#ricostruzione dell’anima
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Madre che resta: La ricomposizione di un'anima attraverso la poesia. La profondità della perdita e la rinascita di una madre nelle poesie di Patrizia Baglione. Recensione di Alessandria today
Il libro Madre che resta di Patrizia Baglione, pubblicato il 23 giugno 2024, è un viaggio poetico intimo e toccante attraverso la perdita e la rinascita di una madre.
Il libro Madre che resta di Patrizia Baglione, pubblicato il 23 giugno 2024, è un viaggio poetico intimo e toccante attraverso la perdita e la rinascita di una madre. La raccolta di poesie esplora il devastante processo di separazione da un figlio, che la poetessa descrive come una morte spirituale, un’esperienza che lascia un’impronta profonda e ineludibile. Le parole di Baglione si presentano…
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Pesaro, al via i quattro progetti della II edizione del Bilancio partecipativo
Pesaro, al via i quattro progetti della II edizione del Bilancio partecipativo. Prendono forma i progetti finanziati dalla seconda edizione del Bilancio partecipativo del Comune di Pesaro che, per l'annualità 2022/2023 permetterà, tramite lo stanziamento di 120mila euro, di trasformare in realtà le idee messe in campo dal Quartiere 10 Villa San Martino, dal Municipio di Monteciccardo, dal Quartiere 8 “Borgo Santa Maria” e dal Quartiere 9 “Soria- Tombaccia”. «Sono quattro progetti dall’alto valore inclusivo e sociale – spiegano Andrea Nobili, assessore al Rigore e Riccardo Pozzi, assessore al Fare - che andiamo a sostenere con 120mila euro complessivi (circa 30mila euro ciascuno), uno stanziamento maggiore rispetto a quello della prima edizione del Bilancio partecipativo (100mila euro, ndr) per dare il giusto riconoscimento al lavoro svolto dai Quartieri e dai suoi volontari». Non solo, «Questo nuovo strumento di partecipazione che abbiamo messo in campo ha messo alla prova la capacità progettuale dei Quartieri. Si è rivelato subito un’ottima palestra per individuare le priorità delle varie zone di Pesaro e per costruire degli interventi sostenibili ed efficaci cari ai pesaresi». Verranno così realizzati i 4 progetti che, nel primo bando del bilancio partecipativo, non avevano ottenuto il finanziamento: progetto di “Illuminazione zona verde tra via Frescobaldi e via Bini”, presentato da Villa San Martino (Q10); “Il lavatoio dei pensieri”, presentato dal Municipio di Monteciccardo; la “Riqualificazione zona ricreativa lungo via Lancisi”, presentata dal Quartiere 8 (Pozzo Alto); un nuovo “Parco Olave Baden-Powell”, presentato dal Q9 “Soria- Tombaccia”. Inseriti nel Bilancio partecipativo altri 79mila euro che verranno ripartiti tra i rimanenti 9 quartieri della città (circa 8500 euro ciascuno) per interventi di piccola manutenzione. I PROGETTI FINANZIATI DALLA II EDIZIONE DEL BILANCIO PARTECIPATIVO 1. Villa San Martino (Q10) - Progetto “Illuminazione zona verde situata tra via Frescobaldi e via Bini” L’obiettivo dell’intervento è aiutare e incrementare la vivibilità di quest’area, rendendola più sicura, funzionale e più sostenibile. Il progetto prevede l’installazione di un punto elettricità in prossimità della zona asfaltata e l’illuminazione della zona dietro la parrocchia di San Martino che, anche grazie agli interventi già realizzati dall’Amministrazione comunale - la verniciatura dell’asfalto svolto in collaborazione con l’istituto comprensivo, l’illuminazione di una delle due zone verdi, la prevista installazione di giochi e panchine - sta diventando sempre più l’agorà del Quartiere. L’illuminazione di una parte della zona ha migliorato la vivibilità dell’area verde ma ha evidenziato la differenza con la zona rimasta al buio. La richiesta risponde alle necessità degli abitanti della zona che da anni si stanno impegnando per compartecipare alla manutenzione del parco. 2. Municipio di Monteciccardo - Progetto “Il lavatoio dei pensieri”. Per i residenti e originari del posto è anche un luogo dell’anima e dal sapore famigliare, per questo i consiglieri del Municipio hanno proposto “Il lavatoio dei pensieri”, un progetto di rifacimento e decoro del lavatoio pubblico comunale, sito nel centro storico del paese, porta d’ingresso al borgo e anello di giunzione di un percorso pedonale ad alta attrazione turistica. Il luogo, dall’indiscusso valore storico, è stato ricostruito nel dopoguerra, nel punto in cui era già presente una più antica fonte a cielo aperto, parallelamente ai lavori di ricostruzione di un tratto di mura (che hanno permesso la copertura del lavatoio), alla realizzazione della piazza sovrastante e del sistema di raccolta acque che alimentava il lavatoio, oggi in disuso. Il recupero della struttura prevede: demolizione e ripristino vasche; consolidamento solaio; demolizione intonaco e stuccatura pareti interne ed esterne; rifacimento pavimentazione; restauro gradini esterni con cancellata; impianto elettrico interno ed esterno; cartellonistica e predisposizione per installazioni artistiche scultoree o pittore. “Il lavatoio dei pensieri” sarebbe anche il punto centrale di un intervento più ampio, volto alla creazione di un percorso dalla forte capacità di attrazione e sede di attività culturali: “Le Mura del Sogno”, con il recupero dell’ultimo tratto delle mura e la creazione di un percorso pedonale attrezzato ed illuminato, arricchito da piantumazione di siepe e essenze arboree autoctone, con due aree di sosta. Un camminamento ad anello che andrebbe a ricollegarsi al vecchio lavatoio”. Che il Municipio immagina come “museo all’aperto, pronto ad accogliere l’installazione di opere scultoree che ciclicamente verranno selezionate”. 3. “Pozzo Alto – Borgo Santa Maria” (Q8) – Progetto “Riqualificazione zona ricreativa lungo via Lancisi” Nasce dall’esigenza di rigenerare un’area che possa fungere da punto di incontro e ritrovo per gli abitanti di Pozzo Alto, promuovendo l’integrazione fra le diverse generazioni. Nella frazione vi è stato un incremento demografico, grazie agli interventi edilizi attuati in due aree distinte del paese (l’area PEEP “Complesso residenziale Vigne Rosse” e il complesso residenziale in strada Montemaggio) e ai lavori di sistemazione della rete fognaria, della pavimentazione in selci nella piazzetta posta nella cinta muraria. La riqualificazione dell’area si dimostra quindi un’esigenza sentita dall’intera comunità che ha beneficiato di questo spazio e che, di recente, ne ha recuperato l’uso. L’area oggetto di intervento è costituita da un impianto sportivo e ricreativo disposto su due livelli. L’intervento prevede la riqualificazione della pista polivalente con il rifacimento della pavimentazione e il ripristino della recinzione, la manutenzione o sostituzione dei due canestri presenti, la sistemazione dell’impianto di illuminazione. Altri interventi di risanamento dell’area connessi sono: l’installazione di due panchine; la sistemazione del verde; il ripristino delle porte del campo da calcio; la messa in sicurezza della viabilità in prossimità del secondo ingresso e ripristino cancello pedonale; posa di stabilizzato e ghiaia per uniformare il secondo ingresso, la ripresa del verde e pulizia area circostante la pista polivalente con installazione/ripristino panchine; installazione rete lungo il confine con strada Lancisi; ripresa scalinata di collegamento tra il campo da calcio e la pista polivalente; revisione e potenziamento dell’impianto di illuminazione della pista polivalente; la verifica dello stato degli spogliatoi; uniformare la pavimentazione del parcheggio; verifica e ripristino della recinzione del campo da calcio. 4. “Soria - Tombaccia” (Q9) - Progetto “Progetto parco Olave Baden-Powell” Promosso dal Gruppo Scout Agesci Pesaro 5 “San Pier Giuliano Eymard” il progetto si propone di realizzare il parco Olave Baden-Powell in via Tolmezzo, a Soria al confine del Parco San Bartolo, per “creare un connubio tra Creato, cultura, divertimento sano e semplicità, “un punto di riferimento per la cittadinanza soriana e non solo”, fatto per “regalare al quartiere un’opportunità, riqualificando un’area verde, creando uno spazio prezioso per ogni fascia d’età, sostenibile e utile”. L’area avrà un ingresso da via Tolmezzo segnalato con un’insegna. Appena entrati ci sarà un pannello introduttivo sulla “storia” della nascita del parco, sia della mappa del parco che avrà delle aree tematiche. L’area sarà recintata con rete metallica per garantire la sicurezza. Prevista una “Area Biodiversità” in cui collocare un orto sinergico e un’area aromatica così come piantumazioni di nuovi alberi (in cui saranno installate casette per uccellini) lungo il confine. Prevista anche una “Area Gioco” corpo libero, con strutture in legno costruite in economia. Ci sarà anche l’“Area Cultura” con: tavoli con la scacchiera e relative panche riparate dalla “scatola verde” (rete metallica o con canne dove far arrampicare la vite) come ombreggiante; free library e panchine; due panchine per musicisti ad L con leggio; una meridiana. Previste anche un’“Area amici pelosi” recintata e un’area “Rispetto del futuro” con due punti destinati alla raccolta differenziata.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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“ Tatuato, nominato, truccato, allenato, palestrato, curato e kuratiert, cesellato ad arte e medicalizzato a oltranza, il corpo è il grande protagonista della svolta singolarista: il fenomeno appare evidente se lo colleghiamo a un’altra importante svolta dei nostri tempi, quella secolarista. Abbiamo un unico corpo, abbiamo solo un corpo, la vita del nostro corpo è l’unica vita che abbiamo e quella vita è la nostra unica possibilità individuale. Possiamo certo trasmettere la vita della specie riproducendo, al seguito della pulsione biologica, la vita collettiva, la vita della specie. Possiamo persino dimostrarci cosí aperti e altruisti da impegnarci oggi non soltanto per la vita dei nostri discendenti diretti o dei nostri connazionali ma anche per quella delle persone lontane nello spazio, e persino per quella delle persone lontane nel tempo, le generazioni future. A loro potremmo immaginare di lasciare un mondo sano, giusto e pulito, seguendo l’intuizione che fu di Hans Jonas e che è stata ripresa ed elaborata di recente da alcune correnti del pensiero ecologista, della sostenibilità e dell’etica della cura. Tutto questo suona molto bello e altruista, ma alla fine è questo nostro corpo l’unico che abbiamo, hic et nunc, e ogni uomo è unico. Il fatto è che il processo di secolarizzazione ha condotto anche coloro che credono nelle religioni che promettono la vita eterna nell’aldilà, ad attaccarsi alla fugace vita a termine dell’aldiquà. Il secolarismo, nella brillante ricostruzione di Charles Taylor, filosofo cattolico credente, significa uscita della religione dalla sfera pubblica nonché allontanamento della gente da Dio e dalla Chiesa e declino delle pratiche religiose. Si tratta di un fenomeno iniziato storicamente nel mondo occidentale intorno al Cinquecento e sviluppatosi in alcuni paesi piú che in altri, e in virtú del quale la fede in Dio – da assioma che era all’interno di un contesto in cui non credere era virtualmente impossibile – è diventata un’alternativa, una possibilità umana fra le tante. La società moderna è diventata secolare cosí come è diventata democratica e mediatizzata e singolarizzata – e questo è un semplice dato di fatto –, e la maggioranza dei suoi componenti sono di fatto laici (che siano fedeli a una religione, scettici, agnostici, dubbiosi, atei convinti). La vita eterna dell’anima nell’eterna beatitudine è divenuta un’aspettativa fumosa e poco convincente, cosí come pochi si dedicano alla cura dell’anima per garantirle l’immortalità. L’impegno contemporaneo, anche di molti credenti, piú che mirare all’immortalità dell’anima, si concentra sulla cura del corpo, da mantenere in vita e proteggere dall’invecchiamento e dalle malattie attraverso interventi tecnici di vario genere e di diversa portata. Ci troviamo di fronte a un fantasma dell’immortalità che non si fonda sul predominio delle religioni quanto sul mito dell’uomo perfezionato dalla scienza e dalla tecnica. La cura dell’anima, gestita dalle Chiese e dai loro apparati e allenata dagli esercizi spirituali, ha ceduto il passo alla cura del corpo e del cervello allenati dagli esercizi fisici e mentali. “
Francesca Rigotti, L’era del singolo, Einaudi (collana Vele), 2021. [Libro elettronico]
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BAROCCO SICILIANO - Noto - la cattedrale e la scenografica scalinata; Modica - San Giorgio, Siracusa -la cattedrale, Catania - La Collegiata , Palazzolo Acreide - San Sebastiano, Militello in val di Catania - San Nicolò, Noto - San Domenico, Palazzolo Acreide - La Cattedrale.
Passato il grande terremoto del 1693 che distrusse tutta la Sicilia Sud orientale, i grandi Principi, proprietari dei territori offesi, incominciarono la ricostruzione creando, nuove città con urbanistiche adatte al nuovo stile scelto per ricreare i paesi distrutti. Lo stile era ovviamente il barocco uno stile che molti architetti locali avevano visto o saputo essere il nuovo modo di costruire a Roma e nel Nord Europa. Iniziò così una ricostruzione che invece di ripetere il vecchio stile medievale, quello gotico catalano o qualcuno degli stili precedenti, si lancia nell’invenzione, nel volgersi al cielo sia nell’animo che nelle forme, e che nello stupore, nell’abilità della realizzazione e nella scenografica bellezza trova le sue caratteristiche principali. Tali caratteristiche vennero mantenute e sviluppate durante la lunga e laboriosa realizzazione di queste opere che nel tempo si modificavano ed arricchivano. Fu come se tutti quanti, realizzatori delle opere e loro utilizzatori, volessero voltare pagina con il passato, un passato fatto della distruzione del terremoto e della grande peste che a più riprese aveva svuotato la Sicilia. Era il desiderio di una nuova vita, di nuove forme, di uscire dalla cupa intimità interiore medievale e volare alti in cielo verso la luce. Cosa succederà adesso con l’arte dei prossimi anni? Rifletterà questi giorni di dolore cercando di metabolizzare le paure, le insicurezze, i dolori odierni? e dove si dirigerà, verso forme e contenuti innovativi rivolti al domani, o rielaborerà il dolore odierno, piegandosi in se stessa o chiudendosi in una silenziosa solitudine, la stessa che proviamo adesso. Vedremo presto in che modo l’arte, specchio dell’anima delle varie generazioni umane, saprà alzare verso il cielo i suoi nuovi germogli.
After the great earthquake of 1693 which destroyed all south-eastern Sicily, the great Princes, owners of the offended territories, began the reconstruction by creating new cities with urban planning suitable for the new style chosen to recreate the destroyed countries. The style was obviously Baroque a style that many local architects had seen or known to be the new way of building in Rome and Northern Europe. Thus began a reconstruction that instead of repeating the old medieval style, the Catalan Gothic one or any of the previous styles, launched into the invention, in turning to the sky both in soul and in shapes, and in amazement, in the ability of realization and in its scenic beauty it finds its main characteristics. These characteristics were maintained and developed during the long and laborious realization of these works which over time were modified and enriched. It was as if everyone, the creators of the works and their users, wanted to turn the page with the past, a past made by the destruction of the earthquake and the great plague that had emptied Sicily on several occasions. It was the desire for a new life, for new forms, to get out of the dark medieval inner intimacy and fly high into the sky towards the light. What will happen now with the art of the next few years? Will you reflect these days of pain trying to metabolize today's fears, insecurities, pains? and where it will go, towards innovative forms and contents aimed at tomorrow, or rework the pain of today, bending in itself or closing in a silent solitude, the same that we feel now. We will soon see how art, mirror of the soul of the various human generations, will know how to raise its new shoots towards the sky.
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“La Solara”. Luogo dell’anima
Ingresso dello stabilimento
Dopo tanti sogni e tanti sacrifici stava finalmente realizzando il progetto che preparava da lungo tempo. Nel luogo dove da piccolo trascorreva le giornate d’estate, su quegli scogli arsi dal sole e battuti dal vento e dal mare, nasceva finalmente “ La Solara” . Quel giovedì, l’11 agosto del 1960, Paolo Spartano era sceso di buon’ora a controllare che tutto fosse pronto per l’inaugurazione. Lo stabilimento era stato costruito su una lunga scogliera, incastonato sulle rocce bianche: niente sabbia, a Sorrento comandano il tufo ed il calcare. L’attività poteva essere raggiunta partendo dalla piazzetta del Capo dopo aver percorso a piedi un piccolo sentiero di epoca romana ed aver attraversato un caratteristico pontile in legno.
Ad accogliere gli invitati c’era la signora Teresa, la cuoca, colei che deliziava gli ospiti con qualcosa di semplice ma sublime: parmigiana di melanzane, alici ‘a turtiera, spaghetti a vongole, capresi, treccia di Sorrento… Il lido era composto da una sala ristorante all’aperto, uno snack bar interno, l’adiacente cucina e dopo una porta che immetteva all’aperto, il solarium, con la changing room, le cabine, la doccia ed i servizi. Finito il solarium composto metà di cemento e di tavole di legno e contorniato da una balaustrata di pali di castagno che reggevano parte della struttura leggermente rialzata dal livello del mare, si potevano notare all’estremità delle bianche scogliere piatte. Al mare, dal solarium, si accedeva tramite una scalinata fatta di cemento e di rocce, poi la scaletta ed un trampolino infisso: veri e propri lasciapassare per un bagno d’altura.
Quel giovedì il tempo era magnifico ed il mare calmo come una tavola. Il lido si riempii di clienti vogliosi di passare una sana giornata al mare fuori dal circuito del turismo di massa e del mordi e fuggi. Ad intrattenere gli ospiti, posizionato vicino all’ingresso, il calcio balilla, una vera e propria eccellenza per quel tempo, così come il jukebox, intorno al quale si radunavano i più giovani per ballare al ritmo di “Love me tender” o “Rock around the clock”. In quel caldo pomeriggio di metà agosto il sole batteva forte sulle colorate cabine della Solara, c’era chi ne approfittava per un elaborato tuffo ed una bella nuotata fresca, o chi invece preferiva abbronzarsi sulle sdraio sfoggiando grandi cappelli di paglia e occhiali da sole. Le 10 cabine presenti sul solarium venivano prenotate ad inizio estate ed erano occupate dalle stesse persone che scendevano al mare completamente vestite e indossavano il costume solo sul lido.
Clienti della Solara (1962)
partita al calcio balilla (1962)
Numerose erano le famiglie presenti quel giorno, che caratterizzarono poi la clientela tipica dello stabilimento. La zona del Capo di Sorrento, infatti, era abitata nel periodo estivo da nuclei familiari provenienti da varie zone d’Italia e d’Europa che avevano acquistato splendide proprietà dove passavano le loro vacanze. All’epoca l’alta borghesia italiana ed europea poteva permettersi di trascorrere tutto il periodo della “bella stagione ��� nelle zone di villeggiatura. È Per questo motivo che il lido “La Solara” era frequentato abitualmente da clienti affezionati che per la peculiarità del posto non conoscevano a Sorrento altro mare che quello.
Quegli anni d’oro della Solara sono rimasti scolpiti indelebilmente nei ricordi di Paolo, il quale ancora oggi dopo 50 anni, ne rammenta perfettamente ogni dettaglio.
Nato al Capo di Sorrento il 18 dicembre nel 1925 da famiglia contadina, all’età di 13 anni durante una battuta di caccia perde parte del mignolo e dell’anulare. Non potendo più maneggiare gli attrezzi dell'agricoltore, con l’aiuto del padre nel 1948 compra una piccola tabaccheria e si dimostra subito un abile commerciante, trasformandola in uno dei più prestigiosi bar-tabacchi di Sorrento. Nel 1960 inaugura lo stabilimento “La Solara” nella località detta della Regina Giovanna e nel 1976 anche l’hotel “La Solara”.
Paolo Spartano (1965)
Velocemente, dopo l'inaugurazione, lo stabilimento si ingrandisce e diventa, sempre più, un punto di riferimento per bagnanti e turisti che giungono da tutte le parti del mondo attirati da un luogo tranquillo e incontaminato. Ma ogni inverno la forza del mare mette a rischio la prosecuzione dell’attività arrecando notevoli danni alla struttura ed agli arredi. Ed ogni primavera la caparbietà e l’amore di Paolo per il suo stabilimento consente di ripristinare tutto, ogni anno con qualche miglioria. Fino a che nella notte tra il 28 e il 29 dicembre del 1999 accadde qualcosa che nessuno poteva mai immaginare. Le previsioni meteo ascoltate la sera del 27 dicembre ipotizzavano per i giorni successivi venti forti e mare in burrasca. La mattina del 28 dicembre Paolo con alcuni operai si recò a verificare che tutto fosse in ordine. Nonostante il mare in più punti fosse riuscito a sfondare le paratie in ferro, che ogni fine estate venivano predisposte a difesa dello stabilimento , la struttura non aveva subito danni e fu necessario soltanto ripristinare alcune parti del contenimento. La notte successiva la forza del vento e del mare aumentò ancora e lo spettacolo che si parò davanti a Paolo la mattina del 29 dicembre fu agghiacciante. Sembrava che una bomba avesse disintegrato tutto. Perfino alcune grosse rocce alle spalle dello stabilimento erano state spostate di molti metri.
Eppure neanche per un momento Paolo pensò di rinunciare alla sua Solara. Dal giorno successivo ogni sua azione, ogni suo pensiero, aveva un solo scopo: recuperare fondi per ricostruire tutto ancora meglio di prima. Il percorso fu lungo e faticoso e lo sforzo economico immane. Come portare l’enorme quantità di materiali per la ricostruzione in un posto impervio come la Solara? Si studiarono alcune soluzioni: il trasporto via mare con una chiatta fu scartato per le innumerevoli complicazioni di carattere burocratico e pratico. Si decise quindi il trasporto via terra. Si pensò ad un elicottero ma poi la scelta cadde su l’utilizzo dei muli specializzati nel trasporto di materiale la cui peculiarità era quella di essere in grado di scendere e di risalire le grosse scale.
La scena dei muli è stata impressa su tela da un noto pittore che per caso era presente sul posto e che fortemente impressionato da ciò che vedeva, volle confezionare un bellissimo quadro che poi donó alla famiglia Spartano.
Ad agosto del 2000 lo stabilimento riaprì e fortunatamente l’attività da allora prosegue con sempre migliori risultati.
Certamente il tipo di lavoro e di clientela sono completamente mutati nel tempo. Al posto delle ricche famiglie degli anni ‘60-‘80, dal 2000 ad oggi lo stabilimento viene per la maggior parte frequentato da giovani ventenni che trascorrono le loro giornate tra un tuffo ed un Aperol-spritz e sul solarium non si vede più il caro jukebox ma sotto una piccola copertura di pagliarelle un dj con il suo mixer e grosse casse ai lati. Inoltre nei suoi primi 30 anni di vita, lo stabilimento, era solito chiudere al calar del sole mentre da alcuni anni a questa parte il ristorante rimane aperto fino alle 24 e spesso si organizzano serate e aperitivi.
Ma ancora oggi al lido “la Solara” si mantiene intatto quel Genius loci che fece intuire a Paolo Spartano di farne un suo “luogo dell’anima”.
Lido la Solara (2019)
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E veniamo adesso a parlarvi di Luca Onestini e Soleil Sorge.
Brevemente tanto per fare un po’ di cappello a questo articolo.
Luca ha scelto Soleil durante il trono di Uomini e donne. Sono stati insieme circa 5 mesi. Ma non credo che sia stata una grandissima storia d’amore. Infatti praticamente non hanno mai convissuto. Si vedevano certamente ma abbiamo saputo dopo la trasmissione che avevano dei problemi. Ora sinceramente non vogliamo entrare nel merito anche perchè insomma ormai i due si sono definitivamente separati quindi ci sembra anche abbastanza inutile indagare.
Luca Onestini è infatti felicemente fidanzato con Ivana Mrazova che ha conosciuto durante il Grande Fratello VIP. Mentre lei è felicemente fidanzata con Marco Cartasegna ossia con il suo rivale di trono. Oltretutto fra i due non è mai corso del buon sangue.
In ogni modo se la settimana scorsa è stato Luca Onestini a rilasciare la sua intervista a Uomini e donne Magazine, questa settimana è toccata a Soleil Sorge
Dichiara Soleil Sorge a Uomini e donne Magazine in riferimento a Marco Cartasegna
“…Forse io ho un piccolo record del cuore: grazie a Uomini e Donne mi sono innamorata due volte in un anno. Incredibile, ma vero. Ci sono arrivata per caso, quando ho fatto il primo provino, lavoravo per Roma Calcio e in un primo tempo non potevo accettare. Finito il contratto ero senza lavoro ma soprattutto senza amore.”
E continua ricordando proprio quei tempi dicendo
” Ricordo una sera in particolare. Ero con Giulia e Antonello, due miei amici, e dissi: “Ho voglia di innamorarmi”. Così la redazione mi ha dato una seconda possibilità come corteggiatrice. Volevo davvero trovare l’amore. Ho visto Luca ed è scattato il colpo di fulmine. Almeno da parte mia.
E racconta il suo percorso anche con l’ex tronsita Luca Onestini e dice
“Io l’ho corteggiato, mi sono messa in gioco, cosa che non avrei mai fatto nella mia vita. Uomini e Donne, credetemi, fa venire la voglia di innamorati.”
