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Due anime in viaggio: “Non so dove sei tu e dove sono io” di Marina Cvetaeva. Recensione di Alessandria today
La poetessa russa racconta con delicatezza e intensità la connessione tra due anime vagabonde, unite dalla loro solitudine e dalla forza della condivisione.
La poetessa russa racconta con delicatezza e intensità la connessione tra due anime vagabonde, unite dalla loro solitudine e dalla forza della condivisione. Una poesia di connessione e ricerca “Non so dove sei tu e dove sono io” di Marina Cvetaeva è un componimento che cattura l’essenza di un’amicizia profonda e speciale. Con immagini semplici ma evocative, la poetessa esplora il legame tra due…
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“Ma a nessuno viene in mente di amarmi. E io ho solo questo in testa”. Marina Cvetaeva: “Arianna”, il poema dell’amore e dell’abbandono
Troppo rapace – e giusto – se si parla di Marina Cvetaeva, far cozzare la vita con l’opera, far quadrare l’algebra del verso con gli accanimenti del corpo, la biologia letteraria con la biografia. “Ariadna”, il grande poema su Arianna, è terminato nel 1924. Da due anni la Cvetaeva è in esilio dalla Russia sovietica: prima a Berlino, poi in Cecoslovacchia. Sono anni di grande fermento poetico – di grande solitudine. Marina si rivede nelle multiformi figure della classicità, dominate da amori dispari, da perpetui abbandoni: “Fedra” è pubblica nel 1928, ma “l’appunto lapidario, già carico di tutta la potenza del personaggio, ‘La mia Fedra non ragiona, vuole solamente’” è del 1923 (così Marilena Rea in: Marina Cvetaeva, “Fedra”, Pacini Editore, 2011). Come si sa, Arianna è la figlia di Minosse, innamorata di Teseo. L’eroe, dopo aver ammazzato il mostro, vincendo i grovigli del labirinto, abbandona Arianna, per unirsi a Fedra, la sorella di lei. Fedra arderà d’amore mortale per il figliastro, Ippolito, avuto da Teseo con la regina delle Amazzoni. Non è inutile ribadire che Minotauro, il mostro, è fratello di Arianna e di Fedra, donne ‘mostruose’ nell’amare. Come Marina, che ha chiamato Ariadna, Arianna – altrimenti, ‘Alja’ – la prima figlia, nata nel 1913. A proposito di biografia. “Sempre persone così ragionevoli, così rispettabili. Per loro io sono un poeta, cioè una certa realtà indiscutibile, da tenere in considerazione. Ma a nessuno viene in mente di amarmi. E io ho solo questo in testa (proprio – nella testa!), fuori di questo le persone non mi servono, tutto il resto l’ho già”, scrive la Cvetaeva a Ol’ga Cernova, nel gennaio del 1925. Gli anni in cui affonda nel mito, in cui diventa Arianna sulla soglia del labirinto, pronta all’abbandona e pregna di enigmi, è il 10 gennaio 1924, la Cvetaeva scrive ad Aleksandr Bacharach: “Io stesso sono CHI AMA. Non tutti possono farlo. Lo possono: i bambini, i vecchi, i poeti. E io, come poeta – e cioè, naturalmente, come vecchio e bambino – venendo al mondo ho subito scelto di amare l’altro. Essere amata – di questo fino ad oggi non sono stata capace”. In quei giorni il marito, Sergej Efron, militare ‘bianco’ che sarà ucciso nel 1941, medita di lasciare Marina. Non ci riuscirà. “Ho informato Marina della mia decisione: separarci. Per due settimane ha vissuto in preda alla follia. Correva dall’uno e dall’altro (intanto si era trasferita da certi suoi conoscenti). La notte non dormiva, era la prima volta che la vedevo in un simile stato di disperazione… Avrei potuto essere forte se Marina avesse incontrato una persona in cui credevo. Ma io sapevo che l’altro (un piccolo Casanova) l’avrebbe abbandonata dopo una settimana e nello stato in cui oggi si trova Marina, questo equivarrebbe a morire. Marina va verso la morte. Già da tempo non ha più la terra sotto i piedi. È tornata da me. Ma tutti i suoi pensieri sono con l’altro. L’assenza di lui infuoca i suoi sentimenti. Lo so: è convinta di avermi sacrificato la sua felicità. Fino – naturalmente – al prossimo incontro… La mia vita è una continua tortura”. Nel 1925 nasce l’altro figlio dei due, ‘Mur’, quello che vedrà la madre impiccata, una noce di anni più tardi. Nel 1923 Marina aveva inaugurato l’epistolario con Boris Pasternak, con quella frase d’esordio, fragorosa, “Siete il primo poeta che – in tutta la mia vita – vedo”. Se Marina fu Arianna seppe covare in sé il Minotauro. Qui si pubblica una traduzione di Marilena Rea, finora inedita, dal poema di Marina Cvetaeva “Arianna”. (d.b.)
***
Quadro terzo
Il labirinto
Ingresso del labirinto
Arianna
Invano il sospiro e l’udito bussano a questa fortezza. Più forte la sabbia scivola nella clessidra, più intenso
sullo Stige scivola Caronte. L’ombra del lauro si allunga più forte sull’urna di onice del fratello mio morituro!
È scomparso, proprio scomparso! Non serve ascoltare ancora! Più forte l’ombra della mano ripara la luce del sole.
O destino che hai voluto farmi incontrare quest’uomo! Dedala creatura – muta, taci il segreto al mondo.
Esasperante impotenza, beato – chi non ti ha sentito! Per questo intrico di pietra, Dedalo, ti maledico!
Antro, varco di aridità, morto – chi hai inghiottito! Indistricabile fragilità – sesso femminile, ti maledico!
Profondo come un fiume l’intuito delle vergini: non perdere il filo, il gomitolo non lasciare!
Sto in ascolto: l’urna – vuota come il ventre di una vedova. Sto in ascolto: sopra l’urna, sto in attesa: sopra l’avello…
Più forte goccia la resina, più forte ghiaccia la brina… Sto in attesa: sopra la nera caverna di fauci ferine.
Sarà meglio non scoprire che si cela dietro l’angolo. Ormai è teso il gomitolo? Tacciono i crudeli meandri.
Ormai nel sangue e nella bava il toro è caduto? O trafitto? Silenti i meandri – bugiardi come l’urlo delle emozioni.
Sia lode ad Afrodite nel tuono e nella quiete! Non perdere il filo! L’anima non smarrire!
