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Due anime in viaggio: “Non so dove sei tu e dove sono io” di Marina Cvetaeva. Recensione di Alessandria today
La poetessa russa racconta con delicatezza e intensità la connessione tra due anime vagabonde, unite dalla loro solitudine e dalla forza della condivisione.
La poetessa russa racconta con delicatezza e intensità la connessione tra due anime vagabonde, unite dalla loro solitudine e dalla forza della condivisione. Una poesia di connessione e ricerca “Non so dove sei tu e dove sono io” di Marina Cvetaeva è un componimento che cattura l’essenza di un’amicizia profonda e speciale. Con immagini semplici ma evocative, la poetessa esplora il legame tra due…
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Bari: dal 7 al 10 novembre la X edizione del Festival al "pagine di Russia"
Bari: dal 7 al 10 novembre la X edizione del Festival al "pagine di Russia". È stata presentata questa mattina, a Palazzo di Città, la X edizione del Festival Pagine di Russia, che avrà luogo a Bari dal 7 al 10 novembre. Il programma del Festival, patrocinato dal Comune di Bari e realizzato dalla Stilo Editrice in collaborazione con la Cattedra di russo dell'Università degli Studi Aldo Moro di Bari, è stato illustrato dai curatori scientifici Marco Caratozzolo e Simone Guagnelli e da Marianna Carabellese della Stilo Editrice, alla presenza dell'assessora comunale alle Culture Ines Pierucci. L'edizione di quest'anno, intitolata "Dopo la Russia? Cent'anni di solitudini e dissenso", è dedicata al tema dell'emigrazione russa, visto in una prospettiva storica che dal 1922 arriva, esattamente 100 anni dopo, al 2022, all'ennesima emigrazione di massa russa in conseguenza dell'invasione dell'Ucraina del "Ventiquattro febbraio" (tema al quale era stata dedicata la IX edizione del Festival). Tra gli ospiti attesi al Festival, lo studioso russo Mikhail Velizhev, professore dell'Università di Grenoble e autorevole rappresentante di questa ultima tendenza all'emigrazione dalla Russia. Nella prima serata del festival Velizhev sarà intervistato dai direttori del Festival e potrà così trasmettere la sua diretta testimonianza di intellettuale "fuoriuscito". Nei giorni successivi, altre tre lezioni di slavisti italiani metteranno in luce alcuni aspetti delle diverse ondate migratorie: da quella più nota, che ebbe inizio dopo la Rivoluzione d'Ottobre (Agnese Accattoli, Università Roma Tre), all'emigrazione "interna", nei decenni successivi alla II guerra mondiale, quando molti intellettuali russi, pur opponendosi al potere centrale, non lasciarono il Paese ma continuarono a diffondere il proprio messaggio attraverso lo strumento del samizdat (Marco Sabbatini, Università di Pisa) per arrivare a tentare di capire quali scenari e decisioni attendono lo sviluppo della Russia (Martina Napolitano, Università di Trieste). "Con il festival Pagine di Russia ogni anno abbiamo percorso un pezzo importante di storia della letteratura russa fino a raggiungere la maturità scientifica e culturale che tra i tanti equivoci legati al conflitto in Ucraina ci invita a non essere superficiali su temi così delicati quali quelli di una storia europea che ci riguarda tutti - ha esordito Ines Pierucci -. Nell'ottantesimo anniversario della libertà di stampa e nel decimo di un approfondimento così importante, la casa editrice Stilo insieme alla cattedra di Russo dell'Università di Bari, che ringrazio, per parlare di emigrazione russa si affida alla sconvolgente persecuzione patita da Marina Cvetaeva. Poetessa emigrata dopo la Rivoluzione del '17 prima a Praga, poi a Parigi, che non si sentì mai a suo agio nel mondo ignorante degli emigrati russi. Posle Rossii (Dopo la Russia) è la raccolta di poesie che "comincia sempre dal do di petto" - come disse di lei Anna Achmatova - e che dal 1928 risulta sempre attuale perché "emigrante dall'eternità nel tempo", come tutti noi che, nel rileggere i suoi versi, osserviamo ciò che accade a est d'Europa e in Medio Oriente da "Occidente: questo disperato amore della Russia"". "Anche quest'anno il Festival Pagine di Russia manterrà la sua struttura portante, a cui i baresi sono ormai abituati, cioè contenuti importanti e attuali, approfonditi con l'aiuto di studiosi competenti, ma con un approccio di alta divulgazione, per unire l'accademia alla cittadinanza - ha spiegato Marco Caratozzolo -. L'aspetto performativo del festival è garantito grazie alla collaborazione con la libreria Prinz Zaum, che ospiterà tre eventi serali tutti legati al tema della letteratura, della musica e dell'arte russa, con il doppio scopo di approfondirne la conoscenza e di lanciare un segnale di pace, che voli al di sopra delle bombe e coinvolga tutti". "Il programma di quest'anno - che vede celebrare due eventi molto importanti: le 10 edizioni del Festival e i 20 anni della rivista eSamizdat - è pensato in continuità con l'edizione scorsa - ha proseguito Simone Guagnelli -, perché continueremo a dar voce a esponenti contemporanei e interni della cultura russa, che ci aiuteranno a riflettere su fenomeni lontani ma tornati drammaticamente attuali dopo il 24 febbraio 2022, come l'emigrazione di massa degli intellettuali liberi russi, a quasi 100 anni esatti dalla prima ondata migratoria successiva alla Rivoluzione d'Ottobre. Specialisti italiani e russi potranno così dialogare sul futuro culturale della Russia fuori dai suoi naturali confini nazionali". "Questo festival rappresenta la manifestazione più rilevante dell'interesse che la nostra casa editrice riserva alle culture slave, in primis a quella russa - ha concluso Marianna Carabellese -. In questi dieci anni, d'accordo con la cattedra di russo di Bari, abbiamo scelto di affrontare alcune tematiche storico-culturali: abbiamo onorato degli anniversari storici particolari, cercando sempre di mantenere un focus sulla contemporaneità per raccontare il presente di questo grande Paese. Da editori, lo abbiamo fatto accostando alle iniziative del Festival anche una collana editoriale dedicata, omonima del festival, che ormai, dal 2015, ospita titoli di letteratura, narrativa, poesia e divulgazione scientifica. Il nostro orientamento è quello di quella di dare visibilità e voce a una Russia diversa da quella raccontata dai media all'indomani del 24 febbraio 2022: di qui la scelta di pubblicare il "Diario della fine del mondo" di Natalia Kucharova, un'opera forte che racconta un anno di guerra vista con gli occhi di chi dissente pur restando in Russia". Il programma del Festival, come da tradizione, sarà caratterizzato anche da una serie di appuntamenti dall'approccio pluridisciplinare e performativo (quest'anno ospitati tutti presso la libreria Prinz Zaum) tra serate musicali, approfondimenti letterari e presentazioni di libri. Tutti gli incontri pomeridiani avranno luogo al Centro polifunzionale studenti (ex Palazzo delle Poste) e le conferenze dei giorni 8, 9 e 10 novembre saranno trasmesse anche in streaming sulla pagina FB della casa editrice e sul sito www.stiloeventi.it; gli eventi performativi, che avranno inizio alle ore 20,00, saranno invece ospitati dalla Libreria Prinz Zaum (via Cardassi 93).... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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“Io non dico se non il mio schifo per il linguaggio della tenerezza, quei filamenti viola, quel sangue annacquato”. Le prose di Alejandra Pizarnik
Non è la vocazione di un prologo contraddire o demoralizzare il lettore. Tuttavia sarebbe disonesto e persino scortese non porre di fronte alla prosa di Alejandra Pizarnik una avvertenza: voi che entrate in questo universo dovrete abbandonare i luoghi comuni che accompagnano il nome di questa scrittrice. Sono gli stessi, in effetti, che fanno da zavorra alla ricezione delle opere di altre scrittrici: pazzia e suicidio. Nel caso della Pizarnik, la leggenda della sua morte ha finito col produrre una sorta di “racconto della passione” che la ricopre col velo di un Cristo femminile. Questo racconto reitera sempre la questione del mal de vivre della scrittrice argentina, trasponendola in chiave di suicidio. Sono gravi le conseguenze di questa patologia consistente nel “legare” in questo modo la vita e l’opera. La malinconia, la solitudine e l’isolamento, quando emergono nella produzione scritta di una donna, sono tratti che ammettono di essere interpretati come la prova di uno squilibrio psichico di tale natura da condurre la loro autrice al suicidio o alla pazzia. Se lo scrittore è uomo, invece, e la sua opera o vita o entrambe manifestano una struttura simile – l’elenco è lungo, da Hölderlin e Rimbaud a Kafka e Beckett –, tale struttura viene accolta solitamente come una conferma dell’atteggiamento visionario dell’autore. È inutile dire che le deviazioni o più semplicemente le abitudini di uno scrittore sono argomentazioni melodrammatiche, non criteri di lettura dell’opera letteraria. La morte della Pizarnik, si sia suicidata o meno, è così rilevante per la comprensione della sua produzione quanto il gas e il forno di quel gelido appartamento londinese per capire le opere di Sylvia Plath.