E del percorso fuori da Uomini e donne dice
” Poi c’è stata la scelta, siamo diventati una coppia, ma forse io ho sbagliato. Ho iniziato a correre troppo velocemente. Per me la storia con Luca è partita subito al massimo, cercavo la condivisione, la convivenza, lui no. Era interessato alla sua persona e non al progetto di vita. Volevamo cose diverse. “
E qui insomma parte un bell’affondo a Luca Onestini che sicuramente non gradirà….
“Lui il Grande Fratello Vip, io una famiglia. Quando lo hanno scelto, eravamo già in crisi. Non ci vedevamo da due settimane. Sì, lo so. Abbiamo provato a recuperare tutto la sera prima che lo blindassero. Dentro di me sapevo che era il punto di non ritorno. Avevo spento la speranza. La nostra storia sarebbe finita con o senza reality.”
Su questo Luca Onestini mi sembra su un’altra linea anche se non ha mai replicato a Soleil per non darle importanze ed evitare ogni tipo di polemica sui Social. Ma insomma ci ricordiamo perfettamente che al Grande Fratello VIP ricordava molto Soleil Sorge. Insomma da parte sua questa crisi non sembrava certo esserci…Ma invece Soleil Sorge ha letto dentro il GFVIP un altro Luca Onestini e infatti dice di lui.
” I suoi atteggiamenti nella Casa successivamente mi hanno dato ragione, i miei dubbi si trasformavano in certezze. Mi è crollato tutto addosso, è stato il colpo di grazia alla nostra storia già in crisi. Io sono un’istintiva, non ho resistito e gli ho detto addio.”
E anche sull’accusa di tradimento che si è letto spesso nel web Soleil Sorge è molto categorica.
Io non ho mai tradito Luca. Lo scriva. Ho messo fine alla relazione con una lettera quando era dentro la Casa. Ma la fine era iniziata ben prima.
E di Marco Cartasegna dice Soleil Sorge
Marco è entrato nella mia vita due volte e in momenti diversi. Il primo durante Uomini e Donne quando era sul trono con Luca ma non disdegnava il mio sguardo. Poi, per caso, ci siamo incontrati ad un party durante la fashion week. Luca era dentro la Casa. Quella sera abbiamo scherzato da amici, in modo cordiale senza andare oltre. In quel periodo cercavo casa a Milano. Abbiamo iniziato a sentirci ma mantenendo le distanze.
E aggiunge
Bastava però che ci vedessero in un luogo con altre persone ed era già amore per i fan, sui social, sui giornali, ovunque. Io stavo impazzendo.
E sulla cronologia dei fatti dice
Prima rompo con Luca in Tv. Poi Marco si dichiara. Lo ha fatto in modo sincero, da uomo. E ho detto: “Mi butto”. In Marco ho trovato l’amore razionale. Ho trovato e sentito da subito che volevo viverlo. Oggi sono felice e in pace con me stessa. Non ho bisogno nemmeno del confronto con uno specchio. Noi parliamo già di come sarà la nostra vecchiaia.
E in merito al suo sogno dice
Il mio sogno? Costruire un villaggio autosufficiente, un luogo per la pace dell’anima. Un resort dove chi viene ospitato, ne esce senza pensieri. Un luogo olistico con animali, una fattoria per star bene. Io e lui siamo coincidenza cosmica. Abbiamo deciso di andare a vivere insieme. Via le paure, evviva l’amore! Se vedessi Luca, io lo saluterei, lui no. Scommettiamo?…”
Come potete vedere nell’ultima riga ha lanciato veramente una bella stilettata a Luca Onestini, insomma se la vedesse nemmeno la saluterebbe. E credo che Luca non parla, ma se parlasse avrebbe un po’ da ridere in merito alla ricostruzione dei fatti. E voi come la pensate su questa storia fra Luca Onestini e Soleil Sorge?
E finiamo mettendo qualche foto di Soleil Sorge che effettivamente è un po’ che non le mettiamo
Foto di Soleil Sorge
Intervista a Soleil Sorge dura con Luca :”…Lui il Grande Fratello Vip, io una famiglia..” e “io lo saluterei, lui no.” E veniamo adesso a parlarvi di Luca Onestini e Soleil Sorge. Brevemente tanto per fare un po' di cappello a questo articolo.
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GROTTAMMARE – La 7° edizione del “Meeting nazionale giornalisti cattolici e non”, svoltosi in occasione della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, ha coinvolto migliaia di persone collegate in rete attraverso il sito ufficiale giornalistioggi.it, il canale YouTube e la pagina Facebook Tele Padre Pio TV (per la registrazione completa, clicca qui). Sponsor ufficiale “L’Editrice Shalom”.
Filo conduttore del pomeriggio: “In dialogo tra paura e speranza. La vita si fa storia”. Sono state circa 7.000 le persone che si sono connesse nei vari momenti del pomeriggio durante i quali si è parlato della professione giornalistica e della comunicazione in tempo di pandemia.
La città di Grottammare, che nelle passate edizioni ha ospitato con generosità fino a 200 operatori della comunicazione nazionale, quest’anno si è resa presente con un video promozionale, realizzato da Mauro Piergallini, nel quale commercianti e imprenditori, da sempre sostenitori dell’evento, hanno declamato alcuni versi della poesia “Lu paese mi” di Pio Ottaviani.
Tutti i partecipanti hanno ricevuto i saluti del Vescovo della Diocesi di San Benedetto del Tronto, Mons. Carlo Bresciani, del Vescovo della Diocesi di Ascoli Piceno, Mons. Giovanni D’Ercole, del Direttore del SIR, Amerigo Vecchiarelli, del presidente della FISC, Mauro Ungaro e del direttore di Padre Pio TV, Stefano Campanella.
Giovanni Tridente, docente di giornalismo presso la Pontificia Università della Santa Croce, ha condotto tutto il pomeriggio e ha commentato alcuni passaggi del messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali.
Simone Incicco, responsabile organizzativo del Meeting, ha ringraziato tutti i relatori, molti dei quali amici dell’evento, il comitato scientifico, il direttore Campanelli di Padre Pio TV e don Giampiero Cinelli impegnato nell’organizzazione.
Nella sua introduzione ha ricordato il 23 maggio di ventotto anni fa quando, a Capaci, sono stati uccisi il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e gli agenti della scorta. Incicco ha poi invitato a un momento di preghiera per ricordare il giudice Falcone, le vittime di mafia, gli operatori di pace e i tanti sofferenti a causa della pandemia.
Bruno Mastroianni, filosofo e giornalista, ha condotto il primo panel dal titolo “Cambiamenti”, con: Bruno Piraccini, amministratore delegato Orogel, Maria Laura Conte, direttrice della comunicazione della Fondazione AVSI e Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio Comunicazioni Sociali della Conferenza Episcopale Italiana.
A introdurre i lavori è stata Vania De Luca, presidente nazionale dell’UCSI che ha detto: «Questa pandemia ci ha cambiati e dobbiamo fare memoria delle sofferenze e delle potenzialità che abbiamo attraversato. L’informazione di qualità, svolta da persone riconoscibili e competenti, potrà aiutarci a ricostruire il tessuto comunitario che uscirà lacerato da questo periodo».
«Un evento inaspettato che ci ha trovati impreparati – ha detto Bruno Piraccini – e abbiamo lavorato continuamente per adempiere al nostro dovere rispettando tutte le regole di sicurezza, dopo un’accurata attività di formazione per i duemila lavoratori dei quattro stabilimenti tra i quali non si sono riscontrati casi di contagio da Covid».
Maria Laura Conte ha condiviso il suo percorso: «Dopo la prima fase che si è svolta sull’onda dell’adrenalina tra il lavoro e la famiglia, è subentrata la sensazione della mancanza d’aria, la fatica della chiusura, del non potersi muovere, ma da qui è partito lo scatto verso la riscoperta di un dinamismo diverso, anche con l’aiuto della lettura del romanzo “La Peste” di Camus».
Vincenzo Corrado ha affermato: «Il vero cambiamento è riuscire a far tesoro dell’essenzialità che stiamo vivendo. Il Papa scrive che la vita di ciascuno è aperta a un possibile cambiamento e ognuno di noi deve indicare la traiettoria. Abbiamo sperimentato la globalizzazione della salute, della malattia, della sofferenza, ci siamo ritrovati tutti uniti sulla stessa barca, ma teniamo aperto questo libro della pandemia, non possiamo lasciare da parte le storie di fragilità e trovare le giuste parole attraverso le quali narrare quello che abbiamo vissuto in modo inaspettato».
Il vescovo Stefano Russo, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, ha apprezzato lo svolgimento del Meeting e, introducendo la seconda tavola, ha affermato: «Il tempo della crisi è attraversato da una grazia speciale e il pastore deve prendere consapevolezza di questo e vigilare per comprendere la strada. È importante che il pastore renda viva questa grazia e avendo la consapevolezza che può avvenire in modo speciale anche attraverso la ricerca della collegialità episcopale che dà senso e spessore al ruolo del pastore.
In questo tempo ci si può accorgere che la comunione sacramentale è difficile da vivere insieme ma non viene meno la comunione che si vive attraverso la prossimità, attraverso la testimonianza, attraverso il farsi prossimo alle situazioni di indigenza. Ciò diventa testimonianza della Chiesa che siamo e della chiesa che vogliamo essere».
Il secondo momento, nel quale si sono alternati i vescovi di diverse diocesi italiane, è stato infatti dedicato a “L’impegno del pastore in mezzo alle crisi”.
Il confronto è stato moderato da Massimiliano Padula, presidente del Copercom e docente alla Pontificia Università Lateranense, che ha chiesto ai relatori cosa ha rappresentato il Coronavirus per la Chiesa.
Il cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo della Diocesi de L’Aquila dove ha costituito un ufficio per la Pastorale dell’emergenza, ha portato la sua testimonianza su questo terremoto dell’anima: «Credo che tutte le calamità hanno degli aspetti comuni: ogni evento traumatico presenta un versante misurabile e uno nascosto e non immediatamente percepibile ma occorre avere degli strumenti per intercettare questi segnali che partono dalla profondità della persona.
Bisogna avere la capacità di ascoltare, che è il primo modo di essere vicini. In un evento traumatico si avverte una frattura tra il prima e il dopo e la situazione di sofferenza getta sul futuro un’ombra condizionante. La Chiesa ha un ruolo importante, dobbiamo dotarci di sismografici sociali e spirituali per misurare le onde sussultorie che sono interiori nella persona, dobbiamo imparare a costruire buone intese, a fare convergenze con le istituzioni e a dare speranza, che è il dono più importante nel tempo dell’emergenza».
Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede ha affermato: «Il Papa ha accompagnato questa emergenza nella consapevolezza che era un problema di tutto il mondo. Tutti hanno sottolineato la forza di quella serata del 27 marzo in piazza San Pietro, una forza che non era nelle immagini o nella regia: la potenza era nel mondo convenuto a pregare insieme.
Anche i non credenti sono stati interpellati da questo momento di preghiera, hanno ricevuto una chiave per capire. Ci ha commosso il modo in cui questo nostro servizio al Papa e alla Chiesa ha raggiunto tanti fedeli in tutto il mondo: in questo momento il Papa è stato vicino».
Il vescovo mons. Francesco Beschi della Diocesi di Bergamo, la zona più martoriata d’Italia dal Covid, ha offerto alcune impressioni: «Il dono dello Spirito si è manifestato in maniera evidente. Nella nostra comunità abbiamo sperimentato un po’ di sconcerto e di smarrimento, sono venute meno le relazioni educative quotidiane, la prossimità con le famiglie, i malati e gli anziani. È emersa la consapevolezza di un servizio, di una testimonianza che prendeva progressivamente forme diverse con i media, con il telefono, con una rete di persone che hanno cominciato, con tutte le precauzioni, ad avvicinarsi alle vie, alle case
. La Chiesa c’è stata e le persone l’hanno avvertita pur in un contesto di grande sofferenza, di malattia, di dolore immenso per i tanti morti. Abbiamo celebrato in modo molto dimesso i 140 anni del giornale “L’Eco di Bergamo” che ha contribuito alla condivisione di sentimenti. Il Papa ci ha telefonato per esprimere vicinanza per la morte dei 24 sacerdoti e ha chiamato la redazione del giornale perché è rimasto colpito dalle pagine dei necrologi e dei racconti della vita di tante persone morte.
Sono convinto che il futuro dipende dalle scelte che stiamo facendo. A partire dalla nostra fede, noi cristiani testimoniamo la convinzione che il futuro di Dio è buono anche nell’oscurità. Avvertiamo il senso di incertezza, ma il mondo può guardare a quello che è avvenuto e leggerlo nel mistero pasquale».
Il vescovo mons. Francesco Massara delle Diocesi di Camerino e di Fabriano ha ripercorso le modalità con cui la Chiesa locale si è fatta prossima alle famiglie e ai più giovani: «Il concorso CoronArt per i bambini, ragazzi e giovani ha visto l’adesione di quasi cinquecento partecipanti con video, disegni, poesie. Dopo il terremoto strutturale del 2016 (350 chiese su 500 danneggiate), il terremoto dell’anima che è molto più profondo (aumento dell’uso di antidepressivi e dei suicidi) e il terremoto delle promesse (la ricostruzione non è partita) stiamo affrontando questo nuovo tempo di sofferenza. Ci sarà una crisi economica, ma riusciremo a rialzarci perché i marchigiani sono forti e l’aiuto di Dio ci sosterrà. Questa pandemia ci ha portato a essere più coesi e solidali, a rivedere i nostri modi di vivere come Chiesa e nelle relazioni.»
Mons. Domenico Pompili, vescovo della Diocesi di Rieti, ha ripercorso, come il suo confratello Massara, il periodo del terremoto paragonandolo a questi mesi. «La Chiesa si è ritrovata fuori dalla Chiesa – ha detto mons. Pompili – ma a Rieti eravamo già fuori dalle chiese, costretti a uscire e questo ha creato la possibilità di andare incontro alle persone e di coltivare le relazioni: è questo che dobbiamo recuperare per dare alla Chiesa una prospettiva futura»
La terza parte del Meeting è stata condotta da Alessandra Ferraro, caporedattrice della TgR Valle d’Aosta che ha condotto il confronto tra i direttori di testate.
A introdurre i lavori è stato Carlo Verna, Presidente Nazionale dell’Ordine dei giornalisti, che ha descritto il contesto nel quale gli operatori della comunicazione si sono trovati a lavorare: «Le tecnologie hanno portato a un diverso approccio con le fonti, il lavoro sta cambiando e sono necessarie una maggiore consapevolezza, la massima attenzione e uno sforzo di analisi della verità per informare correttamente il cittadino».
Alessandro Casarin, direttore nazionale dei Tgr Rai ha ripercorso il lavoro delle redazioni regionali così tanto apprezzato dagli italiani: «È la pandemia che detta il sommario del telegiornali – ha spiegato Casarin – le storie degli abitanti prigionieri, poi i racconti dei volontari, le storie drammatiche dei figli che avevano perso uno o entrambi i genitori, e poi le storie degli infermieri, dei sacerdoti morti, le chiese e gli oratori vuoti, tante storie luttuose.
Da una settimana questo sommario non ci viene più imposto e riusciamo a dare spazio alla cronaca bianca, ad alcuni fatti che accadono nelle città. Ora dobbiamo pensare al domani, tutti aspettiamo il 3 giugno e speriamo che ci sarà meno virus e più cronaca».
Vincenzo Morgante, direttore di Tv200, ha ripercorso il lavoro svolto dalla redazione: «Ogni giorno abbiamo raccontato la vita concreta di tanti profili di cittadini e abbiamo scoperto il mondo della prossimità e del bene che forse prima non conoscevamo nella giusta misura. Abbiamo usato un linguaggio semplice che desse sempre un segnale di speranza: raccontare la drammaticità della situazione ma trovare nelle varie storie un elemento di fiducia nella presenza delle Istituzioni e della Chiesa».
Alberto Ceresoli, direttore de L’Eco di Bergamo, prendendo parte all’incontro ha affermato: «Bergamo ha subito un colpo profondissimo da questa tragedia che il giornale ha raccontato grazie all’aiuto dei lettori che hanno condiviso il loro lutto, la sofferenza e il ricordo dei loro cari. In questo modo il giornale ha attraversato tutto questo periodo e, oltre ai messaggi di papa Francesco e del presidente Mattarella, ha avuto la vicinanza e la stima dei lettori che si sono sentiti accompagnati e sostenuti in questo tempo così buio».
Lorenzo Rinaldi, direttore del quotidiano Il Cittadino di Lodi, ha espresso tanta gratitudine ai redattori che hanno rivalutato il giornalismo di prossimità e ha condiviso il lavoro dalla zona rossa: «La nostra piccola redazione di provincia ha gestito e annunciato il primo caso di Covid del 20 febbraio e da allora non si è mai fermata. Noi eravamo con i nostri cronisti nella zona rossa, isolati ma al centro della notizia, e abbiamo sentito la grande responsabilità di dare le informazioni giuste.
Quando ci siamo resi conto che le persone che venivano a mancare erano numerose, abbiamo avuto il momento più duro e abbiamo lanciato l’iniziativa del memoriale per ricordare i defunti che non hanno potuto avere il saluto della comunità. In questo modo ci siamo sentiti ancora di più il cuore della comunità, sia con le pagine del giornale cartaceo che con il sito. Abbiamo pensato anche ai bambini e agli studenti con una rubrica che ha messo in contatto i nonni con i nipoti e un’altra in cui abbiamo chiesto ai ragazzi di raccontarci come stavano vivendo il loro isolamento».
Agnese Pini, direttrice de La Nazione, si è soffermata sulla correttezza del linguaggio: «Durante questa pandemia i giornalisti hanno prestato maggiore attenzione a come esprimere le notizie al pubblico che era molto sensibile non solo alla notizia ma anche al modo dell’esposizione. I giornali sono diventati una parte istituzionale del Paese, riconosciuta dal presidente Mattarella e dal premier Conte, e hanno cominciato a misurare maggiormente le parole, a lasciare da parte i titoli sensazionali, a sentirsi una responsabilità maggiore per non creare effetti sbagliati nel lettore.»
Marco Tarquinio, direttore del quotidiano Avvenire, nel suo intervento ha messo in evidenza come le prime responsabilità richieste ai giornalisti siano la prossimità e il confronto con la realtà: «Tutti siamo stati immersi in un flusso continuo di parole, di dati e di opinioni sulla pandemia e sulla carta stampata il lettore ha trovato parole che non sono scivolate via, erano i volti di persone che stavano soffrendo, i nomi dei morti e c’erano le questioni che stavano emergendo, i primi segnali controversi sull’affievolimento della forza virale del Covid.
Purtroppo, c’è chi ha seguito l’interesse di fazione e non l’interesse comune, ma sono stati una minoranza rispetto alla gran parte dei giornali che hanno saputo interpretare questa difficile situazione con una informazione quotidiana di qualità».
Il pomeriggio si è concluso con la promessa di ritrovarsi per l’edizione 2021 a Grottammare, per tornare a vivere dal vivo l’ottava edizione del “Meeting nazionale giornalisti cattolici e non”.
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Text
“Va bene che la vita è tutto un processo di disgregamento, ma i colpi di portata micidiale - i colpacci improvvisi che arrivano, o che sembrano arrivare, dall'esterno o che restano impressi, da addurre poi a discolpa, o che confesserai poi agli amici nei momenti di debolezza - quelli lasciano sempre qualche strascico. C’è un altro genere di colpi che arriva dall'interno, che avverti solo quando è troppo tardi per correre ai ripari, quando prendi coscienza senza appello che per certi aspetti non sarai più quello di un tempo. Il primo tipo di incrinatura sembra prodursi in fretta; il secondo si produce quasi a tua insaputa ma, d’un tratto, ne hai piena coscienza. [...] il banco di prova di un’intelligenza superiore è la capacità di sostenere simultaneamente due idee contrapposte senza perdere la capacità di funzionare. Uno dovrebbe, per esempio, capire che non c’è scampo ma essere comunque intenzionato a far di tutto per trovare una via d’uscita.”
Il crollo, Francis Scott Fitzgerald
Exit
Il colpo. L’appello dell’anima al cambiamento. Le crepe. Il crollo del muro. La disgregazione dei segni del passato. Una soluzione inaspettata tra le macerie. La via d’uscita. Lo slancio vitale ritrovato. La parola al corpo. La piena libertà di ricostruzione.
Qualche tempo fa...
Mi mancava il contatto con il presente. Non potevo continuare a trovare il senso della mia esistenza tra i cimeli del passato. Volevo sbrogliare la matassa, ero intenzionata a farlo ma, allo stesso tempo, avevo paura di tagliare definitivamente dei fili e di non riuscire più a riannodarli. Cercavo di rimanere sulla soglia del mio non luogo, pur volendo oltrepassare quella linea di demarcazione quanto mai confusa e imprecisa. Né l’una né l’altra cosa mi riuscivano poi tanto bene. Facevo lo slalom fra gli imprevisti della vita e i guai personali, senza una direzione precisa, carica di emozioni contrapposte. Erano giorni di pioggia battente quelli, pioggia che annacquava ogni nuovo proposito e che annebbiava ogni nuova strada. Addosso solo una nota di tristezza. Eppure, procedevo nella routine quotidiana, testarda come un mulo, tenace nel cercare di resistere, incazzata più che mai con quella voglia disperata di farcela, nonostante l’aria pesante, i ricordi stipati che ogni tanto spuntavano fuori da qualche angolo polveroso della memoria, i dettagli interiori inaspettati che rimbalzavano nella mia mente senza un perché.
«Come posso affrontare il presente?» Era la domanda che mi risuonava in testa.
«Non ostinarti a cercare di far tornare indietro qualcosa che ormai ha già fatto il suo corso. Sguardi, abbracci, sorrisi, profumi sono sicuramente importanti per sopravvivere. Nessuno è immune. Non importa quanto durano, continueranno a resistere allo scorrere del tempo tanto da sembrare vivi, senza bisogno di catalogarli e continueranno a far par parte della tua storia. Quello che si dimentica facilmente è che, una volta vissuti, nessuno potrà mai portarceli via. Spesso, è difficile fare a meno di ciò che ci ricorda un legame perché i legami modellano la nostra vita, anche quando non sembra, e ciò che siamo deriva molto dai nostri rapporti. Tutto è concatenato. Stare ferma, ancorata nel presente a quei ricordi, serve a poco però. Ricordati sempre dove sei stata felice ma non dimenticare mai dove potresti andare se solo decidessi di allontanarti e fare dei passi in avanti. Poco distante dal tuo non luogo, ci sono infinite possibilità ancora da esplorare.
Ecco che si presenta per te la resa dei conti. Non è ora di fare sconti inutili. Devi mettere in discussione il tuo mondo, tutto ciò in cui avevi riposto la tua fiducia. Pesca dalle tue esperienze personali. Cerca di capire falle e limiti del tuo essere. Smettila di negare la tua essenza, esplorala in prima persona riscoprendone le meraviglie: mettiti nelle condizioni di dare il meglio di te, di conoscerti e saperti scatenare, senza lasciarti condizionare dai personaggi di contorno. Vivi nella consapevolezza: ogni conquista deve essere sempre consolidata. Rompi la stucchevole routine del passato scegliendo solo ciò che ti lascia piacevolmente stupita, piomba nell'attimo presente e sentiti partecipe della magia che accade. Anima la tua scena, buttati nella danza e sprigiona la tua grazia. Sei ancora in tempo per le piroette. E, per favore, non guardarmi con quell'aria incredula.», avevi risposto allora...
“Ma il cuore è sul punto di esplodere
La mente scricchiola nel silenzio compatto
E le finestre s'involano dalle stanze mute
E i muri crollano - tutti insieme – “
A. S. Byatt, Possessione
#F. Scott Fitzgerald#Il crollo#a.s. byatt#possessione#exit#esplosione cuore#crollo muri#tutti insieme#senza scampo#Homo sum humani nihil a me alienum puto#ricostruzione#non è mai troppo tardi
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Titolo: Fine di un Incubo Fandom: Final Fantasy XV Personaggi: Ignis Scientia, Gladiolus Amicitia, Original Characters, Noctis Lucis Caelum, Prompto Argentum Relationship: Male/Male Pairing: Gladnis (Accennato Promptis) Genere: Introspettivo, Angst Avvertimenti: Everybody Lives, Child Abuse, leggero MPREG, Hurt&Comfort, Violenza Rating: SAFE Conteggio parole: 12515 Capitoli: 1 su ?? Intro:
Erano trascorsi quasi undici mesi dal ritorno della luce su Eos e, grazie agli sforzi congiunti di tutti i sopravvissuti che si erano riversati a Lestallum in tutti quegli anni, Insomnia si stava lentamente risollevando, diventando un simbolo di speranza e di rinascita per tutti coloro che avevano visto la morte in faccia più di una volta. Il Re Noctis Lucis Caelum era salito al trono in modo quasi inaspettato dopo essere scomparso per oltre un decennio, ma il suo ritorno, insieme alla luce e alla fine della Piaga delle Stelle, venne accolto ugualmente con gioia e sollievo.
Erano trascorsi quasi undici mesi dal ritorno della luce su Eos e, grazie agli sforzi congiunti di tutti i sopravvissuti che si erano riversati a Lestallum in tutti quegli anni, Insomnia si stava lentamente risollevando, diventando un simbolo di speranza e di rinascita per tutti coloro che avevano visto la morte in faccia più di una volta.
