#assimilazione
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Bravi (I promessi sposi) e Bravi Periti
liberamente tratto da Wikipedia, l’enciclopedia libera. I bravi aspettano don Abbondio « a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi. » (Alessandro Manzoni – I promessi sposi capitolo I) Per bravi si intende la soldataglia al servizio dei signorotti di campagna, che comandavano nell’Italia settentrionale del Cinquecento e Seicento. De facto braccio armato e…
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Qualche mese prima, il giorno in cui Magid compiva nove anni, un gruppo di ragazzini bianchi molto carini e dai modi inappuntabili aveva suonato alla porta e chiesto di Mark Smith. «Mark? Non c'è nessun Mark, qui» aveva detto Alsana, chinandosi fino al loro livello, con un gran sorriso. «Qui vive solo la famiglia Iqbal. Avete sbagliato casa.» Ma prima che avesse finito la frase, era arrivato di corsa Magid, che aveva spinto la madre da una parte. «Salve, ragazzi.» «Salve, Mark.» «Andiamo al circolo degli scacchi, mamma.» «Sì, M... M... Mark» aveva detto Alsana, prossima alle lacrime per quell'oltraggio finale, la sostituzione di "Amma" con "Mamma". «Non fare tardi.» «TI HO MESSO UN NOME GLORIOSO COME MAGID MAH-FOOZ MURSHED MUBTASIM IQBAL!» aveva urlato Samad a Magid, quando quella sera era tornato a casa per schizzare come un proiettile su per le scale e andare a nascondersi nella sua stanza. «E TU TI FAI CHIAMARE MARK SMITH!» Ma quello era solo un sintomo di un malessere più profondo. Magid desiderava realmente trovarsi in un'altra famiglia. Voleva possedere gatti e non scarafaggi, voleva che sua madre emettesse la musica di un violoncello, non il suono della macchina da cucire; voleva avere tralci di fiori sul lato della casa, invece del sempre crescente cumulo di immondizie dei vicini; nell'ingresso voleva un pianoforte e non la portiera rotta della macchina del cugino Kurshed; voleva fare le vacanze in bicicletta in Francia, e non viaggi di un giorno a Blackpool per andare a trovare le zie; voleva che il pavimento della sua stanza fosse di legno lucido, non della logora moquette verde e gialla avanzata dal ristorante; voleva che suo padre facesse il medico, non il cameriere con una mano sola; e quel mese Magid aveva convertito tutti questi desideri nella voglia di partecipare alla Festa del Raccolto come avrebbe fatto un Mark Smith. Come avrebbe fatto chiunque altro. MA VOGLIAMO FARLO, ALTRIMENTI CI BECCHIAMO UNA PUNIZIONE. LA SIGNORA OWENS DICE CHE È LA TRADIZIONE. Samad perse la pazienza. «La tradizione di chi?» urlò, mentre Magid, in lacrime, ricominciava a scrivere freneticamente. «Maledizione, tu sei un musulmano, non un folletto dei boschi! Te l'ho detto, Magid, te l'ho spiegato quali sono le condizioni per ottenere il permesso di andarci. Prima vieni con me sull'haj. Se mai riuscirò a toccare quella pietra nera prima di morire, voglio farlo con a fianco mio figlio maggiore.» Magid ruppe la punta della matita a metà della risposta, e scrisse l'altra metà usando il mozzicone. NON È GIUSTO! NON POSSO ANDARE SULL'HAJ. DEVO ANDARE A SCUOLA. NON HO TEMPO PER ANDARE ALLA MECCA. NON È GIUSTO! «Benvenuto nel ventesimo secolo. Non è giusto. Niente è giusto.»