Afrodite! Miele e mirto! Unico ausilio, unico vessillo
della cretese più ardente, nella trappola più nera illumina, Afrodite, il ritorno all’uomo dal volto splendido.
Afrodite! Strada e scopo! Con il lino tra le lastre, con la luce tra le crepe,
tu che vinci con un filo i leoni – com’è entrato così fallo uscire. L’animo suo leale, Afrodite, fa’ ritornare.
Afrodite! Sale! Mare! Se esigi un riscatto – sono qua!
Per alte gesta la sua vita preserva. In cambio – la mia! Come un sole e un leone l’ho visto! Afrodite! Sono vergine…
Un tonfo! Simile a colpo di martello! Un suono sordo! Un tonfo possente! Chi è morto? L’eroe o il toro?
Non è vetta che frana! Non è fiume che scroscia! Questo corpo che cade è un toro o un eroe.
È un regno che crolla! Le travi – in schegge! Un fiume che esonda: trema la volta celeste!
Cosa cinge la sua chioma? Sangue o corona? Il labirinto ha pronunciato per sempre la sua parola.
Coraggio, mio cuore! Tieni duro! Si è spalancata la volta celeste! In mezzo a un frullo
di stormi, in messo a fremiti di ali, un tappeto di rose… Avanza Afrodite celeste…
Teseo (sulla soglia del labirinto)
– Il sole!
Marina Cvetaeva
traduzione italiana di Marilena Rea
*In copertina: Marina Cvetaeva e la figlia Arianna. La figlia nasce nel 1913, il poema “Arianna” è compiuto nel 1924
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"Perché si è innamorati solo di ciò che è estraneo, si ama - ciò che è affine." - Marina Cvetaeva . . . Di lei due titoli in queste novità, che spaziano dai Beatles alla scienza, dalla scienza alla biografia di Soraya. Contattatemi per info. Presto tutti i titoli su: www.seunanottedinvernounlibro.it #libro #libri #libreriaonline #libreria #book #books #bookstagram #cit #citazione #seunanottedinvernounlibro #saggi #saggistica #bookshop #bookpride #letteratura #narrativa #instabook #instabooks #libriusati #librirari #primaedizione #marinacvetaeva #buddhismo #ching #beatles #biografia #vasilijgrossman #mondadori #einaudi #feltrinelli https://www.instagram.com/p/B1tsBeYoaU2/?igshid=1w921kh4vcb51
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Le protagoniste di questi graphic novel attraversano sole le loro avventure, e alla fine rimangono sole, proprio come erano partite. La loro solitudine è, in modo abbastanza straordinario, al tempo stesso determinata da eventi esterni, ma anche cercata attraverso una meditata, profonda conoscenza.
Alice Milani antepone alla biografia di Marie Curie il verso di una celebre poesia di Bertolt Brecht, A coloro che verranno:
«Oh, noi / che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, / noi non si poté essere gentili.»
Barbara Baldi dedica il suo libro «A chi si perde». E Cristina Portolano fa sue prima le parole di Blanche DuBois in Un tram che si chiama Desiderio: «Ho sempre confidato nella gentilezza degli sconosciuti.» Poi quelle di Annie Ernaux in Memoria di ragazza: «Come siamo presenti, noi, nell’esistenza degli altri, nella loro memoria, nel loro modo di essere, persino nei loro gesti? Incredibile sproporzione tra l’influenza sulla mia vita delle due notti passate con quest’uomo e il nulla della mia presenza nella sua. Non lo invidio, sono io che scrivo.» Traccia Giusi Quarenghi in Basuràda, sua ultima raccolta poetica, un breve ritratto di Marina Cvetaeva:
Marina volevi il sambuco del cimitero dei vecchi credenti la colomba d’argento tra le fragole nuove vivere spalancata alla solitudine arresa ad ogni infanzia d’amore Tu in esilio presso chiunque Creatura sovraesposta al buio come alla luce […]
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Stefano Ricci e Gianni Forte portano all’Off/Off Theatre di Roma la straordinaria allegoria dell’arte e della vita.
Allevato nell’epoca del dominio del linguaggio televisivo e commerciale, l’orizzonte dell’immaginario artistico contemporaneo mostra spesso di soffrire maledettamente il lato oscuro della massificazione novecentesta e, per questo motivo, di tendere a un puerile atteggiamento di anima bella che si crogiola nella propria inattualità.
A caratterizzare questa genuflessione, che più volte abbiamo riscontrato nel teatro politico e civile di casa nostra, è una sostanziale inconsistenza di fondo, ossia la convinzione che possa bastare rivendicare la propria rivoluzionarietà nella tematica o nella forma per giustificare l’efficacia di una critica sociale e culturale a una realtà i cui fondamenti strutturali, tuttavia, non vengono mai messi realmente in discussione, una critica che, di fronte a una analisi disincantata, si manifesta in verità e purtroppo palesemente didascalica e immediata, se non proprio sentimentale.
Contrariamente allo sconforto adorniano circa l’impossibilità di agire nella prassi contro quell’industria culturale che fagocita e piega ai propri voleri ogni opposizione (come accadde alla controcultura degli anni sessanta, oggi declinata in brand più o meno alla moda, dal vintage all’hipster), la sfida lanciata da Easy to remember alle convenzioni dello spettacolo teatrale tradizionale (sia performativo che di regia) si pone quale clamoroso ed efficace esempio di trasfigurazione scenica della controversa assurdità di una vita dedita all’arte, quella di Marina Cvetaeva, nonché, se non soprattutto, di dilaniante rappresentazione metaforica dell’esistenza umana.
Arrestata, deportata, elisiata, Marina attraversò la morte del marito e della figlia, visse da emarginata nella propria società (anche letteraria) e nel proprio tempo. La drammaturgia di Ricci/Forte parte da un assunto affatto originale («la follia è davvero una malattia o una manifestazione divina, un’espressione di libertà?) e sviluppa un interrogativo non inedito («come e in nome di chi vengono tracciati gli steccati di quella discutibile libertà?»), ma, attraverso la sublimazione estetica della biografia della poetessa russa, giunge ben oltre, fino a formalizzare con estrema audacia una tematica di assoluta radicalità («il nostro domani»).
Rispetto alla vicenda personale, la regia di Stefano Ricci evita inutili cripticismi nel restituire l’inazione cui Marina venne costretta dalla comunità letteraria bolscevica (la carrozzina) e il conseguente suicidio per impiccagione nel 1941 (il filo rosso), declina con struggente efficacia la solitudine sociale e culturale in cui si trovò reclusa in seguito al drammatico rientro in patria nel 1939 e non cade mai vittima dell’autoreferenzialità dell’intellettualismo d’avanguardia, sfoggiando anche il consueto, sapiente e dosato utilizzo di elementi ordinari tratti dalla popular culture (le musiche, la maschera da emoticon innamorato, allegoria di un rischio da cui nessuno può dirsi realmente al riparo).