Alejandra Pizarnik cercava, come lei stessa confessa in uno dei testi raccolti in questo volume, una “scrittura densa e piena di pericoli a causa della sua eccessiva diafanità”. E del fatto che ci riuscì pienamente fa fede la sua opera poetica. Questa scrittura è fonte di incessante perplessità: come può sostenere così tanti registri senza minare gravemente unità e coerenza? Questo fatto, innanzitutto, è sorprendente, ma si tratta di una impressione superficiale che una lettura più accorta si appresta a dissipare e che svanisce dopo aver letto i testi in prosa raccolti qui. Come le poesie, anche la prosa della Pizarnik è attraversata dalla stessa esaltazione riconosciuta da Anna Achmatova nella scrittura poetica di Marina Cvetaeva; una esaltazione che innalza le parole e che fa sì che, all’avviare un testo – poesia o prosa che sia – il piano in cui si colloca la voce sia lo stesso che raggiungono solitamente i grandi poeti quando concludono i propri.
Risulta opportuno sottolineare due aspetti della prosa della Pizarnik. I racconti, in primo luogo, costellati da temi e figure ricorrenti nella sua opera poetica: la seduzione e la nostalgia impossibili, la tentazione del silenzio, la scrittura concepita come uno spazio cerimoniale dove esaltare la vita, la libertà e la morte, l’infanzia e i suoi miraggi, gli specchi e il loro doppio minaccioso… Non pochi di questi racconti si inseriscono in una tradizione canonica dell’ambito letterario francese particolarmente caro all’autrice e che vede come figure di spicco, nel suo caso, Lautréamont, Henri Michaux e Georges Bataille. Autori ammirati dalla Pizarnik, a cui vanno aggiunti André Pieyre de Mandiargues che conobbe personalmente. Risulta meno rilevante, in questo senso, l’estensione dei racconti rispetto alla concentrazione in essi di un lavoro di scrittura che cerca di esaltare i poteri del linguaggio. È questo, e non la morte o la pazzia o il suicidio, il grande motore dell’opera della Pizarnik… Dopo aver letto questi testi, si comprende meglio la straordinaria complicità che esisteva tra la Pizarnik e Cortázar. Aldilà della loro “opera seria”, che costituisce in entrambi i casi una delle esperienze più piene della lingua spagnola, sono i cronopios indiscutibili della nostra tradizione letteraria.
Ana Nuño
***
Contro
Io cerco di evocare la pioggia o il pianto. Ostacolo delle cose che non vogliono farsi strada nella disperazione ingenua. Questa notte voglio essere acqua, che tu sia acqua, che le cose scivolino come il fumo, imitandolo, dando segnali ultimi, grigi, freddi. Parole nella mia gola. Sigilli ingoiabili. Le parole non sono bevute dal vento, è una bugia dire che le parole sono polvere, magari lo fossero, così io, adesso, non farei suppliche da pazza imminente che sogna subite scomparse, migrazioni, invisibilità. Il sapore delle parole, quel sapore seme vecchio, ventre vecchio, osso che disorienta, animale bagnato da un’acqua nera (l’amore mi obbliga alle smorfie più atroci davanti allo specchio). Io non soffro, io non dico se non il mio schifo per il linguaggio della tenerezza, quei filamenti viola, quel sangue annacquato. Le cose non celano niente, le cose sono cose, e se qualcuno si avvicina adesso, e mi dice pane al pane e vino al vino mi metterò a ululare e dare testate contro ogni muro infame e sordo di questo mondo. Mondo tangibile, macchine prostituitesi, mondo usufruibile. E i cani mi offendono con i loro peli offerti, leccando lentamente e lasciando la loro saliva sugli alberi che mi fanno impazzire. (1961)
*
Un viso
Un viso di fronte ai tuoi occhi che lo guardano e per piacere: che non ci sia un guardare senza vedere. Quando guardi il suo viso – per passione, per necessità come quella di respirare – succede, e di questo te ne rendi conto molto più tardi, che neppure lo guardi. Ma se lo hai guardato, se lo hai bevuto come solo può e sa fare una assetata come te. Adesso sei in strada; ti allontani invasa da un viso che hai guardato senza sosta ma all’improvviso, fluttuante e incredula, ti arresti perché ti sei appena chiesto se hai visto il suo viso. Combattere con la scomparsa è arduo. Cerca urgentemente in tutte le tue memorie perché, grazie a una simmetrica ripetizione di esperienze, sai che se non te lo ricordi pochi istanti dopo averlo guardato questo oblio significherà i più desolanti giorni di ricerca.
Fino a che lo rivedrai di fronte al tuo e con rinnovata speranza lo guarderai un’altra volta, decisa, questa volta, a guardarlo sul serio, davvero anche questo ti risulta impossibile poiché è la condizione dell’amore che hai nei suoi confronti.
Parigi, maggio 1962
*
Le unioni possibili
La disseminata rosa imprime urla nella neve. Crollo della notte, crollo del fiume, crollo del giorno. È la notte, amore mio, la notte caliginosa e smarrita che ribolle le sue consuetudini nella immonda grotta del sacrosanto presente. Meravigliosa ira del risveglio nella astrazione magica di un linguaggio inaccettabile. Ira dell’estate. Mondo a pane e acqua. Solo la pioggia si rivolge a noi con la sua offerta inimmaginabile. La pioggia alla fine parla e dice.
Meticolosa iniziazione dell’abitudine. Irritati cristalli nei giardini graffiati dalla pioggia. Il possesso del preteso passato, del popolo incandescente che fiammeggia nella notte invisibile. Il sesso e le sue virtù di ossidiana, la sua acqua fiammante che si imbatte contro gli orologi. Amore mio, la singolare quiete dei tuoi occhi smarriti, la benevolenza dei grandi sentieri che accolgono morti e more selvatiche e tante sostanze vagabonde o addormentate come il mio desiderio di incendiare questa rosa pietrificata che infligge aromi di infanzia a una creatura ostile alla sua memoria più vecchia. Maledizioni eiaculate in piena estate, guardando il cielo, come una cagna, per ripudiare l’influsso sordido delle voci vetrose che si schiantano nel mio udito come una onda in una conchiglia.
Sia visto il mio corpo, sia affondata la sua luce adolescente nella tua accoglienza notturna, sotto ondate di tremore precoce, sotto ali di timore tardivo. Sia visto il mio sesso e che ci siano suoni di creature edeniche che suppliscano il pane e l’acqua che non ci danno.
