#poesia russa XX secolo
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pier-carlo-universe · 23 days ago
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Due anime in viaggio: “Non so dove sei tu e dove sono io” di Marina Cvetaeva. Recensione di Alessandria today
La poetessa russa racconta con delicatezza e intensità la connessione tra due anime vagabonde, unite dalla loro solitudine e dalla forza della condivisione.
La poetessa russa racconta con delicatezza e intensità la connessione tra due anime vagabonde, unite dalla loro solitudine e dalla forza della condivisione. Una poesia di connessione e ricerca “Non so dove sei tu e dove sono io” di Marina Cvetaeva è un componimento che cattura l’essenza di un’amicizia profonda e speciale. Con immagini semplici ma evocative, la poetessa esplora il legame tra due…
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gregor-samsung · 3 years ago
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“ Com'era Marina Cvetaeva?
Lasciamolo dire a sua figlia Alja (Arjadna), da una pagina del suo diario nel dicembre del 1918, quando la bambina, peraltro molto precoce, ha appena sei anni: «La mia mamma è molto strana. La mia mamma non assomiglia per niente a una mamma. Le mamme sono sempre contente della loro prole e specialmente dei bambini, però a Marina non piacciono i bambini piccoli. I suoi capelli sono rosso chiari, con dei riccioli dalle parti. Ha gli occhi verdi, il naso con una gobba e le labbra rosee. È alta, mi piacciono le sue mani. La sua festa preferita è l'Annunciazione. È triste, svelta, ama le poesie e la musica. Anche lei scrive poesie. È paziente, sopporta fino all'estremo. Si arrabbia e ama. Deve sempre correre da qualche parte. Ha un'anima grande. Una voce tenera. Cammina molto rapida. Marina ha sempre le mani con tanti anelli. Di notte Marina legge. Guarda sempre come se prendesse in giro. Non vuole che le si facciano domande stupide, altrimenti si arrabbia molto. Certe volte cammina come sperduta, ma improvvisamente si riprende come svegliandosi, comincia a parlare e di nuovo se ne va da qualche parte» [Arjadna Efron, Stranicy vospominanij, Parigi, 1979, pp. 36-37]. “
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Brano tratto dall’introduzione di Giovanna Spendel a:
Marina Cvetaeva, Il racconto di Sonečka, a cura di Giovanna Spendel, La Tartaruga edizioni (collana Le tascabili), Milano, 2012 [1ª ed.ne 1982]; p. 7.
[Versione originale: Повесть о Сонечке, 1939(?)]
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pangeanews · 7 years ago
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I banditi: 4 libri per salvarci dall’Apocalisse culturale (prima che sia troppo tardi)
Li ho chiamati i banditi. Sono quei libri – e sono tantissimi – perduti nella palude dell’oblio, andati fuori catalogo o al macero. Banditi, appunto, dalle librerie e dai cataloghi editoriali. Banditi – in questo caso, perché, sia chiaro, se un libro è inutile meglio dimenticarlo il prima possibile – in quanto pericolosi. Sono libri che fanno pensare, che scavalcano le norme, che esulano dalle banalità, che si elevano dal domestico ‘intrattenimento’ buono per solleticare le voglie dei beoni. Perché ce li siamo dimenticati? Semplice:
a) i lettori italiani sono mediamente scemi: ingurgitano, come i maiali, tutto quello che il mercato gli propone, meglio se mediocre, insapore e a buon mercato;
b) gli editori italiani brindano allegramente sull’idiozia dei lettori. Bastano le stronzate stampate ogni dì, perché far fatica a rovistare tra le meraviglie e pubblicare libri che – per l’eccesso di genio lì conservato – possono sconvolgere la mente di un cittadino civilmente scemo e cautamente corrotto?;
c) i critici, gli intellettuali, i prof hanno svenduto l’intelligenza per una cattedra, per una seggiola nello scantinato di un editore transatlantico, per una brandina al sole di un grande quotidiano nazionale: che gli frega di confrontarsi con testi che li incenerirebbero, per giunta scritti da morti – ergo: creature che non possono ricambiare il favore?
Scavando tra le catacombe dell’editoria, vagando nella Pompei dei cataloghi editoriali ormai in frantumi, ho estratto 9 libri assoluti. Partiamo da qui per reagire allo schifo e rivoluzionare l’editoria italiana.
* Antimemorie, André Malraux. L’autobiografia romanzata di un genio che ha fatto la storia della letteratura (leggete almeno La via dei re e La condizione umana), la storia dell’arte (l’intuizione del ‘Museo Immaginario’ saldata nello studio Il cranio di ossidiana) e la storia di Francia (è plenipotenziario della cultura con De Gaulle) andrebbe adottata nelle scuole. Dal Vietnam alle scorribande in Cambogia, dalla rivoluzione cinese alla Seconda guerra, dagli incontri con Nehru, capo di Stato indiano, alla battaglia elettorale in Guadalupa, le Antimemorie sono il regesto della vita geniale di un inquieto, come se il Marlow di Joseph Conrad fosse dissezionato da Freud. Molti passaggi sono memorabili: “avendo vissuto nell’incerto regno dello spirito e della finzione che è proprio agli artisti, poi in quello del combattimento e della storia, avendo conosciuto a vent’anni un’Asia la cui agonia metteva ancora in luce che cosa significasse l’Occidente, ho incontrato varie volte, ora umili ora abbaglianti, quei momenti in cui l’enigma fondamentale della vita appare a ciascuno di noi come appare a quasi tutte le donne davanti al viso di un bambino, a quasi tutti gli uomini davanti al viso di un morto”. Le Antimemorie furono pubblicate in Francia nel 1967 e nel 1968 da Bompiani.
Il ponte, Hart Crane. Harold Bloom è uno che si ostina a fare il critico letterario, non ha timore di giudicare, e lotta per salvare il genio dalla sovrastante marea dello schifo. Secondo lui, Hart Crane è uno dei più grandi poeti del Novecento. “Ricordo ancora l’effetto che le poesie di Hart Crane ebbero su di me quando le lessi per la prima volta, a dieci anni. Probabilmente non le capii se non imperfettamente, ma la forza del metro e del linguaggio e la costante portata della visione del poeta mi catturarono e rimasi paralizzato dallo stupore”. Proprio questa è la scossa scatenata delle poesie di Crane: ti paralizzano. Crane, il dolente ‘maledetto’ della poesia americana, che mescola la rivoluzione copernicana di Ezra Pound alle folate liriche di Percy Bysshe Shelley, morì suicida, a 31 anni, gettandosi da una barca nel Golfo del Messico. Il canto del poeta, Orfeo sinistro, risuonò negli abissi, tra anemoni e pesci fluorescenti. Come testamento Crane ci lascia Il ponte, il poema della malinconia e della furia Usa, fitto di urti, di abbagli, di vertigini: “Oh insonne come il fiume sottostante,/ tu che scavalchi con un arco il mare/ e la zolla sognante delle praterie, slanciati/ verso le nostre bassezze, e qualche volta scendi,/ e con la tua curvatura presta un mito a Dio”. A volte Hart, elegante e depresso, sembra possedere la stessa sapienza di Thomas S. Eliot e di Dylan Thomas. Pubblicato nel 1930, questo classico della poesia americana sbarca in Italia, per merito di Roberto Sanesi, nel 1967, stampa Guanda. Nel 1984 lo ristampa Garzanti.
Diari, Julien Green. Chirurgo delle inquietudini, Julien Green, lo scrittore americano che diventò accademico di Francia e desiderava vivere in Italia – plurinovantenne tentò di acquistare la villa di Caterina Sforza a Forlì – editorialmente, per fortuna, funziona ancora. I suoi romanzi e i racconti, spesso tradotti con penna magistrale – Leviatan fu trattato da Vittorio Sereni – da Mezzanotte a Il visionario, da Suite inglese a Viaggiatore in terra e Vertigine, sono ancora disponibili per il lettore di buona volontà. Peccato che l’opera somma di Green, necrofilo dell’ego e cleptomane della meraviglia, siano i Journal intime, i diari, scritti per tutta la vita e suddivisi in diciannove volumi, parzialmente tradotti in Italia (i primi tre tomi, dal 1928 al 1943, sono comparsi nella collana Mondadori ‘Arianna’, dedicata a “Diari, Memorie, Epistolari”, presto defunta, per mano di Libero de Libero; altri sono passati per La locusta, Rusconi, Mursia) ma ormai scomparsi. Con imparziale levigatezza, sereno come Marco Aurelio e cinico come Montaigne, Green assembla riflessioni sulla Storia del mondo (“Fotografie di soldati tedeschi che risalgono i Campi Elisi; in fondo, l’Arco di Trionfo. C’è una specie di perfezione spaventosa nell’umiliazione della Francia, qualcosa che richiama irresistibilmente un ricordo di versetti biblici”) e sulla storia del suo ombelico (“A New York. Stanco d’essere sempre me stesso. S’è mai detta una perola di questa tristezza?”), brandelli onirici (“sognato di vedere un leone che suonava l’arpa”) e impressioni di lettura (“…ho aperto la Divina Commedia al primo canto del Purgatorio che ho letto in una specie di rapimento… ho sentito che dietro il sogno orribile in cui s’agita l’umanità oggi, resta per sempre una realtà immutabile, serena, eternamente beata”) con una sagacia impareggiabile, che consola. Meglio dialogare con Julien Green che con troppi onesti umani in carne e ossa.