Il Re Noctis Lucis Caelum era salito al trono in modo quasi inaspettato dopo essere scomparso per oltre un decennio, ma il suo ritorno, insieme alla luce e alla fine della Piaga delle Stelle, venne accolto ugualmente con gioia e sollievo. Accanto a lui i compagni di sempre, il suo Scudo Gladiolus Amicitia, il consigliere Ignis Scientia e il suo migliore amico Prompto Argentum che si era rivelato essere molto più importante per il Re di quanto il mondo era pronto ad accettare.
La vita non era stata gentile con Prompto ma alla fine si era rivelata essere la migliore di tutte quelle che aveva mai immaginato. Ormai le sue origini erano di pubblico dominio così come le inusuali abilità che, il suo corpo creato in laboratorio, lo portarono ad essere l’unico uomo al mondo in grado di rimanere gravido e di dare alla luce un bambino, sano e forte, che divenne la sua stella in quella decade di buio.
Era stato Ardyn Izunia, quando ancora non sapeva nulla del suo stato fisico, a svelargli quella crudele verità. Lo definì un mostro, un essere che aveva ragione di esistere solo ed esclusivamente in un laboratorio, perché gli esperimenti fatti sul suo corpo lo avevano reso in grado di accogliere dentro di sé la vita e di donarla poi al mondo… ed era ironico, dato il destino di morte che spettava agli MT.
«Un inutile Piano B di tuo padre», aveva spiegato Ardyn e Prompto solo qualche mese più tardi, nella disperazione per la scomparsa di Noctis, comprese realmente a cosa si stava riferendo l’ex Cancelliere di Niflheim. Aspettava un bambino, il figlio del Re di Lucis, che lui e Noct avevano inconsciamente concepito ad Altissia prima della battaglia contro Leviathan. Avevano sempre fatto l’amore con le dovute protezioni ma quella notte, all’alba dell’evento che avrebbe potuto cambiare la vita di entrambi, avevano semplicemente deciso di condividere i loro sentimenti in modo più profondo e folle… e, ironicamente, era stato quello il risultato.
Solo grazie al pensiero di poter dare alla luce il figlio di Noctis, Prompto riuscì a farsi forza e a non lasciarsi abbattere e sempre affiancato e protetto da Gladio e Ignis, fu in grado di partorire Sirius Noctis Lucis Caelum . Un bambino dai capelli neri come la notte e gli occhi tendenti al viola che aveva ereditato da Prompto insieme ad una marea di lentiggini.
Sirius era il suo piccolo miracolo, l’unica cosa buona nata dal suo corpo creato in laboratorio. Solo per lui Prompto aveva superato dieci lunghi anni senza Noctis, sperando ogni giorno di poter guardare il Principe - che ormai doveva chiamare Re - e raccontargli di loro figlio senza scorgere perplessità e disgusto, come tante altre persone avevano già fatto durante quella decade di oscurità.
Alla fine, come il più lieto degli epiloghi, Noctis era tornato e aveva accolto la notizia di Prompto con emozione e incredulità, arrivando addirittura a definire quell’evento come un miracolo .
Era stata quella gioia, insieme all’estremo sacrificio dell’anima di Lunafreya, ad evitare il compimento della profezia e il miracolo si era rivelato essere vero. Il finale perfetto per quel capitolo di storia tanto cupo e triste e l’inizio di una nuova era, baciata dalla luce del sole e dalla speranza.
In quei dieci mesi, il Re Noctis e il suo consorte Re Prompto - ancora faticava ad accettare di essere diventato parte della nobiltà - si destreggiarono tra la ricostruzione di Insomnia e di Lucis e gli obblighi genitoriali, visto che l’ormai Principe Sirius aveva bisogno di conoscere il padre che, a causa dei Siderei e della profezia, non era stato con lui nei primi dieci anni della sua vita.
Fu facile per entrambi legare, in primis grazie al carattere solare e fiducioso di Sirius e per secondo il bisogno di Noctis di avere una famiglia con le persone che amava. Una famiglia che, a due mesi dal ritorno del Re e della Luce, iniziò già ad allargarsi con l’annuncio di una nuova gravidanza di Prompto… questa volta desiderata da entrambi.
La loro vita era perfetta, molto più di quanto avessero mai immaginato, ma com’era ovvio era necessario tenere i piedi per terra perché anche se a Lucis, grazie a Lestallum e all’energia del Meteorite, erano riusciti a cavarsela in qualche modo, altre zone di Eos e altrettanti abitanti non erano stati così fortunati.
Niflheim e Tenebrae erano diventati regni fantasma, e i pochi sopravvissuti che si erano rifugiati a Lucis, trovarono complicato far rinascere quei luoghi abbandonati da ormai troppo tempo, e per dare la possibilità a tutti di costruire una nuova vita, Noctis iniziò ben presto ad inviare aiuti verso ogni regno e città… anche nella capitale di Accordo: Altissia.
Data la posizione dell’arcipelago, pochi erano riusciti a lasciare le loro case per raggiungere Lucis e chi era stato costretto a restare nel Protettorato aveva dovuto affrontare il buio mitigato solamente dall’energia idroelettrica che sin dall’antichità aveva aiutato Altissia ad allontanare i daemon. Il buio perenne e la crescita esponenziale di quei mostri avevano tuttavia reso sempre più complicata la gestione della centrale idroelettrica e nel corso degli anni molte zone della città si erano ritrovate senza energia, in preda agli attacchi dei daemon.
Nel corso dei mesi successivi all’inizio della nuova era di luce, ad Altissia si erano subito impegnati con testardaggine e orgoglio per ricostruire l’amata città e restaurare tutto ciò che rischiava di andare perduto. Avevano accettato con sollievo gli aiuti provenienti da Lucis e, animati dalla speranza e dalla caparbietà tipica del loro popolo, furono tra i primi - dopo Insomnia - a restaurare una sorta di governo.
Venne eletta Hyacintha Euanthe come Primo Ministro, una donna forte e coraggiosa tanto quanto la compianta Camelia Claustra, e sin dai primi contatti con il Re di Lucis, Hyacintha si dimostrò abile nella politica e nella gestione della città e di tutto il Protettorato che, come rese chiaro sin dall’inizio, avrebbe ripreso l’antico nome di Repubblica .
Tuttavia fu quasi al nono mese di gravidanza di Prompto che giunse un messaggio strano nella scrivania di Noctis, una richiesta di supporto militare proprio per Altissia. In passato Accordo non aveva mai vantato una forte storia militare e quella richiesta, durante quel periodo di pace, allarmò non poco il Re.
La lettera parlava di un’organizzazione criminale che, nonostante gli sforzi, non erano ancora riusciti a stanare e che derubava non solo gli abitanti di Altissia, ma anche i pochi visitatori di buon cuore che giungevano in quella città per portare aiuti. Il lavoro di ricostruzione teneva occupate gran parte della forza lavoro e non avevano nessuno in grado di lavorare a quel delicato caso e per quel motivo, Hyacintha aveva preso l’importante decisione di affidarsi al Re di Lucis, definendo la sua richiesta come l’ultima spiaggia, il tentativo finale per riportare la pace ad Altissia.
Noctis discusse a lungo con i suoi compagni su quanti uomini inviare per aiutare l'alleata e, alla fine, fu Ignis a dare la sua opinione riguardo quella delicata operazione. Non vi era bisogno di un esercito né di un impiego massiccio di soldati, avevano bisogno di persone forti e soprattutto attente, in grado di avvertire il pericolo e con abbastanza prontezza di spirito e capacità di strategia per stanare l'organizzazione criminale. E anche se non era semplice ammetterlo, Ignis si ritrovò quasi costretto a fare il suo nome come membro della squadra da inviare ad Altissia. Nonostante la cecità, era e sarebbe rimasto uno dei migliori guerrieri di Lucis nonché ottimo stratega, e per quanto non volesse lasciare Insomnia - e il ritrovato Noctis - sapeva che se volevano un fare un lavoro efficiente e in breve tempo doveva per forza mettersi in prima linea.
Con lui Gladio che, ovviamente, sembrò rifiutare quasi categoricamente l'idea di lasciare andare Ignis da solo fino ad Altissia. Sapeva di avere degli obblighi nei confronti del suo Re, ma in quei dieci anni aveva assunto anche un altro obbligo, di natura sentimentale, che lo legava a Ignis.
«Iris prenderà il mio posto accanto a Noct», sosteneva, testardo come sempre, «inoltre, ci sono anche il Generale Leonis e Aranea. I nostri Sovrani e il Principe sono in buone mani».
Con quelle parole cercava non solo di convincere Ignis ma anche se stesso perché l'idea di lasciare Noctis e il piccolo Sirius - nonché Prompto ormai pronto a partorire - non lo entusiasmava assolutamente.
Fu una battaglia dura quella tra Gladio e Ignis, e anche grazie all'intercessione di Prompto a spuntarla fu lo Scudo del Re.
«Risolverete la questione in quattro e quattr'otto, ragazzi! E tornerete qui giusto in tempo per vedere la fase finale della mia evoluzione in balena», scherzava Prompto per incoraggiarli ad andare via, accarezzandosi il ventre prominente che, secondo le ecografie, ospitava ben due Principesse di Lucis, «prendetela come una vacanza, una pre-Luna di Miele visto che quando tornerete ed io sarò libero di muovermi, verrete costretti a sposarvi ufficialmente e verrete anche sommersi dalle mie foto!»
Era un pensiero piacevole ed emozionante per entrambi che, finalmente, avrebbero a loro volta potuto vedere la conclusione di quel capitolo della loro storia per abbracciare quello della vita matrimoniale. Non avevano mai pensato seriamente di sposarsi anche a causa dell'obbligo di Gladio di creare una nuova generazione di Scudi del Re , ma alla fine avevano superato quell'ostacolo, decidendo di affidare ad Iris il compito di Capofamiglia - cosa che la giovane donna accettò con orgoglio e non poca commozione visto che per tutta la vita si era sempre considerata lo Scudo Senza Re.
Di conseguenza, dopo aver assicurato il Primo Ministro riguardo l'invio dei rinforzi, Ignis e Gladio si prepararono per partire alla volta di Altissia, consci di formare in due un vero e proprio esercito.
Presero in prestito lo yatch del padre di Noctis che, dal ritorno di questo, era rimasto ormeggiato al Molo di Galdin sotto la fiera custodia di alcuni degli Angoni che in quegli anni avevano protetto Angelgard. In quel modo, si sarebbero potuti muovere in totale autonomia senza dover chiedere passaggi né aiuto ad altre persone già troppo impegnate nel ricostruire le proprie case.
Il viaggio, come previsto, si rivelò essere piacevole e quieto e impiegarono le ore di traversata nella creazione di vari scenari d'azione per sgominare quell'organizzazione criminale. Ignis, con le sue doti, aveva aiutato spesso i cacciatori durante gli anni di buio a creare piani di trasporto per i beni di prima necessità e soprattutto di recupero dei sopravvissuti, e come aveva sostenuto a Insomnia davanti al Re: le sue abilità sarebbero state molto utili in quelle situazioni. E, come era ovvio, in caso di ritorsioni e scatti di violenza da parte dell'organizzazione ci sarebbe stato Gladio con la sua forza a sistemare ciò che l'intelletto superiore di Ignis non riusciva a coprire.
Erano una squadra perfetta ed erano certi che quelle persone che si stavano approfittando della debolezza di Altissia non avrebbero avuto vita lunga con loro, ma al tempo stesso dovettero anche considerare di dover affrontare una situazione simile anche nella stessa Insomnia e in altre città di Eos.
«Nei momenti di difficoltà sono tre le personalità che emergono. I coraggiosi che combattono per superarle, chi invece si autodistrugge davanti agli ostacoli e chi, sfortunatamente, cerca di arricchirsi alle spalle dei più deboli», constatò infatti Ignis a metà viaggio.
Gladio si trovò, ovviamente, pienamente d'accordo con lui.
«Per il momento Altissia si sta risollevando abbastanza bene, e questa può essere considerata solo una sorta di contro indicazione... che come hai detto dobbiamo aspettarci anche in altri luoghi».
«Sarà una sorta di prova per poter gestire in modo più semplice ed efficace altre organizzazioni se ce ne fosse il bisogno», assentì Ignis.
«Spero che non accada. Da anni ormai ho scelto la speranza e la fiducia», commentò Gladio con un sorriso che, lentamente, si spense nel vedere in lontananza il profilo della capitale di Accordo.
Quel suo leggero cambio d'umore non passò inosservato per l'altro uomo, ormai abituato a riconoscere le emozioni del suo compagno anche solo dal respiro, e in quel momento lo aveva chiaramente sentito mozzarsi per un solo istante.
«Va tutto bene?», gli chiese con delicatezza, tendendo ancora le orecchie per avvertire ciò che Gladio non era in grado di dire a parole.
«Sì... tutto bene», mentì infatti l'altro uomo, «tu piuttosto. Te la senti davvero di tornare lì? Ci ho pensato a lungo ma... solo ora che vedo la città in lontananza mi sembra una... pessima idea», ammise.
Ignis ascoltò le sue parole con attenzione, ripetendole mentalmente prima di rispondere con un neutrale: «Perché non dovrei sentirmela?»
Era facilmente intuibile il timore di Gladio, ma Ignis non voleva mostrarsi debole.
«Per ciò che è successo…», spiegò l’altro, «ma penso che la mia sia solo una futile preoccupazione, vero?»
«Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo agire sul futuro. Quindi ciò che è accaduto qui non deve più preoccuparci», riprese Ignis con tono fermo, posando una mano su quella dell’altro uomo, ascoltandone il battito del cuore attraverso quel semplice tocco.
«È solo che... l'ultima volta non è stato bello», ammise sincero.
«Non preoccuparti per me, sono ormai passati dieci anni ed ho accettato le cose come stanno», rispose con delicatezza, aggiungendo poi un: «ma se sei ancora legato al passato e ai ricordi di Altissia, forse dovresti lasciare questa missione solo a me».
Gladio si irrigidì subito per quell’affermazione che sfiorava dei nervi scoperti. Gli errori e le sconfitte del passato per lui non erano diventate delle cicatrici, ma erano come tumori maligni: un fantasma dormiente pronto a perseguitarlo da un momento all’altro. E ciò che era accaduto a Ignis in quella stessa città, ciò che aveva sacrificato per Noctis… era per Gladio una ferita ancora aperta, ma doveva ugualmente dimostrarsi forte, non solo per il bene del suo compagno ma anche per la riuscita di quella missione.
Si sforzò infatti di sorridere e di stringere con sicurezza la mano di Ignis.
«Va tutto bene Iggy. L’Impero non esiste più e questo luogo ha bisogno di noi», dichiarò, sorridendo nel sentire la stretta della sua mano venire ricambiata.
«Io sono tranquillo, ma temo che tu non lo sia», riprese Ignis, «ti assicuro che sto bene. Ho perso la vista in questo luogo, ma non per questo lo considero la causa della mia perdita».
«Lo so… perdonami se… mi preoccupo per queste cose», mormorò Gladio, «meno male che ci sei tu a ricordarmi queste cose».
«Dovere», rispose l’altro appoggiandosi con la spalla al suo compagno per fargli sentire la sua vicinanza.
«Siamo quasi arrivati… ormai non esistono più i cancelli che abbiamo visto al nostro arrivo dieci anni fa», commentò a quel punto Gladio, cercando come sempre di diventare in parte gli occhi di Ignis.
«Immagino siano tra le cose da ricostruire, ma che non rientrino nelle priorità del Primo Ministro».
«Già», annuì, portando lo yacht fino a quello che, un tempo, era il porto turistico di Altissia. Quella zona della città era nel bel mezzo della ricostruzione e Gladio non poté non tentare di trasformare ancora in parole ciò che i suoi occhi stavano vedendo.
Descrisse ad Ignis i piccoli e grandi cambiamenti, dalle case trasandate fino a quelle che lentamente stavano riprendendo il loro antico splendore, arrivando anche a parlargli delle persone che si muovevano indaffarate per le strade adiacenti al molo.
«Mi rincuora sapere che tutti stiano cercando di dimenticare l’ultimo decennio», mormorò Ignis, mente Gladio faceva fermare lo yacht in una zona libera, nella quale il suo compagno si sarebbe potuto muovere tranquillamente e senza troppi ostacoli.
«Siamo arrivati», annunciò infatti, spegnendo i motori ed intascando subito le chiavi della piccola imbarcazione.
«La nostra prima tappa sarà l’abitazione del Primo Ministro per farci aggiornare su tutto ciò che non ci è stato riferito per iscritto», ricordò Ignis, accettando senza problemi la mano di Gladio mentre questo lo aiutava a scendere dallo yacht.
Per quanto Ignis possedesse un’ottima memoria, era ben consapevole che la città che stava visitando in quel momento era solo un ombra di quella che aveva conosciuto dieci anni prima, e non trovò strano il fatto che il suo compagno stesse cercando di guidarlo, soprattutto dopo il discorso che si era concluso neanche un quarto d’ora prima, durante l’ultima parte del viaggio.
Decise comunque di non puntualizzare e di lasciar correre, trovando però impossibile non accennare un sorriso quando Gladio fece una sorta di deviazione dalla descrizione delle strade
«Nonostante tutto potremo… venire qui a festeggiare il matrimonio?», esordì, «È una città romantica e piena di storia, e un po' di sano turismo non guasterebbe visti i lavori che stanno facendo».
«Mi trovi d'accordo», assentì, «e sono sollevato dal fatto che tu stia cercando di accettare Altissia».
«È solo un luogo», rispose Gladio, «e devo lasciare il passato nel passato», concluse. Non sarebbe stato semplice ma ci avrebbe provato, almeno per l'intera durata di quella missione.
«Hai ragione», commentò Ignis, palesemente sollevato dalle affermazioni del suo compagno.
Proseguirono il loro cammino alla volta dell’abitazione nella quale alloggiava il Primo Ministro e Gladio, sempre accanto a Ignis, continuò a impegnarsi per essere i suoi occhi per quando si sarebbero dovuti muovere in autonomia per quelle stesse strade.
La dimora del Primo Ministro, per ovvie ragioni, non era il palazzo dove chi aveva gestito l’ex protettorato viveva, ma era invece un'abitazione semplice, aperta a tutti, adatta alle esigenze di chi doveva gestire la rinascita di Altissia.
Vennero accolti da una guardia del corpo, un uomo alto e serio, che li condusse nell’Ufficio della donna solo dopo aver visto il Timbro Reale di Lucis.
Hyacintha Euanthe si presentò subito loro mostrandosi, come previsto, forte e autoritaria ma anche ben diversa da chi l'aveva preceduta.
«Se il Re di Lucis ha inviato solo voi non posso che fidarmi», aveva detto infatti con gli occhi castani che studiavano i corpi e i movimenti dei due, «avete carta bianca. Bloccarvi qui a discutere di quisquilie riguardanti le abilità e ciò che dovete fare sarebbe controproducente. Ciò che però dovete sapere è che sono furbi e abili ladri. Non abbiamo scoperto molto, ma dovete tenere gli occhi aperti».
Semplice e concisa non aveva atteso lunghe e pompose presentazioni, né li aveva stuzzicati e interrogati per scoprire le loro abilità. Si era semplicemente fidata, dando loro un importante via libera.
Quando Magnus si era svegliato quella mattina era stato accolto dalle quiete lamentele dei bambini più piccoli di lui e dalle minacce di Marcus. Intimava loro di stare zitti e di fare il lavoro per il quale erano lì.
Aveva dieci anni, da quello che dicevano gli uomini che vivevano lì con lui e gli altri bambini, ed era nato e cresciuto nell’oscurità di Altissia, abbandonato come tanti altri dai suoi genitori. Infatti, erano tutti orfani lì, piccole anime dimenticate dal mondo e che erano state raccolte una per una da Marcus e i suoi compagni.
Avevano dato loro una casa, anche se in rovina, e in cambio avevano sempre e solo chiesto fedeltà e cieca ubbidienza. Li avevano fatti diventare ladri e mendicanti perché, come sostenevano: «I bambini passano inosservati e fanno pena se sono degli straccioni come voi».
Era quella la vita che Magnus aveva sempre conosciuto e, più per proteggere se stesso che per altre reali ragioni, ogni mattina correva subito fuori dalla casa per fare il suo lavoro. Perché chi si attardava troppo veniva punito e chi tornava a mani vuote o dopo il tramonto subiva la stessa sorte.
Lo aveva imparato a sue spese e, per quel motivo, evitava accuratamente di far arrabbiare Marcus e gli altri.
Vagò come un’ombra per le strade di Altissia, cercando le persone migliori per rubare loro gioielli o il borsellino, soffermandosi solo qualche minuto in una delle poche bancarelle che avevano fatto la loro ricomparsa nella città.
Vendevano dolci, un modo come un altro per tenere il morale alto di chi stava lavorando, ma per Magnus erano le prede perfette per fermare almeno per qualche ora i morsi della fame.
Non poteva rubare niente di ingombrante ma solo caramelle e cose più piccole già incartato. Quindi, scivolando con attenzione alle spalle del rivenditore che si intratteneva a parlare con dei probabili clienti - dei muratori che, a detta loro, avevano bisogno di zuccheri -, afferrò le prime cose che gli capitarono tra le mani, le infilo nella sua borsa, e si allontanò ancora, come un fantasma.
Era un suo piccolo segreto perché non riportava mai a casa ciò che rubava dalle bancarelle. Non perché non volesse condividere ma perché sapeva, per esperienza, che sarebbe stato punito. Marcus non amava le iniziative che andavano oltre i suoi ordini e Magnus era ormai abbastanza grande per sapere di dover obbedire ciecamente agli ordini di quegli uomini.
Si nascose in un vicolo e iniziò a scartare un lecca-lecca, infilandolo in bocca con un’espressione beata e soddisfatta. Era dolce e sapeva di buono, e anche se non avrebbe placato realmente la sua fame, almeno avrebbe iniziato la giornata con quel sapore. In ogni caso, pur restando nascosto , continuò a tenere d'occhio le strade alla ricerca di una qualche vittima per la sua raccolta giornaliera … e fu in quel modo che i suoi occhi si posarono su due uomini mai visti prima. Un cieco e una montagna di muscoli .
Sono nuovi, e dai loro movimenti intuisce che stanno ancora cercando di abituarsi alla città. Non si chiede il perché si trovino lì né chi sono, ma sceglie semplicemente di derubarli perché sono vestiti in modo elegante e sono nuovi. Sa che non si aspettano di certo di venire presi di mira da un ladro.
Incarta di nuovo il suo lecca-lecca e, silenzioso, li segue per studiarne i movimenti e le abitudini. Camminavano vicini e l'uomo più alto e muscoloso descriveva con voce sommessa la città all’altro che si muoveva apparentemente tranquillo, ascoltando le descrizioni del suo compagno con attenzione.
Attese paziente che si fermassero davanti a qualche bancarella o da qualsiasi altra parte che li distraesse abbastanza da permettere a Magnus si avvicinarsi e di puntare al borsellino dell’uomo cieco. Ne vedeva la forma in una tasca dei pantaloni neri e, data la sua disabilità, pensò fosse la vittima migliore da derubare. Non che ne andasse fiero - era abbastanza grande da capire che quello che faceva ogni giorno era sbagliato -, ma si trattava della sua sopravvivenza.
L'occasione si presentò qualche minuto dopo, quando l'uomo più grosso propose all’altro di fermarsi a prendere un caffè nell'unico bar che era stato aperto lì in città.
«Ebony, se possibile», rispose l'altro.
«Come sempre», assentì il secondo con tono leggero e quasi divertito, e Magnus decise di ridurre il più possibile le distanze, nascondendosi alle loro spalle.
Trattiene il fiato, come se i due potessero sentirlo, e mentre i due ordinano allunga lentamente la mano verso il borsellino. Gli tremano le dita, come sempre, ma il suo bisogno di sopravvivere lo aiuta sempre a superare quella paura.
Doveva farcela, perché non voleva venire punito da Marcus e gli altri, non poteva permetterselo… perché ad ogni errore temeva di fare la fine di quei bambini che non tornavano più alla casa.
No, si disse con più sicurezza, non poteva proprio permetterselo di fare quella fine.
Ignis era ormai abituato ad affidarsi a tutti gli altri suoi sensi e quando, qualche minuto prima, aveva avvertito una presenza alle sue spalle non aveva potuto fare a meno di mettersi in qualche modo in allerta. Non gli sembrava una presenza minacciosa ma era insistente e, vista la sua esperienza, non si sentiva assolutamente pronto a dare per scontato un pericolo sopito, soprattutto quando quella sensazione li seguì anche all'interno del modesto bar.
Cambiò infatti posizione, assumendone una più rigida e tesa, mormorando un basso: «Gladio».
«Temo non abbiano l'Ebony», commentò il suo compagno con tono fintamente leggero che gli fece comprendere di non essere l'unico ad aver avvertito qualcosa.
«Sono certo che farai la scelta giusta in questo caso», rispose a sua volta.
«Senza zucchero, come sempre», dichiarò Gladio, «me ne occupo io, non preoccuparti», aggiunse poi e ad Ignis non restò altro se non annuire, continuando a tendere le orecchie in attesa di altri movimenti sospetti, analizzando mentalmente le sue sensazioni. Tende a voler escludere sia un membro dell’organizzazione e pensa più che altro a un qualche furbantello indipendente perché, da quello che gli ha detto Gladio, nonostante la rinascita della città sembravano ancora esserci degli orfani palesemente abbandonati, lasciati negli angoli delle strade a fare l’elemosina.
Non approvava il fatto che il Primo Ministro non fosse già intervenuto nel raccogliere quei ragazzini e affidarli ad una qualche struttura medica, ma non era compito suo disquisire su quelle scelte.