Si chiude una grotta? Giunge per lei una strana notte di fulgori che decide di custodire gelosamente? Si chiude un paesaggio? Quale gesto palpita nella decisione di una clausura? Chi inventò la tomba come simbolo e realtà di ciò che è ovvio?
Volti vuoti per le strade, alberi senza foglie, carte nei fossati: scrittura della città. E cosa farò se tutto questo lo so a memoria senza averlo mai capito? Ripetono le parole di sempre, erigono le stesse parole, le evaporano, le dissanguano. Non voglio sapere. Non voglio sapere di sapere. Allora chiudere la memoria: i suoi giardini mentali, il suo canto di chi veglia all’alba. Il mio corpo e il tuo finendo, ricominciando; ricominciando cosa? Trepidazione di immagini, frenesia di sostanze viscose, notti cannibali attorno al mio cadavere, permissione di non vedermi per qualche ora, elevato vegliare affinché niente e nessuno si avvicini. Amore mio, nelle mani e negli occhi e nel sesso ribolle la più fiera nostalgia degli angeli, nei gemiti e nelle urla c’è un volere l’altro che non è altro, che non è nulla…
*
Diffidenza
Mamma ci parlava di un bianco bosco della Russia: “… e facevamo pupazzi di neve e gli mettevamo i cappelli che rubavamo al bisnonno…”.
Io la guardavo con diffidenza. Che cos’era la neve? Perché facevano pupazzi? E prima di tutto, che cosa significa un bisnonno? (1965)
Alejandra Pizarnik
*i testi sono tratti da: Alejandra Pizarnik, “Prosa completa”, Lumen, 2002 (con l’introduzione di Ana Nuño); la traduzione e la cura sono di Mercedes Ariza
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[Sulle amazzoni][Valeria Viganò]
Una chicca letteraria che vede protagoniste l’americana Natalie Clifford Barney, la russa Marina Cvetaeva e Valeria Viganò intorno ai temi dell’amore [Sulle amazzoni][Valeria Viganò]
Una delle maggiori poete del Novecento, una delle più brillanti e radicali intellettuali della Parigi tra le due guerre, una delle più sensibili scrittrici italiane contemporanee: è un confronto a tre, nel tempo e nello spazio, questa chicca letteraria che vede protagoniste l’americana Natalie Clifford Barney, la russa Marina Cvetaeva e Valeria Viganò intorno ai temi dell’amore, del lesbismo,…
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“Bisogna vivere senza impostura e dare tutto di sé”. Tanti auguri, Boris Pasternak, il poeta dal candore crudele
Uno scrittore scrive la propria vita per distruggerla. Evoca gli istanti – consapevole che la parola non dice, lacera, non afferma, mente – per mascherarli di sabbia, farne pupazzi, annientarli. Sembra un paradosso ma si scrive la propria vita per dimenticarla.
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Quest’anno, Boris Pasternak compirebbe 130 anni – il 29 gennaio secondo il calendario giuliano, in uso in Russia, all’epoca, il 10 febbraio secondo il gregoriano. Quest’anno, scoccano i 60 anni dalla morte. Per festeggiarlo, a Torino, dove è impazzito Nietzsche accarezzando un cavallo di bronzo e dove alcuni credono che sia sepolto il Graal, ho comprato la sua Autobiografia. Per l’ennesima volta. In giro esiste, a un prezzo economico. Ma questa, al di là della fattura – in cofanetto, illustrata – e della ricorrenza – è edita da Feltrinelli nel 1958, l’anno in cui Pasternak riceve e rifiuta il Nobel per la letteratura – custodisce qualcos’altro, prezioso. Le ultime poesie di Pasternak, la raccolta Quando rasserena. Il testo autobiografico è tradotto da Sergio D’Angelo; le poesie da Bruno Carnevali, Juri Kraiski, Mario Socrate. Questo mi confonde: Pasternak è passato per il Dottor Zivago, un romanzo che ha pagine immortali ma un romanzo, infine, narrativamente imperfetto, malriuscito. A Pasternak hanno dedicato un ‘Meridiano’ che raccoglie le Opere narrative. Che paradosso: si affannano a pubblicare le prose di un poeta. E le poesie? Al di là della sontuosa (ma molto parziale) antologia di Angelo Maria Ripellino per Einaudi e degli sforzi sporadici e magnifici di Passigli (che ha pubblicato Temi e variazioni, Anch’io ho conosciuto l’amore, Sui treni del mattino, per mano di tre traduttrici diverse: Marilena Rea, Elisa Baglioni, Paola Ferretti), non c’è un libro che raccolga tutte le poesie – con curatela doc – di uno dei poeti decisivi del secolo, di sempre, perché?
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Quando Pasternak scrive l’ultimo saggio autobiografico lo fa per incendiare tutta la sua opera alla luce di ‘Zivago’, “la mia fatica principale, più importante, l’unica di cui non mi vergogno”. Il libro è un cauto assassinio, fin dalle prime righe, quando Pasternak sconfessa il precedente lavoro autobiografico, Il salvacondotto, pubblicato nel 1931, in realtà un capolavoro dalla scrittura scandita di balzi, di scatti. “Purtroppo il libro è guastato da un inutile manierismo, peccato che in quegli anni era assai comune”, scrive Pasternak, cercando di emendare quella colpa con un altro libro. Un libro che non lesina ferite.
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Leggetela l’Autobiografia perché Pasternak dopo la scrittura selvatica degli anni Venti e Trenta, l’armonia trovata nei boschi, a sondare la marcia feroce del creato – quella scrittura per cui Ripellino andava in estro – tenta la misura del dio. La scrittura, intendo, è pacificata, paga, da titano; Pasternak non è più dentro le cose, i fatti, come allora, nell’oro della giovinezza, ma è sopra, al di là. Questa superiorità, però, gli permette di essere più crudele.
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“Cercavo di evitare la teatralità romantica, l’effetto superfluo, l’esteriorità… Io non esprimevo nulla, non rispecchiavo, non raffiguravo, non rappresentavo nulla”, scrive Pasternak della sua poesia di allora, capace di libri memorabili come Mia sorella la vita. Il fatto che Pasternak screditi, quasi dilapidando il talento, la propria opera – un gesto da eresiarca, maledetto – non è il vezzo di un uomo viziato dal narcisismo. Nel suo poema più grande, Le onde, terminato nel 1932, Pasternak scrive che i “grandi poeti” sono “imparentati a tutto ciò che esiste… frequentando il futuro nella vita di ogni giorno”. Il poeta non è protetto dal presente – è proiettato nel futuro. Piroetta in ciò che ancora non c’è. Anche ‘Zivago’ farà la stessa fine: interpellato poco prima di morire, Pasternak dirà di sentire superato, superfluo, quel romanzo a cui ha dedicato anni di vita. Dirà di desiderare un nuovo spazio di innocenza e di candore, inesplorato, per la letteratura: “di fronte a me, ancora vivo, si libera uno spazio, la cui integrità e purezza vanno dapprima comprese e poi riempite di questa comprensione. E dove posso io prendere le forze per fare questo?”. Che foga stupefacente.
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Nell’autobiografia Pasternak non parla di sé. Di sé parla attraverso gli incontri che lo hanno formato, le città – autonome e autorevoli, come bestie – in cui ha vissuto. Questo fanno i poeti: parlano degli altri. Cioè, delle loro prede. Cercando di rendere giustizia all’amore che abbiamo provato, ne diamo testimonianza di tradimento. Le parole fanno questo: ammettono un tradimento. Dicono, danno i nomi – e chi scrive è altrove. Questa discrepanza – questa crepa – tra chi scrive e chi descrive è lì, devastante.