I passi perduti, Alejo Carpentier. La parola al totem, Harold Bloom. “Carpentier, a eccezione di Borges, è indubbiamente il genio della narrativa latinoamericana nella sua fase grandiosa, durante la seconda metà del XX secolo”. Secondo Bloom, “i tre romanzi più importanti” di Carpentier, scrittore imprevedibile nato da una russa e da un francese ma cubano per passione e castrista per fede, sono Il regno di questo mondo (1949), I passi perduti (1953) e Il secolo dei lumi (1962), e “hanno pregi letterari almeno pari a Finzioni di Borges e a Cent’anni di solitudine di Garcia Marquez”. Un tempo in libreria, stampati (e ristampanti) da Longanesi, Einaudi, Sellerio, ora non ci sono più. Il secolo dei lumi, “una delle massime opere in lingua spagnola del Novecento” – così la tonante ‘quarta’ dell’edizione Sellerio – narra gli effetti della Rivoluzione francese nei Caraibi. La vera protagonista è “la Macchina”, la ghigliottina, “nuda e scarna, nuovamente piantata sopra il sonno degli uomini, come una presenza – un’avvertenza – che ci riguardava tutti senza eccezioni”. I passi perduti, tuttavia, è un romanzo più sottile, che dilaga nel cupo corpo come un pitone. Si narra la catabasi di un antropologo nella foresta amazzonica. Partito per cercare alcuni strumenti musicali dei primordi, scopre i precordi del vivere – “ora, seduto su questa pietra, vivo il silenzio: un silenzio venuto da così lontano, denso d’altri silenzi, che vi acquisterebbe la parola un fragore cosmico”. Più che altro, una esperienza dei sensi linguistici: Carpentier costruisce una cattedrale vegetale di verbi, in cui gli aggettivi sono una letale lussuria. Inevitabile innamorarsi.
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awardseasonblog · 4 years ago
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#JanusFilms e Film al Lincoln Center hanno rilasciato un nuovo trailer della versione  restaurata del capolavoro #TheMirror (1975) del maestro Andrei Tarkovsky. Un' odissea visiva ed emotiva espressa attraverso uno stile unico che combina il registro lirico ad un mondo onirico. Una riflessione sublime sulla storia russa del XX secolo, una poesia per immagini, ricordi che appaiono e scompaiono, si mescolano ai sogni, a scene di infanzia per esprimere il potere mistico della vita tra storia, creazione, memoria e tempo. Verso il tramonto dei suoi ultimi giorni, il poeta protagonista riflette sul ruolo cruciale della perdita nella vita di un uomo. La morte, l'abbandono, la rinuncia sono tutti momenti che frenano il suo slancio, ignaro della breve distanza tra l'inizio e la fine del suo viaggio. #release #VOD #cultmovie https://www.instagram.com/p/CLRTAMFlZIh/?igshid=1o1firo9zqapl
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tmnotizie · 5 years ago
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CIVITANOVA MARCHE – Nuovo appuntamento dedicato all’arte a Civitanova. Domani 21 e martedì 22 ottobre al cinema Cecchetti, alle 18.30 e alle 21.00, c’è Ermitage. Il Potere dell’Arte, il docu-film diretto da Michele Mally che racconta il museo di San Pietroburgo in maniera inedita ed emozionante, attraverso i secoli della storia Russa e le vicende culturali che hanno portato allo sviluppo delle sue collezioni nel cuore della città.
Più di tre milioni di oggetti d’arte di epoche diverse, 66.842 mq di spazio espositivo, oltre 30 km di percorso di visita e 4,2 milioni di visitatori nel 2018: sono i numeri che compongono la carta d’identità di questo luogo in cui abitano arte, letteratura, musica e poesia.
La colonna sonora è firmata da un eccezionale nuovo talento russo, il pianista e compositore Dmitry Igorevich Myachin; l’elettronica d’ambiente del sound è del designer Maximilien Zaganelli, mentre l’attore Toni Servillo guiderà lo spettatore attraverso questo affascinante viaggio. Biglietto unico ridotto per tutti a 8 €.
Al cinema Rossini domani 21 e mercoledì 23 ottobre, alle 21.15, c’è Antropocene – L’epoca umana. I registi Jennifer Baichwal, Edward Burtynsky e Nicholas de Pencier mostrano quello che sta accadendo da metà del XX secolo nel mondo. In seguito a profondi cambiamenti siamo entrati nell’epoca dell’antropocene: una fase della scala geologica in cui l’uomo ha portato il pianeta oltre i suoi limiti naturali. Il risultato è un racconto fatto di immagini dal forte impatto visivo e di testimonianze difficili da digerire. Il prezzo di ingresso è 5 €, ridotto 4 (fino a 18 anni, oltre i 65 e studenti universitari fino a 24 anni).
Per informazioni è attivo il numero TDiC informa: 351/5715757, dalle 11 alle 23, tutti i giorni ci sarà sempre un operatore a disposizione.
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storiearcheostorie · 6 years ago
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SAN PIETROBURGO, Russia – Sarà interamente dedicata a Piero della Francesca (1412 – 1492), tra i capisaldi della pittura italiana del XV secolo, la mostra “Piero della Francesca. Monarca della pittura” che s’inaugura al Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo il prossimo 6 dicembre, in occasione dei festeggiamenti per il compleanno del museo fondato da Caterina II di Russia.  Piero, con la sua pittura nobile e umile a un tempo, razionale e austera quanto lirica e poetica, può essere definito senza esagerazione l’artista simbolo del Primo Rinascimento, capace come fu di rivoluzionare la pittura del tempo, trasfondendo nelle sue opere complessi calcoli matematici e una personale visione del mondo. Fu tra i primi a scoprire le regole della prospettiva sia lineare che atmosferica (a cui Leonardo da Vinci prestò poi puntuale e fattiva attenzione) e la sua arte ebbe un ruolo chiave nello sviluppo del ritratto rinascimentale.
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Piero della Francesca Annunciazione della Vergine Maria, 1467 -1468 (Cimasa del Polittico di Sant’Antonio) Tempera su tavola, 122×194 cm Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria
MOSTRA INEDITA – Ciononostante in Russia non si conservano opere di Piero, di cui in generale rimangono solo straordinari cicli di affreschi e non più di una ventina di dipinti, per lo più considerati inamovibili e conservati salvo poche eccezioni in Italia, in siti lontani delle principali rotte turistiche della penisola come Perugia, Monterchi, Arezzo o nella vicina Sansepolcro ( al tempo, Borgo San Sepolcro) , dove egli nacque.  Curata da Tatiana Kustodieva, capo ricercatore del Dipartimento dell’Arte europea occidentale all’Ermitage, promossa dal Museo Statale Ermitage con la collaborazione di “Ermitage Italia” e di Villaggio Globale International, l’esposizione – che ha come sponsor generale ROSNEFT e partner in Italia INTESA SANPAOLO – si propone dunque come un evento eccezionale. Da diverse collezioni italiane ed europee giungeranno un nucleo di opere dell’artista mai così consistente prima d’ora in una mostra temporanea, 11 dipinti e 4 manoscritti autografi, offrendo la rara opportunità di far conoscere Piero della Francesca in Russia.
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Piero della Francesca La Madonna di Senigallia, 1470-1485 Olio e tempera su tavola, 61×53,5 cm Urbino, Galleria Nazionale delle Marche
TANTI CAPOLAVORI ASSOLUTI – Nella prestigiosa Sala del Picchetto, nel Palazzo d’Inverno, in un allestimento che rievoca le architetture prospettiche dei dipinti di Piero, si potranno ammirare, giunti dall’Italia, straordinari e iconici capolavori come la “Madonna di Senigallia” dalla Galleria Nazionale delle Marche a Urbino, “l’Annunciazione” , mai prestata prima d’ora, dalla Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia e il “San Girolamo e un devoto” dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia, ai quali si aggiungono il “San Nicola da Tolentino” del Museo Poldi Pezzoli di Milano e due affreschi con “San Giuliano” e “San Ludovico” dalla natia Sansepolcro. Quindi il “San Michele” prestato per l’evento dalla National Gallery di Londra, il “Ritratto di Sigismondo Malatesta” eccezionalmente dal Musée du Louvre di Parigi, il “Ritratto di giovane” – presumibilmente Guidobaldo da Montefeltro – dal Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, il “Sant’Agostino” dal Museo Nazionale d’Arte Antica di Lisbona e la giovanile “Madonna col Bambino” già in collezione Contini Bonacossi.