Zadie Smith, Denti bianchi
#zadie smith#immigrazione#immigrati#seconde generazioni#due culture#multicultura#seconda generazione#musulmano#acculturazione#assimilazione
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L'oppressione dei sorbi durante l'era nazista: una distruzione sistematica dell'identità culturale
Di Riley Lewis Durante l’era nazionalsocialista, i Sorbi, una minoranza slava occidentale in Lusazia, furono sistematicamente privati dei loro diritti, oppressi e derubati della loro identità culturale. Bautzen, centro culturale dei Sorbi, fu particolarmente colpita, perdendo quasi ogni forma di autodeterminazione soraba sotto la morsa repressiva del regime nazista. Ma la persecuzione si estese…
#ASSIMILAZIONE CULTURALE#BAUTZEN#CAMPO DI CONCENTRAMENTO#DIRITTI DELLE MINORANZE#DISTRUZIONE CULTURALE#DIVIETO DI LINGUA#DOMOWINA#MARGINALIZZAZIONE ECONOMICA#MINORANZA SLAVA OCCIDENTALE#NAZIONALSOCIALISMO#OPERA DELLA MEMORIA#OPPRESSIONE CULTURALE#PADRE ALOIS ANDRITZKI#REPRESSIONE NAZISTI#SORBI
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È fatto obbligo tassativo l'ascolto fino a completa assimilazione del messaggio ed educazione alla poetica...immediato, lento, indolente, sognante..
Siamo sempre stati sicuri che non saremmo mai cambiati
Quante volte ce lo siamo detto, quante volte ce lo siamo promesso? Per poi scoprire che tutto cambia, tutto muta. Presa d'atto? Delusione?
"Freddi e spaventati, i fantasmi di tutto ciò che siamo stati"..
Si cambia..si cambia..si cambia fino all’ineluttabilità della morte, paragonando l’esistenza a una canzone.
Questa è la fine di ogni canzone che l'uomo canta!.
Quanta poesia decadentista.. Poesia che e' "Cura"..
youtube
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Una giornata che finalmente si riaggiustava dopo un mese di sofferenze inaudite è stata rovinata da notizie che non ho chiesto di ricevere, o comunque non nei loro particolari infimi e più turpi. Solo la laurea con tutti i relativi riconoscimenti – tappa obbligata, altrimenti mi sarei fatta fuori – lo salva dall’essere il peggior anno della mia vita ex aequo col 2016 facendolo slittare in seconda posizione. E di certo non a causa dei comuni avvenimenti che chiunque comunemente esperirebbe in questo secolo nel mondo occidentale. Ormai è anche sciocco ragionare secondo gli anni solari, in realtà, per quanto è innegabile che danno almeno l’illusione di un’interruzione cronologica delle nefandezze. Credevo che essendomi lasciata alle spalle un ambiente familiare di violenza quotidiana durata 28 anni la chiave di volta stesse appesa alla serratura. Invece i provvedimenti del tutto straordinari che è stato necessario prendere per mettere un punto a quella fase hanno assestato un colpo durissimo e imprevisto alla mia quotidianità. In primis ne ha risentito la salute e di solito la salute non mi fa sconti. Poi sono intervenute tante di quelle altre variabili che anche solo sapere di non poter comunicare perché susciterebbero incredulità, scherno, stigmatizzazione e totale emarginazione mi uccide. Gli psicologi che circolano dalle mie zone, ho scoperto, sono tutti grossomodo pagliacci. In ogni caso non potrei permettermi una psicoterapia in pianta stabile. Non c’è una conclusione a queste mie considerazioni. È anche disgustosamente eufemistico dirmi estenuata da tutto, malattie al primo posto indiscusso, sempre e comunque. Non so in cosa sperare e se augurarmi niente. Sto campando solo per l’università, non potendo neanche fruirne come vorrei (e come sarebbe stato ovvio), e per i recenti successi. Sto campando per il prof C presidente di commissione che reincontrandomi in corridoio mi ha riproclamato scherzosamente e informalmente, dato che durante la proclamazione gli avevo negato per dimenticanza la stretta di mano. Sto campando per i complimenti del prof S, per la predilezione gentile accordata dalla prof C e per la disponibilità al dialogo che oggi ha dimostrato il prof D nonostante non lo reputi chissà quanto capace nella didattica. Sto campando per gli svariati momenti memorabili con relatore che purtroppo è tutto meno che la persona integra che ero certa che fosse, e anche questo rappresenta uno dei dolori recenti, di difficilissima assimilazione. Francamente non immaginerei nessuno, al mio posto, se non altre persone molto malate e soprattutto cronicamente, senza cure e senza prospettive di cure, arrabattarsi nell’esistenza in modo migliore, ammesso che si possa assegnare un giudizio di valore che in fondo non può esserci, perché semplicemente si riduce tutto al non rimanerci sotto, a non crepare. Mi sorprendo e mi risulta immensamente straniante pensare a quanta resistenza psichica io abbia dimostrato nel corso di questi lunghissimi dieci anni di puro dolore. Sono diventata altro da me infinite volte e mamma mia, che banalizzazione estrema e ridicola metterla in questi termini a fronte di ciò che realmente è ed è stato.