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Pasternak inizia parlando di Mosca, con ingenuo nitore – “Sono nato a Mosca il 29 gennaio 1890, secondo il vecchio calendario, nella casa dei Lyžin, di fronte al seminario ecclesiastico del vicolo Oružejnyj”. Con tratti impressionisti, giungono sul nostro petto gli spettri di Aleksandr Skrjabin, il grande compositore, maestro di musica di Boris (“I ragionamenti di Skrjabin sul superuomo esprimevano l’antichissima tendenza russa verso lo straordinario… L’uomo, l’attività dell’uomo, doveva avere in sé quell’elemento di infinità, che serve per determinare il fenomeno, per dargli un suo proprio carattere”), di Aleksandr Blok (“l’impetuosità di Blok, il suo modo di scrutare ovunque”), Rilke (appena sfiorato, in giovinezza, è il maestro, l’icona, il futuro senza morte di BP), Lev Tolstoj, per cui il padre lavorava, illustrando i romanzi (“Era in un certo senso naturale che Tolstoj avesse trovato pace, si fosse spento in viaggio, come un pellegrino, presso le grandi strade della Russia d’allora, sulle quali continuavano a volare e a turbinare i suoi personaggi e le sue eroine, occhieggiando dai finestrini del treno quella stazioncina da niente, ancora ignari che lì s’erano chiusi per sempre quegli occhi che per tutta una vita li avevano scrutati, compresi e immortalati”).
*
Pasternak è uno scrittore del cosmo: non decritta la città, monumentale e per sempre caduta, ma la crescita vegetale della vita. Così, per dire della Rivoluzione del 1917, racconta il suo viaggio verso Mosca, il bosco. “Vedevo la strada nel bosco, le stelle della notte gelida. Alti mucchi di neve, uno a ridosso dell’altro, avevano reso gibbosa la stretta pista… Il biancore della coltre nevosa rifletteva lo scintillio delle stelle e illuminava il cammino”. Il contrasto è proprio del crudele candore di Pasternak. L’uomo si affanna e il bosco cresce, la Storia disfa e la natura crea, il tempo si misura in minuti e non per stellate, ogni cosa fondata dall’uomo affonda nel sopruso mentre è “biancore” la via per la foresta, scintillio esagerata e obbedienza alla neve.
*
Una poesia definisce l’etica di Pasternak, ed è meravigliosa, sembra un salmo, c’è sapienza animale, scrittura cristallina, futuro:
Essere famoso non è bello, non è questo che eleva. Non si deve tenere un archivio, trepidare per i manoscritti.
Fine della creazione è dare tutto di sé, e non lo scalpore, non il successo. È vergognoso, quando non si è nulla, diventare per tutti una leggenda.
Ma bisogna vivere senza impostura, vivere così che alla fine ci si attiri l’amore degli spazi, che si oda il richiamo del futuro.
E le lacune si devono lasciare nella sorte, e non fra le carte, i passi e i capitoli della vita intera segnando in margine.
E immergersi nell’oscurità e celare lì i propri passi, come nella nebbia si cela una contrada e non si vede più nulla.
Altri sulla viva orma percorreranno palmo a palmo il tuo cammino, ma la sconfitta dalla vittoria non sei tu che la devi distinguere.
E neanche di un attimo devi venire meno all’uomo, ma essere vivo, vivo e nient’altro, vivo e nient’altro fino alla fine.
*
Proprio perché è dedicato al futuro, immerso nella paglia, Pasternak si occupa dei morti. La sua Autobiografia, infine, è un omaggio a Marina Cvetaeva – “mi ci vorrebbe un libro intero, tante furono le esperienze vissute allora da noi due, in un rapido avvicendarsi di gioie e di tragedie” – e a Vladimir Majakovskij, sul cui suicidio si chiude il testo autobiografico. Il suicidio di Majakovskij sancisce la fine di un’era di cui già si era percepito il fetore cadaverico. Pasternak lo dice esplicitamente accennando agli “ultimi anni della sua vita, quando non vi fu più poesia, di nessuno, né sua né di chiunque altro, quando si impiccò Esenin, quando, per dirla più semplicemente, finì la letteratura”. La Storia, a quel punto, aveva macellato il poeta – Pasternak, orientato ai boschi, irredento alle stelle, riuscì a resistere.
*
L’Autobiografia di Pasternak ha per tema, in fondo, il suicidio. Pasternak è ossessionato dal suicidio della Cvetaeva, di Majakovskij, di Esenin e di tanti amici, non finiti nei libri di storia della letteratura, espulsi dal creato. “Chi giunge alla determinazione del suicidio mette su se stesso una croce, volge le spalle al passato, dichiara fallimento, annulla i ricordi. I ricordi non possono più raggiungerlo, salvarlo, soccorrerlo. La continuità dell’esistenza interiore è spezzata, la personalità è finita. Forse, tutto sommato, ci si uccide non per tener fede alla decisione presa, ma perché è insopportabile questa angoscia che non sa a chi appartenga, questa sofferenza che non ha chi la soffra, questa attesa vuota, non riempita dalla vita che continua”. Cercare una ragione al suicidio è ammazzare due volte il suicida, custodito in un terribile incanto. Arpionato al futuro, superiore al fragore del vivere, Pasternak non si è ucciso. Poiché lo dilania una simile ritrosia, le sue autobiografie sono un suicidio – scrivere la propria vita per ammazzarla.
*
“Nella vita, perdere è più necessario che acquistare. Il grano non germoglia se non muore. Bisogna vivere senza stancarsi, guardare avanti e nutrirsi delle riserve vive elaborate dall’oblio in collaborazione con la memoria”. Pasternak non è una creatura del sottosuolo, ci impegna al bosco – lì dove dopo aver espletato il rito arcano in devozione ai morti, in rinuncia alla metropoli e al suo stile, si gettano le pupille, tra le fauci dell’alba, snaturata. (d.b.)
***
Il grano
Per mezzo secolo ammucchi deduzioni, ma non le registri in un quaderno, e, se proprio non sei un idiota, qualcosa dovrai pure aver capito.
Hai capito la gioia del lavoro, la legge e il segreto del successo. Hai capito che l’ozio è maledizione, che non c’è felicità senza imprese.
Che altari attendono e rivelazioni, eroi e figure da leggenda il regno assopito delle piante, quello possente delle fiere.
Che fra le rivelazioni, prima è rimasta, nella successione dei destini, dal capostipite in dono alle generazioni, il grano cresciuto dai secoli.
Che il campo di segale e frumento chiama non solo alla mietitura, che in un tempo remoto questa pagina il tuo antenato ha scritto su te.
Che questa appunto è la sua parola, la sua straordinaria impresa nel ciclo terrestre di pene, di nascite e di morti.
Boris Pasternak
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“Siamo tutti per poco ospiti della vita, vivere è solo un’abitudine”: Anna Achmatova è più che un poeta, è un mito
Per una volta, iniziamo dalla fine.
I versi seguenti Anna Achmatova li scrisse negli ultimi anni della sua vita, dopo le tragedie della storia personale e corale e il silenzio stretto intorno a lei dalla sua stessa patria, dopo la morte degli amici scrittori e poeti, vittime tutti delle persecuzioni, delle stragi o dei gulag di regime: Bulgakov, Pil’niak, Marina Cvetaeva, Pasternak, Zoščenko, Osip Mandel’štam. Solo allora, e dopo la fucilazione del primo marito, il poeta Nicolàj Gumilëv, la morte in carcere del secondo e i diciotto anni di campo di lavoro fatti scontare al figlio, solo dopo tutto questo Anna Achmatova venne finalmente riconosciuta anche in Russia – in Europa e in America lo era da tempo – come una delle voci liriche più nobili e pure della poesia russa contemporanea.