DALLA TELA ALLO SCRITTO – Quindi il Piero matematico, a ricordare l’importante attività teorica che egli svolse,m congiuntamente alla pittura, per tutta la vita: la ricerca di regole scientifiche che governino la realtà, e dunque la costruzione interna dei dipinti, il bisogno di armonia, lo studio delle proporzioni costituiranno del resto una costante della sua ricerca artistica. In mostra ci saranno il giovanile Trattato d’abaco, proposto nella versione autografa della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, l’Archimede di Spiralibus, raccolta di trattati del matematico greco in cui è stata riconosciuta nel 2004 la mano dell’artista toscano, e infine il De prospectiva pingendi presentato attraverso le uniche due testimonianze quattrocentesche in volgare esistenti al mondo: quella interamente autografa nel testo e nei disegni, prestata della Biblioteca Palatina del Complesso Monumentale della Pilotta a Parma e il manoscritto Reggiano della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, con correzioni e annotazioni di Piero. Fu proprio il De Prospectiva pingendi, universalmente noto, a formare intere generazioni di pittori, che non si limitarono a trarre ispirazione dai dipinti del grande Maestro, ma studiarono il suo testo per imparare quello che sarebbe divenuto il linguaggio comune e condiviso dell’arte occidentale per almeno quattro secoli, fino alla rottura avvenuta nell’Ottocento.
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Piero della Francesca De Prospectiva Pingendi, sec. XV codice cartaceo autografo 291x 215 mm Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi
GRANDISSIMO, COME MOZART – “Si è paragonata l’arte di Piero alla musica di Mozart e alla poesia di Wordsworth”, ha scritto lo storico dell’arte russo Michail Alpatov. “Ma la sua capacità di abbracciare il mondo con uno sguardo può essere raffrontata anche al talento di Tolstoj di ammirare, come in Guerra e Pace, la curva delle spalle d’una avvenente mondana o d’inchinarsi alla saggezza del contadino Karataiev”. Così appare dunque Piero: raffinato frequentatore delle principali corti italiane (Perugia, Firenze, Ferrara, Rimini, Roma, Urbino), coltissimo nell’elaborare composizioni prospettiche innovative, costruzioni geometriche dal perfetto equilibrio e figure monumentali ieratiche e potenti, quanto sincero cantore della nobiltà dell’uomo e della bellezza del paesaggio, caparbiamente legato alle sue terre e al borgo natale, ove conservò sempre la sua bottega.
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Piero della Francesca Ritratto di Sigismondo Malatesta, 1451 c. Olio su tela, 44,5×34,5 cm Parigi, Musée du Louvre
UN ARTISTA “LIBERO” – Piero non fu mai pittore di corte, mantenendo autonomia di vita e di pensiero, eppure riuscì a innovare profondamente e a segnare in maniera indelebile il percorso dell’arte italiana ed europea, traghettandola dal medioevo all’età moderna. Da Domenico Veneziano, con il quale lavorò prima a Perugia e poi a Firenze, Piero aveva appreso l’importanza e il valore delle gamme cromatiche, della composizione e della prospettiva nelle sue prime applicazioni; durante il soggiorno nel capoluogo toscano (1439), allora nevralgico  centro culturale, aveva conosciuto l’arte d’avanguardia del suo tempo – la scultura di Donatello,  gli affreschi di Masaccio, le concezioni architettoniche di Leon Battista Alberti e di Filippo Brunelleschi – e aveva ammirato la corte bizantina.
A Ferrara, dove si presume sia stato intorno al 1450, e poi a Urbino, aveva conosciuto l’arte fiamminga e il gusto d’oltralpe, traendone l’attenzione per la resa naturalistica dei dettagli. Suggestioni e influenze che, accanto agli interessi scientifici, alla capacità immaginifica e alla profonda sensibilità per le vicende politiche, hanno consentito a Piero una cifra artistica assolutamente originale, portandolo a creare opere di una tale altezza intellettuale e spirituale da influenzare profondamente, con la riscoperta ottocentesca, anche l’arte del XX secolo.
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La mostra è accompagnata da catalogo Skira/Museo Statale Ermitage, in edizione russa e italiana, con saggi di Carlo Bertelli, Tatiana Kustodieva, Antonio Natali, Piergiorgio Odifreddi, Antonio Paolucci, Paola Refice. Informazioni: www.hermitagemuseum.org
Fonte: Comunicato ufficiale.   
#MOSTRE / Apre a #SanPietroburgo la più grande rassegna mai realizzata su Piero della Francesca [#FOTO] #Ermitage #PierodellaFrancesca #rinascimento #arte SAN PIETROBURGO, Russia - Sarà interamente dedicata a Piero della Francesca (1412 – 1492), tra i capisaldi della pittura italiana del XV secolo, la mostra…
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pangeanews · 5 years ago
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“La sua tomba semplicemente non esiste”. Piccolo discorso sul corpo martoriato, sfinito, scomparso del poeta
Il corpo del poeta equivale al suo corpo poetico – il corpo del poeta va letto con la stessa attenzione con cui si attende alla sua opera. In effetti, il corpo distingue uno stile, richiama un particolare prodigio del verbo.
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Il 4 giugno del 1970, in San Lorenzo fuori le Mura, Carlo Bo poteva dire, sul corpo del poeta, “Giovani della mia generazione in anni oscuri di totale delusione politica e sociale, sarebbero stati pronti a dare la vita per Ungaretti, e cioè per la poesia”. Certo, la morte è per tutti, ma nessuna morte è uguale all’altra; la morte non interrompe nulla, ma alcune morti hanno l’ardire del segno, dello stigma.
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La tomba di Lev Tolstoj, morto in fuga, il 20 novembre 1910 nella stazione di Astàpovo
Pur squarciato, assassinato, il corpo di Pier Paolo Pasolini ebbe assistenza d’amore, il 5 novembre del 1975, l’anno in cui Eugenio Montale fu omaggiato con il Nobel per la letteratura, durante il funerale, a Roma. “Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro”, disse, allora, grave d’emozione, Alberto Moravia, combinando i piani – ciò che conta e ciò che è sacro. A nessuno, molti anni prima, importò del corpo di Dino Campana, il poeta formidabile, relegato in Castelpulci fino alla morte, nel 1932. Fu Piero Bargellini, riconoscendo a quel corpo carati di genio, a lottare, dal 1938, perché “una sistemazione più degna” fosse data al poeta. D’altronde, chi ha curato il corpo di Emanuel Carnevali, nei vent’anni di vita che gli son rimasti, tornato dagli Usa, tra Bazzano, Roma, Bologna, un policlinico e l’altro?
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Mi piace il testamento – pur letterario – di Luigi Pirandello, quasi un micro-racconto, una poetica. “Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui”. Più stringato quello di Giuseppe Verdi – “Che i miei funerali siano modestissimi e siano fatti allo spuntar del giorno o all’Ave Maria di sera senza canti e suoni” – ma qui, più che altro, lo s’intende dal tono retorico, mirabile, siamo nell’ambito delle intenzioni, di chi deve dare ai posteri, ricco di gloria, un’immagine di sé, di – pur autentica – sobrietà.
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Indipendentemente dai desideri degli artisti, i governi hanno tentato di schiacciarli, almeno da cadaveri. “La sepoltura della famosa poetessa Anna Achmatova fu collocata a un livello infimo: nell’obitorio dell’ospedale venne improvvisata una commemorazione sul suo feretro, che poi fu trasportato direttamente al cimitero” (John e Carol Garrard). Era il 1966, e gli ostacoli di Stato animarono l’energia di molti poeti – tra cui Iosif Brodskij e Arsenij Tarkovskij – che decisero di proteggere il corpo morto, memorabile, della Achmatova, “donna dalla vita leggendaria, la cui sfrenata resistenza a ciò che considerava indegno nel suo paese la trasformò non solo in un emblema della letteratura russa, ma della storia russa del XX secolo” (Isaiah Berlin). D’altronde, la morte di Boris Pasternak, accaduta sei anni prima, fu salutata con un trafiletto pubblicato dalla “Literaturnaja Gazeta” (“Si comunica l’avvenuta dipartita dello scrittore Pasternak Boris Leonidovič, membro della mutua degli scrittori, dopo una lunga e grave malattia”), e contenuta nella sua casa a Peredelkino. Dall’Informativa redatta “dal vicedirettore della Sezione cultura del Comitato Centrale del Pcus”, leggiamo che “una delle donne, lì con un bambino in braccio, ha detto ad alta voce: ‘Ma che tipo di scrittore è se si è messo contro il potere sovietico?’”.