Accompagnato da gestualità che, da dissonanti e distanti, giungono all’armonia e all’insieme della danza, il finale, poi, sbalordisce per come elude ogni rischio di moralismo, riuscendo, a seconda del personale stato d’animo, a potenziare il diffuso senso di angoscia e disagio fino ad allora avvertito o ad aprire a un happy ending tanto inatteso e sconcertante, quanto unico possibile, ossia all’arte quale unica tentazione di libertà, quale estremo e recondito barlume di speranza per chi – nonostante il dolore e le sconfitte – aspira a un’esistenza autentica e degna di essere vissuta.
La scena è spoglia, dominata da un «loculo» da cui usciranno crisantemi e l’unica presenza maschile dello spettacolo, il capriccioso e viziato figlio Mur (rappresentato non a caso come una ostile marionetta). Dalle parole della Cvetaeva emergono la richiesta di un amore che rinuncia all’inessenziale per essere perennemente straordinario, la voglia di una fedeltà assoluta a questo amore sterminato, la necessità di una dolce e libera adesione a questo amore puro, e che tutto ciò possa essere la prova concreta di un’esistenza non anonima. Il palco è completamente velato di bianco. È una «cella candida», una «stanza. Singola. A due posti». In essa la poetessa «cresce isolata afferrandosi alla memoria, come un fatale testamento in bottiglia da affidare alla Storia», ma dal suo corpo e dalle sue parole a maturare non è una verità esclusivamente individuale perché a partire dal corpo e dalla parola Easy to remember, eccedendo la semplice idea che la patologia del singolo possa essere il frutto malato di una società (la nostra) sprofondata nella barbarie, disvela ben oltre che una tragedia privata.
Anelato in fieri dagli struggenti versi della Cvetaeva proiettati sul velo trasparente che copre la quarta parete, la prospettiva del domani non sarà, allora, il sol dell’avvenire invocato dalla retorica rossa, perché quando domani avverrà, l’oggi sarà terminato, l’esserci hic et nunc scomparso, il proprio vissuto nullificato, tutt’al più conservato nella memoria. Ma la memoria in Easy to remember va ben oltre l’essere funzione cognitiva o esecuzione meccanica di attività psicofisiche quotidiane; la memoria cui Cvetaeva aspira attraverso l’immortalità dei propri versi è la sostanza spirituale di una coscienza che va ben oltre l’istante del funzionamento organico. Ed è in tal modo che il teatro di Ricci/Forte arriva alla possibilità di comprensione di ciò che quotidianamente, in maniera passiva e automatica, si accetta senza riflettere sulle proprie emozioni.
Inebriante protagonista dell’allestimento sarà, infatti, l’intrinseco potere dell’assenza (dell’amore, del riconoscimento sociale, degli affetti familiari, del tempo) di dominare la nostra vita e il dilaniante accostamento della persona a una dimensione strutturale dell’esistenza, sensazione che Easy to remember lascia sedimentare e stratificare in un climax emotivo parossistico perché capace di lasciare gli spettatori logorati al pari di performer ammalianti e stremate dalla densità e dal ritmo nervoso dello spettacolo.
Liliana Laera e Anna Gualdo, inizialmente mascherate come Nuestra Señora de la Santa Muerte, vestite di bianco (rispettivamente, infermiera/figlia e Marina Cvetaeva), impressionano con una impegnativa e perturbante performance fisica e recitativa, basata sull’ossessivo oscillare della lirica di «voci femminili sepolte, sovrapposte, infrante» tra le opposte pulsioni di vita e di morte, tra Eros e del Thanatos. Le due abitano «in questo istituto di “apparente” sanità, che sgretolano le ore della propria esistenza, feroci come le graminacee che attecchiscono sul cemento», offrono «singulti», scompaiono e compaiono oltre le radiografie di corpi ormai consumati in scheletri proiettati sulla quarta parete. Alternano monologhi e spezzano la propria melodia vocale senza, però, mai concedere pause al vertiginoso tasso di lirismo di una drammaturgia rizomatica e polimorfica, le cui parole prima illudono la descrizione di oggetti e possessi concreti e, poi, volgono a disegnare paesaggi interiori tragicamente patetici.
Ricci/Forte, allora, scartano il proprio stesso linguaggio per porsi quali irridenti innovatori di se stessi. Agli eccessi nelle dinamiche sceniche, al violento impatto fisico e alla penetrazione intellettuale di tanta produzione precedente, Easy to remember non oppone stilemi rivoluzionari e alternativi, ma preferisce una diversa proposta di invasività psichica, una maggiore finezza e profondità d’indagine sulla relazione tra l’essere umano e il sistema di biopotere che lo circonda. L’esito è disturbante, visionario e rigoroso perché Easy to remember trasfigura la propria radicalità, destrutturando il tessuto emotivo quale esso sta venendo a connotarsi all’interno di un contesto massificato e consumistico, plasmato da dispotivi di cultura e potere dei quali gli autori, seppur da altra direzione, dimostrano di saper padroneggiare le tecniche e di conoscerne i confini, così da utilizzarli per non subirli, ma, anzi, svelare quanto il re sia nudo.
Entrando in rotta di collisione con l’idea che il teatro sia semplicemente la testimonianza di una presa di posizione progressista o radicale, una prospettiva soggettiva con cui reiterare banalmente la superiorità di un punto di vista (il proprio) su un altro (quello contestato), la poetica di Stefano Ricci e Gianni Forte mostra – ancora una volta – di sapere come creare un corto-circiuto nel sistema di cui pure essi, e il pubblico con loro, fanno parte.
Chapeau.
Easy To Remember Foto Di Giovanni Chiarot 2
Easy To Remember Foto Di Giovanni Chiarot (7)
Easy To Remember Foto Di Giovanni Chiarot
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Easy To Remember Foto Di Giovanni Chiarot 3
Easy To Remember Foto Di Giovanni Chiarot 1
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Easy To Remember Foto Di Giovanni Chiarot 5
Lo spettacolo continua: OFF/OFF Theatre Via Giulia dal 12 al 23 Dicembre 2017
Ricci/Forte presentano Easy to remember drammaturgia ricci/forte regia Stefano Ricci movimenti Piersten Leirom assistente regia Ramona Genna direzione tecnica Danilo Quattrociocchi suono Andrea Cera voce registrata Anna Terio ricerca iconografica Stéphane Pisani con Anna Gualdo, Liliana Laera
Easy to remember Stefano Ricci e Gianni Forte portano all'Off/Off Theatre di Roma la straordinaria allegoria dell'arte e della vita.