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I libri sono pane buono. Sono barche, scialuppe, piccole astronavi, permettono viaggi profondissimi e velocissimi.
Ogni libro è un paesaggio. Cupo, fosco, contratto. Lieve, incantato, svagato.
Alcuni libri aprono la giornata, meglio del caffellatte. Aprono i pensieri e li portano in alto. Altri sono un campo di battaglia dove si lotta con il dolore, con la sua ferocia. Ed è buffo vederli lottare in altri tempi, in altri luoghi.
Ogni tanto in qualche libro, trovi un’anima gemella. Perché i libri sono pane buono. E la digestione non è forzata. È una lenta assimilazione dei succhi, degli umori migliori, certe frasi, o passaggi dimenticati risaltano fuori all’improvviso, animaletti guida nelle strade del quotidiano.
I libri sono amici, ti aspettano, a volte per anni, nelle pieghe di una libreria. A loro piace essere chiamati per amore, non per obbligo. Quando la loro parola necessaria si unirà al necessario tuo cuore, allora succederà il miracolo: diventeranno sangue, il tuo.
- Gianluigi Gherzi - da "Alfabeti della gioia"
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La fine del Giudaismo
Non s’intende il senso di quanto sta oggi avvenendo in Israele, se non si comprende che il Sionismo costituisce una doppia negazione della realtà storica del Giudaismo. Non soltanto infatti, in quanto trasferisce agli ebrei lo Stato-nazione dei cristiani, il Sionismo rappresenta il culmine di quel processo di assimilazione che, a partire della fine del XVIII secolo, è andato progressivamente cancellando l’identità ebraica. Decisivo è che, come ha mostrato Amnon Raz-Krakotzkin in uno studio esemplare, a fondamento della coscienza sionista sta un’altra negazione, la negazione della Galut, cioè dell’esilio come principio comune a tutte le forme storiche del Giudaismo come noi lo conosciamo. Le premesse della concezione dell’esilio sono anteriori alla distruzione del Secondo Tempio e sono già presenti nella letteratura biblica. L’esilio è la forma stessa dell’esistenza degli ebrei sulla terra e l’intera tradizione ebraica, dalla Mishnah al Talmud, dall’architettura della sinagoga alla memoria degli eventi biblici, è stata concepita e vissuta nella prospettiva dell’esilio. Per un ebreo ortodosso, anche gli ebrei che vivono nello stato d’Israele sono in esilio. E lo Stato secondo la Torah, che gli ebrei aspettano all’avvento del Messia, non ha nulla a che fare con uno stato nazionale moderno, tanto che al suo centro stanno proprio la ricostruzione del Tempio e la restaurazione dei sacrifici, di cui lo stato d’Israele non vuole nemmeno sentire parlare. Ed è bene non dimenticare che l’esilio secondo il Giudaismo non è soltanto la condizione degli ebrei, ma riguarda la condizione manchevole del mondo nella sua integrità. Secondo alcuni cabalisti, fra cui Luria, l’esilio definisce la situazione stessa della divinità, che ha creato il mondo esiliandosi da sé stesso e questo esilio durerà fino all’avvento del Tiqqun, cioè della restaurazione dell’ordine originario.
È proprio questa accettazione senza riserve dell’esilio, con il rifiuto che comporta di ogni forma presente di statualità, che fonda la superiorità degli ebrei rispetto alle religioni e ai popoli che si sono compromessi con lo Stato. Gli ebrei sono, insieme agli zingari, il solo popolo che ha rifiutato la forma stato, non ha condotto guerre e non si è mai macchiato del sangue di altri popoli.