Molti poeti più giovani le furono accanto in quegli anni finali, e tra loro un giovane avido di devozione nei suoi confronti: Josif Brodskij, da più parti considerato il suo delfino. Li legava l’amore assoluto per la poesia e un destino umano tristemente affine: con l’accusa di “estetismo” e “disimpegno politico”, Anna fu espulsa dall’Unione degli Scrittori Sovietici nel 1946, Brodksij dall’URSS nel 1972, incriminato di “parassitismo sociale”.
*
Quasi in un album è una delle ultime liriche scritte da Anna Achmatova: è una sorta di pensoso consuntivo di una vita, dal tono intimo e spirituale. Forse per tale ragione l’Achmatova volle inserire i versi nella raccolta dedicata al suo ultimo amore: lui, Isaiah Berlin, era allora primo segretario presso l’Ambasciata inglese in Unione Sovietica. La raccolta s’intitola La rosa di macchia fiorisce, un titolo che è quasi un intento programmatico: la fioritura ultima dell’estate prima dell’autunno, l’umiltà della rosa canina. Fiore selvatico, tenace, la piccola rosa selvatica non ha, infatti, bisogno di molta terra né le serve molta acqua: semplicemente resiste. E vive.
Il titolo Quasi in un album fa immediatamente pensare a una collezione d’immagini. Si tratta di una forma d’elegia, ovvero un compianto funebre ma scritto da un’autrice ancora in vita la quale dice, più che lamenta, la morte a venire di se stessa e insieme della propria opera poetica. È, questa, la voce di una donna-poeta dotata della consapevolezza di un veggente, che sa bene qual è stato il suo peso nella poesia del Novecento, in Russia e fuori della Russia. È infine un lascito d’amore, un mormorio di consolazione per colui o per coloro che rimangono, dopo di lei:
Sentirai il tuono e mi rammenterai, penserai: desiderava la bufera… Sarà una striscia di cielo accesa di rosso, e il cuore come allora in fiamme. E ciò accadrà nel giorno moscovita In cui abbandonerò per sempre la città, muoverò verso il bramato riparo, lasciando in mezzo a voi ancora la mia ombra.
(1961-63)
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L’interlocutore resta indefinito lungo tutti i versi, mentre sola sentiamo la voce di colei che parla. Parla al futuro: dunque già da morta. Il tuono porterà con sé il ricordo di lei, l’amore per la bufera ne ripeterà la passione: una striscia lontana di porpora all’orizzonte accoglierà ricordo e passione. Il colore istituisce il nesso tra il cielo e il cuore, rossi entrambi, carichi di quel color lampone che è il sangue stesso della Rus’, alla cui fonte e per tutta la vita Anna Achmatova bevve a larghe sorsate. Dal cielo alla terra, dall’altezza sin giù al suolo i versi piombano dentro la terra dov’è il “riparo”, metafora ellittica per tomba. Là punta il desiderio.
Eppure un’ombra continuerà ad indugiare sopra la terra, e insieme con quell’ombra si spanderà intorno l’eco di una voce: la risonanza dei suoi versi, di questi versi. La presenza vaga è solo allusa, accennata, ha l’inconsistenza dell’aria. Di colei che ha abbandonato Mosca rimarranno il coraggio – la bufera – e lo spirito – il rosso –, la forza e lo stoicismo dimostrati nella corsa lungo l’esistenza – il tuono. Rimarrà la poesia.
Questa lirica viene da un trittico, Trifoglio moscovita, il titolo mutuato anch’esso dal mondo naturale. Dalle prime alle ultime liriche, v’è infatti in Anna Achmatova una sorprendente unità di lingua, di temi, di atteggiamento poetico che tutta la vita le fanno seguire esclusivamente un proprio cammino interiore. Disse di lei Brosdkij: “è uno di quei poeti che semplicemente “avvengono”, che sbarcano nel mondo con uno stile e una loro sensibilità unica” (La Musa in lutto, Il Canto del pendolo).
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Quando Anna Gorenko fece il suo ingresso nella poesia russa come Anna Achmatova, prendendo in prestito il cognome della bisnonna tartara, con (le cinque a che sempre secondo Brodskij collocarono il suo nome “in testa all’alfabeto della poesia russa”), il mondo letterario conobbe una poetessa dalla novità incontestabile e lo stile purissimo, che portava alla poesia versi limpidi come cristalli di rocca e per narrare i temi dell’uomo di sempre sceglieva una semplicità maestosa a renderli solenni, una sintassi chiara e metri classici a farli rilucere, rime precise e frasi brevi ad imprimerli nelle menti e nei cuori.
Quei temi – identici da Omero in poi – potevano costituire forse un abbassamento di tono rispetto alla generazione precedente e tuttavia lo stile essenziale e scarno, dalla laconicità evidente, l’uso di una lingua piana (quasi “non poetica”) servirono ad Anna per porre al centro di gravità poetico l’“Io”, che con lei sa tuttavia dilatarsi all’infinito quando da “Io” si trasforma – con sublimante facilità – in “noi” e quindi in “ognuno”, in “ogni uomo” o in “ogni donna”.
È il caso di questa lirica, dove il “tu” dell’incipit va con naturalezza allargandosi in “voi” nell’ultimo verso: voi che mi avete conosciuta, voi che mi avete letta, voi che mi leggerete anche quando io non sarò più tra voi. Il “giorno moscovita” scopre dietro a sé l’orizzonte di separazione e d’addio che è la morte, e ancora una volta da particolare – quel giorno, a Mosca, in una certa ora, con una certa luce – diventa il giorno che tutti gli uomini, proprio in quanto uomini e mortali, hanno conosciuto o conosceranno. Ecco l’istante degli spazi interstellari senza ora umana, senza luce della terra, il momento staccato per sempre dal tempo in cui – sembra proseguire la voce dell’autrice – il mio l’accento sarà nel tuono e nella bufera, il mio sguardo nella porpora che fascia l’orizzonte, me stessa divenuta solo un’ombra.
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Unendo la tradizione del folklore russo a una “classicità” rigorosa, in gran parte desunta dalla lettura dell’amato Puškin, quella di Anna Achmatova apparve subito una voce poetica nuova che si esprimeva con mezzi classici o, per ripetere le parole di Pasternak, che l’ammirava profondamente, la poesia russa acquistava un’autrice capace di “dire il nuovo verbo nel linguaggio vecchio” (Autobiografia).
Dai classici e dai loro versi Anna Achmatova aveva imparato che, in lei, incanto e stupore poetico non avevano bisogno di canoni formali inconsueti: scrivendo in modo classico, trovava la propria misura e insieme rendeva omaggio a coloro che l’avevano preceduta. “Dire il nuovo verbo nel linguaggio vecchio” significa usare parole “scolpite” per dire quanto è immateriale e sta dentro, cercare di dire le risonanze interiori dell’“Io” lirico, ma utilizzando una lingua tersa e sempre più lineare, raccontare gli istanti che si sottraggono al tempo per riversarli nell’eternità.
Solo così la “Psiche-confusionaria” (tale si autodefinì in Poema senza eroe) poté scrivere quella sorta di registro, d’ininterrotta cronaca dell’anima che furono per lei i versi fin dall’adolescenza. Solo dicendo meno poté dire di più: “capivo fin d’allora/quanto è angusta questa terra” (Né mistero né dolore, 1914 o 1915) scriveva ancora giovanissima. E così, per allargare lo spazio, Anna prese a concentrare il tempo, a renderlo uniforme e superarlo: La corsa del tempo è una sua raccolta e una sua definizione.