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Paul Celan si getta nella Senna il 20 aprile 1970; è ripescato dieci giorni dopo
…poi ci sono i corpi che spariscono, per un crinale di giorni – la prova dell’angelo – e ricompaiono, incrinati e corrotti. Il corpo di Paul Celan vaga, tra il 20 aprile e i primi di maggio, nella Senna – la sua opera prevede il trafugamento, il travisamento delle fattezze. Quattro anni prima, Delmore Schwartz muore in una camera del Chelsea Hotel. Si era fatto fuori da tutto da tempo – bussarono alla sua porta dopo tre giorni. D’altronde, nell’aprile del 1932, nessuno riuscì a prelevare dalla Fossa delle Marianne il corpo di Hart Crane, scomparso a ogni orazione, per il gusto, forse, di una eterna giovinezza. Altri, invece, hanno goduto, da morti, di lauti onori e giusti tributi, dacché “un bel morir tutta la vita honora”.
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Il corpo di Marina Cvetaeva, che penzola in una piccola casa a Elabuga, nel Tatarstan, è l’ultimo giorno di agosto del 1941, è trattato come un rifiuto, come ciò che non dovrebbe esistere, come un accessorio inaccettato. “Fu sepolta in una sorta di fossa comune del cimitero di Elabuga, su una collina, tra alberi di pino. Senza una lapide. La tomba di Marina Cvetaeva non esiste”.
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Nell’anno in cui la Cvetaeva si ammazza, Bruno Schulz è relegato nel ghetto di Drohobyč. Nel 1942 un ufficiale della Gestapo gli spara in testa – per gioco, per vanto, perché quel corpo è nulla, pura parola, se la ripeti al contrario, che differenza fa? Spazzato in una fossa comune, il corpo di Bruno Schulz, leggero e alieno come i suoi racconti, svanisce, inghiottito dalla Storia.
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Il punto oscuro a cui tende il poeta, lo scrittore è proprio quello. La sparizione. Una sparizione sonora, fisica, reale. Defunto all’opera – cioè, compiuto – lo scrittore deve svanire: la tomba è un’offesa, il sacrario un sacrilegio, la lapide una chiacchiera. Se Cristo risorge nella carne – ma con le ferite/feritoie – il poeta in carne scompare. Che fine ha fatto il corpo del “controrivoluzionario” Osip Mandel’stam, che si ostina ancora – refoli agiografici – a recitare Petrarca in russo, a Vladivostok, un nome che appena lo pronunci spalanca crociate nel gelo? “L’unica sua lettera dalla Siberia giunge a Mosca il 13 dicembre, dà notizia, fra l’altro delle sue pessime condizioni di salute… muore il 27 dicembre, si spegne nella baracca che serviva da infermeria, e il suo corpo verrà poi sepolto in una fossa comune, vicino al campo” (Remo Faccani). Era il 1938, ma della sua morte i parenti sapranno qualche anno dopo – scombinare le date della morte, braccate fino al frainteso, all’errore, deviando l’opera pia, anche questo è un segno formidabile.
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Isaak Babel’ muore, fucilato, il 27 gennaio 1940. La moglie, Antonina Nikolaevna Pirožkova, nel 1954, scrive al Procuratore generale dell’Urss “per un eventuale alleggerimento del suo destino futuro”. Lo credeva vivo. Gli aveva scritto – per 14 anni. Chi avrà letto le sue lettere? Qualcuno, pio sconosciuto, avrà risposto alle sue lettere? C’è margine per un romanzo. La verità, invece, dice che “non esistono né documenti né testimonianze sulla morte di Babel’, né sul luogo dove è stato sepolto” (Costantino di Paola). Puf. Sparito. Restiamo noi, a disseppellire quei corpi, a lavarli, a scrostarli dall’orrore, a renderli lucidi, ancora pericolosi. (d.b.)
*In copertina: il corpo di Percy Bysse Shelley viene cremato sulla spiaggia di Viareggio, nel 1822, alla presenza degli amici, tra cui Lord Byron; il quadro che raffigura l’evento è di Louis Edouard Fournier 
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pangeanews · 5 years ago
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“Eppure, il Passato sa inumidire un paio di occhi…”. Iosif Brodskij scrive (in versi) la “Storia del XX secolo”. Viaggio conturbante tra Stalin e Conan Doyle
Brodskij. Inedito. Mi fa pensare Brodskij negli anni Novanta che compone in inglese-americano le sue traduzioni da Mandel’stam, dalla Szymborska e sparge qua e là i motti caustici degli shorts (Hail the vagina / that peopled China). Tutto rigorosamente inedito. Facciamo così. Proviamo a saggiare come suona il suo inglese tradotto in italiano. Ecco altri shorts che apparvero su Occasional Styles per Yale nel 1992. Sfogliamo i Collected poems in English...
Ostriche
Le ostriche, come le ragazze, come le perle. Perle come il buio e l’umidità. Con perle intorno al suo collo o tra i suoi boccoli, La mia ragazza fa del mio mondo la mia ostrica.
*
Un san Valentino
Sei troppo giovane, e ho paura di toccarti Ché vorrebbe dire guaio. Allora scopriamo un’isola e costruiamoci una statua Alla pubertà, giù al porto. Un’isola non saprà sillabare la parola ‘figlia’, Una parola orfana. E tu farai, se non ti spiace, l’acqua E io, il tuo delfino. E tutto il giorno terremo i nostri occhi poggiati L’uno sull’altra invece di guardare l’orizzonte col suo blu da poliziotto Funestato da tuo padre.
*
Brodskij ha capito che a nessuno interessa leggere della sua vita, a nessuno gliene importa di leggere della vita degli altri. Tutti vogliono leggere la propria vita. Cosa che lui è riuscito a fare raccontando al momento stesso la sua e quella degli altri. Scrivere, addirittura fare poesie, è allora il racconto di una relazione? Un amore sublimato? Un uomo che si fa orso per cogliere e rapire il miele? Forse sì: è tutta una relazione tra i punti di vista che il poeta riesce a intrecciare tra il suo occhio e quello degli altri su di lui.
*
Continuiamo con compassione, lasciamo emergere la letteratura dalla vita. Del resto, a che serve spingere giù per la gola cucchiaiate di Brodskij e tutti gli altri, quando nella gola della realtà incontriamo una donna che cinguetta oppure ecco laggiù che si squarcia il velo e appare un poeta errante o la donna assalita dalle fobie del mattino o quant’altri che non sanno di essere qualcosa per noi, non sanno di essere poesia e noi entrando in loro illuminiamo la loro appartenenza alla letteratura e la loro letteratura alla vita della natura eterna e immutabile della nostra noia. Della nostra impazienza.
*
Eccovi impiattata la sua Storia del ventesimo secolo (Un roadshow) che comparve nel 1986 su Partisan Review. Sono solo estratti… per ora. Il concetto è che Brodskij si avvia a ripercorrere anno per anno il Novecento, con tocco ironico e non troppo sentimentale. Il poeta ha capito che la cronologia inganna anche se, a detta dei libri di scuola, conterebbero solo gli anni: successe questo e poi quest’altro. Come se la vita fosse una carta d’identità. Invece lui sale sulla macchina e viaggia, e cosa vede invece? Strisce fisse. Asfalto nero profondo. Così la sua e la nostra vita fatte di coincidenze, di rivelazioni.
*
Un esempio di coincidenze. La copertina del New Yorker il giorno infausto del 15 settembre 2008. La copertina mostra in blu e rosso una coppia che si bacia fuori dalla metro: una bella silhouette se pensiamo che in quel giorno la finanza distrusse il mondo e oggi ammiriamo le macerie. Coincidenze da ripensare. È tutto in regola. Non sono porcate: roadshow.
Andrea Bianchi
***
Storia del ventesimo secolo (Un roadshow) 
Il sole è nella sua orbita, eppur non si muove. * Prologo
Signore e signori buon giorno! Tutti voi siete di nobile pasta, lasciate che vi dica che siete apposto.
Il nostro spettacolo inizia senza grandi ritardi, perciò vi informo subito
che questa è già la fine dell’opera
che è andata avanti per ottant’anni buoni. Ha avuto i suoi booh e i suoi applausi. Si teme che non andrà così all’infinito.
Gli uomini e le macchine dicono bugie per riposarsi o prender ruggine. Nulla arriva così in fretta come il Passato. Quel che vi mostreremo adesso è il cast
Di personaggi che hanno smesso di recitare. Ognuna di queste vite è diventata un fatto Dal quale, si presume, potete sottrarre
Ma al quale, per buona sorte, non si può aggiungere. Le conseguenze quindi potrebbero essere cattive Per il vostro esteriore o il vostro sangue
Perché quelle sono le cause, e voi gli effetti. Siccome loro stanno sepolte coricate, voi siete eretti. Cittadini! Non scordate
La storia! La Storia fa il punto Su tasse e raffreddore, su quel che salta fuori dal nulla.
