#narrazione al femminile
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pier-carlo-universe · 3 days ago
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"Resta solo la tua voce" di Alessandra Pagani: Un romanzo di denuncia sulla violenza di genere
"Resta solo la tua voce" è il nuovo romanzo di Alessandra Pagani, pubblicato da Morellini editore nella collana Varianti, diretta da Sara Rattaro e Mauro Morellini.
Un potente racconto che dà voce a chi non ce l’ha più “Resta solo la tua voce” è il nuovo romanzo di Alessandra Pagani, pubblicato da Morellini editore nella collana Varianti, diretta da Sara Rattaro e Mauro Morellini. Uscito il 22 novembre 2024, questo libro affronta con coraggio e intensità il tema della violenza di genere e dello stalking, ispirandosi a eventi di cronaca realmente…
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t-annhauser · 2 months ago
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tutto mondo è paese
A guardare quel blog russo di fotografie non si direbbe che i russi siano così cattivi come li dipingono da un po' di tempo a questa parte, sembrano piuttosto come noi, buoni o cattivi secondo i casi e indipendentemente dalle forme di governo. Curioso vedere come la western way of living fosse oramai beatamente penetrata anche Russia, perché ci dimentichiamo che il comunismo fu prodotto occidentale per antonomasia col suo universalismo di ispirazione socialista, potente agente di globalizzazione assieme al capitalismo suo antagonista. A vedere certe vecchie fotografie dell'era sovietica sembra di rivedere l'America degli anni cinquanta, stesse aspirazioni, stessa narrazione, anche se declinata da un'ideologia diversa: la scienza che salva, la meccanizzazione delle campagne, l'emancipazione femminile, la placida vita del borgo con casettina e giardino, tutto molto idilliaco, tutto molto borghese: tutto mondo è paese.
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klimt7 · 1 year ago
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Femminismo e poesia in Croazia: “Non leggi le donne” di Olja Savičević Ivančević
Il corso di lingua croata all’università di Udine avvicina gli studenti di mediazione culturale al mondo della traduzione, grazie alla guida della docente e traduttrice Elisa Copetti. Durante una lezione, poche settimane fa, è stata proposta questa poesia. Leonora Raijć ed io, che frequentiamo il corso, ci siamo occupate della traduzione di “Ne čitaš žene”, da cui siamo rimaste profondamente colpite per la sua immediatezza e per la sua forza nel mettere a nudo dei passaggi cruciali nella relazione uomo/donna. L’autrice ha inoltre accettato di rispondere ad alcune nostre domande in una intervista, che riportiamo integralmente.
“Normalmente non leggo le donne, ma mi piace il tuo libro”
È da qui, da questa affermazione, che è nata la poesia “Ne čitaš žene” (Non leggi le donne), come risposta. Ed è presto diventata un manifesto femminista nel mondo letterario croato.
La poesia di Olja Savičević Ivančević, nota autrice croata contemporanea, scatta un’istantanea, con rabbia e rassegnazione allo stesso tempo, della situazione delle donne nel panorama letterario croato, e non solo. Versi che esprimono, in uno spazio e un tempo dilatati, tutto quanto le donne hanno subito nel mondo della letteratura, da sempre appannaggio prevalentemente maschile. “Non leggi le donne” parla agli uomini, ma possiamo sentirci coinvolti tutti e tutte dalle parole dell’autrice.
Quante volte, come lettori o lettrici, ci siamo fermati a riflettere davvero sul numero di autrici donne presenti sugli scaffali del nostro salotto, nelle antologie scolastiche o nei programmi accademici, in vetrina nelle librerie o semplicemente nella nostra memoria? In un’intervista a Nova.rs, l’autrice spiega come la scrittura femminile rimanga ancora sinonimo di qualcosa di quasi banale, meno serio e impegnato rispetto alla produzione letteraria maschile. Mostra inoltre come sia necessario mettere in discussione il canone che ha condannato all’invisibilità molte donne colte e di talento, anche ai giorni nostri.
Dati e contraddizioni sulla situazione in Italia
Ma qual è la situazione femminile nel mondo letterario italiano? Emerge un quadro molto simile a quello che Savičević Ivančević mette in evidenza per la Croazia. Nel nostro paese, i programmi scolastici e accademici menzionano pochissime scrittrici: solo il 5% dei titoli proposti nei corsi universitari è scritto da donne. Un canone molto presente e rigido è quello per cui le opere considerate universali siano state scritte tutte da uomini. E questo è in controtendenza rispetto a chi legge e consuma la produzione letteraria. È infatti un dato noto che le donne leggano mediamente più degli uomini: come si coniuga questo con le statistiche? Quanto chiedono, le donne, di leggere altre donne?
Un punto cruciale che può favorire una nuova modalità di percezione delle donne nel mondo letterario è sicuramente l’educazione, ovvero ciò che avviene nell’ambito delle relazioni familiari e scolastiche, e come queste tendono o meno a trasmettere messaggi di equivalenza. Ed è attraverso la capacità di filtrare le comunicazioni dall’esterno in cui siamo tutti immersi, tutto il tempo (social media, internet e società stessa) che si delinea una nuova possibilità per smascherare ed indebolire la disuguaglianza. Rispetto ad alcuni decenni fa la narrazione di genere è profondamente cambiata, tuttavia il discorso patriarcale non è scomparso, né dissolto, e molto spesso si ripresenta in modi difficilmente identificabili.