Negando alla radice l’esilio e la diaspora in nome di uno stato nazionale, il Sionismo ha tradito pertanto l’essenza stessa del Giudaismo. Non ci si dovrà allora meravigliare se questa rimozione ha prodotto un altro esilio, quello dei palestinesi e ha portato lo stato d’Israele a identificarsi con le forme più estreme e spietate dello Stato-nazione moderno. La tenace rivendicazione della storia, da cui la diaspora secondo i sionisti avrebbe escluso gli ebrei, va nella stessa direzione. Ma questo può significare che il Giudaismo, che non era morto a Auschwitz, conosce forse oggi la sua fine.
Giorgio Agamben, 30 settembre 2024
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“ Ai tempi del singolarismo il nome può essere ancora religioso e/o identitario, anche fortemente identitario, come nelle comunità ebraiche oggi in Europa in cui si danno ai figli maschi prevalentemente nomi identitari quali Ariel, Gad, Dan o Ephraim, fenomeno peraltro in forte crescita anche nelle comunità arabo-musulmane. Nel caso delle comunità turche, africane, asiatiche ma anche polacche e portoghesi, la scelta del nome per i figli marca il grado di desiderio di assimilazione dei genitori: se si adottano nomi europei – francesi, italiani – ciò vuol dire che li si considera dei facilitatori, passe-partout per la scuola e la vita sociale in genere. Interessante in Europa la crescita dei nomi di origine anglosassone e americano-hollywoodiana, dove si sprecano i Kevin, Dylan e Brandon, come pure i Jason, Steven, Johnny, Jonathan che erano poi i nomi dei capi piú in vista dei gilets jaunes francesi. I loro genitori, avendoli cosí chiamati, rivelano di essere probabilmente people from somewhere, stanziali, provenienti da categorie sociali deluse, rancorose e a reddito basso; persone lasciate indietro dalla globalizzazione, residenti nelle periferie urbane e nelle zone ex industrializzate, al contrario delle élite o people from anywhere, cosmopolite, dotate di redditi alti e di buona istruzione, composte da abitanti delle aree metropolitane e delle città universitarie, ottimisti, istruiti e mobili sul globo. Lo nota il politologo francese Jérôme Fourquet, che presenta una brillante analisi della società francese contemporanea appoggiando le sue considerazioni anche su quella branca dell’onomastica – studio dei nomi di persona e di luogo – che è propriamente l’antroponimia o esame dei nomi propri di persona; essa permette infatti di aprire una breccia nell’analisi profonda dei comportamenti e delle mentalità delle persone proprio perché il nome è un forte marcatore culturale [J. FOURQUET, L’Archipel francais. Naissance d’une nation multiple et divisée, Seuil, Paris 2019].
Il declino del nome Marie per le bambine (dal 20 per cento degli inizi del Novecento all’attuale 1 per cento) aggiorna per esempio sulla mutazione culturale che ha portato la Francia da nazione roccaforte del cattolicesimo a paese in cui l’abbandono di tale religione è di cosí vasta portata che si suppone che le persone che ancora frequentano la chiesa spariranno nel giro di una generazione. Al declino di Marie corrisponde, in alcune zone, la marcata ascesa di Jason, tale da permettere, alla luce delle considerazioni precedenti, una sovrapposizione tra la cartina della diffusione di tale nome (cui si aggiungono Kevin e Dylan) e quella del voto a favore del Front, poi Rassemblement National, di Marine Le Pen. Si contano ai nostri giorni in Francia 13 000 nomi diversi registrati ogni anno allo stato civile (sempre in Francia è stata riconosciuta nel 1993 la totale libertà nell’attribuzione dei nomi dei figli). La straordinaria diversificazione dei nomi è segnale speculare sia delle caratteristiche negative del cosiddetto individualismo esasperato, quindi narcisismo di massa, iolatria, promozione del sé ecc., sia di quelle piú specifiche del singolarismo, quindi il bisogno di distinzione senza limiti per sentirsi confermati quali esseri unici, speciali, straordinari. L’esplosione della varietà dei nomi, la loro straordinaria diversificazione, è manifestazione non soltanto di narcisismo di massa ma anche di volontà di singolarizzazione da parte dei genitori. Si tratta di una prassi che non è esercitata soltanto dal terzo cosmopolita e globalizzato della società, ma che si estende anche – dal momento che è praticabile senza sforzo e impegno alcuno – anche al terzo cosiddetto «basso», che condivide con la fascia alta in