piano parola, fili di anima nel vento, delfino negli artigli delle mie ciglia, pietra che disegna anelli nell’acqua, stella dentro il mio ginocchio, cielo dentro la mia spalla, io dentro il mio io.
Nichita Stanescu
(trad it. Flavio Del Fabbro e Alessia Tondini)
L'articolo “Sarò trasformato in una parola”: riscopriamo Nichita Stanescu, il poeta che mangiava le libellule, usava la spada e il verbo, in battaglie senza tempo, e fu candidato al Nobel proviene da Pangea.
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Il Teatro Toselli di Cuneo presenta la programmazione teatrale della stagione 2017/2018, con un fitto elenco di spettacoli e rappresentazioni.
Macbettu
Di: Alessandro Serra Tratto da: Macbeth di William Shakespeare Interpreti: Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino. Traduzione in sardo e consulenza linguistica: Giovanni Carroni Regia, scene, luci, costumi: Alessandro Serra
Il Macbeth di Shakespeare recitato in sardo e, come nella più pura tradizione elisabettiana, interpretato da soli uomini.
L’idea nasce nel corso di un reportage fotografico tra i carnevali della Barbagia.
I suoni cupi prodotti da campanacci e antichi strumenti, le pelli di animali, le corna, il sughero.
La potenza dei gesti e della voce, la confidenza con Dioniso e al contempo l’incredibile precisione formale nelle danze e nei canti.
Le fosche maschere e poi il sangue, il vino rosso, le forze della natura domate dall’uomo.
Ma soprattutto il buio inverno.
Sorprendenti le analogie tra il capolavoro shakespeariano e i tipi e le maschere della Sardegna.
La lingua sarda non limita la fruizione ma trasforma in canto ciò che in italiano rischierebbe di scadere in letteratura.
Uno spazio scenico vuoto, attraversato dai corpi degli attori che disegnano luoghi ed evocano presenze.
Pietre, terra, ferro, sangue, positure di guerriero, residui di antiche civiltà nuragiche.
Materia che non veicola significati, ma forze primordiali che agiscono su chi le riceve.
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"Zzz" Natasha Poly, Edie Campbell, Filippo TImi, Fulvio Accogli, Nathalie Westling, Binx Walton, Charlotte Free, Edwin Moelander by Tim Walker LOVE MAGAZINE S/S 14.
#Natasha Poly#edie campbell#Filippo Timi#Fulvio Accogli#Binx Walton#Charlotte Free#Nathalie Westling#Edwin MoeLander#Tim Walker#LOVE MAGAZINE#S/S 14#Fashion Editorial#photography
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Al teatro Vascello di Roma, per Teatri di Vetro, è andato in scena il Macbettu, l’opera breve del Bardo di Stratford Upon Avon nella versione neolatina di Alessandro Serra.
Tragedia tutt’altro che mastodontica, almeno se comparata alle altre sorelle, il Macbeth fu un’opera scritta in maggioranza in versi e per un cospicuo numero di personaggi. Nata da una vicenda storica realmente accaduta e stravolta dall’autore per esigenze poetiche, essa rappresenta con adamantina efficacia la capacità del poeta di dare forma a storie eterne, fuori dal tempo e dallo spazio, e così plasmare autentici archetipi per la coscienza a venire.
Particolare fortuna ebbe il character di Lady Macbeth, donna tentatrice e diabolica, laico alter ego dell’Eva veterotestamentaria, talmente carismatica e psicologicamente complicata che, in lei, l’interpretazione freudiana vide il lato oscuro della controparte maschile. Quello tra Macbeth e consorte, con l’inaudita polarizzazione in monade della dualità naturale, fu, infatti, uno dei matrimoni meglio riusciti nel teatro shakesperiano (e non solo) e vederla sostanzialmente soppressa in questo Macbettu suscita istintivamente un’intrinseca curiosità.
Dedicando la propria attenzione alla realtà di una regione tra le più isolate dal contesto europeo e, di conseguenza, conservative rispetto ai propri mores, Serra declina l’inattualità del Macbeth sulla questione di lingua, pardon della limba, quale dispositivo identitario del popolo sardo.
La scena, quasi vuota ma abilmente plasmata dalla densità di una scenografia minima e modulare, è cupa e ferina. In essa, tra materiali poveri (pietre e pani, sabbia e ferro) e sonorità ridondanti, troveranno riuscita contestualizzazione non solo, o non tanto, gli essenziali e suggestivi movimenti scenici dei suoi protagonisti, letteralmente straordinari per tenuta e tensione scenica, quanto la bella atmosfera di una cruda arcaicità al cui interno la coscienza di Macbeth non potrà che smarrirsi, lacerata dal timore di perdere non tanto il potere tout court, quanto ciò cui esso – il potere – lo aveva consegnato.