#Anna Gualdo#Gianni Forte#Liliana Laera#Ramona Genna#Recensione Easy to remember#Ricci/Forte#Stefano Ricci
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Elizabeth Bishop, la poetessa imperscrutabile. “Aveva un talento per la vita – e dunque per la poesia – come nessuno”
L’intervista fu realizzata a Boston, il 28 giugno del 1978, da Elizabeths Spires. Fu pubblicata sulla “Paris Review”, numero 80, nell’estate del 1981. Troppo tardi. L’intervistata era già morta. Prima di lei, era morta la sua amante.
*
Di Elizabeth Bishop, il vescovo della poesia americana del Novecento, si sa pochissimo. Eccelleva nell’arte dell’eludere, e poi se ne andò, decisamente, per un drastico lotto di anni. “È difficile pensare a un grande poeta che abbia rivelato così poco di sé rivelandoci così tanto del mondo umano di cui siamo parte”, ha scritto, con un brillante aforisma, Scott Bradfield in un recente articolo pubblicato sul “Washington Post”.
*
Nel 1951, la Bishop è in Brasile. Vi resterà 15 anni, perfezionando la poesia nell’estraneo, la lingua nel luogo alieno. La Bishop è una esegeta dello straniero, un teologo dello strano, della mistica dell’espatrio. “‘Quando scriverai il mio epitaffio, dovrai dire che ero la persona più sola che sia mai esistita’, chiedeva all’amico Robert Lowell nel 1948, non sapendo che l’avrebbe preceduta nella tomba. Il suo sembra un destino di eterna sfrattata, dagli affetti come dalle case o dai paesi; all’infanzia sballottata fra vari parenti segue una vita itinerante in età adulta, frutto di scelta e imposizione”, scrive Ottavio Fatica nella raccolta memorabile di Elizabeth Bishop, Miracolo a colazione (Adelphi, 2005).
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In Brasile, la Bishop vive con la sua amata, l’architetto Lota de Macedo Soares, da cui si separa, nel 1967, ritornando negli Stati Uniti. Nello stesso anno, Lota vola a New York per incontrare Elizabeth, e si uccide con una overdose di tranquillanti. Beh, nel 1978, a 67 anni, la poetessa dice al giornalista della “Paris Review”: “Voglio vedere il corso superiore del Rio delle Amazzoni, si parte dal Perù…”. Il poeta è proprio lì, mi dico, nel rincorrere il viaggio impossibile, in questo eccesso di vita. La Bishop, poeta perfezionista per antonomasia – lavorava le parole come modellando il vetro –, non immagina l’opera, ma l’esistere, vuole vincere il Rio delle Amazzoni, legarselo come una treccia sui capelli. Morirà l’anno dopo.
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Per particolarità biografica la Bishop mi viene addosso come l’altro me stesso che mi divora il viso. È morta nell’anno in cui sono nato, è nata il giorno in cui sono nato, l’8 febbraio.
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Lottare con la grammatica della poesia, alterarla, scindersi dalla consuetudine della conferma, significa scegliere, darsi una statura.
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Bisognerebbe, piuttosto, alterare il crocevia dei canoni: Elizabeth Bishop è il grande poeta del Novecento. Ad esempio, mi viene quasi da mettere in uno stesso chiostro la Bishop, Wallace Stevens, Boris Pasternak, Saint-John Perse, Anna Achmatova e Marina Cvetaeva, e ipotizzare filiazioni, genealogie liriche, sentieri. La Bishop ha scritto pochissimo, ha pubblicato un centinaio di poesie, sostanzialmente raccolte in quattro libri, North & South (1946), A Cold Spring (1956), Question of Travel (1965), Geography III (1976). Un libro ogni dieci anni, un Pulitzer – nel 1955 – un National Book Award – nel 1969 – in una vita fatta di poche, grandi amicizie (Mary McCarthy, Robert Lowell, a cui la lega un sontuoso rapporto epistolare pubblico in Italia come Scrivere lettere è sempre pericoloso, Adelphi, 2014), di scrittura maniacale. Era ossessionata dalle parole, dal suono della frase, dal simbolo che formano i versi più che dal senso. L’ultima stanza, di folle bellezza, de L’Uomo-Falena:
Se lo beccate, puntategli una torcia nell’occhio. È tutto una pupilla scura, una notte in sé compiuta, il cui orizzonte cigliato si restringe mentre vi fissa e chiude l’occhio. Allora dalle palpebre una lacrima, unico suo bene, come per l’ape il pungiglione, sfugge. Furtivamente la raccoglie in palmo di mano e, se vi distraete, l’ingoierà. Ma basta stare in guardia ed è pronto a consegnarla, fresca come da fonte sotterranea e così pura da poterla bere.
*
Agli amici scriveva poesie dal sentore alchemico. Così chiude l’Invito a Miss Marianne Moore:
Vieni come una luce nel bianco cielo a pecorelle, vieni come una cometa diurna con una lunga, innube coda di parole, da Brooklyn, passando sopra il ponte, in questa bella mattina, ti prego vieni volando.
Nel mondo anglofono esce una biografia della grande poetessa, Love Unknown. The Life and Worlds of Elizabeth Bishop, 400 pagine firmate da Thomas Travisano, presidente della “Elizabeth Bishop Society”. Ne viene fuori, al di là della riservatezza enigmatica, il ritratto di una donna vitale, d’altronde, “aveva un talento per la vita – e dunque per la poesia – che non ho mai visto in nessun altro”, diceva James Merrill, poeta, come John Ashbery, che a lei deve moltissimo. “La Bishop non ammetteva intrusioni nel suo privato, si vergognava a leggere in pubblico, eppure la sua vita si è rivelata una quieta avventura, resistendo alle continue richieste della sua amica, Adrienne Rich, di ostentare la propria ‘identità sessuale’. Ostentare ed essere disponibile non era l’atteggiamento della Bishop verso la vita, ed è per questo che le sue poesie abbracciano il lettore in modi sempre inattesi” (Scott Bradfield).