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Per valicare i limiti che ogni essere umano conosce e andare oltre la “terra angusta”, pur necessaria alla vita, Anna sceglieva una poesia fondata sull’ossimoro da un punto di vista stilistico e sulla dinamica tra la rivelazione dell’emozione e il suo contrario, il dominio di sé, da un punto di vista tematico, creando una poesia che si svela in un gioco di chiari e scuri, lungo un acuirsi e distendersi, regolare, del conflitto. Eccone alcune tracce:
Al posto di una pacifica gioia volevamo un dolore che mordesse…
(Mi diverte quando…, 1911, La corsa del tempo)
Per il cuore pulsare è terribile tanta è in quest’istante la sua pena…
(Sotto l’icona un liso tappetino, 1912, La corsa del tempo)
In questo gioco delle opposizioni, nel movimento che inscena il dramma e fa avanzare i versi, spesso a passo più rapido di quanto l’autrice sembri forse immaginare al principio, l’Achmatova usa i sostantivi come fossero oggetti, nomi che danno una – una sola, inscindibile, irrevocabile – realtà ai suoni. I sentimenti prendono da quelli la forma indistinta di un riflesso che non appartiene a un tempo o una sensibilità particolari bensì all’essenza umana universale, stagliati in una prospettiva del vivere sempre misurata, sempre composta e dunque sempre condivisibile.
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Il suo procedere poetico è esemplare nel celeberrimo Canto dell’ultimo incontro (1911, La corsa del tempo), che registra gli attimi successivi alla separazione, l’ottundimento della volontà, il dolore che strappa ogni percezione e capacità di sentire nella lacerazione intollerabile dell’addio: “infilai nella mano destra/il guanto della sinistra”. Qui tutto un dramma interiore è detto e commentato in una serie quasi terrorizzante di corte parole facili.
Riverbero di sentimenti e allusione continua in poesia coincidevano per Anna Achmatova con la volontà di riferirsi a qualcosa parlando però – ogni volta – di qualcosa d’altro, perché “evocazione” o “vaghezza”, termine molto caro a Leopardi, è appunto andare tra – e oltre – le cose. La varietà di timbro, di suono, di eco diventava in effetti per lei contenuto, norma espressiva.
Ogni qualvolta una parola è nominata o è detta, secondo Benedetto Croce è sempre come lo fosse per la prima volta, e quella parola tornasse ad essere nuova: nel caso dell’Achmatova è una parola sofisticata, propria di una poesia in cui l’eleganza suprema dello stile abbraccia felicemente l’evanescente stilizzazione del Liberty russo, linee tracciate con il nitore splendente della china.
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In vita era stata ben più di un’“ombra”, Anna Achmatova: era stata un ideale, il punto di riferimento fisso per tutta una generazione poetica. La bellezza, l’intelligenza, la bravura straordinarie ne avevano fatto una sorta di mito a Mosca e altrove. La giovane moglie poetessa di Gumilëv diventava “la Musa di Carskoe Selo”, il villaggio presso i boschi amati da Puškin, dove Anna era vissuta bambina con la famiglia. In Francia veniva ritratta da Modigliani. Le sue prime raccolte furono una rivelazione.
Nel suo appartamento di Mosca si riunivano, si stringevano intorno a lei gli amici, i poeti, gli scrittori. Anna sopravvisse a tutti i suoi amici, a tutti i poeti e a tutti gli scrittori della sua epoca. Li rammentò tutti, coloro che erano stati una volta vicini e vivi.
Con tonalità drammatiche da De profundis, testimonianza della propria “insanguinata giovinezza”, si “chinò” spesso in poesia “su di loro, come su una tazza”: le era più facile, in quel modo, cercare di trattenere l’aroma del passato, ricordare il tempo in cui più acuto era il profumo dei fiori sognati. La raccolta è Ghirlanda per i morti (1957).
La lirica Mi chino su di loro rammenta i tre che le erano stati forse più cari: Boris Pasternak, Osip Mandel’štam e Marina Cvetaeva, quelli che in vita Anna chiamava “il grande quartetto”, mentre i più giovani, tra cui Brodskij, erano per lei “il coro angelico”. Di loro, adesso “ospiti sui prati d’oltretomba”, rievoca le presenze quando queste si fanno avvertire nell’ampiezza del cielo – “le vie del cielo” di Pasternak -, le parole di ognuno portate da una folata del vento più lunga, le figure e gli sguardi intravisti nella penombra degli alberi che scuotono le foglie. Un barbaglio, una scheggia di ricordo. Poi la luce varia, il ricordo si sfilaccia e scompare.
*
Due sono le voci da tempo scomparse che le sembra di sentire, eppure loro, gli amici, erano quattro una volta: è ancora tutto vero, tutto è là, tutto è uguale. Così com’era vissuta, sempre ribelle e sempre penosamente discordante, Marina non si fa sentire eppure continua a scrivere, adesso presso il muro del giardino, con inchiostro vermiglio e freschezza di fronde. La lirica s’intitola Noi quattro:
Siamo tutti per poco ospiti della vita, vivere è solo un’abitudine. Lungo le vie del cielo mi sembra di ascoltare Il richiamo di due voci.
Due? Ma verso il muro di levante, fra le macchie tenaci del lampone, c’è un ramo fresco e scuro di sambuco… E’ una lettera di Marina.
(1961, Un serto ai morti/Ghirlanda)
Nella prima redazione, il componimento s’intitolava Schizzi di Komarovo, il piccolo centro affacciato sulla costa nordica del Golfo di Finlandia dove Anna Achmatova trascorreva le estati e dove doveva essere sepolta, non molti anni più tardi.
Il dolore patito in vita da Marina è qui quasi purificato nell’immagine del ramo di sambuco, “fresco” spruzzo di corolle candide, quanto resta a ricordare colei che, disperata “anima nata – nel nulla”, accerchiata dalla fame e dal gelo aveva scritto e lontana dalla Russia:
Mi è indifferente tra chi ammutolire, inghiottire la rabbia, da quali (…) ambienti essere espulsa – e ricacciata sempre nel cerchio dei miei sentimenti. (…) Intorpidita – trave superstite di uno steccato (…) Ma se per strada di colpo compare un cespuglio, e soprattutto di sorbo… (Nostalgia, 1934).
In Noi quattro, assecondata quell’“abitudine” che è diventata per lei vivere e che ne ha fatto una “Musa in lutto”, dopo Boris Pasternak e Osip Mandel’štam Anna ha voluto ricordare per ultima Marina Cvetaeva e la tragedia smisurata che era stata la sua vita. Intrecciamo dunque, anche noi con lei, questa ghirlanda.
“Noi siamo”, “noi” poeti, “noi uomini”: colpisce questo plurale d’esordio, orgoglio e insieme mancanza, dimensione di esseri con fierezza solitari eppure acutamente bisognosi l’uno della comprensione e della vicinanza degli altri. “L’arte: causa comune a cui lavorano individui solitari” – aveva scritto Marina Cvetaeva: di qui discendeva per lei “la fraternità di cui ogni poeta, malgrado la sua solitudine e forse proprio grazie ad essa, è colmo fino all’orlo del cuore.” (L’epos e la lirica della Russia contemporanea). Di qui discende il senso di solitudine, fattosi d’improvviso più ampio e brutale, che un poeta prova alla scomparsa di un altro poeta.
*
Se in Requiem o Nell’anno quaranta la disperazione affiora in Anna in una rima scoscesa o un sostantivo morboso, in un’immagine tormentosa o un ritmo spezzato e tagliente come cocci di vetro che s’inseriscono ossessivi nel tema, nelle liriche dedicate agli amici scomparsi tutto ciò dilegua: un riserbo, una misura ancora più pacata sembrano indicare la delicatezza di parlare di loro sottovoce, di presentarsi a loro senza eccessi d’emozione, il desiderio di non turbarne le presenze che ancora sopravvivono accanto a lei. E poi la misura scherma il pudore: loro, gli amici-poeti, non avrebbero mai approvato, mai accettato di servire da pretesti sia pur nobili, al tracimare della piena lirica.