«Ecco il caffé», annuncia qualche attimo dopo Gladio, distogliendolo parzialmente dai suoi pensieri.
«Grazie», rispose e mentre stringeva le mani attorno alla tazzina senti chiaramente il suo compagno muoversi rapido alle sue spalle, stanando il loro inseguitore.
«E-ehi!»
Era la voce di un bambino e lo stesso Gladio, nel vedere di aver appena catturato un ragazzino pelle ed ossa, non poté fare a meno di sussultare, sorpreso.
«Lasciami! Lasciami subito!», strillò il bambino, divincolandosi e tentando disperatamente di liberarsi, attirando inconsciamente su di sé le attenzioni di tutto il bar. Cosa che fece istintivamente allentare la presa di Gladio. Approfittando di quella libertà provvisoria, il ragazzino si diede subito alla fuga, spintonando Ignis e sparendo alla vista di tutti i presenti, troppo sorpresi per poter agire per tempo.
«Tutto okay, Iggy?», domandò subito Gladio e l’altro, annuendo, non poté non sospirare.
«L’hai lasciato andare, vero?»
«Non potevo farne a meno… era un bambino».
Ignis strinse le labbra per l’affermazione di Gladio.
«Lo sospettavo… la sua voce era troppo infantile per essere quella di un adolescente o di un adulto», assentì, «ci stava seguendo da quando abbiamo imboccato questa strada».
«Me ne ero reso conto», rispose l’altro, proseguendo poi con un: «solo… non mi aspettavo fosse un bambino...»
«Mi dispiace per quello che vi è successo», si intromise il barista con tono quasi imbarazzato, «e mi fa male ammettere che ormai è… normale amministrazione».
«Come?», domandò Gladio, sorpreso da quell’affermazione.
«Molti orfani ultimamente si danno ai furti… non è piacevole, ma sono soli...», spiegò l’uomo, facendo ovviamente irrigidire gli altri due. Non era una notizia piacevole, soprattutto non per Ignis e Gladio che erano giunti lì proprio per smantellare un’organizzazione criminale.
«Per il momento non è successo niente», riprese la parola Ignis, «solo un piccolo incidente di percorso», proseguì per rassicurare il barista.
Gladio mugugnò, annuendo, comprendendo la scelta di Ignis di tagliare lì il discorso per non allarmare troppo le persone presenti.
«Ciò non cambia che mi dispiace per quanto è successo», aggiunse l’uomo dall’altra parte del bancone, accennando un sorriso di circostanza e spostandosi poi per continuare il suo lavoro.
Rimasti soli i due uomini finirono la loro consumazione e lasciarono il bar per cercare un posto più appartato per parlare di quell’ultima scoperta.
«Quante possibilità ci sono che i furti dei bambini siano solo dei casi isolati?», chiese Gladio, dando voce ai suoi dubbi, pienamente condivisi da Ignis.
«Poche… e questo ci fa comprendere il perché il Primo Ministro ha avuto difficoltà nel gestire questa situazione. Non è semplice collegare i furti a dei bambini… che sicuramente sono mossi da una mano adulta», spiegò, «e temo che il bambino di poco fa non sia scappato a mani vuote, il che lo rende più scaltro di quanto previsto».
«Mh? Come?»
«Mi ha rubato il borsellino», spiegò nel notare solo in quel momento di apparente calma l’assenza del familiare peso nella sua tasca.
Gladio grugnì.
«Dobbiamo ritrovarlo o riuscire a beccare un altro bambino con le mani nel sacco», commentò con una nota irritata, «usare dei bambini… che mostri sono?»
Ignis assentì con un sospiro. Erano dei mostri, non poteva definirli in nessun’altro modo neanche lui.
«Perché i bambini sono facilmente manovrabili, soprattutto gli orfani senza più speranza…», cercò di argomentare per dare una spiegazione logica a quella situazione, «inoltre… degli adulti che cercano di fermare o di parlare con dei bambini soli… è una scena facilmente fraintendibile. Il che gioca a vantaggio di questa organizzazione».
«Quindi… cosa consigli di fare?», chiese Gladio, incrociando le possenti braccia al petto.
«Terrai gli occhi aperti, avranno sicuramente un luogo di ritrovo», rispose, «e non potendo seguire tutti i bambini… non ci resta altro se non individuare quello stesso bambino di poco fa».
«Ricordo il suo viso. Lo riconoscerò di sicuro», annuì l’altro, concedendosi poi un sospiro, «Era... proprio un bambino. Come Sirius», concluse.
«Pensavo fosse un ladruncolo isolato», ammise Ignis, incapace di nascondere la sua stessa tensione, «ma ha più senso che il gruppo utilizzi per l’appunto degli orfani per fare il lavoro sporco».
«Hai ragione… e se così fosse dobbiamo smantellare quell’organizzazione al più presto. Non sopporto che dei bambini così piccoli vengano sfruttati in questo modo».
«Siamo qui per questo. E non ho intenzione di fallire», concluse Ignis, con più decisione.
«Neanche io», rispose Gladio con la stessa determinazione del suo compagno, proseguendo poi con un: «ricapitolando. Sappiamo che prendono di mira persone distratte, chi lavora e chi giunge qui per aiutare la città. Noi eravamo volti nuovi, quindi è probabile che quel ragazzino voglia girarci alla larga».
«Esattamente», annuì Ignis, «ma le zone della città aperte al traffico di persone non sono tante, quindi abbiamo più possibilità di rivederlo nelle strade più trafficate o nelle piazze. Quindi possiamo già escludere gran parte di Altissia».
«Di conseguenza possiamo iniziare ad appostarci verso una delle piazze principali», concluse per lui Gladio.
«Corretto», acconsentì l’altro e con i sensi sempre tesi ad avvertire altre presenze o movimenti strani, entrambi si avviarono verso una delle piazze dove si accalcavano più persone.
Ovviamente, sapevano benissimo che non avrebbero avuto tanta fortuna nel ritrovarlo così facilmente, ma potevano solamente andare per tentativi per non terrorizzare i bambini e allarmare l’organizzazione… perché l’ultima cosa che desideravano era mettere ulteriormente in pericolo quei ragazzini.
Magnus, nonostante la disavventura con quei due, poté definirsi davvero fortunato per essere riuscito a scappare con almeno un piccolo trofeo. Aveva avuto paura quando la montagna di muscoli l’aveva catturato, ma come sempre gli adulti reagivano tutti allo stesso modo davanti alle urla in pubblico di un bambino. Infatti, non era la prima volta che veniva preso da qualche persona e gli era sempre bastato strillare per attirare su di sé gli sguardi delle persone e far agitare chiunque all’idea che stesse accadendo un qualcosa di più grave.
Era stato Gaius, uno dei compagni di Marcus, a spiegargli quel piccolo trucco.
«Gli adulti non possono toccare i bambini, è sbagliato. Quindi se ti prendono urla e chiedi aiuto… vedrai che sarai libero in un attimo».
Era semplice e aveva sempre funzionato, eccetto quando era lo stesso Gaius a prendere per se alcuni dei bambini. Le loro urla non avevano mai fermato Gaius, e Magnus aveva sempre pensato che quel trucco funzionasse solo con gli altri adulti e non con chi abitava con loro.... perchè, d’altro canto, ciò che facevano per vivere era già sbagliato.
Cercò di non pensare più a ciò che era accaduto e a quello che invece succedeva ogni notte a casa , e nascondendosi in un altro vicoletto riprese in bocca il suo lecca-lecca e iniziò a guardare quanto quel suo primo furto gli aveva fruttato.
Il borsellino di quel tipo cieco era in pelle e particolarmente elegante. Un qualcosa che andava conservata perché, come gli avevano sempre detto, non erano solo i guil a valere ma anche gli stessi borsellini potevano essere rivenduti. Lo aprì con attenzione, restando piacevolmente sorpreso e sollevato nel vederlo pieno.
Non sapeva contare benissimo i guil, ma erano tante banconote e quello per lui significava solo una cosa: quella notte avrebbe potuto mangiare. Lo avrebbero sicuramente premiato per quel colpo e sentiva già lo stomaco contorcersi per il sollievo e il pensiero di poter finalmente mangiare un qualcosa di più sostanzioso delle caramelle o degli scarti che trovava in giro.
Deglutì la saliva e iniziò a togliere dal borsellino ciò che era ovviamente inutilizzabile, come le carte di credito - «Sono rintracciabili e il proprietario le bloccherà appena si renderà conto del furto», gli avevano detto - e le fotografie. Ne trovò due all’interno del borsellino, una ritraeva il proprietario insieme alla montagna di muscoli e la seconda vedeva come protagonisti un piccolo gruppo di persone.
Una famiglia o degli amici, che Magnus etichettò subito come importante . Non per lui, ovviamente, ma per l’uomo che aveva derubato. La osservò a lungo e in silenzio, fino a sentire solamente la stecca di plastica del lecca-lecca sulla lingua.
Quella foto, così come tutte, rappresentava un ricordo e Magnus sapeva quanto i ricordi fossero importanti e al tempo stesso dolorosi. Lui non aveva mai posseduto foto, ma nel gruppo c’erano dei bambini che ancora custodivano di nascosto e gelosamente dei vecchi ritratti di famiglia… delle loro famiglie.
Pochi avevano avuto la fortuna di conoscere la loro provenienza e vivevano nei ricordi di ciò che un tempo era stata la loro vita prima di arrivare ad essere soli. Erano i bambini però i più tristi, perché quei ricordi erano e sarebbero rimasti nel passato e non avrebbero mai riavuto indietro la loro famiglia.
Magnus, infatti, si riteneva più fortunato di loro. Perché non aveva nessun ricordo dei suoi genitori, e non poteva sentire la mancanza di un qualcosa che non aveva mai avuto.
Nonostante ciò, non riuscì a buttare quelle foto… perché se quell’uomo cieco stava continuando a conservarle, pur non potendole più vedere, dovevano essere realmente importanti.
Le osservò ancora a lungo, indeciso sul da farsi. Poteva lasciarle a casa del Primo Ministro perché, sicuramente, sarebbero andati lì a denunciare il furto… gli sembrava una buona idea anche se particolarmente pericolosa. Per quel motivo decise di pensarci un po’ più a lungo, magari ci avrebbe dormito su e con lo stomaco pieno come sperava avrebbe avuto la sua risposta. Buttò quindi le carte di credito e le altre cartacce - scontrini per lo più - e mise in borsa il resto, tenendo però borsellino e foto ben separate, in modo da non farle vedere a Marcus al suo rientro a casa.
Si attardò ancora un po’ in quel vicolo poi, facendosi coraggio, lasciò il suo nascondiglio per cercare qualcun altro da imbrogliare o per consegnare il resto delle caramelle che aveva rubato ad alcuni dei bambini che come lui vagavano per la città. Perché una delle regole della casa era che non potevano portare cibo all’interno di quelle mura e Magnus, così come altri bambini, era solito dividere la sua piccola refurtiva.
Non erano amici con gli altri bambini ma non erano neanche degli estranei, pensavano più che altro alla loro sopravvivenza e per farlo dovevano aiutarsi ogni tanto.
Compì quella sua personale missione e passando per vie laterali e con le tasche più piene di guil, si avviò verso la casa prima del tramonto. Era importante tornare prima che calasse il sole, perché come dicevano sempre Marcus e gli altri, anche se era tornata la luce i Daemon giravano ancora indisturbati e avrebbero ucciso tutti coloro che si trovavano fuori dal nascondiglio.
La casa si trovava non lontano da dove, secondo una storia vecchia di dieci anni, era morta una strega o un Oracolo. Magnus non ricordava bene quella storia ma nessuno si era ancora avventurato fin lì a causa delle rovine e dell’acqua, quindi era un posto sicuro per loro: lontano dai pericoli.
Al suo ingresso nell’abitazione in rovina scoprì di essere il primo del gruppo e un po’ si preoccupò, temendo di far arrabbiare Marcus e gli altri, ma quando vide arrivare altri bambini subito dopo di lui, non poté non tirare un sospiro di sollievo.
Attesero pazienti che Marcus li raggiungesse per controllare i risultati di quella giornata e neanche qualche minuto dopo l’uomo, vestito in modo pulito e ben diverso dallo stato di disagio dei bambini, giunse a loro accompagnato da Gaius e da Thycho, un altro membro del gruppo.
Iniziarono a far svuotare le borse e le tasche, complimentandosi con i bambini per il lavoro svolto e, ovviamente, quando arrivarono a Magnus restarono piacevolmente sorpresi nel mettere le mani sul borsellino in pelle pieno di guil.
«Hai fatto un ottimo lavoro», lo lodarono infatti, «e siamo certi che anche domani non ci deluderai».
Magnus sospirò sollevato quando andarono avanti a controllare gli altri bambini e si irrigidì quando, come se quella fortuna fosse solo uno scherzo, nella casa arrivò una bambina, in ritardo.
Era bagnata da capo a piedi e stava tremando per il freddo.
«M-mi dispiace», si scusò subito, «m-mi hanno inseguita e mi sono… d-dovuta nascondere».
Fu Thycho a prendere la parola, scuotendo il capo.
«Questo perché se stata sicuramente disattenta, Titia…», la riprese. Il suo tono era dolce ma tutti i bambini sapevano che più quella voce era piacevole, più dovevano avere paura.
«N-no…», tentò di difendersi la bambina.
«Dovevi tornare prima e guarda… il sole è già tramontato», le fece presente, «e sai cosa significa?»
«S-stavo tornando! Ma… mi hanno seguita!», insistette Titia, bloccandosi quando negli occhi di Thycho lampeggiò per un momento un lampo d’ira.
«Piccola insolente», sibilò l’uomo.
«Sei arrivata in ritardo e qualsiasi sia la tua scusa, dovrai essere punita», si intromise Marcus con tono duro e serio, rivolgendosi poi agli altri bambini, «e questo vale per tutti. Questa notte avrete solo gli avanzi».
Magnus aprì la bocca ma la richiuse subito così come tutti gli altri bambini. Aveva sperato in una vera cena ma alla fine, come quasi tutte le notti, lui e gli altri si sarebbero dovuti accontentare solo degli avanzi. Sentì gli occhi pizzicare e le lacrime di delusione riempirli e offuscargli la vista, cercò di ricacciare dentro le lacrime, sfregandosi gli occhi con la manica della maglietta sporca e rovinata.
«Vieni, dobbiamo toglierti questi abiti bagnati», riprese a parlare Gaius con un ghigno compiaciuto, afferrando Titia, in lacrime, per trascinarla poi nei piani superiori dell’abitazione, dove lui e gli altri dell’organizzazione vivevano. Venne subito seguito da Thycho, mentre Marcus di rivolgeva con un’espressione seria a chi era invece era rimasto lì.
«Che vi sia da lezione. Le regole vanno seguite da tutti», ricordò con tono duro, prima di allontanarsi e di lasciare la sala. Magnus abbassò le spalle e solo in quel momento, mentre andava a rifugiarsi in un angolo della sala, si concesse di sfogare la sua frustrazione e tristezza. Pianse in silenzio, stringendo al petto la sua borsa lisa e rovinata come per proteggersi, ma niente poté difenderlo dal sentire delle urla provenire dai piani superiori.
“Alla fine” , si disse tappandosi le orecchie con i palmi delle mani e chiudendo gli occhi, “urlare non serve mai con loro”.
Era l’alba di un nuovo giorno ad Altissia per Ignis e Gladio che, la sera prima, erano stati costretti a tornare al Leville a mani vuote e senza alcuna novità riguardante l’organizzazione. Avevano parlato con parecchie persone che avevano riferito dei furti e del disagio crescente a causa di quella situazione, ma non avevano risolto nulla. Ovviamente, però, quello non li scoraggiò e iniziarono quella giornata con la stessa serietà che li aveva animati sin dall’inizio di quella missione.
La notte, prima di addormentarsi, avevano discusso a lungo su come agire nei giorni successivi e decisero non solo di cercare il bambino che aveva derubato Ignis ma di tenere d’occhio almeno uno di quelli che si fermavano negli angoli delle strade a fare l’elemosina, in attesa di una qualsiasi mossa.
Non sapevano se si sarebbe trattata o meno di una perdita di tempo, ma avevano già messo in conto il dover fare varie prove prima di trovare la strada giusta.
Dopo colazione tornarono alla piazza principale, osservando i lavori che riprendevano il via e le varie bancarelle che a loro volta si animavano, portando con loro un po’ di allegria e colore. Avevano trovato entrambi piacevole il vedere che quei piccoli commercianti non si erano arresi e che invece cercassero come potevano di rallegrare i lavoratori, loro stessi di soffermarono da alcuni di quelli ad acquistare sia qualche dolce che dei piccoli souvenir da riportare a Insomnia. Un po’ per aiutare l’economia di quel luogo e un po’ per passare inosservati.
Passarono gran parte della mattina a girare per le varie piazze e le strade più popolose e solo solo durante l’orario di pranzo scelsero di fermarsi in una posizione di rilevo che permetteva loro di vedere la piazza sottostante.
«Spero che anche questa giornata non sia un buco nell’acqua per noi», commentò Gladio, mangiando dei Cup Noodle, un piccolo lusso che si era preso vista l’assenza di veri e propri ristoranti.
«Tu continua a tenere d’occhio i bambini che fanno l’elemosina in piazza… almeno così potremo iniziare ad escludere dei sospettati», ribatté Ignis con calma.
«Lo so… ma questa situazione non mi piace», spiegò, «odio che queste persone siano disposte ad approfittarsi dei bambini per arricchirsi».
«Sono delle bestie e ci occuperemo noi di loro. Avranno quello che si meritano e i bambini verranno affidati a delle strutture specialistiche», lo rassicurò l’altro, ricevendo in risposta un mugugno.
«Spero solo di risolvere tutto in fretta. Ogni giorno passato senza trovarli è un giorno in più per quei bambini in mano a quei bastardi».
Ignis assentì serio senza però aggiungere che, probabilmente, molti di quegli orfani erano con quel gruppo già da anni e che non voleva immaginare che razza di vita avevano vissuto fino a quel momento.
Sospirò infatti e si dedicò a sua volta al suo pranzo - sempre dei Cup Noodle -, lasciando che Gladio continuasse a parlare e a riempire quel silenzio. Aveva ormai smesso di descrivergli la città non per pigrizia ma perché a quel punto Ignis si sentiva già a suo agio nello spostarsi per quelle strade.
Avevano infatti messo in conto che, in assenza di risultati, avrebbero iniziato a lavorare separati per coprire più lati della città e per Ignis era stato importante avere un’infarinatura generale delle vie e di ciò che era cambiato dalla sua ultima visita.
Solo d’un tratto Gladio sembrò bloccarsi e Ignis, irrigidendosi, attese che l’altro riprendesse a parlare, dandogli delle spiegazioni.
«Nella bancarella che vende gli spiedini», mormorò dopo qualche attimo l’uomo, «ho appena visto il bambino di ieri».
«Sei sicuro?», domandò Ignis, sorpreso e anche un po’ speranzoso.
«Ne sono certo», rispose tenendolo sempre d’occhio il bambino che, a pochi metri da loro, aveva appena rubato degli spiedini dal retro della bancarella, approfittando della distrazione del proprietario.
Rimase un po’ spiazzato nel vedere quella scena perché al posto di puntare alla cassa aveva invece preferito impadronirsi di pochi spiedini. Il bambino era abile e se ne era già reso conto il giorno prima visto che era riuscito a prendere il borsellino di Ignis, e avrebbe potuto rubare manciate di guil senza difficoltà… e il fatto che avesse scelto invece di prendere del cibo la diceva lunga sulla sua condizione.
«Che cosa sta succedendo?», gli chiese Ignis, nervoso per quell’improvviso silenzio.
«Ha… solo rubato da mangiare…», spiegò Gladio, alzandosi per poter seguire il bambino che, con la refurtiva nascosta in una borsa, si stava allontanando lentamente per non destare troppo sospetti.
Quell’affermazione sembrò suscitare in Ignis gli stessi dubbi che si erano risvegliati in Gladio, ma vista la situazione preferirono stare in silenzio per stare dietro il bambino.
Lo seguirono fino all’imbocco di un vicolo e Gladio, nell’affacciarsi, lo vide seduto per terra intento a mangiare uno degli spiedini.
«È qui», sussurrò piano a Ignis, «sta mangiando».
L’altro annuì.
«Questo è un vicolo cieco… uscirà da qui sicuramente», ricordò Ignis, muovendo poi il capo a destra e sinistra come per trovare nella sua memoria un qualcosa di utile, «ci serve un luogo dove osservarlo e poterlo seguire».
«Sulla nostra destra ci sono delle panche in marmo», commentò Gladio e, stando attenti, si spostarono per raggiungerle. Pronti ad attendere che quel bambino lasciasse il suo nascondiglio.
«Se ha rubato da mangiare… è possibile che sia malnutrito», mormorò Ignis.
«È più che possibile», assentì Gladio, stringendo i denti, alimentando ulteriormente il suo bisogno di aiutare quei bambini, «dici che non è sicuro fermarlo e cercare di parlarci?»
«Se ha a che fare con degli adulti temo di no. Potrebbe vederci come minacce e non come persone degne di fiducia».
«Hai ragione», sospirò l’altro.
«Gladio…», cercò la sua mano, stringendola, «rilassati, abbiamo una missione e per quanto sia moralmente complicato accettare la situazione dobbiamo mantenere il controllo».
Cercò di rassicurarlo in quel modo, tentando con le sue stesse parole di trovare il coraggio e la forza di rimanere fedele a quella linea di comportamento che doveva assolutamente mantenere. Perché era certo che sarebbe bastato un solo errore… e per quei bambini sarebbe stata la fine.
Magnus assaporò con sollievo il sapore della carne degli spiedini che era riuscito a rubare. Il suo corpo era ancora provato da ciò che era accaduto la sera prima, tra le urla disperate di Titia e i morsi della fame, e riuscire finalmente a mettere in corpo un qualcosa di così sostanzioso lo rincuorava un poco.
Aveva già derubato alcune persone ma niente di ricco e prezioso come il borsellino del giorno prima. Sapeva benissimo che non avrebbe mai avuto la stessa fortuna e alla fine, per non nutrire più alcuna speranza né aggrapparsi al ricordo della giornata appena trascorsa, aveva lasciato le fotografie nella cassetta delle lettere del Primo Ministro come aveva pensato di fare il giorno prima.
Sospirò e stringe ancora a sé la borsa, decidendo poi di conservare metà di uno spiedino per il suo rientro alla casa, conscio di non doversi aspettare un trattamento diverso da quello della sera prima… ma quanto meno, si disse, non avrebbe dato a Marcus e agli altri l’opportunità di punirlo pesantemente come era successo altre volte.
Tremò al pensiero. Ricordava chiaramente le volte in cui lo mandavano a dormire senza neanche l’opportunità di avere gli avanti e, soprattutto, ricordava quelle notti ancora più terribili quando Marcus lo affidava a Gaius per punirlo.
Erano rare perché, forse per fortuna, a Gaius lui non stava simpatico al contrario delle bambine più piccole, ma quando succedeva si ricordava il perché gli adulti non erano persone brave e perché non dovessero mai toccare i bambini. Perché faceva male quando li toccavano e non era giusto.
Scosse la testa per allontanare quel pensiero, e rialzandosi lasciò il vicolo per andare alla ricerca di altre persone da derubare. Trascorse in quel modo le ore precedenti al suo rientro alla casa e, per evitare di arrivare in ritardo, decise di prendere la strada di rientro con un po’ di anticipo… perché non voleva arrivare per primo ma neanche per ultimo.
Mangiò il restante spiedino e solo in quel momento sentì lo stomaco chiudersi nel sentire una strana sensazione. Qualcuno lo stava seguendo, gli venne spontaneo pensare, e quando si infilò in uno dei vicoletti secondari che l’avrebbero portato a casa, gli venne spontaneo aumentare il passo con il cuore in gola, cercando al tempo stesso di ragionare in fretta.
Aveva ancora un ampio margine di rientro e di certo, se qualcuno lo stava seguendo, non poteva portarlo a casa. Marcus si sarebbe arrabbiato, e Magnus non voleva essere punito né venire cacciato… perché non aveva nessun altro posto dove nascondersi e ripararsi: soprattutto la notte, con i Daemon in libertà.
Cambiò quindi strada e si infilò veloce in vari vicoli, sperando di confondere chi lo aveva preso di mira, ma quella sensazione non si dissipò, anzi: sembrò quasi aumentare a tal punto che Magnus si chiese se fosse o meno una sua impressione.
Forse era solamente una sua stupida paura visto quello che era successo con Titia, ma non poteva esserne sicuro e, chiudendo gli occhi, entrò in un altro vicolo, schiacciandosi contro il muro e trattenendo il respiro in attesa che il suo cuore la smettesse di battere così forte.
Sentì di passi, e tappandosi la bocca con entrambe le mani sperò di non venire scoperto e di non fare troppo rumore. Solo a quel punto i passi si arrestarono, attese in silenzio per qualche momento poi, allontanandosi dal muro si azzardò ad uscire dal vicolo… comprendendo però di aver fatto un grosso sbaglio.
Perché lì, a pochi passi da lui, palesemente sorpresi, c’erano l’uomo cieco e la montagna di muscoli che aveva derubato il giorno prima.
Gli venne spontaneo iniziare a correre ma a causa dell’agitazione riuscì solo a cadere per terra, inciampando quasi sui suoi stessi piedi.