*
Andava spesso a trovare Ezra Pound al manicomio criminale. Che incontro tra strampalati: l’antico, decapitato re della poesia, e quella regina che ha scelto di deporre la corona per una esistenza in viaggio – orfana di padre, madre ricoverata per instabilità mentale, la Bishop, con una piccola pensione, comincia a viaggiare, dagli anni Trenta, in Europa, Africa, Messico, Marocco, Ecuador, Perù, Norvegia, arsa da sfrenata foia –, indossando quel cognome vescovile. Ne scaturisce un reportage lirico, Visite all’ospedale St. Elizabeth, dall’incipit potente.
Ecco la casa dei matti.
Ecco l’uomo che sta nella casa dei matti.
Ecco l’ora dell’uomo tragico che sta nella casa dei matti.
*
La poesia della Bishop è piena di lacrime. “Un aneddoto riportato da James Merrill in visita alla poetessa mostra Elizabeth che una sera, accanto alla stufa, on un bicchiere di Old Fashioned in mano, al ricordo di un recente dolore scoppia in lacrime. Un suo ospite, un pittore brasiliano, rientrando la vede in quello stato e si arresta sulla soglia. Lei lo invita quasi allegramente a entrare e, passando al portoghese, gli dice: ‘Non farci caso, sto solo piangendo in inglese’. A riprova che una lacrima è una cosa intellettuale” (Ottavio Fatica). Così la chiusa di Sestina: “Tempo di piantar lacrime dice l’almanacco./ La nonna canta per la meravigliosa stufa/ e la bimba disegna un’altra imperscrutabile casa”. Già. Le lacrime sono oggetti di cristallo, monocoli attraverso cui leggere nel giusto spettro le poesie della Bishop. In ogni caso, io ritaglio quell’aggettivo, inscrutable: lì è riassunta l’integrità intera di Elizabeth Bishop. (d.b.)
*In copertina. Elizabeth Bishop dorme; tratto dal documentario “Welcome to this House”, 2015
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Attenzione! La lettera di Julio Cortázar non è di Julio Cortázar. Ovvero: sull’arte sublime (e necessaria) dell’apocrifo. Rilanciamo con una silloge di poesie dello pseudo-Saint-John Perse
La lettera di Julio Cortázar ad Alejandra Pizarnik, scritta a Parigi nel 1973, un anno dopo il suicidio della poetessa, non è di Julio Cortázar ma di Luca Orlandini, è uno scintillante apocrifo.
*
Anche la lettera del 6 maggio scorso, di Thomas S. Eliot, al “Caro Nikolaj”, spedita da Londra, nel luglio del 1962, è un apocrifo di Luca Orlandini. Le strategie letterarie, però, sono differenti. Nel caso della lettera di Eliot, parecchi passaggi sono tratti realmente da pensieri di Eliot – letterali o desunti o riassunti. La lettera dello pseudo-Cortázar, invece, al di là della cornice, è tutta frutto del genio dell’autore. Entrambe le lettere – se n’è accorto qualche lettore – posseggono alcune ‘spie’, più o meno consapevoli, che ne svelano l’inautenticità. Già, ma… che cosa è ‘autentico’?
*
Un giorno meditai di scrivere un’antologia della poesia italiana affibbiando a ciascun poeta una poesia verosimile, ma assolutamente mia. Tra la generosità, l’omaggio e il vaniloquio narcisistico, ammetto, lo spazio è breve.
*
Luca Orlandini è lui: si è messo nei panni di Thomas S. Eliot e di Julio Cortázar
Un giorno, inviai a Luca Doninelli un racconto firmato Miloš Crnjanski. Amo lo scrittore serbo di cui Adelphi ha pubblicato il romanzo epico, Migrazioni. “Strepitoso racconto”, mi scrisse. Gli risposi che l’autore ero io. “Strepitoso lo stesso. Ma non tuo: è il guaio degli apocrifi”. Lampante.
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Superficialmente, può apparire un gioco, un poco dada, un poco fuori tempo. Se quella lettera non fosse firmata Cortázar ma Orlandini avrebbe ricevuto lo stesso gradimento pubblico? Ovviamente no. Il nome, la griffe di grido, vince rispetto al contenuto. Anche in questo, giace una certa ovvietà: ciascuno, nel bene o nel male, è l’esito della sua storia, della sua fortuna.
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Piuttosto, da tempo, nell’epoca dominata dallo svelare documenti ‘secretati’, mi sembra necessario giungere al segreto di una biografia e di una scrittura creando documenti apocrifi, sinistri, sinuosi.
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Lo scritto apocrifo, in questo caso, è autenticato dall’autentico sforzo di penetrazione e di persuasione (cioè: di studio e di amore) perpetrato dall’autore che lo compie. Amo a tal punto quel tipo – Cortázar, ad esempio – da superarlo per eccesso di amore, da interpretarlo più che imitarlo.
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Non è fake news qui perché non c’importano le news ma l’intimità di un uomo, fino a esasperarne, nel ring letterario, le intenzioni.
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Il gesto d’amore è arcaico: nel canone biblico i libri affibbiati a Salomone o a Davide, vasti capitoli detti di Isaia, alcune lettere di San Paolo, non sono di quegli autori – ne ricordano l’autorevolezza.
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Apocrifo, appunto. Mi nascondo dietro il nome di un altro per svelare il suo nascosto. Non è l’opera di chi si getta nella notte, ma di chi porta alla luce.
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L’arte dell’apocrifo è una custodia letteraria gonfia di gioielli: chi non l’ha praticata non conosce il vero. Nell’apocrifo nuotava Borges, di apocrifi ha costellato la sua esistenza letteraria Marco Ercolani. D’altronde, un apocrifo è il recente documento romanzesco di Ferruccio Parazzoli relativo a Dostoevskij, Il grande peccatore, una fioriera di apocrifi è la Letteratura latina inesistente di Stefano Tonietto, su un doppio apocrifo (a partire dalla lunga lettera di Igor Stravinsky) si regge Madrigale senza suono di Andrea Tarabbia. Se è per questo, i discorsi di Pericle sono un apocrifo di Tucidide e quelli di Nerone una invenzione di Tacito e la storia di Magellano impalcata da Gianluca Barbera è una relazione inesistente agli atti della Storia.
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Come si compete con la tracotanza della Storia? Minandola di apocrifi – in fondo, un omaggio di scriteriata gioia – che rimpiazzino l’ordalia quotidiana con lo scatto. Esiste una nuova letteratura italiana fondata sull’apocrifo, sulla stilettata che scompone i codici filologici del vero.
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Credo che l’apocrifo sveli molto di più di un autore di cui si indossa il nome e il carisma di troppi documenti spuri, spauriti, speziati di stupidaggini. Della mia maschera, infatti, mostro la quintessenza, il mostro, la natura vorace e straordinaria, la semplifico nell’eccesso di gloria.