Italia, ad esempio, nomi quali Melusina, Morgana, Asia o Ginevra per le bambine, Oceano, Falco, Leone, Orso per i maschietti. Il nome insomma deve in qualche modo marcare le distanze da coloro dai quali si intende distinguersi e insieme affermare le somiglianze con coloro con i quali ci si identifica o ai quali ci si vorrebbe avvicinare a basso costo. Nella montata galoppante dell’individualismo e del singolarismo interviene anche, aggiungiamo qui brevemente, la diffusione del tatuaggio, questa volta nella direzione contraria: dalle classi basse dove il tatuaggio era inciso sul corpo del marinaio e del galeotto, alle classi medio-alte nella loro ricerca di segnali di distinzione e unicità. “
Francesca Rigotti, L’era del singolo, Einaudi (collana Vele), 2021. [Libro elettronico]
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IL CANADA RICONOSCE GLI ABUSI SUI POPOLI INDIGENI E LI RISARCISCE
Il Canada ha riconosciuto gli abusi effettuati e un risarcimento di 2,8 miliardi di dollari canadesi (1,93 miliardi di euro) alle popolazioni indigene métis e inuit, sottoposte ad una assimilazione forzata per quasi un secolo nelle scuole residenziali governative.
“E ora della riconciliazione” ha dichiarato Marc Miller, ministro per le relazioni corona-indigene. L’accordo è il risultato di un’azione di ammissione e di reintegro nei confronti di 325 gruppi indigeni, avviata da decenni dal governo. Il suo obiettivo è affrontare il danno collettivo causato, inclusa la perdita di lingua, cultura e patrimonio avvenuto tra il 1884 e il 1998, anno in cui fu chiusa l’ultima di queste scuole.
La somma, una delle più alte mai versate nel Paese per questo genere di programma, sarà utilizzata per finanziare l’istruzione, la cultura e la lingua indigena. Dall’inizio del XIX secolo, il governo di Ottawa ha sottratto circa 150 mila bambini indigeni alle loro famiglie per crescerli in 139 istituti residenziali con lo scopo di assimilarli forzosamente nella società, spogliandoli di fatto della loro identità. Molti hanno subito abusi fisici e sessuali, mentre si ritiene che migliaia siano morti a causa dell’incuria, della malnutrizione e delle malattie. Dal 2021, centinaia di resti di bambini indigeni in tombe anonime sono state scoperte nei siti di ex scuole, con la commissione nazionale per la verità e la riconciliazione che ha denunciato il “genocidio culturale”. Oggi circa 1,7 milioni di persone in Canada si identificano come aborigeni, la popolazione in più rapida crescita nel Paese.
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Fonte: Primo ministro Justin Trudeau; CBC Radio Canada; immagine Cres Thomas
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“Allevare un animale, cui sia consentito far delle promesse – non è forse precisamente questo il compito paradossale impostosi dalla natura per quanto riguarda l’uomo? Non è questo il vero e proprio problema dell’uomo? Il fatto che questo problema sia risolto fino a un alto grado dovrà apparire tanto più sorprendente a colui che sa pienamente apprezzare la forza agente in senso contrario, quella del dimenticare. Dimenticare non è una semplice vis inertiae, come ritengono i superficiali, ma piuttosto una facoltà attiva, positiva nel senso più rigoroso, d’inibizione, cui è da ascriversi la circostanza che qualunque cosa venga da noi vissuta, sperimentata, assunta nella nostra intimità, entra tanto poco nella nostra coscienza nello stato di digestione (si potrebbe chiamarlo “appropriazione spirituale”) quanto poco vi entra l’intero multiplo processo con cui si svolge il nostro nutrimento corporeo, la cosiddetta “assimilazione”. Chiudere di tanto in tanto porte e finestre della coscienza; restare indisturbati dal rumore e dalla lotta con cui il mondo sottostante degli organi posti al nostro servizio svolge la sua collaborazione od opposizione; un po’ di silenzio, un po’ di tabula rasa della coscienza, affinché vi sia ancora posto per il nuovo, soprattutto per le funzioni e i funzionari più nobili, per governare, per prevedere, per predeterminare (il nostro organismo è infatti organizzato oligarchicamente) – è questo il vantaggio – come si è detto – della dimenticanza attiva, una guardiana, per così dire, una sorvegliante dell’ordine spirituale: per cui occorrerà subito considerare in che senso nessuna felicità, nessuna serenità, nessuna speranza, nessuna fierezza, nessun presente potrebbe esistere senza capacità di dimenticare”.