“È finita” , si disse tremando, con gli occhi già carichi di lacrime. Non sapeva che cosa sarebbe successo da lì a poco e poteva pensare solo a cose brutte.
«… ti sei fatto male?», la voce del tipo più grosso lo fece sussultare e si divincolò istintivamente quando si sentì tirare in piedi.
«L-lasciami subito!», strillò, conscio però che nessuno si sarebbe voltato perché erano soli e gli adulti facevano cose brutte ai bambini quando erano soli. Per quello le urla con Gaius non funzionavano mai.
«Ehi calmati! Non vogliamo farti niente!», esclamò l’uomo mentre l’altro, quello cieco, aggiungeva un: «Non volevamo spaventarti».
Ma Magnus non poteva fidarsi ed era così terrorizzato che non sapeva come comportarsi né se sarebbe stata la scelta giusta scappare.
«L-lasciatemi andare…», pigolò facendo subito un passo indietro quando le mani della montagna di muscoli si allontanarono dal suo corpo.
«Ti ho lasciato andare, vedi?»
«N-non potete seguirmi… perché lo fate? M-mi dispiace avervi derubato…», riprese Magnus, sperando in quel modo di impietosirli. Non era certo funzionasse ma doveva tentare.
«Vogliamo aiutarti», si permise di parlare l’uomo cieco, dopo un momento di esitazione come se non fosse certo di avere le parole giuste, «lasciaci spiegare… d’accordo?»
Magnus scosse il capo. Non si fidava e non poteva farlo e il cielo aveva già iniziato ad assumere i colori del tramonto, cosa che ovviamente lo fece agitare ulteriormente.
«N-no… io d-devo andare n-non posso tornare tardi!», tremava da capo a piedi e quello parve quasi stupire i due uomini, «v-vi prego… lasciatemi a-andare… n-non seguitemi… h-ho… ho lasciato le foto d-dal Primo M-Ministro… l-lo giuro…», li supplicò.
I due si scambiarono un’occhiata e poi annuirono.
«D’accordo», rispose la montagna di muscoli, «non ti seguiremo…»
Magnus non poteva essere sicuro che avrebbero mantenuto la promessa, ma in quel momento sapeva solamente di dover correre e di dover fare in fretta. Infatti, con il cuore che batteva così forte da renderlo quasi sordo, iniziò a correre lanciando solo mentre stava per svoltare un angolo un’occhiata ai due uomini, rimasti fermi. Non lo stavano seguendo, o almeno così sembrava… avevano mantenuto la loro promessa.
A Gladio e Ignis bastò vedere il bambino sparire dietro l’angolo per riprendere a seguirlo. Erano rimasti spiazzati quando erano stati scoperti ma alla fine erano riusciti a cavarsela o almeno così speravano. Lo avevano terrorizzato ed era palese e non si aspettavano di sentirlo così disperato, tant’è che Gladio non voleva neanche sapere che cosa lo stava attendendo alla base dell’organizzazione se solo avesse fatto tardi.
«Stava andando verso la zona in rovina dopo l’attacco di Leviathan di dieci anni fa. Forse è per questo che non li hanno stanati prima», commentò Ignis, usando la sua infallibile memoria.
«Sì… dobbiamo stare più attenti. Cercherò di starti dietro… tu riuscirai a seguirlo sentendone i passi?», gli chiese Gladio a quel punto e Ignis, annuendo, aumentò il passo lasciandolo solo. Avrebbe lavorato meglio in solitaria a quel punto, contattando Gladio solo quando avrebbe trovato la base dell’organizzazione.
Fu facile seguire i passi veloci del bambino anche perché, vista la zona disabitata, non vi erano altre persone che si aggiravano in quella parte della città.
Solo dopo qualche minuto, con il sole ormai scomparso dietro l’orizzonte, i passi del bambino si arrestarono e diede la sua posizione a Gladio che lo raggiunse poco dopo, descrivendo la zona e individuando con estrema facilità una casa in rovina come base dell’organizzazione. Aveva quasi tutte le finestre distrutte o rovinate e la porta non era altro se non una tavola messa di traverso.
«Avviciniamoci. Il perimetro è pulito ed è l’unica con delle luci accese», spiegò sottovoce, conducendo Ignis fin sotto una finestra illuminata, dalla quale sentono la voce di un adulto.
«Sei tornato tardi, Magnus… eppure hai visto cosa è successo ieri a Titia».
«M-mi hanno seguito… f-forse le stesse persone che hanno seguito ieri Titia… m-mi dispiace. P-prometto che non accadrà più…», sussurrò il bambino.
«Le regole sono regole e lo sai», tagliò corto una nuova voce, «credi di poter fare quel che vuoi solo perché ieri hai guadagnato tantissimo?»
«N-no…»
«Perché sei un rifiuto come tutti gli altri!», continuò la seconda voce, facendo stringere forte i pugni di Gladio. Stavano parlando con un bambino e non sopportava quel tono né quelle parole cariche d’odio.
Si azzardò ad alzarsi un poco, per lanciare un’occhiata all’interno della sala per capirne la conformazione.
Contò quattro uomini, vestiti con abiti normali e puliti, con una quindicina di bambini e bambine di varie età palesemente malnutriti e spaventati.
«M-mi dispiace…», pigolò ancora il bambino.
«Ti farai perdonare», commentò uno degli uomini rivolgendosi poi agli altri, «ricordate l’idea di ieri sera?», domandò.
«Sei sicuro di volerla fare con questo qui?», chiese un’altro, iniziando in quel modo un botta e risposta con i suoi compagni per le sorti del bambino.
Gladio strinse le labbra e si affrettò a parlare con Ignis.
«Sono quattro uomini. I bambini sono una quindicina. Possiamo stendere quei bastardi senza spargimenti di sangue… ma solo perché sono dei civili», ringhiò irritato.
«Sì, ma forse dovremo aspettare che i bambini non ci siano. Non voglio rischiare che vengano presi in ostaggio…»
«Dici di attaccare domani mattina?», chiese Gladio, «Ma stanno… parlando di punire quel bambino», che, come ben sapevano, era arrivato tardi a causa loro.
«Lo so… devo pensare a un piano migliore», ammise l’altro, accigliandosi. Non voleva neanche lui accettare che quel bambino venisse punito.
Tuttavia i loro discorsi vennero bloccati da un perentorio: «Magnus, vieni in cucina con noi», che fece sussultare il ragazzino.
«S-sì…», mormorò e, sotto lo sguardo di Gladio, seguì il gruppo spostarsi in una stanza al lato, dove venne accesa la luce.
«Sono soli con il bambino... qui accanto. Nella cucina», spiegò a Ignis, facendolo spostare verso l’altra finestra, sfortunatamente chiusa e integra, per poter ascoltare in religioso silenzio ciò che stavano per dire i quattro uomini e decidere come comportarsi.
Magnus seguì Marcus e gli altri fino alla cucina, tremava da capo a piedi e aveva paura di scoprire che cosa stava per succedergli.
«Ti sei comportato male, ma… sei sempre stato un bravo bambino», esordì Marcus, «e abbiamo deciso non di punirti… ma di affidarti un nuovo compito».
«Dovresti sentirti fiero: è una promozione», precisò Gaius, con tono malignamente compiaciuto.
Magnus, ovviamente, nel sentire la parola ‘promozione’ non poté non irrigidirsi. Perché, ogni volta che parlavano di promozioni… i bambini non tornavano più. Inizialmente aveva pensato fosse una cosa positiva, magari li portavano in un posto migliore dove potevano vivere e mangiare. Ma era una bugia, perché una volta Magnus, aveva sentito cosa succedeva ai bambini promossi e non voleva essere venduto. Non voleva finire da persone come Gaius.
«N-non posso… continuare a rubare?», chiese con tono basso e supplichevole.
«No», rispose Marcus, «Farai l'elemosina. I bambini che elemosinano guadagnano di più... soprattutto se hanno... qualche disabilità. Tipo essere ciechi», spiegò mozzando il fiato di Magnus.
«M-ma sono bravo!», cercò di difendersi, sperando di poter far loro cambiare idea.
«Lo sei e per questo sappiamo farai un buon lavoro», aggiunse Petrus, l’ultimo uomo del gruppo, spostandosi alle sue spalle per fermarlo.
«N-no! Ti prego, Marcus! N-non succederà più!», si divincolò subito Magnus, cercando di scappare e di liberarsi.
«Tienilo fermo Petrus», lo ignorò Marcus, prendendo un cucchiaino e riscaldandolo sulla fiamma di un accendino, «Gaius, apri la finestra. Penso che puzzerà parecchio», aggiunse ridendo.
«Dici?», ironizzò l’altro uomo, spalancando la finestra, mentre Thycho e Petrus facevano distendere Magnus sul tavolo.
Il bambino continuò a scalciare e Thycho, ridendo, lo afferrò per il collo.
«Non muoverti, o Marcus rischia di bruciarti qualcos’altro», sibilò divertito.
Magnus si paralizzò per quella minaccia, continuando però a mormorare delle suppliche bassissime, osservando terrorizzato il cucchiaio rosso abbassarsi verso di lui.
Gli bastò sentire il calore vicino all’occhio per voltare il capo di scatto per tentare di fuggire ma quel suo movimento non impedì a Marcus di colpirlo sulla guancia.
Sono le urla del bambino che fanno scattare Ignis e Gladio. Non hanno sentito granché a causa delle finestre chiuse fino a qualche momento prima ma a entrambi basta quello per capire di non poter aspettare oltre.
Saltano entrambi dentro la cucina mentre il bambino, bloccato su un tavolo, viene colpito ancora una volta con un cucchiaio ardente, ma sopra un occhio, strappandogli un altro urlo disperato di dolore.
Ignis sente l’odore di carne bruciata investirgli le narici e il pianto disperato e del bambino non può non debilitarlo, accendendo in lui un’ira tale da animare il suo corpo. Il gruppo di malavitosi era ancora troppo sorpreso dalla loro comparsa per poterli fermare e, in men che non si dica, vennero investiti dalla rabbia e dalla foga dei due.
Li stesero facilmente e mentre Gladio si assicurava di legarli con le prime cose che trovò a portata di mano, Ignis corse subito a soccorrere il piccolo che, tremando, si era messo in posizione fetale. Piangeva e urlava ancora e Ignis non era certo di come soccorrerlo. Certe ferite, come quelle, non potevano essere risolte con l’utilizzo di pozioni ed elisir. Avevano bisogno di un medico e di far arrivare lì le guardie del Primo Ministro e i soccorsi.
«Iggy… questi bastardi sono fuori gioco», lo avvisò con tono incerto Gladio.
«Chiama il Primo Ministro», ordinò subito Ignis e l’altro, ubbidendo senza ribattere, prese il cellulare, chiamando subito la donna per metterla subito in azione mentre il suo compagno cercava, di rassicurare il bambino anche se, ovviamente, sapeva che sarebbe stato inutile.
«Tranquillo…», gli sussurrò infatti, accarezzandogli la testa, «adesso ti porteremo fuori di qui. Non dovrai avere più a che fare con queste persone».
Magnus sentì quella voce, così diversa da quella degli altri e la trovò stranamente rassicurante e calma, ma la paura era troppo e faceva così male, piangendo e lamentandosi, arrivò a perdere i sensi senza neanche rendersene conto.
«I soccorsi stanno arrivando», dichiarò Gladio, «e… dobbiamo… parlare con gli altri bambini… devono aver sentito tutto…»
Ignis annuì tenendo in braccio Magnus, incapace di lasciarlo. Si sentiva in colpa, perché se non lo avessero fatto tardare non lo avrebbero punito in quel modo e se… se avessero sentito meglio le parole e le minacce che gli avevano fatto lì in quella cucina lo avrebbero sicuramente potuto salvare.
Lasciarono la stanza e subito vennero accolti dagli sguardi terrorizzati e confusi dei bambini.
«Va tutto bene. Ora siete liberi», dichiarò Gladio, cercando di mantenere un tono calmo e rassicurante.
«Ora è tutto finito», aggiunse Ignis, «non sappiamo cosa vi abbiano detto quelle persone, ma non è vero niente… voi non siete dei rifiuti e non siete soli. Ci sarà un posto per tutti voi e non sarete più costretti a vivere in questo modo».
Ovviamente i bambini non sembrarono convinti e molti scoppiarono a piangere terroririzzati, chiamando i loro carcerieri come se fossero gli unici a poterli salvare… cosa che fece stringere il cuore di Ignis e Gladio.
Tentarono di calmarli senza però riuscirci e le cose sembrarono quasi degenerare quando il Primo Ministro giunse con i soccorsi e delle guardie.
La donna chiese subito di venire aggiornata e, quando vide il bambino tra le braccia di Ignis, ordinò ai medici di portarlo subito in ospedale con un codice rosso. Avrebbero parlato in seguito, quello era chiaro, in quel momento la priorità era curare Magnus e aiutare quei bambini. Ignis affidò quasi controvoglia il piccolo ai medici seguendoli poi dandosi appuntamento all’ospedale con Gladio.
Gladio riuscì a raggiungere Ignis in ospedale solo dopo tre quarti d’ora di discussione con il Primo Ministro e quando raggiunse il suo compagno lo trovò seduto nella sala d’attesa, immobile come una statua. Lo affiancò e gli prese subito le mani.
«Ignis… come stai? Il bambino?»
L’uomo sospirò.
«Pare che non potranno salvargli l’occhio…», rispose solamente, mostrando chiaramente il senso di colpa che Gladio condivideva con lui, «tu? Il Primo Ministro?»
«Le guardie hanno preso quei quattro e li interrogheranno presto. I bambini sono stati portati in un centro per delle visite… e il Primo Ministro ci ringrazia…»
«Quindi… il nostro lavoro è… finito?», domandò Ignis, incerto. Era raro per lui sentirsi così impotente, ma non riuscendo a vedere, aveva tutti gli altri sensi estremamente sviluppati e per lui era stato impossibile non sentire come uno schiaffo le urla e l’odore di carne bruciata.
«Teoricamente sì…»
«Teoricamente?», ripeté Ignis e Gladio annuì.
«Quel bambino… è solo. E avrà bisogno di qualcuno per quando si sveglia…», spiegò, mostrandosi a sua volta incerto e nervoso.
«Già…», assentì l’altro, «e anche dopo... sarà traumatizzato…»
«E anche se… non è una cosa totalmente positiva, almeno conosce la nostra faccia», stava proponendo una cosa complicata e non poteva non sentirsi in colpa.
«Ha bisogno di noi», dichiarò Ignis.
«Sì…», sospirò Gladio, prendendo posto accanto al suo compagno ed attendendo che i medici portassero loro delle novità. Attesero almeno un’altra mezz’ora e quando il medico li raggiunse confermò loro la perdita dell’occhio del bambino.
«Escludo infezioni», aggiunse il Dottore, «e per il momento ha solo bisogno di riposo e di mangiare».
«Possiamo vederlo?», domandò Gladio.
«Immagino non abbia nessun familiare…», commentò l’altro uomo, «siete stati voi a salvarlo?»
«Sì…», annuì Ignis.
«Potete entrare, ma non ha ancora ripreso i sensi».
«Aspetteremo», tagliò subito corto Gladio, permettendo poi al Dottore di condurli verso la stanza dove avevano messo il bambino che, con una benda nell’occhio, sembrava ancor più piccolo in quel letto.
Rimasero soli con lui e Ignis, lasciandosi guidare dal suo compagno, andò a sedersi accanto al letto. Lì si concesse un sospiro. «Com'è?», domandò cercando in Gladio una qualche descrizione.
«Magro… molto magro», rispose l’altro.
«… posso immaginare…», strinse le labbra Ignis, permettendo poi al suo compagno di continuare a parlare.
«Ha una benda sull’occhio, ovviamente… e dorme», concluse.
«Stavano parlando di punizione… credi che sia questa?»
Gladio sospirò, sedendosi a sua volta su una delle sedie.
«Abbiamo sentito poco a causa della finestra chiusa… e non oso neanche immaginare cosa sia passato per le teste di quei bastardi…», ringhiò, stringendo forte i pugni.
Erano entrambi scossi, spaventati da ciò che era appena accaduto perché, per quanto avessero avuto una vita piena e spesso drammatica, non avevano mai affrontato niente di così terribile. Quegli uomini erano peggio dei daemon, solo dei mostri potevano fare delle cose simili a dei bambini innocenti.
Attesero li ore, in silenzio, a pensare i modi più terribili per uccidere e far soffrire quegli uomini e quando finalmente Magnus iniziò a svegliarsi entrambi si fecero tesi.
Il bambino si mosse lentamente, si sentiva pesante e leggero al tempo stesso, confuso… cercò di aprire gli occhi ma riuscì solamente ad aprirne uno che puntò un bianco soffitto.
Si chiese, ancora troppo sconvolto, se era morto. Se aveva incontrato la fine della sua vita e non se ne era neanche reso conto.
«Ehi… ragazzino…», lo richiamò una voce familiare e sconosciuta al tempo stesso, che lo fece sussultare e voltare. Riconobbe subito i visi di quei due uomini, quello cieco e la montagna di muscoli e, istintivamente tentò di allontanarsi.
«Rilassati… sei in ospedale. Hanno cercato di curarti l'occhio…», spiegò l’uomo cieco, costringendo Magnus a toccarsi l’occhio che non riesce ad aprire, scoprendo solo in quel momento di avere un qualcosa sopra.
«C-che cosa… significa?», balbettò.
«Non toccarlo, sei appena stato operato…», riprese l’uomo muscoloso, senza però sapere come dirgli che aveva perso la vista da quell’occhio, tutto ciò che poteva fare era cercare di rassicurarlo in altri modi, «se sei qui è perché ti abbiamo portato via da quel luogo. E quegli uomini non ti toccheranno più, né a te né altri bambini».
«Li abbiamo fatti arrestare», aggiunse l’altro e Magnus abbassando la mano li guardò senza sapere cosa dire.
Era spaventato. Come poteva credere a quello che stavano dicendo? Erano degli sconosciuti e le persone adulte erano crudeli e lentamente stava anche ricordando cosa gli era successo. Ricordava tutto e non poteva fidarsi di loro.
Iniziò infatti ad ansimare, con il cuore che gli batteva fortissimo.
«Respira con me», si mise subito davanti l’uomo cieco, iniziando a respirare lentamente e Magnus, forse rassicurato da quella voce ferma ma gentile, tentò di assecondarlo. Anche perché, tra i ricordi dolorosi che stavano tornando a galla, iniziò anche a ricordare un’altra cosa: la voce proprio di quegli uomini.
«Perché…?», domandò incerto a quel punto.
«Perché non era giusto ciò che vi stavano facendo e ora… siete tutti liberi».
«N-non… h-ho un posto dove… s-stare… q-quella era la mia unica casa…», balbettò, cercando di mantenere la calma per paura di far arrabbiare quegli uomini, anche se sembravano stranamente gentili. Ma anche Thycho lo era, ed era il peggiore…
«Quella non era una casa», riprese l’uomo con i muscoli, mostrandosi particolarmente irritato.
«Gladio», lo riprese prontamente l’uomo cieco con tono fermo, come per riproverarlo per il nervosismo appena mostrato, «Come ha detto il mio compagno, quella non era una casa… e qualsiasi cosa ti abbiano detto quelle persone, per tutti voi, per te e per i tuoi amici, ci sarà un posto in cui stare al sicuro, senza dover elemosinare o rubare».
Magnus rimase in silenzio, ascoltando quelle parole che sembravano così sincere e buone da spingerlo quasi a crederci. Non si fidava, non poteva…
«Inoltre, non ci siamo ancora presentati anche se ci siamo già incontrati altre volte», continuò sempre quell’uomo, «Il mio nome è Ignis Scientia».
«Io sono Gladiolus Amicitia, ma puoi chiamarmi Gladio», aggiunse l’altro, con tono un po’ più calmo.
Magnus li guardò ancora più confuso. Continuavano ad essere amichevoli e non capiva il perché lo stessero facendo. Volevano conquistare la sua fiducia?
«Tu invece? Come ti chiami?», gli chiese Ignis e Magnus, stringendo le mani sulle lenzuola, esitò nel rispondere. Incerto sul da farsi.
«Magnus…», riuscì a pigolare dopo un po’ e sia Ignis che Gladio gli rivolsero un piccolo sorriso.
«Bene, Magnus. Cerca solo di riposare, ora. Forse possiamo chiedere al medico di portare da mangiare… avrai sicuramente fame», proseguì Ignis, alzandosi dalla sua posizione, seguito prontamente dallo sguardo incredulo di Magnus.
«... d-davvero?», domandò. Al solo sentire che avrebbe mangiato aveva sentito lo stomaco contorcersi.
«Certo, che domande! Non farai più la fame!», esclamò Gladio, facendo sussultare il bambino e guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Ignis.
«Gladio cerca di parlare con più calma», lo riprese infatti, rivolgendosi poi ancora una volta verso Magnus, «ti giuro che qualsiasi cosa sentirai uscire dalle nostre bocche corrisponderà solo alla verità. Ogni nostra promessa verrà sempre mantenuta. So che per te sarà difficile fidarti, ma… non vogliamo farti del male, vogliamo solo il tuo bene».
Magnus deglutì, annuendo incerto, seguendolo poi con lo sguardo mentre, dopo aver fatto un cenno a Gladio, si allontanò sicuro dalla stanza. Si muoveva elegante, come se non avesse nessun problema di vista, tant’è che Magnus si chiese se avesse sempre fatto bene a definirlo cieco. Ma lo aveva sempre visto con gli occhi chiusi da sotto gli occhiali e aveva anche visto Gladio guidarlo per camminare…
Quello però sollevò in lui altre domande. Tipo il destino del suo occhio. Marcus… lo aveva colpito. Ricordava ancora il dolore e… non poté non tremare per la paura.
Si guardò attorno, guardando poi Gladio, rimasto fermo sulla sua sedia.
«Hai… delle domande?», gli chiese l’uomo, notando il suo sguardo, ma il bambino scosse il capo anche se, ovviamente, era una bugia.
Attese in silenzio, aspettando di vedere quella situazione tanto strana evolversi, e quando Ignis tornò non poté non guardarlo sospettoso.
«Tra poco porteranno da mangiare», dichiarò tranquillo e Magnus, per quell’annuncio e nel ricordarsi ciò che quell’uomo gli aveva detto poco prima non poté non aprire la bocca senza però lasciar uscire nessun suono. Era vero? Lo avrebbero fatto mangiare per davvero?
«Hai fame?», gli chiese Gladio e lui, abbassando il capo, annuì.
«Tra poco mangerai», lo rassicurò Ignis e Magnus trattenne il respiro.
Gli sembrava davvero troppo bello e, quasi senza accorgersene, si lasciò sfuggire una sola domanda.
«... i-il mio occhio?»
Si pentì quasi subito di aver parlato quando i due uomini si guardarono colpevoli.
«Mi dispiace», mormorò Gladio.
«Siamo arrivati tardi», aggiunse Ignis, «e i dottori hanno fatto il possibile per salvarlo…»
Magnus annuì in silenzio poi, come per timore di lasciarsi vedere, si nascose sotto le lenzuola, mordendosi la mano per non far sentire il suo pianto. Agli adulti non piaceva sentire i bambini piangere e lui doveva sempre trattenersi o farlo di nascosto.
Tuttavia quei due non dissero niente e lo lasciarono a sfogarsi senza rimproverarlo, richiamandolo solo dopo qualche minuto con un: «Magnus... vuoi mangiare?», che lo fece sussultare.
Rimase immobile senza rispondere, incerto se uscire o meno dal suo rifugio improvvisato.
«Prenditi il tuo tempo», lo rassicurò Ignis, «qui nessuno ti costringerà a fare nulla», e solo in quel momento Magnus scostò le lenzuola, come per assicurarsi che ci fosse per davvero da mangiare e, effettivamente, vide un vassoio con una ciotola piena di un liquido fumante, del pane e una mela.
Deglutì sentendo la pancia gorgogliare, guardando poi i visi dei due uomini incerto, soprattutto quando Gladio gli mise il vassoio vicino.
«... è per me... davvero?», chiese.
«Sì, tutto per te», rispose Gladio, accennando un piccolo sorriso e Magnus, sempre guardandoli sospettoso, iniziò a mangiare tenendoli d’occhio. Si bloccò quasi subito perché non aveva mai mangiato niente di così buono e, per timore che gli venisse portato via, iniziò subito a mangiare più velocemente.
Sentiva di nuovo la voglia di piangere ma si trattenne, bevendo addirittura dalla ciotola la zuppa e staccando a morsi il pane.
I due lo lasciarono mangiare senza dire niente, anzi, Ignis si offrì addirittura di pulirgli la mela e Magnus, sorpreso non poté non annuire ed osservare la maestria di quell’uomo mentre puliva e tagliava quel frutto prima di consegnarglielo.
Forse era tutto un sogno e lui era morto per davvero, perché non credeva possibile di potersi trovare lì, con quelle persone così gentili.
Finì di mangiare anche la mela e quando il piatto fu finalmente pulito, Gladio riprese la parola.
«Come ti sentì?»
«P-pieno…», ammise.
«E vuoi qualcos'altro?», chiese Ignis e Magnus scosse ancora la testa e, come se l’uomo avesse intuito, continuò con un: «Allora se lo vuoi, puoi riposare».
Magnus però si irrigidì.
«Non voglio…», mormorò perché se lui non era morto, e quello era un sogno… non voleva che finisse. Non voleva svegliarsi e ritrovarsi di nuovo in quella casa, non dopo aver visto una cosa così bella.
«Sarai stanco…», sussurrò Ignis, ma il bambino esitò.