Vi mostreremo campi di battaglia, alcove, laboratori, navi che affondano e sommergibili in fuga, culle, matrimoni, divorzi, pietre o sepolcri.
Gente! Il sipario sta per sollevarsi! Quel che vi si mostrerà non sarà mica come il Paradiso. Eppure, il Passato sa inumidire un paio di occhi,
perché i suoi prezzi erano più bassi delle nostre tariffe vendita, perché il Passato rovinava le città: non solo le piccole celle; ché all’orizzonte non ci sono navi inquiete
ma un vento che viene meno.
*
1900. Un anno tranquillo, lo direste. Vero: nessuno di voi è vivo in quel momento. Il doppio zero di 1900 segnala la vostra mancanza. Eppure, qualcosa succede, un bel po’ di cose. In Cina, i boxer mettono a cappotto i bianchi. In Russia scrive A.P. Cechov. In Italia grida a squarciagola Floria Tosca. A Vienna Freud interpreta l’ugola del sogno. Impressionisti dipingono, Rodin ancora batte lo scalpello. In Africa i Boeri prendono lo scalpo ai Britannici O vice versa (a chi gliene cala, miei cari?). Qui viene rieletto McKinley. Vi sono quattro grandi imperi, tre buone democrazie. Il resto del mondo fa sport in perizoma e mocassini, sia detto in senso figurato e letterario. Nella little Italy apre un altro “Da Umberto”, nell’altra Italia più grande Umberto primo viene ammazzato. (Non tutte le minacce scritte sui muri sono ascoltate). E a segnare la vera svolta di secolo, muore Friedrich Nietzsche, nasce Louis Armstrong – segno che il “Ciao Dolly” prende il posto del “Dio è morto” di quel bislacco mangiacrauti. Eppure, l’uomo dell’anno è un ingegnere. John Browning il suo nome. Gli dobbiamo più di una cosa. Quindi sentiamo i suoi Titoli per la fama. (…)
1902. L’uomo dell’anno è Arthur Conan Doyle, scrittore. Il soggetto della sua tecnica artistica È un cazzuto che lavora in privato col suo assistente panciuto; all’occasione, compare un cane. “Immaginate” dice Conan Doyle, “il peggio: il vostro subconscio è Tanto sbadato quanto la vostra coscienza. E voi, anima Nobile, afferrate la vostra Luger e fate del vostro cervello Un formaggio svizzero. Perciò fareste meglio a prender in mano Il mio romanzo sul Mastino dei Baskerville! Saprà ricucire le vostre cellule cerebrali dando sostanza ai vostri sogni. Ché è una storia per ammazzare il tempo, mica il lettore”. (…) Quanto al 1907, non siamo né qui né là. Ma Auden nasce adesso! Questa nascita è il miglior prologo! Però un tale Pavlov prende a interessarsi di cani. Il suo vicino Mendeleev, barbuto Che dà all’universo la sua tavola degli elementi, scivola nel coma. E poi, primo spettacolo cubista mentre l’Oklahoma diventa Il 46esimo stato dell’Unione. Da un’altra parte la Nuova Zelanda Cerca di sfuggire all’Union Jack. Mentre Lumiere Sviluppa le immagini a colori (e dobbiamo tutto a lui!). Il Papa lancia il suo sguardo fioco sul modernismo come uno Jago geloso. Chicago batte 4-0 Detroit e vince le World Series, la sua sete di gloria mundi è placata. A Swinemuende Nicola secondo s’incontra col Kaiser per una tazza di tè. Anche questa storia, come Kalamazoo sperso in Michigan, non si capisce dove si svolga. E Karl Hegenbeck apre il suo zoo senza gabbie dove trichechi nuotano, i leoni si rilassano e gli uccelli svolazzano: anche agli animali tocca mentire.
L’uomo dell’anno, non ci crederete, è Iosif Stalin, allora solo un ladro. È giovane, ventott’anni; ma la Storia è qui e lui non sa aspettare. “La mia gioventù era disastrata, vissi nel fango. Me la presi con le banche perché mi mancava il babbo. Così per aiutare il Partito, in un solo giorno presi quattrocentomila rubli. Fin qui, fu il più gran colpo Nella storia russa dopo Cristo. Quindi datemi del malvagio, alcuni mi dicono zelante; quanto a me, mi piacciono le cifre grosse con una caterva di zeri”. (…)
1912. Anche il capitano Scott raggiunge il Polo Sud. Sennonché vi arriva dopo Amundsen. Fissa il ghiaccio, pensa alla sua famiglia, prega e muore. E il ghiaccio non si ferma qui. S.S. Titanic colpisce l’iceberg e cola giù. Per i Lloyd a Londra La campana suona a morto. Cinquecento anime, forse di più, sono perdute. Perciò volgiamoci alla Romania, dove è nato Eugene Ionesco e poi magari alla Turchia e ai suoi vicini Balcani: tutti si sentono pronti a toccare arma; pensandoci sopra, però, abbandonano l’idea. Pace ovunque. Adesso a Londra vi sono cinquecento sale spettacolo che rendono le babysitter una questione sociale. (…)
Iosif Brodskij
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pangeanews · 5 years ago
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“Con quello che pubblicano, si capisce perché a uno passi la voglia di leggere: faremo rinascere le librerie indipendenti”. Il progetto culturale di Andrea Mascetti, l’avvocato che legge Milarepa, Hesse, Dostoevskij
Nel cuore di Milano, risuona Herman Hesse – in forma concreta e volitiva è lui a raccontarmi i punti salienti e ‘attuali’ (ovvero: perennemente inattuali al fluire della Storia) di “Demian”, pubblicato esattamente un secolo fa. Poco prima, per messaggio – i cellulari hanno inevitabili vantaggi se li domini con il cervello senza farti soggiogare dalla lascivia del ‘fare’ – discutiamo della propensione verso l’occulto, lo spiritismo, il ‘meraviglioso’ di William Butler Yeats. Andrea Mascetti è avvocato assai solido, con uno studio nel cuore di Milano, appunto, e a Varese. Di inossidabile eleganza, pare sempre pronto allo scatto, parla forbito e ha lo sguardo ferino, affronta complicatissime carte ma può, all’improvviso, darsi a sfidare un ghiacciaio. Abita in metropoli, ma ama la solitudine montana. Quando scopro, nel giugno scorso, che in Fondazione Cariplo l’avvocato Mascetti è il coordinatore della commissione “Arte e Cultura” mi sorprendo. Uno che legge, che ha testa adatta al pensare e all’agire, spesso controcorrente, in un ruolo istituzionale così importante, ambito. In una delle prime dichiarazioni, rilasciate qualche giorno fa, Mascetti cita, tra le ‘linee guida’ che definiscono il suo progetto – direi: sentieri nel deserto del contemporaneo – “la rinascita delle librerie indipendenti”, la “formazione culturale dei giovani”, un elogio esplicito ai “piccoli editori, di libri rari o creati in modo artigianale”. Mascetti è allo stesso tempo pragmatico e lucidamente antimoderno. Lo contatto. Mi concede una intervista controcorrente, avventata? Ci sta. Eccoci. (d.b.)
Ho letto di un suo impegno a tutelare, anzi, direi, a salvare le librerie indipendenti. Ci vedo una idea culturale precisa, svincolata dall’incatenamento delle grandi catene. Sbaglio?
L’idea è quella di uscire dalle strade obbligate, o meglio da quelle già indicate da altri. Oggi nelle città si vedono due catene di librerie, forse tre, sempre le stesse. I piccoli editori indipendenti arrancano, salvo alcuni che resistono con piglio e originalità. Le librerie dedicate a temi specifici o, più semplicemente, a propri gusti stravaganti, sono quasi estinte; e con loro quel bel tipo umano che ricercava con passione luoghi inconsueti e seduzioni esotiche. Sorte ancor più crudele è toccata alle librerie antiquarie, un tempo luoghi votivi di tante donne e uomini colti ed appassionati, ricercatori entusiasti di tesori nascosti tra mille scaffali. In tutto questo panorama i lettori decrescono di anno in anno, come in una spirale infernale. Siamo forse giunti al trionfo del generalismo: sapere poco di tutto e nulla di ciò che veramente vale. Il modello Wikipedia è giunto alla sua ennesima potenza. E così anche la lettura è stata divorata dal Leviatano. Per leggere occorrono infatti tempo, quiete, noia fors’anche: tutte cose che nel frenetico mondo dei cellulari non sono più consentite. E l’Italia, questa creatura bizzarra, pare abbia pagato a più caro prezzo il mutamento dei tempi, con una riduzione drammatica della lettura, soprattutto tra i più giovani. Ad onore del vero, con quello che pubblicano, si capisce perché ad uno passi la voglia di leggere. Personalmente faccio molta fatica a trovare cose interessanti in libreria, soprattutto presso le grandi edizioni. O ripubblicano classici, o cadono in cose illeggibili e pacchiane. Con l’eccezione di Adelphi e di alcuni pochi altri intraprendenti editori.