La Ghirlanda fu per Anna Achmatova il suo sforzo di tacitare il dolore e il tentativo di ripristinare la vicinanza di tutte le persone cui era sopravvissuta, di riannodare i fili preziosi dell’amicizia all’ordito dei propri versi. Un poeta non ha bisogno di riconoscimenti bensì di comprensione, ha bisogno non di compagni bensì di compagni in poesia e questa, necessariamente, la può ricevere solo dagli esseri a lui affini o lungo le vie del ricordo, quando si ritrova solo.
“L’Achmatova tentava semplicemente di far fronte ad un’esistenza svuotata di ogni significato; (…) tentava di ammansire un infinito così crudele popolandolo di ombre familiari”: ancora una volta, è Brodskij che parla per lei e di lei. E le sue parole ci fanno meglio comprendere il tono colloquiale, a mezza voce, usato dall’autrice dei versi con quelle “ombre familiari”, quasi li avesse ancora davanti a sé, gli amici, seduti nella poltrona del soggiorno come in una foto scattata al fianco di Pasternak.
Paola Tonussi
(continua)
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Il libro di Davide Brullo è stato selezionato per il Campiello. “Prima lo vinco, poi fondo una eresia”. Intervista sotto la neve
Dunque, è tutto finto…
Ovvio. Gliel’ho già detto.
…anche i racconti in appendice al testo. Ma sono firmati Ivan Bunin, Horacio Quiroga…
Le racconto un aneddoto. Poco prima di andare in stampa mi contatta il curatore della collana di Melville Edizioni, che ha un nome bellissimo – l’editore e la collana consecutiva – ‘Gli Impossibili’, come a dire che qui ci sono testi antartici e taglienti, che travolgono la norma, che tramortiscono… ad ogni modo. Mi contatta e mi fa: ma a chi dobbiamo chiederli i diritti per i racconti di Bunin, di Quiroga, di Crnjanski, di Saint-John Perse? Non aveva capito che erano totali riscritture, invenzioni, testi assolutamente miei sigillati con la firma di un altro. Quando gliel’ho detto, sbalordito, s’è messo a ridere…
In effetti il suo libro…
Scusi, la interrompo.
Prego, ne ha facoltà.
Secondo me quei racconti sono la cosa letterariamente più bella di un libro poco generoso con l’arte narrativa. Per questo, chi ha voglia di uno shock estetico – io lo cerco con follia nell’iride – può partire dai racconti, può partire dal fondo. Poi, risalga a piacere, questo libro si può leggere come vi pare. Cioè?
Il libro è allo stesso tempo romanzo, raccolta di racconti, antologia lirica, saggio, testo teologico, teologia poetica, tomo filosofico. Certo, il sogno recondito è che intorno alla fatidica Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro, redatta dal fantomatico – ma plausibilissimo – Pseudo-Paolo, qualcuno fondi una setta, una vegetativa eresia. D’altronde, non si scrive per avere lettori ma per procacciarsi dei sudditi. Per me, graziato dalla vita, trovare un lettore, un complice, è una grazia.
…che visione ‘agonistica’ della letteratura…
Il problema, piuttosto, è che la letteratura recente è in agonia. Nessuna idea prepotente, furibonda, estrema. Dopo, chessò, Joyce-Céline-Broch – ma anche dopo Calvino-Pasolini – ci si ostina a scrivere come se non fosse accaduto nulla, come se in medicina si ignorasse l’esistenza dell’antibiotico in favore di patetiche erbe medicamentose, come se si credesse ancora alla terra piatta, che piattume. Dopodiché, l’arte è sempre ‘agonistica’, sgomita. Un libro è come un bambino che urla e spacca le finestre finché qualcuno non lo ascolta e non si inginocchia a nutrirlo. Un bambino crede di essere il primo essere al mondo, l’unico – pretende che tutti s’inchinino al cospetto del suo ghigno. Così un libro. Si scrive per essere i soli, per svanire nel proprio libro, per donarlo a chi dovrà ricostruire l’alfabeto, soppiantando vocaboli e vocabolari.
A proposito di ‘svanire’: lei nei suoi libri sembra non voler esistere.
Esistono i libri – gli autori sono un mezzo, uno strumento, casuale. Io, letteralmente, non so quello che ho scritto. Se mi chiedesse ora di dettagliare le opinioni espresse nel mio libro, non gliele saprei ripetere, non le ricordo più. Non sa le lotte con gli editori per far sparire il mio nome al posto dell’autore… l’autore muore nella sua opera, ha la dottrina della povertà.
Cosa significa, concretamente?
Prenda questo libro. Volevo fosse stampato con la dicitura ‘a cura di Davide Brullo’. Davide Brullo non conta niente, è lo strumento suonato da altri. Ma in questo Occidente ogni opera d’arte ha bisogno di un ‘autore’. Manco lo scrittore fosse un Armani qualsiasi: ma chi l’ha scritto il libro di Giobbe, o Isaia, o l’Apocalisse o l’Odissea? L’autore è sempre altrove, il libro è il residuo di una morte, come la pelle vecchia del serpente, dopo la spoliazione, la metti in controluce e assisti a scritture ataviche, a geroglifici di ambivalente bellezza.
Torniamo al libro. Precisando alcune cose. Incontro Brullo nella bufera. Qualcuno, con un’ascia di pietra, pare aver sbudellato il cielo. Nevica da giorni. Riccione. Spiaggia bianca. I bambini, corazzati come fossero a Sestriere, usano il bob al posto del surf. La casa di Brullo è angusta, come la gola di una iena. Libri ovunque. Una grossa mappa di Antartide appesa su una parete (“progetto una gita lì, nell’assoluto bianco, dove la luce ti acceca e le mani si gelano, impedendo la scrittura, e le labbra si disseccano, come se Antartide fosse il dito ustionante dell’angelo”, mi dice, e lo devo bloccare, parlerebbe per ore di ogni singola sciocchezza). Alcuni quadri, nitidi e primordiali, dell’amico Marcovinicio. Un disegno raffigura Céline, un altro Brodskij (“non ho soldi per collezionare arte, un esercizio scemo: i quadri che vede sono doni, regali di amici. I disegni, invece, sono di Marco Carnà, un artista impeccabile: li aveva fatti per ‘il Domenicale’, un giornale per cui ho lavorato molti anni fa. Quando il giornale è fallito, li ho rubati”). Veniamo al libro…
Prego.
Nel suo “Pseudo-Paolo” ipotizza, si capisce dal titolo, una apocrifa “Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro”. Il libro, in effetti, è la minuziosa ricostruzione del ritrovamento di questa lettera – il 4 dicembre del 1989, presso la Biblioteca universitaria di Swansea, nel Galles, all’interno del commento alla ‘Lettera ai Romani’ di Sant’Agostino, di mano medioevale – la traduzione di questa lettera, fortemente, follemente annotata e il suo audace commento. Con tanto di rinvenimenti testuali in alcuni scritti letterari (quelli citati sopra) e una folta bibliografia, che occupa 12 pagine…
A cui sono molto legato.
Perché?
Perché nella bibliografia ho fatto la rassegna dei miei amici. Esempio “Floccari J., ‘Di lei amerai tutto’. Esperienze di amore assoluto da San Paolo a Marina Cvetaeva, Torino, 1998” è un libro assolutamente fittizio. “Floccari J.” è il mio caro amico d’infanzia Jonathan Floccari, che abita a Torino e fa il medico della mutua. Nella bibliografia, però, ci sono anche libri autentici: al lettore il gioco di scovarli. Il bello della letteratura è quando il lettore non capisce dove inizia la finzione e dove si deterge la verità, ma poi, cos’è mai la verità? Un bla bla che va avanti da millenni.
Pazzesco.