«Ti prometto che quando ti risveglierai, sarai sempre qui e ci saremo anche noi», riprese Gladio «non preoccuparti».
Magnus lo guardò, incredulo e sospettoso… incapace però di nascondere un pizzico di speranza.
«... davvero?», gli chiese i due assentirono prontamente, senza esitare. Senza mostrare indecisioni ma solo sincerità.
«M-mi... sveglio qui?», chiese ancora per confermare.
«Sí, sarai ancora qui», assentì Ignis.
«E anche noi saremo qui», aggiunse Gladio e Magnus, quasi più tranquillo, non poté non distendersi di nuovo sul letto, osservando i due senza però dormire.
Non si muovevano erano sempre lì. Tranquilli e calmi, rassicuranti.
Solo qualche minuto dopo, Gladio, riprese la parola.
«Immagino tu non voglia dormire…», mormorò diretto a Ignis, «vuoi del caffé?»
«Immagini bene», assentì l’altro, «ti ringrazio».
«Torno subito allora», commentò Gladio, baciandogli rapidamente la fronte prima di uscire dalla stanza, lasciando Magnus solo con Ignis.
Lo osservò sentendosi realmente un po’ stanco e, solo per curiosità, alzò la mano per sventolarla e capire se quel tipo era davvero cieco.
«Hai bisogno di qualcosa?», gli domandò Ignis, facendolo sussultare.
«N-niente», mentì.
«C'è qualcosa che non va?», insistette l’uomo e Magnus si sentì di rispondere con un: «… sei.. un tipo strano… e anche il tuo amico…».
Ignis sembrò sorridere quasi triste.
«Lo dici perché ti abbiamo aiutato?», gli chiese e Magnus si accigliò un poco.
«Gli adulti sono… cattivi», ammise.
«Gli adulti non sono tutti uguali… ad esempio, quelle persone per cui rubavi non sono brave persone», spiegò Ignis e Magnus, mordendosi le labbra, guardò altrove.
«Ma... non ci... facevano dormire per strada. E se facevamo i bravi ci davano da mangiare…», spiegò incerto.
«Magnus… quelle persone vi stavano sfruttando», spiegò Ignis.
«… ma almeno avevo un posto dove stare… ora… che cosa mi succederà?»
«Per il momento rimarrai qui», riprese l’uomo, «poi si vedrà. Devi solo pensare a riprenderti, ci occuperemo noi di te».
Quelle parole accarezzarono dolcemente Magnus, rassicurandolo e permettendogli di lasciarsi andare lentamente. La stanchezza stava avendo la meglio.
«Stai tranquillo», sussurrò Ignis, «non sarai più solo… te lo prometto. Oggi la tua vita con quelle persone è finita, puoi iniziarne una nuova».
Magnus assentì debolmente. Voleva davvero crederci e non rimanere più solo e, con quei pensieri si lasciò andare del tutto.
Solo dopo qualche minuto Gladio tornò in camera con un bicchiere di caffé nero per Ignis che, facendogli segno di fare silenzio, gli indicò il bambino.
«Credo si sia addormentato», soffiò e Gladio, mettendogli in mano il bicchiere, annuì.
«Va tutto bene?», gli chiese e Ignis, sorseggiando il caffé, inclinò un poco il capo.
«Ha paura di ciò che gli succederà da ora in poi», spiegò.
«Comprensibile», assentì, sedendosi accanto al suo compagno, «Mi sono informato anche sugli altri bambini… hanno tutti mangiato e anche se sono malnutriti sono tutti fortunatamente in salute».
Ignis parve esitare prima di riprendere a parlare.
«Ha detto che se facevano i bravi gli davano da mangiare. Magnus, intendo», svelò, e Gladio non poté non emettere un basso ringhio irritato.
«Spero che il Primo Ministro gli dia la pena maggiore a quei bastardi…», sibilò, trovando in Ignis approvazione. La pensavano entrambi allo stesso modo e avrebbero addirittura testimoniato pur di permettere alla giustizia di fare il suo corso. Volevano per davvero che tutti i membri di quell’organizzazione facessero la fine peggiore a marcire a vita in un carcere.
Rimasero in silenzio a lungo e Ignis, come previsto, non dormì granché, al contrario di Gladio che riuscì, in qualche modo a darsi almeno due ore di sonno, almeno fino a quando i primi raggi del sole non iniziarono a illuminare delicatamente la stanza, segno di una nuova giornata appena iniziata.
La prima per Magnus lontano da quel luogo, forse non sarebbero rimasti lì per vederla per tutta la sua interezza, ma erano certi che per tutti quei bambini e per Magnus quello era il finale perfetto di un quel lunghissimo incubo.
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Forse non poteva esserci luogo più adatto per un viaggio durante il periodo di san Valentino. Siamo infatti nel cuore del New England, qui nel 1620 arrivarono i primi Padri Pellegrini a infondere linfa vitale in un corpo ancora vergine. Un cuore che ha continuato a pulsare …per i successivi quattro secoli modellando non solo la storia e la cultura del Massachusetts, bensì dell’intero Paese.
Dopo essere atterrati con un volo TAP dall’Italia con stop over a Lisbona e aver passato qualche giorno nella magnifica Boston (in questo articolo qualche consiglio di viaggio), il nostro viaggio on the road nel cuore del New England comincia tra le strade innevate del Massachusetts attraverso colline, fiumi e paesaggi mozzafiato che ci fanno conoscere dapprima Salem e poi Concord.
Inverno a Boston
Newbury Street
Skyline invernale di Boston
Salem, la città delle streghe e non solo
Arrivati in città abbiamo il tempo di assaporare l’atmosfera elegante dell’Hotel Hawthorne dove siamo ospitati. Questo storico albergo é dedicato al compositore del primo romanzo della letteratura americana, “La lettera scarlatta”, il quale nacque a Salem nel 1804. É considerato uno dei più grandi narratori dell’800 così tendiamo le orecchie per farci sussurrare da lui il racconto di questa cittadina dalla storia antica.
Tra il 1692 e il 1693 Salem fu teatro di una delle maggiori ferite della storia statunitense, i “witch trials”, che portarono alla morte di 20 presunti colpevoli di stregoneria nel contesto di una psicosi di massa e di una atmosfera cupa che é possibile rivivere visitando il Salem Witch Museum. Per fortuna quella non fu che una parentesi, oggi le uniche streghe sono dolci bambine che invadono la città ad ottobre durante la festa di Halloween probabilmente più affascinante di tutti gli Stati Uniti.
Il Museo delle Streghe
Monumento alle Streghe di Salem
L’entrata del Museo
Nave Storica nel porto di Salem
Ma Salem non offre solo streghe, brividi e feste di Halloween; é una cittadina dall’animo marittimo che offre piacevoli e interessanti passeggiate all’aria aperta assaporando atmosfere romantiche, rilassanti e golose… Soprattutto se capitate qui come noi durante il Salem’s So Sweet Chocolate and Ice Festival, nominato recentemente uno degli America’s best winter festivals. La città si cosparge letteralmente di cioccolato, che assaggiamo a volontà mentre ammiriamo le 25 statue di ghiaccio che vengono create ad hoc per il festival è disposte ovunque nel downtown Salem.
Sazi e inebriati da tanti sapori e rumori ci concediamo un momento di silenzio e meditazione, ammirando l’invidiabile collezione d’arte del Peabody Essex Museum che oltre a opere del New England e dell’arte occidentale mette in mostra un’anima intercontinentale facendoci volare oltreoceano dritti nella antica dimora cinese Yin Yu Tang, della famiglia Huang. Recentemente acquisita dal museo, questa affascinante casa di oltre 200 anni, offre un imprevisto parallelo fra la cultura rurale Cinese e quella americana.
Quando pensiamo che le sorprese siano finite, il museo ci spiazza con una special exhibit sulle scarpe con oltre 300 paia di calzature da tutto il mondo. Il titolo é Shoes: pleasure and pain, che dire, forse sanno che uno dei talloni d’Achille di noi blogger é proprio il dolore ai piedi per gli infiniti chilometri percorsi.
L’atrio principale del Peabody Essex Museum
Shoes: pleasure and pain
La dimora cinese di Yin Yu Tang
Una scarpa particolare dell’esposizione
Arte marittima
Ai primi del XIX secolo Salem era la città con il più alto reddito pro capite degli Stati Uniti, ciò grazie all’importanza del suo porto dove attraccavano le navi di ritorno da Cina e India, portando in patria la molassa per il rum e il black gold, il pepe nero di Sumatra. Questo fulgido periodo della storia di Salem é riflesso nell’Hotel The Merchant, la casa di uno dei suoi più rappresentativi mercanti – Joshua Ward – che sul finire del ‘700 ospitò il nuovo presidente George Washington. Abbiamo l’occasione di visitare questa meravigliosa struttura e ammirarne la ricercata architettura e i suoi interni variopinti e rimodernati, ma pursempre mantenendo stile e identità ben precisi.
Dopo una passeggiata nel centro città e attraverso una delle sue vie più eleganti – Washington Street -siamo di ritorno all’Hotel Hawthorne, dove sediamo per un meritato tè caldo proprio sotto un bellissimo ritratto del nostro narratore. Guardandolo negli occhi, sembra volerci dire: “Ragazzi, ora é tempo per voi di raccontare la mia amata Salem”.
Salone principale dell’Hotel Merchant
Washington Street @SALEM
L’interno dell’ Hotel Merchant
Ritratto di Nathaniel Hawthorne
Concord, dove la letteratura é di casa
Un breve trasferimento ci porta da Salem direttamente al centro storico della cittadina di Concord, centro di vitale importanza per la letteratura americana.
Intere generazioni di ragazze americane e non solo, sono cresciute leggendo e appassionandosi alle travagliate vicende di Amy, Jo, Meg e Beth, le Piccole Donne del libro di Louisa May Alcott. Ognuna di loro si sarà immaginata seduta insieme a loro, la vigilia di Natale, nel salotto di una casa di legno immersa nel verde dei boschi limitrofi di Concord. La scrittrice ambienta la storia proprio nella casa in cui è cresciuta e oggi ci é possibile “camminare” all’interno del romanzo visitando the Orchard House che propone fedelmente gli ambienti originali.
Indicazioni: Home of Little Women
Un tavolo nella casa di Louisa
Il libro “Piccole Donne”
The Orchard House
Agli inizi dell’800 proprio nel Massachussets nasce una nuova corrente di pensiero e letteraria, il trascendentalismo, quale vigorosa affermazione dell’originalità della cultura americana su quella europea per stabilire un rapporto più profondo e originale con il “nuovo mondo” attraverso la ricerca di un ritorno alla semplicità e alla natura vista nei suoi aspetti migliori e benefici per l’uomo.
Nato dagli incontri di un piccolo gruppo di amici, si rivelò una delle forze più potenti nella letteratura e nella politica d’America, una forza rigenerante nel pensiero americano. E non c’è forse posto più rappresentativo di questo movimento della Old Manse, casa in stile Georgiano, autentico crocevia politico e letterario. Raggiungiamo questa dimora storica nel primo pomeriggio e rimaniamo affascinati dalla bellezza della “vecchia mansione” come la chiamò Il poeta e filosofo padre del Trascendentalismo, Ralph Emerson quando la costruì nel 1770. Circondata da una ricca vegetazione, trasuda storia. Passeggiando sui suoi pavimenti scricchiolanti ci sembra si sentire ancora le lunghe chiacchierate politiche e letterarie dei più grandi scrittori statunitensi del XIX secolo: Emerson, Alcott, Fuller, Hawthorne, Thoreau…
Quest’ultimo fu colui che maggiormente ricercò il recupero di una innocenza originaria nella natura. Henry David Thoreau pubblicò per la prima volta “Walden, ovvero La vita nei boschi”, nel lontano 1854, più di un secolo e mezzo fa. Il libro è dedicato al racconto di un’esperienza che l’autore visse nel 1845 quando, quasi trentenne, andò a vivere in una piccola casa da lui stesso costruita sulle rive del lago Walden, vicino alla città di Concord.
Partiamo nel primo pomeriggio, lasciando la città per entrare nel parco statale di Walden Woods, certamente diverso dal luogo selvaggio esplorato dal grande scrittore ma dove tutt’oggi si può visitare la replica della capanna costruita da Thoreau con le proprie mani e avvicinarsi allo stato d’animo dello scrittore che ad un certo punto della sua vita sentì l’esigenza di intraprendere quell’avventura per distaccarsi dalla società in cui viveva.
Il bosco nei pressi del lago
I resti della casa di Thoreau
“ANDAI NEI BOSCHI…”
La ricostruzione della casa di Thoreau
“Andai nei boschi per vivere con saggezza, vivere con profondità e succhiare tutto il midollo della vita, per sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto.”
Così scrive Thoreau nel suo libro e mentre osserviamo il luogo dove una volta sorgeva la capanna di Walden, chiudo gli occhi e lo immagino chinato mentre lavora nell’orto e mi rendo conto di quanto sia attuale il suo messaggio che non era di una radicale e ottusa ecologia; il suo eremitaggio bensì cercava di mostrare come la civiltà potesse essere benefica se ricondotta alle sue origini strutturali, a dinamiche legate alla natura e alla vera soddisfazione dell’anima umana. Oggi infatti siamo abituati a ragionare con frenesia, egoismo e superficialità e non siamo più capaci di apprezzare le cose piccole e semplici che lo resero felice, come il lavoro nell’orto, le passeggiate nel bosco e le acque limpide di un bel lago.
Il Lago Walden in tutto il suo splendore invernale
Siamo sicuri che i vostro viaggio nel Massachusetts potrà essere ancora più profondo e spettacolare del nostro! Per ulteriori informazioni e consigli, date un occhiata al sito dell’Ufficio del Turismo per lo Stato del Massachusetts e la città di Boston – massvacation.it – che ci ha permesso di vivere “un infinità di luoghi per calibrare lo spirito” e condividerli con voi!
©copyrights foto Denis Strickner e massvacation.it
Il mio viaggio invernale in Massachusetts con consigli su dove andare e cosa vedere Forse non poteva esserci luogo più adatto per un viaggio durante il periodo di san Valentino. Siamo infatti nel cuore del…
#Concord#Henry David Thoreau#Lago Walden#Louisa May Alcott#Massachussets#New England#Orchard House#Piccole Donne#Salem#USA#Winter in New England
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Alberto Angela, “Stanotte a Venezia”: stasera su Rai Uno
Stasera in onda su Rai 1 nuovo viaggio notturno di Alberto Angela: “Niente Venezia da cartolina raccontiamo i suoi silenzi”
Ospiti Uto Ughi, Giannini, Parmitano “per coglierne tutta l’unicità”
Uto Ughi racconta Vivaldi dalla platea del teatro La Fenice, Giancarlo Giannini vestito come Carlo Goldoni attraversa la città e la commenta, l’astronauta Luca Parmitano la osserva dall’alto, svelandola nella sua unicità e fragilità. Stanotte a Venezia - quasi una citazione di Una notte a Venezia, fiabesca ed erotica operetta di Johann Strauss - è dopo le puntate dedicate al Museo Egizio di Torino, a Firenze, al Vaticano, la nuova tappa del viaggio televisivo di Alberto Angela, in onda stasera su Rai 1 alle 21.20. L’autore l’ha presentata nella più splendida tra tutte le sedi RAI: a Palazzo Labia, nel salone affrescato da Giambattista Tiepolo.
Quale periodo storico copre la vostra ricostruzione?
“Dalla fondazione della città, mostrando dei reperti archeologici conservati a Torcello, fino al Settecento di Casanova e Goldoni”.
Che muoiono tutti e due non a Venezia, di cui è ormai iniziata la decadenza: nel Settecento finisce la millenaria storia della Serenissima Repubblica.
La contemporaneità e i suoi problemi – l’eccesso del flusso turistico, l’inquinamento della Laguna, il rischio rappresentato dalle Grandi Navi – come vengono affrontati?
“Non spetta a me affrontarli, non è il mio mestiere. Abbiamo scelto la notte perché di notte si può rintracciare il vero e misterioso significato di Venezia e ancora di più appare la sua unicità, il suo essere un bene da tutelare, un lascito senza eguali da consegnare a chi verrà dopo di noi”.
Che cosa distingue il vostro programma da una cartolina illustrata, o da un trailer promozionale di cui la città non sembra avere bisogno?
“Il linguaggio del silenzio. Gli scorci segreti. La calma notturna che passeggiando – preziosa caratteristica veneziana – ti permette di ritrovare te stesso”.
“Parsifal a Venezia” è il titolo di un romanzo, lui lo chiamava “un diario dell’anima”, del direttore d’orchestra veneziano Giuseppe Sinopoli. Anche in questo caso, un racconto tutto notturno, dominato dal piacere di perdersi nel labirinto senza uscita delle calli, dei campielli, delle fondamenta, dove Oriente e Occidente si incontrano di continuo. Dopo questa esperienza quale la sua impressione della città?
“Venezia è stata una sfida. Creare una città tra il mare e la laguna, piccola e indifesa, e farla diventare uno Stato, potente e temuto. Quali leggi la governavano, quale strategia aveva la sua classe dirigente? Il coraggio dei mercanti e degli esploratori, la nobiltà degli uomini e delle donne che l’hanno creata a fatta prosperare, la sua arte e la sua economia. Sono queste le traiettorie del nostro racconto, proposte anche con immagini spettacolari, realizzate dal personale RAI”.
Perché la scelta di far apparire Marco Polo, vecchio, al momento di fare testamento?
“E’ stato un uomo di un’audacia incredibile, spesso incompreso, anche se aveva vinto la sfida impossibile del viaggio di andata e ritorno in Cina. E’ un episodio commovente del nostro programma: lui, ormai morente, vuole lasciare degna memoria di sé”.
Venezia, città decadente o città splendente? Passato o futuro?
“Tutelare il passato per costruire il futuro. La grandezza di Venezia, credo, è stata resa possibile perché ha sempre giocato come una squadra, a vantaggio della comunità e non dei singoli”.
Fonte: La Stampa
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/05/26/92873/
Libri| Quando Ippocrate corteggia la Musa
QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA
A ROCCO DE VITIS MEDICO E UMANISTA
di Paolo Vincenti
Il 4 maggio 2017, nella Sala Chirico degli Olivetani dell’Università del Salento, è stato presentato il volume “QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA” dedicato al Dott. Rocco DE VITIS, medico e umanista, per i vent’anni della sua scomparsa. Ha coordinato il Prof. Mario Spedicato, Presidente della sezione di Lecce della Società di Storia Patria; sono intervenuti i proff. Luigi Montonato, Alessandro Laporta, Eugenio Imbriani; ha concluso la prof.ssa Maria Antonietta Bondanese.
Un titolo molto suggestivo che coniuga, in prodigiosa sintesi, i due interessi della vita di Rocco De Vitis: la medicina e la poesia, ovverosia la cura del corpo e la cura della mente.
“QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA – A ROCCO DE VITIS MEDICO E UMANISTA”, a cura di Francesco De Paola e Maria Antonietta Bondanese, segna il n.31 della collana “Quaderni de L’Idomeneo”, della Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, ed è edito da Grifo (2017).
Il volume è stato realizzato con il contributo della Banca Popolare Pugliese ed infatti, dopo la Presentazione di Mario Spedicato, troviamo una bella testimonianza di Vito Primiceri, “Semper honor, nomenque tuum, laudesque manebunt” ( versi tratti dall’Eneide), carica di umanità nei confronti del medico, celebrato nell’opera, nell’affettuoso ricordo del Presidente della BPP. Quando Ippocrate, nume tutelare della medicina, incontra Calliope, la musa della poesia, ecco che emergono dal passato e si impongono alla nostra attenzione queste figure, vagamente romantiche, come De Vitis, che coniugano la pratica medica con l’amore per i classici, retaggio della loro formazione umanistica. E infatti, come scrive il prof. Spedicato, “tutte le numerose testimonianze qui raccolte concordano nell’attestare come questi suoi interessi vitali siano da considerarsi come le due facce della stessa medaglia”.
Rocco De Vitis, “don Rocco”, come lo chiamavano tutti, era nato nel 1911 a Supersano. Aveva frequentato il Liceo “Pietro Colonna” di Galatina e poi la facoltà di Medicina a Bologna, dove si era laureato, a pieni voti, nel 1937. Esercitò per una vita la professione di medico e Ufficiale Sanitario nella piccola Supersano, sua patria dell’anima prima che luogo di residenza. Pubblicò, in prima battuta, una traduzione in versi liberi dell’ Eneide di Virgilio nel 1982, con l’aiuto di vari collaboratori che curarono il commento ai dodici libri del poema. Successivamente, anche su suggerimento di Mario Marti, che era stato un suo caro amico nella giovinezza, quando frequentavano entrambi il Liceo Colonna di Galatina, pubblicò una seconda edizione dell’opera virgiliana, nel 1987, in endecasillabi puri. Pubblicò poi nel 1988 un nuovo volume contenente altri due capolavori virgiliani: le Bucoliche e le Georgiche, con testo latino a fronte, tradotte e commentate dallo stesso autore.
Rocco de Vitis nel 1941 in veste di tenente medico sul fronte greco-albanese
L’altro suo grande amore era quello per la campagna; amava rimanere ore e ore a coltivare la terra, ad accudire i suoi animali, e a meditare sul mondo e sulla vita, nel silenzio e nella pace che offriva la collinetta di Supersano che aveva eletto a proprio rifugio, locus amoenus. Successivamente pubblicò Soste lungo il cammino, nel 1990, e Naufragio a Milano, nel 1994. Morì nel 1997 ad 86 anni.
Di lui, prima della presente opera, si sono interessati, solo per citarne alcuni, Enzo Panareo, che ha scritto la Prefazione della traduzione dell’ Eneide, Antonio Errico, Giorgio Barba, Florio Santini, Paolo Vincenti, Gino De Vitis, Direttore de “Il Nostro Giornale”, il quale, insieme a Maria Bondanese, si è speso moltissimo in questi anni per tramandare la memoria del medico umanista, ed altri.
Il libro si apre con una citazione che viene dalla letteratura latina: Homo sum, nihil humanum mihi alienum puto, tratto da una commedia di Terenzio. Il primo contributo è di Paolo Vincenti, “Il medico dalla scorza dura. Profilo bio bibliografico di Rocco De Vitis”, che riporta appunto la bibliografia degli scritti del medico umanista. Segue il contributo di Aldo de Bernart, storico e scrittore parabitano ruffanese, scomparso nel 2013, che fu molto amico del dottor De Vitis. Il contributo di de Bernart è tratto da una manifestazione tenutasi a Supersano nel 2007 in occasione del decennale della scomparsa del medico. Lo scritto di Maria Bondanese, “Il dottore: una vita, una storia che parla di noi”, è il più carico di sentimento e non potrebbe essere altrimenti essendo la Bondanese, non soltanto nuora di De Vitis, ma la più fervente ammiratrice del medico umanista, la più gelosa custode delle sue memorie. In effetti, in questi anni, se è stata tenuta viva la memoria del De Vitis, ciò si ascrive a merito della dinamica Bondanese, e a maggior gloria del dottore. Lo scritto di Maria, con il titolo “Rocco De Vitis, dottore” era già apparso in “Apulia. Rassegna trimestrale della Banca Popolare Pugliese” (Martano editrice), nel dicembre 2007, così come da “Apulia”, stesso numero, proviene anche l’accorato scritto di Aldo Bello (“Il tarlo dell’umanesimo”), che della rivista matinese era Direttore e la cui prematura scomparsa costituisce un’altra dolorosa perdita per la cultura salentina.
Bondanese ricostruisce le drammatiche tappe dell’esperienza fatta al fronte dal dottor De Vitis, rileggendo il suo diario di guerra. Questa intensa testimonianza della Seconda Guerra Mondiale, vissuta in prima persona dal protagonista, servì poi da spunto al medico per l’opera Soste lungo il cammino. Nel suo scritto Bondanese si sofferma anche sulle opere maggiori di De Vitis, le traduzioni di Eneide, Georgiche e Bucoliche, e sono anche riportate belle foto in bianco e nero con gli autografi di De Vitis, gli scenari di guerra che egli toccò nella sua esperienza di soldato, e anche dei manoscritti della traduzione dell’Eneide. Inoltre vengono da lei ricostruiti i momenti salienti dell’attività sociale e politica del medico nell’immediato secondo dopoguerra, sullo sfondo storico di quell’epoca di ricostruzione e grandi mutamenti. Alla fine del pezzo, troviamo delle foto del Dottore in occasioni pubbliche e in occasione della inaugurazione della chiesetta eretta per devozione a San Giuseppe, nel 1984, sulla Serra supersanese.
Molto significativo, anche per l’alta carica ricoperta dal suo autore, è il testo di Don Gerardo Antonazzo, originario di Supersano e Vescovo di Sora-Cassino-Aquino Pontecorvo: “Nella sapienza del cuore la vera saggezza”. Ma c’è un altro prelato che contribuisce al volume ed è Don Oronzo Cosi ( con “Una specie in via di estinzione”), non meno caro ai supersanesi, in quanto Parroco del paese. Viene poi ripubblicato un testo di Mario Marti, “Io e Il Nostro Giornale”, indirizzato alla rivista supersanese, appunto “Il Nostro Giornale” ( una delle più longeve esperienze editoriali del Salento), nel maggio del 1997. Interessante anche il contributo di Carla Addolorata Longo, “Un mirabile lascito di pensiero e di vita”, che si sofferma sulle pubblicazioni di De Vitis trovando spunto nelle tematiche da esse affrontate per occuparsi anche della nostra attualità più stringente. Matteo Greco, nel suo “Sprofondamenti metropolitani e orizzonti meridionali”, analizza in particolare l’opera “Naufragio a Milano”.