-Friedrich Nietzsche, “Genealogia della morale”, Seconda dissertazione, I
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Klamath RW max fornisce, in maniera assimilabile, ben 12 nutrienti organici e naturali in misura LARN rilevante, diventando così un vero ntegratore vitaminico-minerale, capace di fare la differenza grazie alla sua elevata assimilabilità. In effetti, l’efficacia di un integratore dovrebbe essere misurata non in base ai suoi contenuti nominali, ma in base al grado di assimilazione dei suoi nutrienti.
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La cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici, che deve essere uno spot per la città e la nazione, è stata incredibile. Risultato dell'ambizione di un Paese che si vuole grande tra i grandi, riflesso di un popolo che - secondo la narrazione - la grandeur la possiede, la coltiva e la esporta tramite la francofonia.
Parigi, la Moveable feast di Hemingway, che si esibisce mostrandosi un ponte tra il passato e la modernità, in cui i palazzi, i monumenti e la Seine sono la mise en scène di un musical teatrale a cielo aperto. Parigi che si concede al mondo per uno spettacolo unico, che per essere eseguito genera non pochi disagi ai suoi cittadini. Non a caso il direttore artistico della cerimonia è Thomas Jolly, reso famoso grazie ai suoi lavori al Festival di Avignone, dove il teatro off, lungo le strade e le piazze della città, è alla pari delle altre rappresentazioni ufficiali dell'evento che si svolge nella capitale della Provenza.
La scommessa di un défilé di bateaux mouches in cui gli atleti ricoprono un ruolo minore rispetto al resto, risulta vincente. Le esibizioni, tra i quais, le passerelle lungo il fiume e i tetti di Lutetia, mostrano al pubblico televisivo e dei social media, una città ricca, ricchissima di patrimonio artistico e storico, che per le prossime settimane sarà il teatro delle gare di atlete e degli atleti. A onorare questi ultimi, un insieme virtuoso di cantanti e artisti blanc black beurre et queer, che fa brillare gli occhi e intrattiene senza sosta. Il tutto arricchito da un fil rouge, il percorso della fiamma olimpica che si concede anche intermezzi virtuali, avventurosi, avvolti dal mistero e comici.
La musica è al centro della cerimonia. Uno spaccato ricostruito della città, in cui canta Lady Gaga, un po' glamour e pop, ne è un esempio. Poi c'è la splendida esibizione di Imagine interpretata da Juliette Armanet, lo show quasi surreale di Aya Nakamura che canta Djadja (bugiardo, nel senso del testo) insieme alla Garde Républicaine, in cui non è chiaro se sia la Repubblica a tentare un'operazione di assimilazione o piuttosto una involontaria miscelazione. Infine, la performance di Celine Dion (che verrà ricordata come quella di Whitney Houston nel Super bowl del 1991), anticipata da momenti di forte emozione con gli ultimi tedofori e la mongolfiera-tripode, che canta il mito Edith Piaf: lo spirito di Parigi che attraversa il tempo sublimato in un momento.
Dopo il Bataclan, con l'investitura dei Giochi, Parigi ha intrapreso l'ennesimo percorso di rinnovamento che, per chi l'ha visitata di recente, è qualcosa di visibile e palpabile. Ora vediamo se le Olimpiadi confermeranno il suo ruolo di primato nel mondo. L'assaggio, che è stata la cerimonia di apertura, sembrerebbe affermarlo.
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#SapeviChe
"Prima digestio fit in ore"!
Sì, come recita questo proverbio latino, la
"prima digestione avviene in bocca".
Mangiare senza fretta è dunque fondamentale, sia per prevenire disturbi gastrointestinali sia per una buona assimilazione dei nutrienti.
Come funziona?