Macché. Banale. Pigliamo l’incipit del testo. I dati li ha riassunti lei poco fa, nell’assunto precedente. Il 4 dicembre del 1989, data in cui è stata scoperta la fatidica lettera dello Pseudo-Paolo, è morto, nella realtà, mio padre; Sant’Agostino è l’autore capitale della ‘cattolicità’, ma è scontrandosi con la Lettera ai Romani che Lutero – agostiniano – piglia la sua via; Swansea è la città di Dylan Thomas, il poeta che ho amato da ragazzo. Come vede, è facile costruire una cattedrale di vetro con la propria carne, edificare l’abominio della finzione fondandosi sulla propria biografia.
Veniamo ai temi del libro, sono molti. Ad esempio, cito dal testo della Lettera, “Dio è morto, definitivamente”, le chiese “sono un rifugio temporaneo… dovranno essere distrutte”, “dobbiamo ripercorre il dolore dei suicidi fino a riesumarne l’atto – e risolverlo”, “Dio si fa dire dagli incapaci”…
La fermo. Questi temi non si risolvono nel ring di una intervista. Bisogna fare come gli antichi, i rari. Sedersi, centellinare le parole, valutarle come fossero pietre. Per un riassunto sommario dei temi trattati nella Lettera basta andare a pagina 30 del libro. Il resto non si assolve con parole definitive. Le parole vanno abitate, come canoe, circoncidono convinzioni e convenzioni. Comunque, non c’è nulla di ‘eretico’ in quello che scrivo. Anzi. Pensi all’ultima asserzione. ‘Dio si fa dire dagli incapaci’. Beh, Mosè era balbuziente, Saul fugge sotto un tavolo per scampare l’investitura, Davide è l’ultimo e il più fragile dei figli di Iesse, Giona è un codardo, Isaia ha le labbra sceme, Paolo di Tarso è un persecutore… Il bello del cristianesimo è che è inafferrabile: Paolo, l’edificatore di chiese, non ha mai incontrato Gesù eppure è impastoiato in Cristo, ha l’ansia avventuriera del convertito; Pietro, sul cui nome Gesù edifica la Chiesa, tradisce tre volte ed è adornato dall’epiteto ‘Satana’. Lo stesso Gesù, è compassionevole, ma porta la spada e la divisione; parla nella sinagoga ma anela il deserto; recide il legame con il mondo ma vive nel mondo seminando tra tutti, poveracci o mercanti, ultimi o primi – perché tutti, in fondo, sono egualmente caduti, ultimi. Tornando alla sua domanda. Io mi domando perché si sia interrotta la linfa creativa all���interno del mondo cattolico, del mondo religioso. La Bibbia prolifera storie, e io credo nella creatività del cristianesimo. A partire da quelle storie – per alcuni sacre, per altre semplicemente belle – continuiamo a raccontare storie. Mi accodo dopo tanti altri.
Se preferisce, parliamo dell’anomalia del libro. Un romanzo che di fatto è un saggio, anzi, il commento a un testo fittizio.
Non è una pratica nuova. Questo è il terzo libro di una serie. Il primo, Rinuncio, simulava il diario di Benedetto XVI, negli ultimi giorni della sua vita. Il secondo, Ingmar Bergman. La vita sessuale di Franz Kafka è il soggetto di un film sulle perversioni di Kafka ipotizzato da Bergman e pubblicato dalla figlia insieme al suo quaderno di appunti. Il prossimo – se ne ho le forze – sarà il carteggio ritrovato – e fasullo – tra Boris Pasternak e Marina Cvetaeva, parte del quale – la parte più corposa e presumibilmente illuminante –, nella realtà, è andato perduta durante la Seconda guerra (lo racconta Pasternak nella sua autobiografia). Sa qual è il problema, comunque?
Dica.
Io non ci credo più.
…
Non credo più al tizio che scrive un libro, lo vende all’editore, lo compri in libreria e cominci: ‘Marco si alzò dal letto alle tre di notte, una leggera indigestione di peperoni gli aveva rovinato il sonno, senza accorgersi che la moglie, al suo fianco, era morta’. Ma chi ci crede? Se voglio leggere una storia, mi accartoccio nel letto con Omero o con Conrad. La realtà, oggi, questa realtà in pluridiffusione, che ci perfora gli occhi con chiodi di diamante, ha distrutto la possibilità immaginativa. Ha stritolato il nostro cuore con bende di cuoio. Allora… cosa deve fare lo scrittore? Quello che ha sempre fatto. Competere con la realtà. Nel mio caso: costruire documenti del tutto plausibili e del tutto fittizi. Lasciando il lettore alle montagne russe – a proposito, che grandi i russi… – del gioco. Un gioco, sia chiaro, terribile perché vero, come chi sbatte il coltello su un tavolo schivando le dita, magneticamente umane.
Tra le fonti qualcuno parla del Quinto evangelio di Mario Pomilio, altri citano Fuoco pallido di Vladimir Nabokov oppure Sergio Quinzio. Va detto, inoltre, che lei è laureato in letteratura cristiana antica e che ha esordito nel 2003 con una ‘testoriana’ traduzione dei Salmi.
Mi sono laureato con una tesi estetico-estatica. Ho indagato la glossolalia in San Paolo (se ne parla nella prima lettera ai Corinti, capitoli 12-14). La glossolalia è il ‘parlare in lingue’, il linguaggio che unisce, in incomprensibile unione, il fedele a Dio. Quel linguaggio, di cui vi sono esempi vivi nella storia della letteratura – da Dante ad Artaud, da Hölderlin a Zanzotto – è la quintessenza, a mio parere, della poesia. Chi scrive deve inventare un linguaggio nuovo fottendosene dell’‘edificazione’, concetto che stava a cuore a San Paolo. Il mio professore, Remo Cacitti, era amico di famiglia di Pasolini e di David Maria Turoldo. Quanto alle fonti, sbizzarritevi pure. La realtà è molto più banale. Dalle sue origini ancestrali la letteratura italiana si occupa di Dio (Dante); la letteratura moderna, poi, nasce con uno che usa magistralmente l’espediente del ‘manoscritto perduto e ritrovato’ (Alessandro Manzoni). Rischiando di essere avanguardista, sono uno che si allea alla tradizione. Non capisco perché i letterati italiani si siano dimenticati di Dio, il tema ineludibile della letteratura.
Lei è stato selezionato con il suo libro al prossimo Premio Campiello…
Sono felice per l’editore. Non sarebbe male vincere il premio che andò a Pomilio, a Giuseppe Berto, a Gesualdo Bufalino. Sarà il solito annaspare nel niente.
Lei al Campiello è già stato.
Già. Nel 2014. Con Rinuncio. Il libro piacque all’allora presidente di giuria, Monica Guerritore, che si spinse a leggerne dei brani durante la giornata di selezione della cinquina, nell’aula magna dell’Università di Padova. La Guerritore disse chiaramente che il libro doveva arrivare tra i finalisti. Gli editori ‘big’ si toccarono le palle e fecero lo sguardo cattivo; i giurati pigliarono questo gesto come una sfida. Il libro, ovviamente, fu il primo degli esclusi, insieme a quello del papà di Vittorio Sgarbi, che fece gran chiasso. Esito: per una piccola casa editrice, davvero autarchica – cioè, che non dipende dai grandi marchi editoriali – è impossibile vincere un grande premio, dove ci sono grandi interessi e un bel gruzzolo. Ma poco importa, uno scrittore gareggia con gli angeli, ruota il collo a Dio, si rivolge alla concatenazione degli umani, del tempo presente e delle sue conseguenze se ne sbatte, tutto, in fondo, è neve.
La neve. Impone il suo ritmo mentre me ne vado via. Brullo mi accompagna per un tratto. Cammina a passi larghi, con la foga dei centauri. Con la mano, consunta dal freddo, afferra qualche fiocco. “Vede? Non sembrano lettere? Cos’è un libro, infine? Non è che una nevicata”.
Federico Scardanelli
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