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Tentai una letteratura fondata sull’apocrifo. Ho sigillato lettere nel nome di Benedetto XVI, di Boris Pasternak e di Marina Cvetaeva, ho prolungato la facoltà fantastica di Ingmar Bergman e quella di San Paolo e di Horacio Quiroga. Ogni volta, certo, è un discorso di presenza. Come si è presenti al presente, con quale spavalda umiltà ci si presenta a un’altra presenza? Per rilanciare, allego una silloge di poesie – con annessa biografia spiccia – che senza intimidazioni intestai a Saint-John Perse, che io sia maledetto! (d.b.)
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Interrano le lanterne «perché i morti abbiano luce» dicono credendo alla vita e alla morte – che ancora esista qual cosa di oscuro. «I fiori sembrano fiamme» urlò vedendoli scavare «ed è infinito l’amore» pensò giustificandoli. Nell’opera erano scortati da teschi di tigre: se la preghiera non è pronunciata con onestà – è detto – i morti reclameranno la luce che incendia gli occhi dei vivi. In equilibrio sul recinto del balcone mentre Aleppo agonizza «la morte non interrompe i legami – li salda» questo sapeva.
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Didascalica gli sembrava la civiltà «risorgere significa accollarsi la vita di un suicida» disse e ripetè che ripetiamo le vite dei morti, per questo i volti ci sembrano subacquei. Seppellì un uovo di ghiaccio e chiese che le cose potessero esistere una volta soltanto per poi estinguersi senza l’ostensione del ricordo.
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Quando mi disse «Palmira è distrutta» dimenticai gli anni e la valanga dei volti decisi di amarti da sempre ma tu mi hai chiamato “l’avvolto” «ostruisci la crescita con i verbi» hai detto e mentre alcuni sconfiggevano tigri di bronzo e codici inclusi nella sabbia – penetranti fino alla foce delle unghie come se ogni cosa fosse davvero mortale ti sei deposta diventando lince – o certezza.
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«Dio divora in silenzio – ha vergogna della sua fame». Poi fece ingoiare il fuoco alla bestia e mentre i denti diventarono lettere negli occhi luminosi nessuno vide i propri anni. Quando ti chiesi di scappare il cane fu raggiunto dalle lucertole – e lo soffocarono; ispirate le donne pattugliavano i viali con le lanterne impedendo i matrimoni «perché sia una primizia il pasto di Dio» dissero quando dileguandosi come se il fuoco fosse l’annuncio delle loro mani i cani di casa in casa assalirono le figlie. «L’abitudine all’incendio costrinse i popoli verso le paludi dove pullulavano angeli» disse. «Ma quando la fame diventerà pazienza…» mi hai bloccato, locuste scollinarono mettendo in fuga le colpe: “l’impotente” mi hai chiamato così. «Hai pensato di poter declinare destini con lingue di lupo eternate nell’argento hai pensato che amare fosse sufficiente».
Saint-John Perse
Saint-John Perse (Pointe-à-Pitre 1887 – Heyères 1975), il «poeta più alto e importante del Novecento» (Cesare Cavalleri), nel 1936, in qualità di Segretario di Stato degli Affari Esteri, fu l’unico politico europeo ad aver capito la pericolosità di Adolf Hitler e a schierarsi contro la Germania. Onorato con il Nobel per la letteratura nel 1960, vent’anni prima Saint-John Perse, nato Marie-René Alexis Saint-Leger Leger in un isolotto della Guadalupa, di proprietà della famiglia, originaria della Borgogna, fu “esiliato” dal governo di Vichy, che gli confisca i beni e decreta contro di lui la perdita della nazionalità. Saint-John Perse tornerà in Francia soltanto nel 1957; nel frattempo, negli Stati Uniti, tornò alla scrittura poetica, pubblicando nel 1944, a Buenos Aires, Exil, poema tra i massimi di ogni tempo. Il poeta francese, negli anni della carriera diplomatica (tra il 1925 e il 1940), rifiutò di pubblicare i propri lavori, ritenendo l’attività letteraria incompatibile con quella politica. Nel 1924 aveva pubblicato per Gallimard il poema Anabase, riconosciuto fin da subito un’opera decisiva (lo testimoniano le traduzioni di Giuseppe Ungaretti, di Thomas S. Eliot, di Walter Benjamin). Viaggiatore, solitario, avventuriero, geologo dilettante, nel 1965 è invitato a Firenze a tenere il discorso inaugurale per VII centenario della nascita di Dante; nel 1972, per la “Pléiade” Gallimard cura e annota il volume delle proprie opere complete.
*Il testo affibbiato a Saint-John Perse è tratto da: Davide Brullo, “Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro”, Melville 2018
L'articolo Attenzione! La lettera di Julio Cortázar non è di Julio Cortázar. Ovvero: sull’arte sublime (e necessaria) dell’apocrifo. Rilanciamo con una silloge di poesie dello pseudo-Saint-John Perse proviene da Pangea.
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Il libro di Davide Brullo è stato selezionato per il Campiello. “Prima lo vinco, poi fondo una eresia”. Intervista sotto la neve
Dunque, è tutto finto…
Ovvio. Gliel’ho già detto.
…anche i racconti in appendice al testo. Ma sono firmati Ivan Bunin, Horacio Quiroga…
Le racconto un aneddoto. Poco prima di andare in stampa mi contatta il curatore della collana di Melville Edizioni, che ha un nome bellissimo – l’editore e la collana consecutiva – ‘Gli Impossibili’, come a dire che qui ci sono testi antartici e taglienti, che travolgono la norma, che tramortiscono… ad ogni modo. Mi contatta e mi fa: ma a chi dobbiamo chiederli i diritti per i racconti di Bunin, di Quiroga, di Crnjanski, di Saint-John Perse? Non aveva capito che erano totali riscritture, invenzioni, testi assolutamente miei sigillati con la firma di un altro. Quando gliel’ho detto, sbalordito, s’è messo a ridere…
In effetti il suo libro…
Scusi, la interrompo.
Prego, ne ha facoltà.
Secondo me quei racconti sono la cosa letterariamente più bella di un libro poco generoso con l’arte narrativa. Per questo, chi ha voglia di uno shock estetico – io lo cerco con follia nell’iride – può partire dai racconti, può partire dal fondo. Poi, risalga a piacere, questo libro si può leggere come vi pare. Cioè?