Il processo digestivo inizia dalla masticazione in cui, grazie all'azione della ptialina, l'enzima che si trova nella nostra saliva, il cibo viene già parzialmente scomposto in modo da risultare più facilmente digeribile dallo stomaco.
Questo processo diminuisce l'insorgere di indigestione, acidità gastrica, infiammazione, gonfiore e malnutrizione.
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Il progetto fotografico "MCV in MARTINI" trascende i confini della mera rappresentazione fotografica per sondare le profondità delle dinamiche relazionali umane, l'identità individuale e collettiva, nonché le mutazioni culturali in atto.
L'impulso creativo alla base del progetto affonda le sue radici in un'ispirazione di carattere intimamente personale, derivante dall'interazione con due figure di spicco nella mia vita: Andreina Martini, psicologa e linguista nata nel 1927, e Maria Chiara Valacchi, critica d'arte di rilievo nel panorama contemporaneo. Queste personalità hanno impresso un marchio indelebile sul mio percorso vitale e artistico, spingendomi verso l'esplorazione delle intricate maglie relazionali che intercorrono tra noi, mediante il linguaggio della fotografia.
Il mio interesse nel ritrarre MariaChiara Valacchi trova origine non solo nella sua innata bellezza e predisposizione al dialogo attraverso l'immagine, ma intende altresì sondare l'interazione dinamica tra persona e ambiente, all'interno degli spazi vissuti da Andreina Martini. Tali ambienti, saturi di storia e di significati latenti, si configurano come lo sfondo su cui si dipanano le nostre reciproche interazioni, con gli abiti di entrambe a fungere da emblemi di identità e metafore delle complesse relazioni interpersonali sempre in evoluzione.
L'omonimia del cognome "Martini" con l'azienda di superalcolici Martini aggiunge un ulteriore strato di significato al progetto, facendo emergere una complessa rete di connessioni culturali e linguistiche.
L'immagine delle bottiglie di Martini e dei cocktail con il loro caratteristico nome impresso non è semplicemente un elemento decorativo, ma piuttosto una porta d'ingresso a un ulteriore riflessione sulla permeabilità delle nostre vite al linguaggio commerciale e alla cultura di consumo.
In un contesto sociale sempre più influenzato dalla presenza onnipervasiva del marketing e della pubblicità, è inevitabile che anche i marchi commerciali si insinuino nelle nostre interazioni quotidiane, diventando parte integrante del nostro lessico familiare e del nostro immaginario collettivo. Questo fenomeno, tuttavia, non è semplicemente una questione di assimilazione passiva dei prodotti commerciali, ma piuttosto una manifestazione più ampia delle interazioni complesse tra individui, cultura e economia.
Le fotografie che incorporano il marchio Martini offrono una finestra su questo processo, mostrando come gli oggetti di consumo possano entrare a far parte del tessuto delle nostre relazioni personali e influenzare la nostra identità e il nostro senso di appartenenza. Questo dialogo tra il personale e il commerciale, tra l'individuo e il marchio, si manifesta in una serie di connessioni visive e grafiche che arricchiscono ulteriormente il significato delle fotografie nel contesto del progetto.
La similitudine di Maria Chiara Valacchi con le figure femminili delle pubblicità dell'azienda Martini aggiunge un intrigante strato di significato. Questa connessione visiva e simbolica crea un ponte tra il mondo dell'arte e della pubblicità, invitando a riflettere sul potere dell'immaginario visivo e sulle influenze culturali nel plasmare le nostre percezioni e relazioni.
Attraverso questa sovrapposizione di immagini e significati, il progetto sfida lo spettatore a esplorare il complesso intreccio di significati che caratterizza il mondo contemporaneo, offrendo nuove prospettive sulle relazioni tra arte, cultura e società.
Andreina Martini e Maria Chiara Valacchi possono non essere famose nel senso tradizionale del termine, ma sono donne di grande valore e significato nella mia vita come in quella di molte altre persone nel contesto della comunità in cui operano. Sono intellettuali rispettate e influenti nei rispettivi campi, e le loro vite e contributi sono preziosi e significativi nonostante non abbiano raggiunto una fama globale.