“Un’esperienza indimenticabile”, definisce lo scultore Antonio Elia la realizzazione, per conto del dottor De Vitis, di alcune opere nella Chiesa di San Giuseppe, adornata anche dalle pitture di Ezio Sanapo, sulla collina supersanese. Elia illustra le varie fasi di lavorazione fino alla perfetta conclusione del tutto. Nella seconda sezione del libro, “L’humus dell’humanitas”, troviamo alcuni contributi che legano l’omaggio a Rocco De Vitis con la conoscenza del suo territorio, Supersano e il basso Salento.
Il primo contributo è “Breve profilo socio-economico del Salento negli anni ’50” di Gianfranco Esposito; poi “La decorazione nella cripta della Madonna Coelimanna”, di Stefano Cortese e “Il Santuario della Vergine di Coelimanna in Supersano” di Stefano Tanisi; seguono “Supersano Torrepaduli Ruffano” di Vincenzo Vetruccio e “Il dialetto di Supersano” di Antonio Romano. In particolare, i contributi di Cortese e Tanisi erano apparsi, in forma sintetica, nella guida del MUBO-Museo del Bosco di Supersano, lo scrigno che contiene la memoria storica dell’antico Bosco di Belvedere, ricordato anche da Cristina Martinelli nel suo scritto “Tra documento identitario e poesia, Tu Supersano”, in cui analizza una poesia del De Vitis, tratta dal libro Soste lungo il cammino, dedicata al “Lago Sombrino”, un tempo preziosa risorsa del Bosco.
Molto interessante e documentato l’intervento di Giuseppe Caramuscio, “La memoria della Scuola come scuola della memoria: Galatina e il suo Liceo Classico”, una storia del prestigioso Liceo Colonna di Galatina frequentato da Rocco De Vitis e dal grande Mario Marti. Parimenti interessante il contributo di Alessandro Laporta, “Se è lecito al medico esser poeta (Galateo, Meninni, De Giorgi, De Vitis)”, il quale fa una carrellata di dotti ed eruditi del passato che alla medicina erano legati per interesse o professione dimostrando magistralmente come l’arte ippocratica e quella poetica, scienza e humanitas, come dicevamo all’inizio, rappresentino un forte connubio esemplato dall’amore riversato dal Nostro verso entrambe le discipline. Remigio Morelli si occupa della dolorosa esperienza della Seconda Guerra Mondiale “Un anno sul fronte greco-albanese”, che vide impegnato Rocco De Vitis, come già ricordato.
Quello di De Vitis va ad unirsi a tanti altri ritratti di salentini illustri che in questi anni la Società di Storia Patria Sezione Lecce ha tracciato nelle sue tre collane. Emerge un amore incondizionato nei confronti della piccola patria da parte di questi suoi figli devoti, non solo studiosi e specialisti delle humanae litterae, ma anche esponenti delle professioni più disparate che a vario titolo si sono confrontati con la letteratura, la poesia, il romanzo, i racconti, la memorialistica, ecc.. Questo, il caso del Nostro, che per tutta la vita ha coltivato, proprio come la sua campagna, l’amore per la letteratura latina e per Virgilio e che con l’opus magnum del “savio gentil che tutto seppe” ha intessuto un lungo dialogo. Sembra quasi di vederlo, De Vitis che, spogliatosi dei panni rustici di ritorno dalla campagna, e indossato l’abito buono, novello Machiavelli de “Le lettere familiari”, penetra “nelle antique corti delli antiqui uomini”, interrogando filosofi, storici e poeti del passato, e “da loro amorevolmente ricevuto”, gli domanda le ragioni delle loro azioni e quelli gli rispondono.
Con la terza sezione del libro, “Vergiliana”, si entra nel vivo dell’opera maggiore di De Vitis, la traduzione dell’Eneide. Questa sezione è una antologia di saggi critici a cura di latinisti che sviscerano l’opera devitisiana entrando nel merito di contenuto, stile, traduzione, metodologia, con approccio specialistico. Gli studiosi, che danno a questa sezione del libro un taglio tecnico scientifico sono: Giovanni Laudizi, con “La traduzione dell’Eneide, delle Bucoliche e delle Georgiche”; Maria Elvira Consoli, con “Dell’Eneide di Rocco De Vitis”; Paola Bray, con “ Quali doni, quali a te mai darò per tale carme?”; Antonio Errico, con “Il traduttore, il suo poema, i segreti del verso”; Maria Francesca Giordano con “Un segmento di lettura didattica sfogliando le pagine dell’Eneide”; Angela Maria Silvestre, con “La missione di Enea e la traduzione di Rocco De Vitis”; Paolo Agostino Vetrugno, con “Le traduzioni devitisiane di Virgilio tra espressività ed armonia”; Giuseppina Patrizia Morciano, con “L’epicità di Virgilio. Tradizione e traduzione nella lettura di un classico”.
La quarta sezione, “Tra storia e Letteratura”, riserva spazio a contributi di storia e conoscenza del territorio, in linea con la vocazione di questa collana editoriale. Troviamo allora Alessandra Maglie, con “Conflitti e narrazioni nella Terra del Rimorso. Tarantismo ed esperienza mitica secondo Ernesto De Martino”; Maria Antonietta Epifani, con “Maria Manca: la santa di Squinzano”; Sergio Fracasso, con “Il progetto ‘fallito’ dell’Orfanotrofio San Francesco (poi Istituto ‘Margherita di Savoia’) e il problema dell’infanzia abbandonata alle soglie del decennio francese”; Antonio Cataldi, con “ Contributo per una storia dei missionari lazzaristi italiani in Etiopia ed in Eritrea nel periodo coloniale”; Michele Mainardi, con “L’Istituto tecnico di Lecce e l’Orto Agrario”; Arcangelo Salinaro, con “Il letterato Alfredo Mori in Puglia: una caso”; Luigi Scorrano, con “ Con un vescovo di fronte alla guerra e nell’Inferno di Dante”.
Con l’Indice dei volumi pubblicati si conclude questo libro. Un’opera imponente, per qualità e mole dei contributi presenti, per la quale dobbiamo essere grati al medico umanista De Vitis.
#Paolo Vincenti#Rocco de Vitis#Supersano#Libri Di Puglia#Paesi di Terra d’Otranto#Spigolature Salentine
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trofeo world art collection 2017 Genova
TROFEO “WORLD ART COLLECTION 2017 “ La premiazione ha avuto luogo domenica 12 febbraio 2017 dalle ore 15.30 nella sala congressi NH HOTEL MARINE COLLECTION, nei pressi dell’acquario di Genova, e proprio di fronte al Galeone NEPTUNE, set del film PIRATES di Roman Polanski.(“La precisa ricostruzione storica di questo Galeone del 1600, è ora diventata una interessante attrazione culturale e turistica. Da diversi anni è ormeggiato nel Porto Antico, proprio di fronte all’ingresso del NH HOTEL MARINE COLLECTION, ed è meta di numerosi turisti italiani estranieri, amanti del genere”) Alla cerimonia di premiazione sono intervenuti i seguenti membri della commissione critica:Mariarosaria Belgiovine (Critico d’arte e Direttrice artistica ArtExpò Gallery)Jean Charles Spina (Critico internazionale e Presidente della GS Comunication –Nice) Vincenzo Chetta (Direttore Biancoscuro Art Magazine Pavia)Daniela Malabaila (Caporedattore Biancoscuro Art Magazine)Elena Cicchetti (Critico e Presidente Art in the World)Francesco Chetta (Editore Effeci Arte Collezionismo)Giorgio Bolla (scrittore e poeta)Eraldo Vinciguerra (storico d’arte)Giampaolo Curti (Estimatore d’arte)Oxana Albot (critico d’arte – Genova)La manifestazione è stata trasmessa in live streaming sulla pagina facebook di ArtExpò Gallery e la consegna dei premi è stata accompagnata dalla video proiezione delle opere premiate.Durante la Cerimonia Massimo Paracchini ha ricevuto il Trofeo “World Art Collection 2017” con diploma e motivazione critica e la sua opera premiata è stata pubblicata sul catalogo ufficiale del premio. (Nella foto viene premiato da Mariarosaria Belgiovine, critico d’arte e Direttrice artistica di Artexpò Gallery e dal Prof. Francesco Chetta , critico d’arte ed Editore di Effeci Arte e Collezionismo).Tutta l’organizzazione è stata curata da ArtExpò Gallery diretta da Mariarosaria Belgiovine.Descrizione dell’opera premiata di Massimo Paracchini Titolo dell’opera premiata: “Free Sprinkling Overflowing e Sparkling in Kromotrance alchemica a Portofino nelle interferenze iperdimensionali dell'anima”Olio su tavola 80 x 60 “Ogni immagine, ogni figura deve essere trasformata dall’artista in pura visione atemporale tramite un processo alchemico di krometamorfosi dinamica e può essere transatomizzata attraverso quella sapiente e magica aspersione di colore che è il Free Sprinkling Overflowing e Sparkling, ma viene anche proiettata nelle geometrie iperellittiche e iperdimensionali dell’Universo e trasfigurata dai moti convulsi dell’anima, che è viva e palpita di forti sensazioni e di emozioni infinite, in uno stato di Kromotrance trascendentale che proietta all’improvviso l’artista in una dimensione totalmente estatica, in uno spazio e in un tempo universali.Attraverso la geometria iperdimensionale, anche quando c'è la dimensione cosmica che irrompe nel paesaggio, ogni ricerca diventa un viaggio interiore, la spirale dall'esterno ritorna verso il centro, verso il profondo, nelle viscere dell'anima, verso un Universo misterioso, oscuro, quasi insondabile, tutto da scoprire, sprofondando negli abissi di un cratere per immergersi al centro di una terra incandescente e inesplorata”.Da “Eidetica Trascendentale dell’arte” di Massimo Paracchini https://www.ipertop.it/trofeo-world-art-collection-2017-4294006190.htm?utm_medium=tumblr
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“Il rischio è l’esigenza essenziale dell’anima”: Simone Weil, una con cui bisogna litigare
Con Simone Weil bisogna litigare – è lei a esigere che si faccia a pugni con il suo pensare. Simone Weil ha l’intransigenza degli ingenui, di chi compone un continente da un lembo di nuvola: per questo il suo pensare è tanto aperto. Fino alla castrazione, al disperare, al martirio. I catari e Trotsky, Bernanos e Marx, Spinoza e i Vangeli, la politica e la Bhagavad-gita: una furia agita la ragazza dai capelli corti e gli occhi allucinati, dalle labbra regali, che vuole gambizzare i titani.
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Più che un pensare, un addestramento. La tensione alla purezza, più che altro, è l’estremità sulla grondaia di un appurare, del depurare, di darsi appuntamento al duello. Già: Simone Weil è una pensatrice che dorme sul tetto, perché sia audace il risveglio, e non teme di maneggiare la vanga. “Tu vivi in sogno. Tu attendi di vivere… si tratta di crearsi un’abitudine. Addestramento”, appunta nei suoi quaderni. E poi: “Sorvegliare ininterrottamente ciò che si fa senza lasciarvisi assorbire… Tu devi essere un essere completo”. Il suo: un pensare perennemente in crescita.
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Morta a Londra nel 1943, a 34 anni; “nel ’49 Albert Camus inizia col pubblicare nella collana ‘Espoir’, da lui diretta presso le Edizioni Gallimard, l’unico tra i saggi dell’ultimo periodo a presentarsi in forma sufficientemente organica malgrado l’incompiutezza, L’enracinement, compendio di una dottrina sociale maturata nel periodo londinese sotto l’urgenza di fornire criteri etici, istituzionali e politici per la ricostruzione dell’Europa” (Giancarlo Gaeta). Il libro è pubblicato in Italia dal 1954, tradotto da Franco Fortini come La prima radice per le Edizioni di Comunità. Nella collana, sorta nell’emergenza pandemica, ‘Tracts de Crise’, Gallimard regala un estratto da quel libro, che traduco qui sotto.
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L’ansia di dare criteri, di scritturare una morale – con uno stile al contempo didascalico e tellurico, da scriteriata – una Robespierre capovolta.
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Nell’epoca sradicata, il radicamento – l’Europa nasce, come comunità, nell’impossibile di una terra desolata, defunta, infeconda. L’Europa nasce dallo sradicamento della propria identità: da secoli di fuga da sé, di sperpero delle radici. L’Europa è una casa a cui tornare: ma è una casa spoglia, denudata dalla razzia. “Il radicamento è forse il bisogno più importante dell’anima umana, l’ignoto. È uno dei più difficili da definire”, scrive, lei.
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Simone Weil pensa per farsi male – pensa per ferite – ma il sangue è bianco. Per questo, il suo è un pensare in crescita, costruendo una ferrata sulla rocca filosofica. Dal 1940 comincia a scrive, con slancio eucaristico, i Quaderni. “Se in questo mondo non ci fosse la sventura, potremmo crederci in paradiso. Orribile possibilità”. Nel caso di molti pensatori – o scrittori – la scrittura dei quaderni non diverge dalle opere pubbliche: costoro scrivono per farsi leggere – per adularsi. Simone Weil scrive nel fango, è sporca, un crocevia di patimenti – è autentica. “Il discredito del lavoro porta alla fine della civiltà”; “Il bello è l’unico criterio di valore della vita umana. Il solo che si possa applicare a tutti gli uomini”.
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L’enracinement è scritto nel 1943, come La persona e il sacro. Simone Weil ricapitola tutto, pensa da capo, come sentisse sulle spalle il compito di redigere un nuovo decalogo, il regno di questa terra. Nei primi mesi del 1943 scrive la Nota sulla soppressione generale dei partiti politici. “Quasi ovunque l’operazione di prendere partito, di prendere posizione pro o contro si è sostituita all’obbligo del pensiero. È una lebbra nata negli ambienti politici e si è estesa, per tutto il paese, quasi alla totalità del pensiero. È dubbio che si possa rimediare a questa lebbra che ci uccide, senza cominciare con la soppressione dei partiti politici”.
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Nel pensiero sul ‘radicamento’ si estraggono le parole sicurezza e rischio. La radice deve assicurarsi a terra, ma per dilagare, per attecchire, è necessario il rischio – per assicurarsi, la radice rischia di morire; solo così, d’altronde, s’irradia la vita. Lo Stato deve assicurare la possibilità del rischio a ogni singolo individuo; deve difenderlo dall’aggressione esterna, dalla tracotanza interna. Uno Stato ‘di sicurezza’, d’altronde, che governi iniettando paura – il virus, il virus – vuole cittadini paralizzati dal timore e dal tedio. Tra una sicurezza che aliena il rischio e il rischio dell’insicurezza sappiamo cosa scegliere. Per natura, il falco sa che la rupe è la sua rovina se non impara l’ostensione delle ali, l’urlo, decorato. (d.b.)
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La sicurezza. La sicurezza è un bisogno essenziale dell’anima. Sicurezza significa che l’anima non è sotto il giogo di paura e terrore, tranne che per il concorso di circostanze accidentali, per momenti rari, rapidi. Paura e terrore, come stati d’animo durevoli, sono veleni pressoché mortali, che la causa sia la disoccupazione, la repressione della polizia, la presenza di un conquistatore straniero, l’attesa di una possibile invasione, o altra sventura che sembri surclassare le forze umane. I maestri romani esponevano una frusta nel vestibolo, alla vista degli schiavi, consapevoli che bastava questo a costringere allo stato di quasi-morte indispensabile per la schiavitù. D’altra parte, per gli Egizi, i giusti devono poter dire dopo la morte: “Non ho causato paura ad alcuno”. Anche se la paura permanente è uno stato passeggero, quindi di rado è vissuta come un dolore, resta comunque una malattia. È una parziale paralisi dell’anima.
Il rischio. Il rischio è l’esigenza essenziale dell’anima. L’assenza di rischio suscita una specie di noia che paralizza, diversamente dalla paura ma con altrettanta forza. Inoltre, esistono situazioni che, provocando un’angoscia diffusa senza rischi precisi, procurano entrambe le malattie. Il rischio è un pericolo che produce una reazione meditata; cioè non sopraffà le risorse dell’anima al punto di schiacciarla nell’etimo della paura. In alcuni casi, si afferma nell’ambito del gioco; in altri, quando un obbligo preciso forza l’uomo all’assalto, costituisce il massimo stimolo possibile. Proteggere gli uomini da paura e terrore non implica affatto la soppressione del rischio; al contrario implica la presenza permanente di una certa quantità di rischio in tutti gli aspetti della vita sociale; perché l’assenza di rischio affonda il coraggio fino a dilapidarlo, lasciando l’anima priva di protezione interiore contro la paura. È necessario però che il rischio si presenti in condizioni tali da non trasformarsi in un sentimento di fatalità.
Simone Weil
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Nuovo Vocabolario del Virus: “corpo”. Il corpo è diventato “corpo del reato”. Sottraendoci i defunti ci hanno rubato la vita. Dietro le mascherine, le creature, effettivamente, intrigano
“Corpo”: Il nostro corpo è defraudato in “corpo del reato”. Le forze dell’ordine – corpo armato – inseguono un corpo umano, sulla spiaggia: è reato il fatto che sia corpo. Il corpo, infatti, non è più corpo, ma contagio. Il sospetto del contagio è corretto – un corpo esiste per contattare, toccare e contagiare un altro. Ma il corpo non è il carcere dell’anima – piuttosto, le nostre case, gli appartamenti, le ville, i monolocali, sono la prigione della vita, da ricoveri rischiano di tramutarsi in trappole.
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Sottrarci al corpo defunto vuol dire rubarci la vita. I malati, è detto, muoiono senza deporre le parole ultime – ma sono quelle parole, le ultime, che seminano la vita. Senza il corpo del morto quello del sopravvissuto non è un corpo, ma uno scarto. Toccare il corpo del morente è una giusta pretesa; non toccherò alcun vivo, non contagerò nessuno, ma fatemi abbracciare il corpo del morente. Ne sarai contagiato: ma non attendo altro, non mi importa! Voglio abbracciare il morente, a rischio di morire. L’uomo è la creatura dei gesti irragionevoli. Ma non pensi agli altri… non c’è altro altro senza la prossimità del morire.
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Il capitolo 13 di Levitico assembla i precetti per curare la lebbra. “Il sacerdote esaminerà la piaga sulla pelle del corpo: se il pelo della piaga è diventato bianco… dichiarerà quell’uomo impuro” (Lv 13, 3). L’uomo piagato è visto dal sacerdote dopo sette giorni di isolamento. La piaga piega sempre il corpo: “Questa è la piaga con cui il Potente colpisce i popoli che fanno guerra e Sion: carni marciranno, pur essendo sani; occhi inariditi nelle orbite, lingua si dissecca nella bocca” (Zc 14, 12). Eppure, penso all’episodio di Tommaso raccontato nel Vangelo di Giovanni (20, 24-29) e penso che bisogna passare per il corpo e per le piaghe del corpo, e ficcare una tenda nella ferita, oltre ogni ragione.
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Inabissandosi tra le etimologie setacciate dal Pianigiani, l’avventura. Corpo viene da corpus, latino, termine tanto vago, inevitabile. Alcuni filologi lo fanno derivare dall’armeno kerp, che significa forma, e dalla radice indogermanica kar, che vuol dire fare. Il corpo è forma – per farsi deve esserci un altro corpo. Il corpo è frutto della mia immaginazione: lo deve toccare uno sconosciuto per dargli esistenza. Il pensiero – prodotto del corpo – divora la carne. Dio accade, misteriosamente, come carne, in corpo. (Su questo punto, e sul corpo-come-rito, vale la pena guardare questa conferenza di Giorgio Bonaccorso, che mi ha generosamente indicato Andrea Ponso).
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L’‘estasi’ non è uscita dal corpo ma immersione in esso. Dietro le mascherine, le creature intrigano, sono tutto corpo, tutto gambe, braccia, moto. L’abolizione del viso – i tratti somatici ispirano il platonismo, l’ideale – mantiene in ebollizione i movimenti del corpo: non ti riconosco più dalle labbra, dal taglio del volto, ma dalla camminata. C’è una diffusa bestialità anche nella forma sospettosa con cui ci scrutiamo – che questa inimicizia dia spazio all’assalto?
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Sempre sconcertante leggere l’episodio di Luca che racconta l’apparizione del Risorto verso Emmaus, a due discepoli. Gesù non è riconosciuto in vita né da morto – “Speravamo fosse lui quello che avrebbe liberato Israele”, Lc 24, 21; in effetti, Gesù ‘libera’ ben altro che Israele. Eppure, il Risorto mangia. Divide il pane con i due discepoli (Lc 24, 30) e mangia il pesce con gli altri (Lc 24, 43). C’è un atto più potente di quel corpo risorto che mangia? Il mangiare è il riconoscimento. “L’avevano riconosciuto nello spezzare il pane” (Lc 24, 35). Quel rumore del pane che si spezza mi spiazza, ancora, dopo due millenni. Il Risorto mangia, mastica, ingurgita. Un corpo morto non è morto.
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Secondo il grande storico persiano Tabari, il primo gesto che fa Adamo, “Quando l’anima arrivò alla sua testa” fu starnutire. Dalle lacrime di Adamo, cacciato dal Paradiso e “gettato in India”, crescono “diverse specie di alberi, ognuno dei quali ha una virtù, oggi usata per i medicamenti, per questo quegli alberi vengono fatti venire dalle montagne dell’India”. Attraverso starnuti e lacrime, l’uomo trova il proprio stile, la statura: il corpo si struttura su ciò che è sottratto. Racconta Tabari: “Davide era obbediente servo di Dio, e fra gli uomini un giusto. Aveva novantanove mogli, oltre le concubine. Il suo tempo era diviso in tre parti: un giorno si occupava delle questioni di questo mondo; il secondo giorno si consacrava al servizio di Dio e alle questioni dell’altro mondo; il terzo giorno si riposava con le sue donne, dandosi ai piaceri leciti” (cito da: Tabari, I profeti e i re, Guanda 1993, nella traduzione di Sergio Atzeni). La scansione è facile: questo mondo, l’altro, il corpo. Le mogli di Davide sono 99 come i nomi di Dio nel Corano: amare, dunque – toccare, toccare, toccare – è un esercizio teologico.
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La piaga delle bare accatastate, dei morenti abbandonati, del criterio della salute rispetto al desiderio di salvezza. Questa è la ferita inferta, infetta, senza cucitura. Il contagio? Credere che possiamo vivere così, separati dal morente, che sia vita quella che non mi permette di risorgere nel morto.
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I libri decisivi, semplicemente, accadono, senza ragione. Per me è stato decisivo un libro di Norman O. Brown, Corpo d’amore, un tempo edito da il Saggiatore, poi ripreso da SE, ora introvabile. Alcune frasi importanti dal capitolo Resurrezione: “Lo spirito creatore sta nella tomba, nel mucchio di letame, nel letamaio della cultura (come in Finnegans Wake); e rompe il sigillo della familiarità; rompe la crosta delle abitudini; fa rotolare la pietra del sepolcro; dà alla morta metafora nuova vita”; “Anziché dallo spirito vivente, essere posseduti dai morti. I protestanti sostituirono alla ripetizione rituale (magica) del passato (la passione di Cristo), un’invocazione puramente spirituale; una commemorazione storica. Invece di una drammatica ripetizione una rianimazione nel solo spirito, la ricerca del Gesù storico. Ma il Gesù della commemorazione storica può essere soltanto il fantasma di Gesù… Il Gesù della cerimonia commemorativa e della ricostruzione storica è il Gesù passivo, non il Gesù attivo. Il Gesù attivo può essere ricreato soltanto attivamente”; “La vita è simile alla Fenice, che sempre rinasce dalla propria morte. La vera natura della vita è la resurrezione; tutta la vita è vita dopo la morte, una seconda vita, reincarnazione”.
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E questa: “Dobbiamo sollevarci dalla storia al mistero… Sollevarsi dalla storia al mistero significa sperimentare ora, qui, la resurrezione del corpo, come realtà eterna”.
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Corrado Augias, al tiggì, ben vestito, nel suo appartamento ben decorato, sopra i frutti – marci, presumo – dell’esistenza occidentale, dice che siamo in troppi, sette miliardi e passa, e il virus è il modo con cui Mamma Natura fa fuori un po’ di umani, che l’hanno vilmente oltraggiata. Lo dice godendo l’Eden occidentale, certo, forse, che basti la raccolta differenziata ed essere giustificati. Chi muore, d’altronde, è sempre il più debole e io, a priori, non augurerei la morte ad alcuno – almeno, vi sia un duello. Ieri mi sono accorto della bellezza degli ontani: sulla corteccia gli scavi sembrano una scrittura geroglifica e cerco di penetrarne il mistero. Eppure, le case degli umani sono illuminate, le lampade sembrano fiamme e la vita è fervida. Guardo nelle stanze degli altri, con orfica curiosità: vorrei i segreti più remoti di chi le abita. Tutto mi sembra così pieno rispetto alla mia miseria. (d.b.)