In particolare, lei parla di una ‘emergenza lettura’. Io aggiungerei, malingnamente, che c’è anche una ‘emergenza letteratura’, ma non è questo il punto. Perché, fuori di retorica, ritiene la lettura così importante?
Perché leggere è come “sperimentare”, se stessi e il vasto mondo; è uno dei pochi strumenti di libertà che ci permettono di comprendere la complessità dell’esistere e le mille sfaccettature di questa nostra condizione umana. Togliere questo mezzo di confronto è come togliere i giochi ai fanciulli: si impedisce loro di crescere in armonia. Il mondo precedente all’invenzione della stampa aveva l’esperienza della terra e una tradizione millenaria che istruiva e formava. L’uomo che invece noi abbiamo conosciuto ebbe la lettura e la scuola: entrambe queste sono cadute in condizioni dolorose, mi pare.
Da lettore ‘forte’ mi dica che libro ha sul comodino.
Ho sempre con me I centomila canti di Milarepa e Irradiazioni di Ernst Jünger. In questi giorni ho finito di rileggere Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, e ora sono immerso in un testo di Orlando Figes di Einaudi, La danza di Nataša. Storia della cultura russa (XVIII-XX secolo) che così si riassume: “dagli splendori della Pietroburgo settecentesca all’epoca terribile del sistema staliniano, dall’arte popolare ai magici rituali degli sciamani asiatici, dalla poesia di Puškin alla musica di Musorgskij; un grandioso affresco della storia e della cultura russa, ricca di vicende straordinarie e di personaggi indimenticabili, artisti ed aristocratici, rivoluzionari ed esuli, religiosi, libertini e contadini senza nome”.
Che rapporti devono intercorrere a suo avviso tra politica e cultura. Mi verrebbe da dire: esiste ancora una ‘cultura politica’?
Ci fu un tempo in cui la Cultura era uno strumento mirabile della Politica. Ed infatti le due cose dovrebbero andare a braccetto; meglio, una dovrebbe essere lo specchio dell’altra. Tutte le grandi ideologie costruirono strepitose macchine per diffondere la propria cultura, ovviamente per suggestionare politicamente a proprio favore le masse. Ma oggi tutto questo non esiste più. In nessuno schieramento, sia chiaro. I politici dei giorni nostri considerano i temi culturali orpelli inadeguati ai tempi e alle necessità, anche elettorali, della odierna fase politica. Quando Spengler usava il termine Kultur ne aveva una idea tutta politica. Oggi la situazione è enormemente diversa, e non mi pare che si tratti neanche più di mera Zivilisation.
Penso che uno dei nodi centrali del sistema culturale sia la scuola. Eppure, le accademie ingrigiscono e le scuole arrancano. Intende agire anche in questo settore? In ogni caso, qual è il suo pensiero sul punto?
Non ho evidentemente alcuno strumento per agire su queste vicende che hanno profili spaventosamente grandi e complessi. La scuola è lo specchio del nostro mondo. Non ci sono più pedagogie alte. Una idea totale dell’uomo, come forse ebbe ancora Steiner, non potrebbe avere alcuna fortuna nel nostro mondo, dove le scuole sono mere istituzioni burocratiche finalizzate a perpetuare, salvo rarissime eccezioni, il banale e il brutto.
Infine: la lettura è un gesto individuale, la cultura è una ricerca propria, privata. Come si salda questa solitudine, questo eremitaggio dell’intelletto con una azione culturale ‘per tutti’? Direi anche: come si concilia la ricerca intellettuale con l’essere ‘buoni cittadini’?
Come la preghiera e la meditazione operano per vie non conosciute ai più, anche la lettura o la discussione appassionata generano effetti sottili i cui esiti non possono esserci noti. Quando regalo un libro o, meglio ancora, quando vedo un giovane che si dedica ad una militanza culturale, magari allestendo un tavolo di libri che lui ritiene tanto speciali da essere diffusi, ecco, lì vedo e nutro una speranza. Quel giovane, pur non avendolo forse mai letto, fa sua la famosa battuta di Jünger per cui “libri e proiettili hanno i loro destini”.
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pangeanews · 6 years ago
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“Sono pronto a ridurre tutto in schegge e a mettere tutti in ginocchio”. Discorso intorno alla Rivoluzione russa (e analisi del concetto stesso di “rivoluzione”). Con poeti in sottofondo
Questo intermezzo vuole essere una riflessione su un evento che ha veramente segnato la storia dell’umanità: la rivoluzione russa.  E questo lo voglio dire, non per mitizzare la Russia, sottolinearne l’importanza e l’originalità rispetto ad altre rivoluzioni, ma per isolare la vera causa della storia della rivoluzione russa, ovvero il partito bolscevico, rispetto all’attesa di un vero rinnovamento e di un cambiamento politico e sociale che comunque era necessario e sentito in Russia a cavallo dei secoli XIX e XX. Il partito bolscevico guidato da Lenin, seppur in minoranza iniziale rispetto agli altri partiti, riuscì a impadronirsi definitivamente del potere nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 1917, sovvertendo l’intera struttura politica e religiosa del Paese. La rivoluzione russa che riguarda miti, speranze, indignazioni, tentativi, sogni, cambiamenti, novità, è un’altra cosa. Perché è importante sottolineare questo? Perché ciò che accadde in quella notte riguarda un fenomeno sì di lotta sociale, ma anche e soprattutto spirituale e religioso ed è su questo terreno che s’inseriscono le voci dei poeti che voglio raccontarvi.
*
Come scrisse Nikolaj Berdjaev, noto filosofo del tempo, “il bolscevismo russo è un fenomeno di ordine religioso, in esso agiscono alcune estreme energie religiose, se per energia religiosa si intende non soltanto ciò che è rivolto a Dio. La surrogazione religiosa, la religione inversa, la pseudo religione è anch’essa un fenomeno di ordine religioso, in questo sta la sua assolutezza. Il bolscevismo non è politica, non è semplicemente lotta sociale. È uno stato dello spirito e un fenomeno dello spirito, una percezione e visione totale del mondo. Il bolscevismo pretende di prendere tutto l’uomo, tutte le sue forze, vuole rispondere a tutte le sue esigenze. Il bolscevismo è il socialismo portato a una tensione religiosa e a un esclusivismo religioso”. Infatti la rivoluzione russa del 1917 non si esaurisce negli eventi sovvertitori iniziali ma riguarda anche gli anni e i decenni successivi dato che la presa di potere da parte dei bolscevichi fu soltanto l’avvio di un lungo processo rivoluzionario, la cui traiettoria si è conclusa settanta e più anni dopo con il crollo del regime.
Quindi, quella che nel lessico ideologico sovietico si chiamava Grande rivoluzione socialista di ottobre e come tale era esaltata nella mitologia poetica dei suoi artisti, fu in realtà un colpo di Stato magistralmente preparato e attuato, che portò all’eliminazione del democratico governo provvisorio e alla dittatura del Partito comunista. Al di là delle cause immediate, come il ritardo delle riforme politiche del sistema zarista, le tensioni sociali accumulate e soffocate sotto l’antico regime, le masse popolari che la prima guerra mondiale aveva messo in divisa e gettato nelle trincee, le promesse del governo provvisorio che non riuscì a soddisfare nel breve e turbolento periodo della sua attività, decisiva fu l’azione di Lenin. Egli fu guidato da una totale spregiudicatezza nell’uso dei mezzi considerati necessari, al fine di conquistare e conservare il potere, un potere incarnato nella sua persona ma al servizio di quell’Assoluto che per lui era la rivoluzione comunista.
*
Ma veniamo a noi, all’essenza della rivoluzione, così come mi è passata attraverso lo studio e la lettura di alcuni grandi poeti russi di quel periodo: la rivoluzione era soprattutto un atteggiamento dello spirito, un’ansia di cambiamento, una forza che si è innestata in un periodo storico ben preciso e si è sposata con le circostanze del momento in Russia (l’attesa delle riforme, le delusioni provocate dallo zar, il proletariato che cresce e che comincia a far valere i propri diritti, il periodo della reazione, ecc..).