La scelta di ritrarre queste donne è quindi un atto di riconoscimento e celebrazione delle esperienze e delle relazioni umane che possono avere un impatto profondo sulle nostre vite anche senza essere amplificate dai riflettori mediatici, si invita a guardare oltre la superficie della fama e a riconoscere il valore intrinseco di ogni individuo, indipendentemente dal suo grado di notorietà pubblica.
Nell'approccio tecnico adottato, ho armonizzato metodologie fotografiche di stampo tradizionale a tecniche di elaborazione digitale, al fine di forgiare un'estetica che bilanci la tradizione con una prospettiva deliberatamente contemporanea. Questa dicotomia tra passato e presente, tra analogico e digitale, incarna la dialettica delle relazioni umane e delle espressioni artistiche nel fluire del tempo.
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Darking: una oscura rinascita
Cambio di direzione per i toscani Darking che tornano dopo 8 anni dal loro precedente lavoro. Abbandonate le terre del metal più classicheggianti, i nostri approdano assolutamente più oscure e dai chiari richiami sabbatiani. Reborn, questo il titolo del nuovo lavoro targato 2023, presenta una band che si muove su coordinate pachidermiche. Ritmi rallentati, suoni pesanti, voce evocativa e ottimamente inserita nel contesto. Un dettaglio né banale né scontato. L’inadeguatezza della vice avrebbe significa inficiare un lavoro degno di nota. E si. Perché Reborn si stacca dal classico disco doom per andare a prendere linfa vitale da quella che è la tradizione nostrana di musica esoterica/progressive.
I richiami sono innegabili. In questo senso il lavoro si pone su una linea di continuità di un sentiero tracciato negli anni 70 per essere trascurato. Letto in quest’ottica Reborn assume una valenza ancora superiore. Esce dalla staticità delle definizioni per entrare nel pantheon dell’espressione artistica. Poco ci vorrebbe ad inserire questo lavoro nel filone horror rock, oltre che doom. Ma sarebbe un errore. Un limitarne la portata e l’interesse. Al suo interno, sempre volanti su ali oscure, si destreggiano diversi accorgimenti stilistici che fanno l’occhiolino anche alla tradizione prog nostrana. Mettere sullo stesso piano Darking, Jacula o Biglietto per l’inferno è forse eccessivo, tuttavia dà la summa dell’impronta stilistica. A questo si aggiunge poi una vena che non può non omaggiare i DeathSS.
A livello si produzione e composizione nel disco è tutto al posto giusto. I suoni sono pastosi quanto basta per creare una amalgama avvolgente senza essere caotica. Una pece scura che tira verso abissi sconosciuti. Nelle composizioni, come accennato, si possono trovare richiami e riferimenti a stili diversi, anche all’interno della medesima canzone. Si ascolti Tower of babel, uno degli episodi meglio riusciti da questo punto di vista. Lo stesso si potrebbe dire per New Man, dove un basso in super evidenza disegna trame ritmiche inusuali su alternarsi di ritmi medi e lentissimi.
Insomma una grande rinascita e un ottimo ritorno per i Darking.
Considerando quanto fin qui detto emerge una domanda. E se, invece di utilizzare l’inglese per i testi, avessero utilizzato l’italiano? Personalmente credo che il lavoro ne avrebbe guadagnato risultando ancora più personale e sentito. Chiariamo, non è una pecca, una mancanza, è solo una curiosità per un disco di sicuro interesse. Certo, non è un lavoro di facile assimilazione. Nelle orecchie si devono già avere determinati suoni e, soprattutto, una certa propensione personale a voler esplorare territori oscuri. Magari non solo musicalmente ma anche letterariamente e cinematograficamente e non necessariamente horror.
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Confs: I dialetti galloitalici di Sicilia tra resistenza e assimilazione
PROGRAM INFORMATION Tuesday June 4th 9.30-10.30 Saluti istituzionali - Giovanni Ruffino (Presidente del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani); Alessandro De Angelis (Coordinatore scientifico del Progetto PRIN-PNRR) 10.30-11.00 Elvira Assenza (Università di Messina), Salvatore Menza e Marianna Nicolosi Asmundo (Università di Catania) - Presentazione del progetto PRIN-PNRR - Pausa caffè - 11.20-11.50 Salvatore Trovato e Rita Abbamonte (Università di Catania) - La formazione de http://dlvr.it/T4r9Yf
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