Il libro è allo stesso tempo romanzo, raccolta di racconti, antologia lirica, saggio, testo teologico, teologia poetica, tomo filosofico. Certo, il sogno recondito è che intorno alla fatidica Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro, redatta dal fantomatico – ma plausibilissimo – Pseudo-Paolo, qualcuno fondi una setta, una vegetativa eresia. D’altronde, non si scrive per avere lettori ma per procacciarsi dei sudditi. Per me, graziato dalla vita, trovare un lettore, un complice, è una grazia.
…che visione ‘agonistica’ della letteratura…
Il problema, piuttosto, è che la letteratura recente è in agonia. Nessuna idea prepotente, furibonda, estrema. Dopo, chessò, Joyce-Céline-Broch – ma anche dopo Calvino-Pasolini – ci si ostina a scrivere come se non fosse accaduto nulla, come se in medicina si ignorasse l’esistenza dell’antibiotico in favore di patetiche erbe medicamentose, come se si credesse ancora alla terra piatta, che piattume. Dopodiché, l’arte è sempre ‘agonistica’, sgomita. Un libro è come un bambino che urla e spacca le finestre finché qualcuno non lo ascolta e non si inginocchia a nutrirlo. Un bambino crede di essere il primo essere al mondo, l’unico – pretende che tutti s’inchinino al cospetto del suo ghigno. Così un libro. Si scrive per essere i soli, per svanire nel proprio libro, per donarlo a chi dovrà ricostruire l’alfabeto, soppiantando vocaboli e vocabolari.
A proposito di ‘svanire’: lei nei suoi libri sembra non voler esistere.
Esistono i libri – gli autori sono un mezzo, uno strumento, casuale. Io, letteralmente, non so quello che ho scritto. Se mi chiedesse ora di dettagliare le opinioni espresse nel mio libro, non gliele saprei ripetere, non le ricordo più. Non sa le lotte con gli editori per far sparire il mio nome al posto dell’autore… l’autore muore nella sua opera, ha la dottrina della povertà.
Cosa significa, concretamente?
Prenda questo libro. Volevo fosse stampato con la dicitura ‘a cura di Davide Brullo’. Davide Brullo non conta niente, è lo strumento suonato da altri. Ma in questo Occidente ogni opera d’arte ha bisogno di un ‘autore’. Manco lo scrittore fosse un Armani qualsiasi: ma chi l’ha scritto il libro di Giobbe, o Isaia, o l’Apocalisse o l’Odissea? L’autore è sempre altrove, il libro è il residuo di una morte, come la pelle vecchia del serpente, dopo la spoliazione, la metti in controluce e assisti a scritture ataviche, a geroglifici di ambivalente bellezza.
Torniamo al libro. Precisando alcune cose. Incontro Brullo nella bufera. Qualcuno, con un’ascia di pietra, pare aver sbudellato il cielo. Nevica da giorni. Riccione. Spiaggia bianca. I bambini, corazzati come fossero a Sestriere, usano il bob al posto del surf. La casa di Brullo è angusta, come la gola di una iena. Libri ovunque. Una grossa mappa di Antartide appesa su una parete (“progetto una gita lì, nell’assoluto bianco, dove la luce ti acceca e le mani si gelano, impedendo la scrittura, e le labbra si disseccano, come se Antartide fosse il dito ustionante dell’angelo”, mi dice, e lo devo bloccare, parlerebbe per ore di ogni singola sciocchezza). Alcuni quadri, nitidi e primordiali, dell’amico Marcovinicio. Un disegno raffigura Céline, un altro Brodskij (“non ho soldi per collezionare arte, un esercizio scemo: i quadri che vede sono doni, regali di amici. I disegni, invece, sono di Marco Carnà, un artista impeccabile: li aveva fatti per ‘il Domenicale’, un giornale per cui ho lavorato molti anni fa. Quando il giornale è fallito, li ho rubati”). Veniamo al libro…
Prego.
Nel suo “Pseudo-Paolo” ipotizza, si capisce dal titolo, una apocrifa “Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro”. Il libro, in effetti, è la minuziosa ricostruzione del ritrovamento di questa lettera – il 4 dicembre del 1989, presso la Biblioteca universitaria di Swansea, nel Galles, all’interno del commento alla ‘Lettera ai Romani’ di Sant’Agostino, di mano medioevale – la traduzione di questa lettera, fortemente, follemente annotata e il suo audace commento. Con tanto di rinvenimenti testuali in alcuni scritti letterari (quelli citati sopra) e una folta bibliografia, che occupa 12 pagine…
A cui sono molto legato.
Perché?
Perché nella bibliografia ho fatto la rassegna dei miei amici. Esempio “Floccari J., ‘Di lei amerai tutto’. Esperienze di amore assoluto da San Paolo a Marina Cvetaeva, Torino, 1998” è un libro assolutamente fittizio. “Floccari J.” è il mio caro amico d’infanzia Jonathan Floccari, che abita a Torino e fa il medico della mutua. Nella bibliografia, però, ci sono anche libri autentici: al lettore il gioco di scovarli. Il bello della letteratura è quando il lettore non capisce dove inizia la finzione e dove si deterge la verità, ma poi, cos’è mai la verità? Un bla bla che va avanti da millenni.
Pazzesco.
Macché. Banale. Pigliamo l’incipit del testo. I dati li ha riassunti lei poco fa, nell’assunto precedente. Il 4 dicembre del 1989, data in cui è stata scoperta la fatidica lettera dello Pseudo-Paolo, è morto, nella realtà, mio padre; Sant’Agostino è l’autore capitale della ‘cattolicità’, ma è scontrandosi con la Lettera ai Romani che Lutero – agostiniano – piglia la sua via; Swansea è la città di Dylan Thomas, il poeta che ho amato da ragazzo. Come vede, è facile costruire una cattedrale di vetro con la propria carne, edificare l’abominio della finzione fondandosi sulla propria biografia.