Il periodo che precede la rivoluzione d’ottobre, definito Secolo d’Argento, fine ’800, inizio ’900 è un “periodo di grande frenesia degli intelletti e degli animi, di turbinose ricerche filosofiche  estetico-letterarie, il risveglio delle energie creative, l’acutizzarsi della sensibilità religiosa e mistica. E questo si deve ad “un nuovo tipo umano, maggiormente rivolto verso la vita interiore”, che ha “aperto gli occhi su altri mondi, su un’altra dimensione dell’essere”, dice Berdjaev. Una sorta di rinascimento quindi.
Un noto giornalista, scrittore, poeta contemporaneo russo, Dmitrij Bykov, paragona questo periodo a una palma, il soggetto dominante di un libro di Vsevolod Garšin, scrittore vissuto tra il 1860 e 1880.  Il libro è intitolato Attalea Princeps e in esso si racconta la storia di una palma brasiliana rinchiusa in una serra di vetro insieme a tante altre piante esotiche di straordinaria bellezza. La palma cresce e vuole crescere sempre di più perché ha nostalgia del cielo che vede attraverso la serra. La palma cresce e buca la serra ma muore perché si congela. La palma rompe dunque la serra con la sua irruenza, la sua voglia di libertà. Ma muore, perché poteva sopravvivere solo in quella serra, solo in quell’ambiente. L’ambiente di cui si parla è la società russa prima della rivoluzione, una serra anch’essa: chiusa, surriscaldata, dove regna l’assolutismo, dove vivissima è la tradizione e l’amore per essa, una società molto gerarchica, stagnante nelle sue forme. Paradossalmente questa società ha prodotto quanto di più vivo e strabiliante dal punto di vista delle arti e del pensiero, solo in questa società potevano nascere simili piante esotiche. Solo in questa società poteva farsi strada il moderno. Quanto più una società è chiusa tanto più potente è la spinta che si genera al suo interno. Ecco, la palma cresciuta nella serra cresce, getta le basi del XX secolo, esplode in tutta la sua fioritura e poi muore. Questa palma è il simbolo del secolo d’argento.
Qui si inserisce l’attesa della rivoluzione. Un’attesa successivamente delusa. Ma è bello vedere con quale forza e con quali colori si riveste questa attesa: “L’atmosfera a cavallo dei due secoli e caratterizzata dalla diffusa sensazione di un’apocalisse storica imminente, di uno sconvolgimento che avrebbe segnato una svolta nella storia mondiale. In tutto si avverte un’attesa escatologica che cresce man mano, fino a diventare aspettativa di una «bufera» terribile e purificatrice”.
*
Così scrive Pasternak: “La gente del popolo si liberava l’anima, e conversava della cosa più importante, di come e per che cosa vivere e in quali modi costruire l’unica esistenza pensabile e degna. […]. In quella celebre estate del 1917 nell’intervallo fra le due scadenze della rivoluzione, sembrava che insieme agli uomini comiziassero le strade, gli alberi e le stelle. L’aria da un’estremità all’altra era avvolta da un’ardente ispirazione che si protendeva per migliaia di verste e pareva una persona con un nome, sembrava chiaroveggente e animata”.
Boris Pasternak (1890-1960) ha raccontato la rivoluzione tenendosi in disparte e osservando. Per lui il poeta è uno spettatore, un testimone, non partecipe degli avvenimenti. All’inizio le sue poesie non erano comprese, sembrava fossero distaccate dal tempo, un tempo che esigeva che tutto riecheggiasse la rivoluzione in atto. Solo Majakovskij ne intuì la forza: “Le sue opere sono fra i modelli di una nuova poesia che stupendamente sente la contemporaneità. La sua essenza non è frutto dei libri, ma ha potuto formarsi solamente nelle circostanze della nostra vita”.  (anni ’20).
Di lui non si può parlare di “versi sulla rivoluzione”, essa è onnipresente e inafferrabile come l’aria. Questa è una poesia del 1912 nella traduzione di Ripellino
Come di bronzea cenere caduta dai bracieri, di scarafaggi brulica il giardino assonnato. Vicino a me, a livello della mia candela sono sospesi universi fioriti.
E come in una fede inaudita io entro in questa notte, dove il pioppo vetustamente grigio ha ombreggiato il confine lunare.
Dove lo stagno è un mistero svelato, dove bisbiglia la risacca del melo, dove il giardino è sospeso come palafitte e tiene dinanzi a sé il cielo.
Mentre questi versi sono tratti da Le stelle d’estate, una poesia scritta nel luglio del 1917.
Hanno narrato cose terribili. Hanno dato l’indirizzo esatto. Aprono, domandano, si muovono come in un teatro.
[…]
Nel sobborgo, la notte di luglio, sono mirabilmente bionde. Il cielo è un subisso di pretesti per combinarne qualcuna.
[…] Il vento prova a sollevare una rosa secondo il desiderio delle labbra, dei capelli e delle scarpe, dei lembi delle gonne e dei nomignoli.
Come di velo, ardenti, spargono nella ghiaia tutto ciò che per loro fu fatto frusciare, che fu intonato per loro.
È una poesia che riflette un’eco di compassione per l’umanità, data dal desiderio (le stelle) e la piccolezza tenera e grande degli uomini (il vento prova a sollevare…). Quello che si legge nei versi non è passione o attesa smodata o speranza, è ultimamente “amore”. La sua è una rivoluzione costante, la quale, anche se in termini di rinnovamento della società verrà tradita, continuerà sempre perché ripone la sua fiducia nella natura e nel continuo rinascere della vita.
Da una lettera di Pasternak a Spender (amico e poeta di Pasternak) si legge “…Ho sempre inteso il tutto – la realtà in quanto tale – come un messaggio ricevuto o un arrivo inaspettato, e mi sono sempre sforzato di riprodurre puntualmente questo carattere di messaggio, perché mi sembrava di trovarlo nella natura stessa dei fenomeni. Tale dev’essere la vita. Deve essere la tragedia della pienezza, la tragedia della produttività e delle felicità. La tragicità della vita è la sua legge naturale, essa deve essere tragica per essere reale. Quando poi sulle sue testimonianze versi lacrime, non è perché in essa le circostanze si sono combinate in maniera sfortunata, ma perché essa è costata cara. E’ la sua grandezza che fa piangere”.
A testimonianza del suo “non morire”, questi son versi tratti da una poesia scritta nel “31.
L’alba
E dopo molti, molti anni la tua voce di nuovo mi ha turbato. Tutta la notte ho letto i tuoi precetti, rianimandomi come da un deliquio.
*
Il deliquio è la vera vita che è concessa di vivere al poeta in rari momenti: riprendersi dal deliquio, scoprirsi nell’universale. La realtà si svela a noi perché è una forza. Ciò che si vede non sono oggetti ma le azioni di questa forza.  La forza, così come la vista e la coscienza sono dirette verso l’esterno. Sono un’energia che richiede di essere spesa.
Voglio andare tra la gente, nella folla, nell’animazione mattutina. Sono pronto a ridurre tutto in schegge e a mettere tutti in ginocchio.
Il superamento della morte è un compito che secondo Pasternak si pone all’umanità intera. Questo gli permette di vedere di nuovo tutto come se fosse la prima volta:
Scendo di corsa le scale, come se uscissi per la prima volta su queste strade coperte di neve e sul selciato deserto. 
Il poeta sente come uno struggimento nei confronti delle persone. Sente, come proprio, il loro desiderio di bene, il loro tendere alla gioia, ma sente anche la propria e loro insita impotenza che rimane, comunque abbracciata da un amore:
Io sento per loro, per tutti Come se fossi nella loro pelle, mi sciolgo come si scioglie la neve, come il mattino aggrotto le ciglia.
Con me sono persone senza nomi, alberi, bimbi, gente casalinga. Io sono vinto da tutti costoro, e solo in questo è la mia vittoria.
“Egli passava nel folto delle battaglie, che avrebbero mutato la Russia, come un sonnambulo, destandosi a tratti per annotare con voce assonnata, non le gesta del popolo, ma i prodigi del cosmo”.