A questo Macbettu, grazie all’esperta messa in scena di Serra, non mancano i toni sinistri dell’inferno in terra, tra profezie di streghe (la cui presenza, purtroppo, patisce una non riuscita vis comica) ed esseri umani bardati di nero, cappucci e maschere, dilaniati dal conflitto etico e dal peso del dominio e della responsabilità. Dunque, nella sublimazione teatrale, da sangue, e dolore, e morte. E non a caso, le note di regia citano esplicitamente dai Quaderni di Simone Weil per ricordare come la drammatica commistione tra la paura e un potere che assolutizza la propria ambizione diventi disumanità, folle aspirazione al controllo totale sul corpo e sulle menti, ossia dispositivo di coercizione dell’identità («La lezione è questa: l’ambizione è illimitata, mentre le possibilità reali non lo sono mai; nell’oltrepassarle si cade»).
«Recitato in sardo e, come nella più pura tradizione elisabettiana, interpretato da soli uomini», l’ambizione di Serra coglie, però, senza particolare profondità «analogie tra il capolavoro shakespeariano e i tipi e le maschere della Sardegna».
Dal punto di vista linguistico, la scelta «non limita la fruizione ma trasforma in canto ciò che in italiano rischierebbe di scadere in letteratura», compiendo un’autentica traduzione che elude il rischio del tradimento e supera di slancio la stucchevole e controversa polemica nata nelle ultime settimane tra auctoritas del settore, divisi tra l’opinione preventiva dell’Alto Passero della carta stampata e l’esaltazione per contrarietà della new age dell’intellighènzia online. Tuttavia, complice la scelta di ridurre Macbeth alla tematica dell’homo homini lupus e di indugiare scolasticamente sull’anima e sui nervi di un territorio solcato, fin dalla sua preesistente civiltà nuragica, dal diritto alla violenza sancito da leggi non scritte e dal riscatto del e dal sangue, l’operazione rimane ancorata a un semplicistico didascalismo antropologico e risulta, in termini squisitamente drammaturgici, lontana tanto dal rispetto del testo originario, quanto dal tentativo di un suo rinnovamento.
Sia chiaro come non sconcerti la mancanza di rispetto per l’autore, al contrario suscita interesse il tentativo di soppressione del protagonismo di Lady Macbeth (oltre che la conversione linguistica), ma dopo averne estirpato la centralità senza aver proposto una valida interpretazione alternativa e aver sfumato il dramma su momenti ironici a forte rischio stereotipia, Serra orienta con poca audacia questo Macbettu su un terreno di straordinaria inattualità e, senza riuscire a gettare del tutto il cuore oltre l’ostacolo, lo posiziona di fatto sul piano del prodotto teatrale, tra l’altro, non privo di significative sbavature.
Pur offrendo spunti di estremo interesse, in particolar modo a livello interpretativo, visivo e sonoro, l’allestimento soffre, infatti, una collocazione a metà tra due registri linguistici troppo divergenti fra loro che trasforma parte del testo shakespeariano in farsa grottesca e inficia parzialmente un’operazione che, senza nulla togliere alle musiche di Pinuccio Sciola e alla scenografia e alle luci dello stesso Serra, regge quasi interamente su una restituzione attorale di ineccepibile potenza, mentre, attorno a essa, la novità del testo tende a costituirsi con pesante manierismo nei costumi e negli accostamenti rituali, così andando a discapito della pur forte intenzione di base e a disperderne le potenzialità drammaturgiche, nonostante in diversi momenti sia stato estremamente semplice riconoscere a Serra una significativa dose di talento (dal pasto dei porci alla caduta dei fari che tagliano le figure da dietro in controluce rispetto alla platea fino al glaciale monologo finale).
Un’operazione che provoca i puristi e, forse, accontenta i contemporanei, ma che non riesce a far andare oltre la percezione di uno spettacolo complessivamente ben fatto/prodotto e diretto con estremo rigore ed esperienza, ma incoerente e incapace di brillare al di là del fulgore offerto da Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano (un gigantesco Macbeth), Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu e Felice Montervino.
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Macbettu
Macbettu1
Macbettu3
Lo spettacolo è andato in scena all’interno di Teatri di Vetro Teatro Vascello via Giacinto Carini, 78, Roma 2 ottobre 2017, ore 21.00
Macbettu di Alessandro Serra tratto dal Macbeth di William Shakespeare con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini musiche pietre sonore Pinuccio Sciola composizioni pietre sonore Marcellino Garau regia, scene, luci, costumi Alessandro Serra produzione Sardegna Teatro e compagnia Teatropersona con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola, Cedac Circuito Regionale Sardegna
Macbettu / Teatri di Vetro Al teatro Vascello di Roma, per Teatri di Vetro, è andato in scena il Macbettu, l'opera breve del Bardo di Stratford Upon Avon nella versione…
#Alessandro Serra#Andrea Bartolomeo#Andrea Carroni#Cedac Circuito Regionale Sardegna#Chiara Michelini#Compagnia Teatropersona#Felice Montervino#Fulvio Accogli#Giovanni Carroni#Leonardo Capuano#Maurizio Giordo#Pinuccio Sciola#Sardegna Teatro#Stefano Mereu#Teatropersona#William Shakespeare
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