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“Io non mi lancio nell’invisibile per disprezzare il visibile, trovo più bellezza nel fiato cupo e potente di un orso che si alza in piedi e ti guarda dritto negli occhi che nel migliore dei versi di Yeats, voglio solo respirare e perdere a modo mio”
Amico,
Se io fossi qualcuno, ti direi che le mie parole sono una poetica demistificazione delle leggende letterarie. Solo così trovo un senso a sputare qualche verbo sul foglio, fino a quando ne avrò voglia. Mi aggiro come un lupo preistorico intorno alla corruzione dell’estetismo letterario, al complesso erudito della ricostruzione storica, alla degradazione letteraria, alle false promesse dell’arte, intorno ai venditori di illustri illusioni, all’abuso delle immagini in poesia, del tono poetico, alla grande superstizione dei metafisici, il linguaggio, questa pretesa sgargiante sul nulla. E, salvo rare eccezioni, che tristezza. Lo sappiamo tutti che “esiste un’élite di ansiosi, il resto è l’umanità”. E nessuna preoccupazione per la moda o per il pubblico, nelle mie volubili divagazioni, ma solo una ironia lirica, spietata. Scrivo solo per me stesso, per fastidio. Non c’è altruismo nelle mie parole. Non mi occupo degli altri. Non destino il mio tempo alle loro vite. Non ho il terrore dell’ortodossia, esprimo le mie esagerazioni e difendo una sola causa, la mia, che so essere perduta fin dall’inizio, dal giorno in cui si nasce. Una sola cosa mi interessa, respirare e perdere a modo mio. Non ho la superstizione dell’altro, né ritengo la vita umana sacra. Per lo più sono sensibile al lato negativo delle cose, alla loro natura irreale, al punto da riconoscermi, più spesso di quanto non vorrei, in questo sprezzante cristallo… “sembra che abbia più amanti e pochi amici, poiché la sensualità è riservata alle donne, la sua insolenza agli uomini e l’ironia a tutti, anche a se stesso”. Ahimè l’idea scenografica di Luca, quando in realtà capitolo spesso all’indole opposta, non lesino amicizia, cura, pudore e umanità nei rapporti, con uno zelo perfino imbarazzante. Come chiunque conduca più vite allo stesso tempo, e dubiti terribilmente di sé, perché la vita, lo sai, reclama la vita. Se fosse un film, ti direi che faccio a pugni per strada, prendo a calci la vita come se gridassi al mondo intero l’infinita vanità del tutto, eppure cammino in silenzio, con me stesso. In certi giorni anche una bambina di sei anni potrebbe avere la meglio su di me, e non per eccesso di delicatezza, ma di sensibilità, voglio dire, uso i miei sensi in modo assoluto e un buco nero lampeggia nei miei occhi verdi, quando sono troppo lucido per avere carattere.
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E solo tu hai il potere di esasperarmi con le tue tesi, certi tuoi pregiudizi (ma sono davvero i tuoi?), voglio dire, in un modo che non riesco a irrigidirmi. E già pecco di stupidità, se è inevitabile che ognuno di noi si nutra di pregiudizi e, come sai, di te mi importa solo come difendi ciò che più ti tocca.
Tu, che contrapponi l’inferiore precipizio del vedere immediato alla verticale facoltà fantastica, la tua preoccupazione, quella di giungere dall’eccitazione dei sensi al soprasensibile. Tu, che parli di eros, sostenendo che è tutto. A me, a cui eros non interessa, se il suo unico merito è quello di partire dalla carne per giungere alla conoscenza, e il suo unico obiettivo è quello di elevare il piacere alla conoscenza. Se tutto, in eros, si riduce a una sessualità più “intima” e “riflessiva”, per ascendere ad altro. Quando l’erotismo è già la smania mentale, il rito dell’anima, qualcosa che si vuole elevare al di sopra dell’animale… e lo sai, da sempre si afferma che eros perda la sua sostanza, e scada quando diventa “animalesco”. Ma perché?
E sai che l’eros di Carmelo Bene era tutto per la pornografia, che sbeffeggiava Bataille, definendolo un “cattocomunista”, quando scriveva: “Dopo una notte di erotismo nascono i bambini, la specie si ingrossa, le famiglie si espandono, i condomini si rafforzano, lo Stato si gonfia. Si ricade nel sociale. La pornografia è il solo antidoto a tutto questo perché il soggetto, qui, è l’oggetto squalificato, è la mancanza di rappresentazione, ossia l’irrappresentabile… l’erotismo è quanto di romanticamente più stupido ci possa essere, appartiene all’io… il plagio reciproco nella irreciprocità assoluta”. Ma in fondo che ne capisco io, un povero demente?
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Io, che non scelgo tra l’irritualità oscena della pornografia e la scena rituale dell’erotismo. Né il tentennare teorico dei sadiani, le loro oscenità ragionate che sono più importanti del piacere stesso, la prosperità del vizio nella spersonalizzazione del singolo individuo. Né l’elemento erotico dell’anima, la grammatica di eros, il superamento di se stessi nella ricerca di un altrove, il coito come un efficace strumento di ricerca spirituale, per dilatare il piacere a costante stato dell’essere. Voglio dire, qualcosa di profondamente stucchevole e falso alleggia in entrambe le mentalità, se univoche, moda, teoria, manifesto, avanguardia, via maestra da seguire, catechismo. Io, che non condivido la parzialità di CB per la pornografia, né la tua per l’erotismo. E solo per capriccio, perché l’univocità ha sentore di schematismo e uccide l’ambiguità. Ed io, povero scemo, vittima dei miei umori, annego nel gorgo dei vasi comunicanti, nel tutto e il niente allo stesso tempo, consapevole che nessuno è più degno dell’altro, e non esiste gerarchia, progressione o ascesi che tenga, così, perché l’animale e la gnosi sono fusi, indivisibili, come dare colpi sul mercurio.
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Amico, sofferenza, emozione, paura, passione, piacere sono già tutte estasi aderenti alla vita, e dunque vere, perché momentanee, non promettono alcuna liberazione. Non faccio del sesso un mito, ma trovo estatica la fica, la sua forma, quel irresistibile e feroce taglio, ipnotica fessura, antro del desiderio. La fica è già metafisica, voglio dire, uno stupefacente, cocaina lirica, come possono esserlo la profondità e la luce di uno sguardo, un sorriso, una bocca, il suono di una voce, il dorso e il fondo di una schiena, la fierezza di un seno, le mani, la linea di una coscia o di una camminata, il sapore dei baci e l’odore della pelle, un orgasmo. So che quasi nessuno è altezza dei propri squilibri, che quasi tutti deludono, ma ogni volta che vedo una donna che mi cattura, per strada, e la perdo, e so che non la conoscerò mai, che non potrò avere il privilegio di averla tra le braccia, è un piccolo grande lutto, perché, come si dice, ogni essere è abitato da una vita segreta, inavvicinabile, entrarvi è sempre una feroce avventura, talvolta un dono. E ho detto cocaina, la fisiologia che eccede se stessa, il paradosso della biologia, e non “la conoscenza è il nutrimento dell’anima” di Platone. Un surreale che è intensificazione e non una fottuta ablazione della passione materiale. Voglio dire, io non mi lancio nell’invisibile per disprezzare il visibile, nella parola per deviare dalla carne, nel tempo per sdegnare lo spazio. Non vegeto nell’antitesi, mi nutro da predatore – ogni amor proprio lo è – di un incessante movimento, a seconda della posizione del corpo, della disposizione d’animo, della quantità d’alcol o caffè bevuta, o di un’insondabile commistione di moventi ed emozioni. Non teoria, posa estetica e parole alate sull’essere. Non facciamo finta di non capire. Perfino un giovane capriolo che salta di gioia convulsa, erratico, come impazzito, per gioco, eccesso di energia, all’alba della vita, è l’estasi della natura, che si rinnova, supera se stessa.
Così, di Cioran mi piace il fatto che avesse un’inclinazione gnostica ma rifiutasse tutte le soluzioni, non solo quelle gnostiche. Se il mondo, qua giù, non è una soluzione, non lo è neanche un altro, superiore a quello materiale, neanche la mistica dell’arte o della poesia. Lui, che si immerge nelle filosofie orientali, e alla fine sceglie sempre il samsara e non il nirvana, che sostiene essergli “fisiologicamente estraneo”. Lui, che si interessa allo stoicismo, e non si piega mai alle sue risposte. Mi piacciono le sue plateali contraddizioni. Quella in cui afferma, per esempio, che il sesso è sopravvalutato, che il suo prestigio gli viene dal fatto di sopravvivere alla pratica prosaica del bidè, eppure alla fine della vita capitola, con una sbandata paurosa, non solo platonica, per la giovanissima Friedgard Thoma, lei, che non gliela ha mai data. Vedi, tutta questa estatica verticalità, e poi un pelo di fica, a volte, tira più di un carro di anime. Voglio dire, quando si desidera qualcosa la si vuole mangiare di passione, e non fare all’amore con le parole.
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Ma perché questa ossessione univoca per un erotismo estatico, per l’elevazione, l’ascendenza, la riflessione, questa “scalata verso la luce che si affronta dal nulla”? Perché scrivere che un’arsura deve essere celestiale, e cantare che accedere a qualcosa implica un’ascensione, lo scaturire del bello dal mostro, della forma perfetta dal gorgo del male? Perché questo riscatto? Questa ossessione per i verbi verticali, l’abuso della luce, la pretesa che l’educazione al bello debba equivalere all’amare, e l’elevazione alla Bellezza? Come se il bello e il profondo dovessero assumere una forma alta per esistere davvero, come se il mondo fosse troppo osceno per non essere sublimato. Lo sai che la grazia della penna sfiora sempre la sua disgrazia, come il giorno e la notte, l’estasi e la depressione. Non c’è elevazione. E non avere paura di sporcarti, di unire la biologia alla tua gnosi, di gettare nel fango la tua immaginazione, di unire il libro della natura a quello dell’uomo, invece di trasfigurare la crudeltà nella purezza, il male nell’arte, la perdizione nella dedizione di una estetica che sia un’etica. Ancora questa fottuta mistica dell’arte. Ma perché? L’orrore e la vita hanno forse bisogno della nostra bellezza per esistere – ma che! – per non essere insignificanti, per essere grandi e sottrarsi al loro nulla? Ho già sentito qualcosa di altrettanto deludente, a sancire l’inferiorità dell’animale e il creato e fissare per sempre il privilegio estatico, verticale, la nobile esclusiva degli umani, “l’animale vive, semplicemente, solo l’uomo esiste”. E quale inutile presunzione di superiorità. Se proprio vuoi parlare di mistica, rammenta quella sensuale che unisce mondo animale e mondo spirituale, quella che disprezza la pretesa di voler separare, in assoluto, la creazione umana dall’esperienza sensibile e dalla sua induzione quotidiana.
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Scrivi che la parola viene prima, e solo dopo, eventualmente, la carne? Ma no! Lo ripeterò fino allo sfinimento. Se non vuoi disprezzare la sapienza dei sensi, delle immagini, non c’è gerarchia verticale tra inferiore e superiore, ma solo una continua osmosi impura. Imporre la Letteratura, poi, come sola sapienza e salvezza, dire che il futuro dell’Umanità dipenda dai lettori autentici di tutto il mondo (quelli di Dante e di Shakespeare), pretendere che il linguaggio dell’abiezione si elevi all’eleganza del cigno, a sublime figurazione; sentire la necessità di trasfigurare la realtà con la Bellezza; mutare l’umiliazione in qualcosa di divino; passare per la carne per deviarsene; vedere la grazia nel cadavere; fare della sventura un trionfo e diventare padroni – sono illusioni creative affascinanti ma sconcertanti, che spezzano il cuore. La contrazione della vita mediante l’impegno della parola, il fuoco della passione rivolto a un fine che la contraria, l’ablazione del desiderio, spacciati così, come un fottuto trionfo, una suprema forza, la quintessenza della vita: “siamo così abituati a vedere nella saggezza un residuo delle passioni spente, che fatichiamo a riconoscere in lei la forma più dura, più condensata dell’Ardore, la particella aurea nata dal fuoco, e non la cenere”. Io, che non tollero in Harold Bloom, questo aristocratico dell’intelletto disincarnato, la sua definizione dei poeti, “degli angeli”, e la loro pretesa missione, “la riconquista del cielo”, il divorzio incolmabile che si insinua tra la bellezza naturale e la sua rarefazione artistica. Amico, lo sai anche tu che la metafisica, come la mistica, è la grande arte di eludere la pericolosa esperienza terrena, “e la possibilità di passare per un eroe a un uomo che non sa nemmeno cosa sia la guerra”. Lo scriveva il tuo amato Šestov, un metafisico, perché la fede nel fantastico si oppone al feroce nulla sensuale della materia, così, perché lo sconforto di dover morire e sparire genera una lotta che, nella volontà di lasciare una traccia, la compensazione di una ferita, l’invocazione di chissà che cosa, nel farlo, umilia la terra.
*
E poi, lo sai, che ho già scritto altrove di non aver mai creduto alla strana e illuministica fiducia nella formazione su larga scala di un’opinione pubblica colta, capace di servirsi del proprio intelletto. Non ho mai avuto fiducia nel lettore. Nella sua facoltà critica, meno che mai creativa. In un vuoto formalismo che nasconde per lo più un ammasso di feroci pregiudizi ambulanti travestito da statuaria apoditticità. Ho sempre mal tollerato i dotti che giocano alla commedia della conoscenza, e la maggior parte dei fruitori di libri, gli illusi che immaginano l’intelligenza coincidere con il sapere, con il tanto più leggere, tanta più intelligenza o presenza. Quest’ultima, poi, è come il carisma e il fascino, impossibile che aleggi e imperversi, se non innata. E solo tu sai quanto possano essere ignoranti le persone colte, che la vera immaginazione ha sempre disertato le scuole. Quanto alla forza del genio di Shakespeare, per sapere quanto sia insignificante l’istruzione umana, basta leggere i suoi commentatori. E sai che perfino l’Opera, al pari della vanità, ha bisogno di volta in volta di un turiferario, un adulatore, un incensatore che contribuisca a diffondere il suo Verbo, il narcisismo dissimulato sotto le false spoglie di un Don Chisciotte che cerca stuoli di Sancho Panza, o il proprio san Paolo, “il più grande agente elettorale della Storia”, a cui affidare la propria futura gloria. E il letale difetto di chiunque scriva, voglio dire, di quelli che hanno fatto della scrittura il loro mondo, si rivela quando ogni esperienza vissuta è in funzione della trascrizione nelle parole, peggio ancora, un pretesto per future pubblicazioni. Non è un bel vizio, e un lusso che meritano pochi eletti.
*
E dico che, qualora io fossi un poeta o uno scrittore, non sentirei mai la necessità di sfoggiare una fonte, una nobile filiazione, dei numi tutelari. A che pro evocare una nomenclatura, l’ansia di mettersi sotto la cappella di un altro? Una catena illustre che domina, pregiudica ed intimidisce i più, nelle smisurate doti che attribuiamo loro, che sminuiscono il senso delle nostre – “la maggior parte delle volte non nutrono, ma annientano, e nulla di davvero autentico può sorgere sotto un altro sole”. Lo scrisse un certo Edward Young, nel Settecento. Lo sai anche tu, che l’eccessiva abitudine a sorgenti non nostre, il languire sulle fondamenta di un altro, quasi sempre indeboliscono ogni forza di pensiero personale, che il tono di seconda mano rappresenta un’umiliazione. E che il genio di uno vero scrittore o poeta sta nel far scomparire tra le righe, se non dimenticare, le sue eventuali fonti ispiratrici, le influenze, e perfino nell’occultarle, perché “le imprese che si basano su una tenacia interiore devono essere mute e oscure”. Vagheggio una natura vegetale, la crescita innata di una mente, quei creatori che riescono a infondere un tono sorgivo, minerale, asemantico alle loro parole, e forse sono solo creature ideali, mitiche. Una chimera.
*
Sì, è vero, ogni vero scrittore può essere anche un distruttore che accresce l’esistenza, che l’arricchisce scalzandola, ma sempre nel paradosso, con un’esperienza scavata nel corpo che si fa pensiero. E quando si spinge oltre e afferma che in assoluto l’arte è superiore alla vita, che essa rende interiore, e dunque accettabile, la smisurata estraneità del mondo, come accade nella mistica letteraria di Proust, quando scrive che la vera arte: “è il momento in cui lo spirito prende corpo, in cui il corpo insignificante viene riconosciuto come persona spirituale, pensiero indipendente da qualunque corpo, morto o no, e quasi immortale”, allora ascolto “indipendenza spirituale”, “immortale” e “insignificanza del corpo”, e già provo un conato, mi si chiude la vena, come quando afferma: “In fondo, anche in quelli tra noi che per i quali la nobiltà spirituale consiste nel non ammettere i moventi volgari, nel condannarli, nello sforzo di purificarli, essi possono esistere, trasfigurati… vi è, dunque, tutta una parte che viene esclusa”. Così, come se nulla fosse, una condanna, una purificazione, la trasfigurazione, l’esclusione di tutto un universo che si sa immenso e con cui non si vuole avere a che fare. Ma che bella sequela di umilianti verbi. Lui, per cui “la vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura”. Il fottuto verbo. L’ultima, suprema fede, per degradare l’intensità dell’immanente a favore dell’esaltazione di un mondo proiettato oltre il regno della materia, oltre la natura del mondo vegetale e animale, per giungere all’immortalità dell’opera e di una vita. Con ardore puritano, là dove la parola assume il potere di creare un’illusione, tanto quanto la vita reale, empirica, ne ha di distruggere questa stessa illusione. Così, perché il mondo è sentito come carcere dell’anima, e ogni storia esteriore non sarebbe altro che il riflesso del destino di un pneuma oltre mondano più autentico; e più forte è la perdita della realtà, più intensa diventa la coscienza negativa del mondo esteriore, la ricerca di un io concentrato nella propria insulare verticalità. Lo sai anche tu che il primato del Tempo smaterializza il corpo in vista dell’eternità dell’anima. Perfino l’inconscio è scremato dall’impura immanenza, così, perché accordiamo il primato alle impressioni soggettive, interiori, rispetto al reale, e riteniamo le impressioni tratte, sì, dalle sensazioni indotte dal reale, da un correlato empirico e materiale, ma che questi sia solo, ahimè, un inevitabile punto di partenza da superare, un male necessario. Ogni cosa è già il pensiero di una cosa, “l’istante in cui le cose vivono sono fissate dal pensiero che le riflette”, scrive l’autore della Recherche.
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E tu sostieni che bisogna leggere i grandi per vivere con più presenza al mondo. Chissà, forse aiuta. Ma ricordo Sergio Solmi, quando scrive con piglio forse troppo idillico: “Poeti che invece di comporre versi, avrebbero dovuto, camminando senza posa, addentrarsi nel bosco e riposare nei pressi di un ruscello, sotto il sole o la luna, sottomettersi all’influsso di forme e suoni elementi fugaci”. E vado oltre. Guardo altrove. Non faccio un mito della natura ma, non dico l’ovvio, un leopardo, una tigre, un leone, ma ogni animale, anche quelli domestici, anche quelli in apparenza più disgustosi, una tarantola e un’anaconda, hanno una presenza e una carisma che inquieta e rapisce allo stesso tempo, che noi neanche ci sogniamo. Eppure non hanno scritto o letto una sola riga. Voglio dire, trovo più bellezza e potenza nella presenza, il respiro affannato, cupo e potente di un orso, che si alza in piedi e ti guarda dritto negli occhi, al battito vivo della natura, il suo inconfondibile fetore, che nel migliore dei nobili versi di Yeats. L’ho vissuto nelle foreste dell’Up State New York. Hai mai provato? Che emozione e perfino più estasi, al cospetto di quel ruggito che colpiva le mie ossa, le cui onde penetravano la mia cassa toracica. E spesso trovi più poesia, vita e bellezza in chi attraversa il deserto o l’antartico a piedi, in solitaria. In chi ha scalato tutte le ventiquattro vette più alte del mondo, solo. E forse ci sono state più estasi e libertà per Patrick de Gayardon, con la sua tuta alare, il maestoso volo orizzontale, la sua fine. Forse c’è più bellezza estatica in quella affascinante donna che, dopo una litigata furiosa piange e, chissà perché, per contraccolpo, dà fuoco a un desiderio animalesco, un mutuo furore di baci e carezze, una scopata memorabile, con quella luce inaspettata negli occhi, quella forza feroce e ostinata, e linfa impertinente nei lineamenti, solo apparentemente senza difese, quella energia che non ha filtri, e il capitolare difronte alla verità di questa presa diretta, un baratro sensuale, muto, mentre tu le lecchi le lacrime. E forse c’è più estasi in quella impresa leggendaria, verticale, da mozzare il fiato, prima e unica al mondo, la scalata senza corde, free solo, a mani nude del mitico El Capitan da parte del giovane Alex Honnold, uno che ha ‘anima’, cuore e palle, quando lotta fisicamente con la morte a ogni centimetro. Amico, prova a trovarti a tre metri da un leone che ruggisce, a un leopardo che ti fissa dritto negli occhi, senza recinti di protezione, e annegherai nella fascinazione ipnotica, il puro terrore, e forse anche nel pianto, quando scorgi quella verità profonda, inaudita, inaccessibile alle parole, là dove non c’è bisogno di evocare o inventare Dio. Voglio dire, non guardate solo la televisione. Ricordo l’onça, il poderoso giaguaro amazzonico, che attraversò il campo dove si trovava la mia tenda, nel Mato Grosso, la zona di Diamantino, lui, che si fermò e mi fissò dritto negli occhi per alcuni secondi, un’eternità, per decidere se attaccare o fuggire, e invece si dileguò con tutta l’abbagliante presenza di un passato remoto, a passo felpato, lento, nel gorgo della fitta foresta. Impossibile non rimanere infinitamente turbati da tanta maestosa e incredibile bellezza, quando nessun verso ti restituisce una simile emozione, quella potenza muta che le parole hanno sempre tentato, quasi sempre invano, di captare. Prova per credere, e non guardare solo i documentari.
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Ricordo quando io, Mark Harmon e un beduino, vestiti da Tuareg, a volto coperto, soli, vagavamo nel deserto, ognuno sul suo cammello, giorni e giorni, fuori dal set, per imparare a governare questa creatura, i comandi gutturali da emettere, i suoni, le parole chiave. Dovevamo girarvi delle scene. Imparammo a cavalcarli, veloci come il vento, tra il silenzio delle dune, il sibilo afoso dell’aria, i loro versi, a cui noi stessi rispondevamo con vocalizzi ancestrali. E avevo undici anni. Voglio dire, frequentiamo i versi, e molti di noi vorrebbero incontrare quelli rari, le parole che racchiudono questo senso di avventurosa vastità, l’emozione che non abbandona la terra. Lo sai, che temere qualcosa non è un buon motivo per mancarle di rispetto, che sono stufo di questi pur bravissimi scrittori che, quando li vedi in foto, sono quello che sono, troppo pallidi, perché gli estremi tuttalpiù loro li studiano, non li vivono, si leggono l’ira di dio.
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E poi mi chiedono perché, oggi, io non mi emozioni quasi più per una buona parte degli esseri umani, e invece rimanga profondamente turbato per la storia recente di quel cane da caccia, una femmina, presa e abbandonata in un canile per ben quattro volte, dai cacciatori, perché non faceva quello che ci si sarebbe aspettato, cacciare, lei, che al quarto abbandono si è lasciata morire di tristezza. Amico, la foto di quella creatura senza vita su tutti i giornali, buttata sul selciato, esanime, sfinita dalla vita prima del tempo, lei, che non ha avuto l’occasione di avere non dico un padrone, ma un’amicizia per la vita.
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Se solo tu fossi stato mio fratello, ti avrei portato e provare tutto, almeno una volta nella vita. A buttarti da una aereo, a percorrere il deserto o l’antartico a piedi, a cavalcare un cammello o un cavallo, a correre il rischio di incontrare un animale selvaggio da vicino o toccarlo, a vagare nella foresta amazzonica, a provare l’ebrezza estatica della velocità con una macchina sportiva o una moto, a scalare una montagna o navigare in mare aperto in solitaria, prima di scrivere un solo verso, prima di dire che “è vita uscire dalla vita, per verificarne le sue periferie” con la tua pretesa verticale, senza prima conoscere queste ebbrezze.
E lo sai, che la vera poesia più spesso si trova fuori dalla poesia, dai poeti di professione, perché, come si dice, lei è impossibile, esiste solo quando viene immaginata, e una volta che finisce sulla pagina, scompare. Amico, ricordo alcuni papuani, gli Yali che abitano le regioni remote del Wanyak, mai usciti dai loro confini, dalle loro montagne o visto altre culture, portati a visitare per la prima volta l’Europa, un giorno d’inverno si trovano sulla costa francese, una spiaggia con il mare in tempesta, stupiti e rapiti, e uno di loro esclama all’altro, serio: “guarda, il mare vuole mangiarmi, le onde mi leccano i piedi”, loro, che parlano la lingua dei primitivi, e sono poeti senza essere dei poeti.
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Non so se ho un’anima, ma ho almeno un cuore, che è ancora un organo, un corpo, un tatto, un’emozione, io, che non credo in nulla, e sono un demistificatore solo perché amo le leggende che contano davvero, a cui comunque non credo. Ma lo sai, che i veri creatori talvolta sospendono l’incredulità, si offre loro la giugulare, a tratti, forse, per solidarietà con l’impossibile.
Luca Orlandini
*In copertina: Luca Orlandini; lo scambio tra Luca Orlandini e Davide Brullo che prelude a questo pensiero è qui.
L'articolo “Io non mi lancio nell’invisibile per disprezzare il visibile, trovo più bellezza nel fiato cupo e potente di un orso che si alza in piedi e ti guarda dritto negli occhi che nel migliore dei versi di Yeats, voglio solo respirare e perdere a modo mio” proviene da Pangea.
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