Veniamo ai temi del libro, sono molti. Ad esempio, cito dal testo della Lettera, “Dio è morto, definitivamente”, le chiese “sono un rifugio temporaneo… dovranno essere distrutte”, “dobbiamo ripercorre il dolore dei suicidi fino a riesumarne l’atto – e risolverlo”, “Dio si fa dire dagli incapaci”…
La fermo. Questi temi non si risolvono nel ring di una intervista. Bisogna fare come gli antichi, i rari. Sedersi, centellinare le parole, valutarle come fossero pietre. Per un riassunto sommario dei temi trattati nella Lettera basta andare a pagina 30 del libro. Il resto non si assolve con parole definitive. Le parole vanno abitate, come canoe, circoncidono convinzioni e convenzioni. Comunque, non c’è nulla di ‘eretico’ in quello che scrivo. Anzi. Pensi all’ultima asserzione. ‘Dio si fa dire dagli incapaci’. Beh, Mosè era balbuziente, Saul fugge sotto un tavolo per scampare l’investitura, Davide è l’ultimo e il più fragile dei figli di Iesse, Giona è un codardo, Isaia ha le labbra sceme, Paolo di Tarso è un persecutore… Il bello del cristianesimo è che è inafferrabile: Paolo, l’edificatore di chiese, non ha mai incontrato Gesù eppure è impastoiato in Cristo, ha l’ansia avventuriera del convertito; Pietro, sul cui nome Gesù edifica la Chiesa, tradisce tre volte ed è adornato dall’epiteto ‘Satana’. Lo stesso Gesù, è compassionevole, ma porta la spada e la divisione; parla nella sinagoga ma anela il deserto; recide il legame con il mondo ma vive nel mondo seminando tra tutti, poveracci o mercanti, ultimi o primi – perché tutti, in fondo, sono egualmente caduti, ultimi. Tornando alla sua domanda. Io mi domando perché si sia interrotta la linfa creativa all’interno del mondo cattolico, del mondo religioso. La Bibbia prolifera storie, e io credo nella creatività del cristianesimo. A partire da quelle storie – per alcuni sacre, per altre semplicemente belle – continuiamo a raccontare storie. Mi accodo dopo tanti altri.
Se preferisce, parliamo dell’anomalia del libro. Un romanzo che di fatto è un saggio, anzi, il commento a un testo fittizio.
Non è una pratica nuova. Questo è il terzo libro di una serie. Il primo, Rinuncio, simulava il diario di Benedetto XVI, negli ultimi giorni della sua vita. Il secondo, Ingmar Bergman. La vita sessuale di Franz Kafka è il soggetto di un film sulle perversioni di Kafka ipotizzato da Bergman e pubblicato dalla figlia insieme al suo quaderno di appunti. Il prossimo – se ne ho le forze – sarà il carteggio ritrovato – e fasullo – tra Boris Pasternak e Marina Cvetaeva, parte del quale – la parte più corposa e presumibilmente illuminante –, nella realtà, è andato perduta durante la Seconda guerra (lo racconta Pasternak nella sua autobiografia). Sa qual è il problema, comunque?
Dica.
Io non ci credo più.
…
Non credo più al tizio che scrive un libro, lo vende all’editore, lo compri in libreria e cominci: ‘Marco si alzò dal letto alle tre di notte, una leggera indigestione di peperoni gli aveva rovinato il sonno, senza accorgersi che la moglie, al suo fianco, era morta’. Ma chi ci crede? Se voglio leggere una storia, mi accartoccio nel letto con Omero o con Conrad. La realtà, oggi, questa realtà in pluridiffusione, che ci perfora gli occhi con chiodi di diamante, ha distrutto la possibilità immaginativa. Ha stritolato il nostro cuore con bende di cuoio. Allora… cosa deve fare lo scrittore? Quello che ha sempre fatto. Competere con la realtà. Nel mio caso: costruire documenti del tutto plausibili e del tutto fittizi. Lasciando il lettore alle montagne russe – a proposito, che grandi i russi… – del gioco. Un gioco, sia chiaro, terribile perché vero, come chi sbatte il coltello su un tavolo schivando le dita, magneticamente umane.
Tra le fonti qualcuno parla del Quinto evangelio di Mario Pomilio, altri citano Fuoco pallido di Vladimir Nabokov oppure Sergio Quinzio. Va detto, inoltre, che lei è laureato in letteratura cristiana antica e che ha esordito nel 2003 con una ‘testoriana’ traduzione dei Salmi.
Mi sono laureato con una tesi estetico-estatica. Ho indagato la glossolalia in San Paolo (se ne parla nella prima lettera ai Corinti, capitoli 12-14). La glossolalia è il ‘parlare in lingue’, il linguaggio che unisce, in incomprensibile unione, il fedele a Dio. Quel linguaggio, di cui vi sono esempi vivi nella storia della letteratura – da Dante ad Artaud, da Hölderlin a Zanzotto – è la quintessenza, a mio parere, della poesia. Chi scrive deve inventare un linguaggio nuovo fottendosene dell’‘edificazione’, concetto che stava a cuore a San Paolo. Il mio professore, Remo Cacitti, era amico di famiglia di Pasolini e di David Maria Turoldo. Quanto alle fonti, sbizzarritevi pure. La realtà è molto più banale. Dalle sue origini ancestrali la letteratura italiana si occupa di Dio (Dante); la letteratura moderna, poi, nasce con uno che usa magistralmente l’espediente del ‘manoscritto perduto e ritrovato’ (Alessandro Manzoni). Rischiando di essere avanguardista, sono uno che si allea alla tradizione. Non capisco perché i letterati italiani si siano dimenticati di Dio, il tema ineludibile della letteratura.
Lei è stato selezionato con il suo libro al prossimo Premio Campiello…
Sono felice per l’editore. Non sarebbe male vincere il premio che andò a Pomilio, a Giuseppe Berto, a Gesualdo Bufalino. Sarà il solito annaspare nel niente.
Lei al Campiello è già stato.
Già. Nel 2014. Con Rinuncio. Il libro piacque all’allora presidente di giuria, Monica Guerritore, che si spinse a leggerne dei brani durante la giornata di selezione della cinquina, nell’aula magna dell’Università di Padova. La Guerritore disse chiaramente che il libro doveva arrivare tra i finalisti. Gli editori ‘big’ si toccarono le palle e fecero lo sguardo cattivo; i giurati pigliarono questo gesto come una sfida. Il libro, ovviamente, fu il primo degli esclusi, insieme a quello del papà di Vittorio Sgarbi, che fece gran chiasso. Esito: per una piccola casa editrice, davvero autarchica – cioè, che non dipende dai grandi marchi editoriali – è impossibile vincere un grande premio, dove ci sono grandi interessi e un bel gruzzolo. Ma poco importa, uno scrittore gareggia con gli angeli, ruota il collo a Dio, si rivolge alla concatenazione degli umani, del tempo presente e delle sue conseguenze se ne sbatte, tutto, in fondo, è neve.
La neve. Impone il suo ritmo mentre me ne vado via. Brullo mi accompagna per un tratto. Cammina a passi larghi, con la foga dei centauri. Con la mano, consunta dal freddo, afferra qualche fiocco. “Vede? Non sembrano lettere? Cos’è un libro, infine? Non è che una nevicata”.
Federico Scardanelli
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