#Il racconto di Sonečka
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" La prima, la primissima cosa che feci quando tornai dalla Crimea: cercai Pavlik. Pavlik viveva dalle parti della chiesa di Cristo Salvatore e per qualche ragione mi trovai ad entrare in casa sua dalla porta di servizio, sicché il nostro incontro avvenne in cucina. Pavlik indossava l'uniforme da ginnasiale, coi bottoni, il che accentuava ulteriormente la sua somiglianza col Puskin liceale. Un piccolo Puskin — con gli occhi neri: il Puskin della leggenda. Né lui, né io ci sentimmo imbarazzati dall’essere in cucina, ma anzi spinti l'uno verso l'altro attraverso pentolini e marmitte - sicché anche - dentro di noi - tintinnammo, non meno di quelle pentole e di quei tegami. L’incontro fu una specie di terremoto. Dal momento che io avevo capito chi era lui, egli capì chi ero io. (Non mi riferisco alle mie poesie, non so nemmeno se allora le conoscesse.) Non saprei dire quanto indugiassimo in quel cerchio magico, — prima di uscire — entrambi per la stessa porta di servizio inondandoci di versi e discoirsi… Insomma Pavlik era venuto via - e si era eclissato. Si era eclissato a lungo a casa mia, in vicolo Borisoglebskij. Ci restava per giorni, mattinate, notti intere… Come modello di quelle nostre sedute ripeterò appena un dialogo. Io, timidamente: «Che cosa ne dite, Pavlik -, si può chiamare pensiero quel che stiamo facendo adesso?» Pavlik, ancora più timidamente: «Questo si chiama star seduti nelle nuvole e governare il mondo.» "
Marina Cvetaeva, Il racconto di Sonečka, a cura di Giovanna Spendel, La Tartaruga edizioni (collana Le tascabili), Milano, 2012 [1ª ed.ne 1982]; p. 24.
[Versione originale: Повесть о Сонечке, 1939(?)]
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E adesso, mentre scrivo, sento contro le costole la pietra della balaustra, oltre la quale entrambi, chissà perchè, ci sporgevamo stranamente per avvistare non so se il passato, il futuro o il presente che si stava formando contro di noi.
Marina Cvetaeva, Il racconto di Sonečka (trad. Giovanna Spandel)
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[Sonečka][Marina Cvetaeva]
Scritto nel 1937, quando ormai tutto annunciava la catastrofe finale, all'ombra della perdita e del dolore, il racconto-epitaffio è smagliante, luminoso, sembra irradiare vitalità e tepore. [Sonečka][Marina Cvetaeva]
Marina Cvetaeva conobbe l’attrice Sof’ja (Sonečka) Gollidej – il suo «più grande amore femminile» – alle soglie del 1919, il «più nero, pestilenziale, mortifero» degli anni postrivoluzionari, quando in una Mosca misera e affamata «si affratellò a una banda di commedianti»: gli attori allievi del Secondo Studio presso il Teatro d’Arte. Ventidue anni – ma con l’aspetto di una ragazza-bambina –,…
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“ Com'era Marina Cvetaeva?
Lasciamolo dire a sua figlia Alja (Arjadna), da una pagina del suo diario nel dicembre del 1918, quando la bambina, peraltro molto precoce, ha appena sei anni: «La mia mamma è molto strana. La mia mamma non assomiglia per niente a una mamma. Le mamme sono sempre contente della loro prole e specialmente dei bambini, però a Marina non piacciono i bambini piccoli. I suoi capelli sono rosso chiari, con dei riccioli dalle parti. Ha gli occhi verdi, il naso con una gobba e le labbra rosee. È alta, mi piacciono le sue mani. La sua festa preferita è l'Annunciazione. È triste, svelta, ama le poesie e la musica. Anche lei scrive poesie. È paziente, sopporta fino all'estremo. Si arrabbia e ama. Deve sempre correre da qualche parte. Ha un'anima grande. Una voce tenera. Cammina molto rapida. Marina ha sempre le mani con tanti anelli. Di notte Marina legge. Guarda sempre come se prendesse in giro. Non vuole che le si facciano domande stupide, altrimenti si arrabbia molto. Certe volte cammina come sperduta, ma improvvisamente si riprende come svegliandosi, comincia a parlare e di nuovo se ne va da qualche parte» [Arjadna Efron, Stranicy vospominanij, Parigi, 1979, pp. 36-37]. “
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Brano tratto dall’introduzione di Giovanna Spendel a:
Marina Cvetaeva, Il racconto di Sonečka, a cura di Giovanna Spendel, La Tartaruga edizioni (collana Le tascabili), Milano, 2012 [1ª ed.ne 1982]; p. 7.
[Versione originale: Повесть о Сонечке, 1939(?)]
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