Isabella Serra
(continua)
*In copertina: Vladimir Majakovskij si spara al cuore il 14 aprile del 1930
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pangeanews · 7 years ago
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Visar Zhiti, l’ultimo poeta arrestato dal regime comunista (che piaceva tanto a Eco)
La parola a Umberto Eco. Novembre 2010, la Repubblica. “È che la poesia fa paura ai regimi autoritari e dittatoriali anche se parla soltanto, come nel caso di Zhiti, di rose”. Zhiti è Visar Zhiti, poeta albanese, classe 1952. Visar Zhiti ha un record tragico. È l’ultimo poeta sopravvissuto alle carceri del regime comunista. In particolare, è sopravvissuto al tallone di ferro del regime di Enver Hoxha. Riassumiamo i fatti. Tragici. Esatti. Zhiti, nato a Durazzo, figlio d’arte – il padre è attore di teatro e poeta per diletto – si accinge a diventare la stella della nuova poesia albanese. A poco più di vent’anni ha terminato la prima raccolta. S’intitola Rapsodia della vita delle rose. Il libro – qui sta l’aspetto tragicamente interessante – viene osteggiato dagli intellettuali ‘di regime’, dai critici letterari del tempo. “Mi accusavano di aver scritto poesie tristi, in un linguaggio ermetico, ostile ai dettami del ‘realismo socialista’. Dissero che ero malato”. Dal dire al carcere, c’è di mezzo un processo. Nel 1979 Visar Zhiti, denunciato dai promotori culturali ‘rossi’, viene incarcerato “perché poeta, senza aver commesso altro delitto che scrivere poesie”. Nel 1980 è trasferito in un campo di concentramento sulle montagne albanesi. A lavorare nelle miniere di rame. Una specie di risorgente Gulag sovietico. “Era un lavoro durissimo. Penetravamo a piedi, per chilometri, sotto terra, come gli schiavi nell’antichità. Per non impazzire, senza carta né penna, al buio, scrivevo poesie, nella mia mente”. Il carcere estremo termina nel 1987. Il poeta può lavorare in una fabbrica di mattoni, a Tirana. Di pubblicare le sue poesie, è ovvio, non se ne parla. Poi, finalmente, nel 1991, la fuga dall’Albania, prima a Milano, poi in Germania e negli Stati Uniti. Visar è la voce sommessa della tragedia dei poeti albanesi sotto il regime ‘rosso’. Una storia ignota ai più. Nel 1995 torna, in condizioni politiche mutate, nel suo Paese. E a poco a poco viene risarcito. Le sue poesie, di esemplare nitidezza, nate dall’amore per Walt Whitman, Baudelaire e Dostoevskij – tutte letture censurate dal regime albanese – trovano spazio in Italia. “Esemplare e prodigiosa insieme è la vicenda umana e poetica di Visar Zhiti”, sottolineano i curatori (Ennio Grassi e Rosangela Sportelli) di un numero monografico – e fondamentale – di ‘In forma di parole’, dedicato ai Poeti della terra d’Albania. In Elio Miracco il poeta albanese trova un abile traduttore: in questi anni più recenti escono raccolte come Confessione senza altari e Il visionario alato e la donna proibita. L’ultimo libro, uscito pochi giorni fa per Rubbettino, Il funerale senza fine (pp.156, euro 15,00; in origine è uscito nel 2003), è un possente romanzo in versi in cui Zhiti ha il coraggio di guardare nell’ulcera prodotta dal pensiero collettivista (“è meglio non pensare, perché non solo non ti stanchi, ma eviti i sospetti, che diventano sempre guai”), dall’ideologia ‘rossa’, dal clamore di ogni dittatura, tra passi feroci (“Brutale è stato il funerale di Stalin./ Correvamo per entrare nel corteo. Soprattutto i contadini./ Correvamo e calpestavamo quanti/ cadevano per terra. Morivano tra le urla./ A centinaia. Mi ascolti?”) e la speranza, cocente, conturbante, dell’amare. Per qualche anno Visar Zhiti ha avuto ruoli diplomatici nell’ambasciata albanese in Vaticano, entrando anche in contatto con Papa Francesco. Ora è da poco ‘dirottato’ a Washington DC. Lo abbiamo contattato.
  Come è nata l’idea di Funerale senza fine? Si tratta, forse, del requiem, del funerale di una intera civiltà?
“Difficile da spiegare. Soprattutto per l’autore, che è ‘morto’ quando esce il suo libro e gli altri ne parlano come a un funerale… Il libro parla da sé. Però, sono d’accordo con lei, è il requiem, il funerale di una civiltà, un allarme pieno di dolore, triste, grottesco, postmoderno, postkafkiano. L’idea di scrivere il romanzo in versi non è venuta in un attimo: esso è pensato durante tutti i giorni e le notti della mia vita. Spero che mi sopravviva. In Romania, dove il libro è stato tradotto, uno scrittore ha detto, ‘un soggetto raro, destinato ai rari’”.
Quali sono state le sue ispirazioni nella scrittura di questo libro?
“Più che una ‘inspirazione’ direi una ‘respirazione’, anzi, un affanno permanente. Ho respirato la dittatura nel mio paese, quella è l’ispirazione. Ma non è solo la metafora della mia vita: tutte le dittature, antiche e nuove, sono sofferenza, noia, inutilità, sentimento del nulla, di camminare in vano, una sensazione terribilmente pensate quando è collettiva, collettivizzata”.
  Lei è stato in carcere, imprigionato dal governo comunista albanese, perché eri, e sei, un poeta. Come mai un poeta fa paura al regime, al potere?
“Bisognerebbe chiederlo ai dittatori. Mi sembra interessante, a proposito, quanto ha scritto Umberto Eco: ‘A giustificare l’esigenza di recludere un poeta non è necessario che uno scrittore si muova anche, o eminentemente, come soggetto politico e, come Zenone, cospiri attivamente contro il tiranno. Si veda… la vicenda di Visar Zhiti: gli è bastato scrivere poesie considerate dai redattori di una casa editrice ‘tristi ed ermetiche’, e quindi ostili al regime. Poi la pratica è automaticamente passata al Comitato centrale del partito albanese e al ministero degli Interni, e Zhiti si è guadagnato giustamente dieci anni di carcere. È che la poesia fa paura ai regimi autoritari e dittatoriali anche se parla soltanto, come nel caso di Zhiti, di rose’. Ma le dittature e i dittatori hanno bisogno di poesia e di poeti, questa è l’altra faccia della medaglia. I dittatori hanno bisogno dei poeti per esaltare se stessi, per crearsi un alibi. Spesso durante le dittature sono gli intellettuali il vero pericolo per i poeti”.
   A 100 anni dalla Rivoluzione russa, che giudizio dai del comunismo come forma di governo?
“Nel XX secolo metà del mondo era parte dell’impero comunista. Il XX secolo inizia con la terribile Rivoluzione bolscevica ed è finito con il crollo dell’impero comunista. Come prassi, il comunismo è stato antiumano, è nato nel sangue e ha prodotto fiumi di sangue che hanno creato nel mondo un oceano di sangue. Come idea, il comunismo è una utopia, che alla greca significa ‘senza un posto’… Un filosofo e scrittore americano, George Santayana, diceva che il comunismo è ‘antibiologico’. Cosa posso aggiungere? La mia giovinezza in carcere e le mie poesie. Per fortuna l’impero comunista è imploso, pacificamente, senza rivoluzioni, consumato, come i dinosauri. Certo, sono indimenticabili le vittime dei Gulag, le carceri, le migliaia di vittime tra dissidenti, oppositori, martiri, anche nel mio piccolo paese ci sono tanti martiri. Io sono per la dittatura dell’amore”.
   Che giudizio ha della cultura italiana?
“Più che altro, la amo. La poesia, la lingua, la musica, la pittura, il Rinascimento, Dante, il più grande poeta al mondo, I moderni, le chiese…”.
  Quali sono, a tuo avviso, i poeti albanesi che andrebbero tradotti in Italia?
“Vorrei che l’Italia amasse i poeti albanesi, tanto quanto gli albanesi amano l’Italia. La letteratura Albanese, ora, è piuttosto presente, grazie ai traduttori e agli autori albanesi che scrivono direttamente in italiano. La mia proposta è che siano tradotti in Italia i poeti perseguitati, fucilato dal regime, o finiti in carcere. Sono poeti davvero meravigliosi, che non hanno appoggi, e rischiano di essere condannati all’oblio, con tutte le sue perfidie. Solo l’Albania può costruire una grande antologia dei poeti fucilati o carcerati durante il regime comunista. Io l’ho creata e pubblicata nel mio Paese. Quei poeti sono dei messaggeri dell’Europa, e l’Europa dovrebbe conoscerli, pienamente”.
  Ora lei abita negli Usa: che cultura respira, è riconosciuto come poeta? Oggi, a cosa stai lavorando? 
“Dopo la missione diplomatica in Vaticano, presso la Santa Sede, uno stato ‘celeste’ e pieno di Misericordia, dove ho avuto una esperienza magnifica, adesso sono in un’altra superpotenza… Sono in mezzo a un popolo che lavora e che stima chi lavora. Un mio libro di poesie è stato tradotto negli Stati Uniti, ma ora ho fame di conoscere i poeti e la cultura statunitense. A cosa sto lavorando? Contemporaneamente a Funerale senza fine, è uscito in Albania un altro mio libro, che raduna poesie, saggi e traduzioni dedicate a un poeta noto anche in Italia, Evgenij Evtuschenko, e a mio figlio che studiava al ‘Sacro Cuore’ di Milano. Loro due si sono conosciuti, e forse ora sono insieme, in Cielo. Quando pubblico un libro, mi sembra sempre che sia l’ultimo”.
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