La raccolta di poesie “Divlje i tvoje”
Ci si immerge completamente in questa visione durante la lettura della settima raccolta di Olja Savičević Ivančević, “Divlje i tvoje” (Selvagge e tue) pubblicata da Fraktura nel 2020, una lettura seducente sia per gli appassionati di poesia sia per i lettori che si avvicinano più raramente alla produzione in versi. Una posizione scomoda quella dell’autrice, come è da sempre quella di chi scrive, che presuppone uno sguardo vigile e un’attenta critica della realtà: preserva con forza emozioni come l’amore e l’amicizia, affronta le relazioni di genere, nel tentativo di decostruire gli ordini sociali canonizzati. Lo fa con una particolare cura al legame tra il passato e il presente, tra l’io e l’altro, accogliendo e considerando che si tratta di polarità solo immaginate dalla mente: noi e gli altri, gli altri e noi si confondono e, ad un livello di esperienza profonda e interiore, si rivelano essere uno.
Il tutto pervaso da una intrinseca prospettiva femminile e femminista: la necessità dell’uguaglianza di genere nel presente, ma anche la correzione delle ingiustizie del passato e la consapevolezza di quanto l’educazione giochi un ruolo determinante nella graduale dissoluzione degli schemi patriarcali che ancora pervadono il nostro mondo.
Non leggi le donne
Dici che non leggi le donne
Cosa potrebbero dirti 
Ti hanno insegnato a parlare
Ti hanno insegnato a camminare
Ti hanno insegnato a mangiare
Ti hanno insegnato a pisciare
Ti hanno insegnato a fare l’amore
In realtà cosa potrebbero 
Dire di te
E della tua esperienza
Tutti questi secoli
non ne hanno messa al mondo
Una che fosse grande
Come il grande scrittore
A cui lavava le calze 
Dici che non leggi le donne
Le donne ti hanno insegnato a leggere
Insegnato a scrivere
Insegnato a vivere
In realtà, ragazzo
Tutto questo è stato
Nel migliore dei casi
Un lavoro inutile
[ Olja Savičević Ivančević ]
.
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katnisshawkeye · 6 months ago
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Monna Lisa influencer
Visit Italy lo ha rifatto nuovamente.
Ha creato una nuova campagna di promozione del territorio italiano a livello turistico utilizzando la ragazza di un'opera d'arte di un artista italiano come sua personal influencer.
Per il 2023 la testimonial è stata Venere de La Nascita di Venere di Sandro Botticelli (@venereitalia23): la protagonista del quadro è stata presa è inserita nel contesto italiano, abbigliata in vestiti moderni, per la creazione di contenuti social.
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Per il 2024, invece, la testimonial scelta è monna* Lisa de La Gioconda di Leonardo da Vinci (@monnalisareal). Qui la comunicazione è stata effettuato creando una modella fittizia mediante l'intelligenza artificiale, che sta prendendo sempre più piede in tutti gli ambiti senza essere stata veramente normata.
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Il lancio della nuova campagna di promozione del territorio italiano dal punto di vista turistico di Visit Italy è avvenuto a New York, tramite il billboard a noleggio di Times Square, con lo slogan:
I'm coming back to Italy. — Monna Lisa
Ma se monna Lisa, che risiede al Louvre (Parigi, Francia), sta tornando in Italia, perché la sua campagna inizia da New York? Come ci si è ritrovata nella Grande Mela?
Tra i commenti del video del lancio, vi è quello di un utente che domanda:
Quindi, probabilmente, la prima fermata sarà quella della tua città natale, Firenze?**
Cosa che avrebbe molto senso, in una narrazione corretta. Ma lo storytelling non è il punto forte di questa campagna e, infatti, troviamo subito monna Lisa in una trattoria a Roma, davanti a un piatto di pasta alla carbonara accompagnato da un calice di vino bianco.
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Monna Lisa "esplora" un po' Roma, poi "vola" a Napoli e a Milano, e solo come quarta tappa si ritrova a Firenze.
Al di là dell'utilizzo dell'IA — conveniente solo per abbattere i costi d'ingaggio di una modella e/o attrice disposta interpretare monna Lisa in questa campagna e di trasferte della ragazza scelta e di anche solo una piccola troupe — e dell'assenza di un vero e proprio storytelling per raccontare l'Italia a chi vi pianifica il proprio soggiorno, i post proposti alla community di Instagram, ancora una volta, non raccontano nulla dell'Italia, preferendo invece optare per avvicinare il pubblico con i classici cliché a cui già i turisti sono abituati.
* Monna · /mòn·na/ · sostantivo femminile — Abbreviazione di madonna ��signora’, titolo che nel basso Medioevo si usava premettere al nome; più tardi, e ancora oggi, può conferire un sapore scherzoso di fiaba.
** Tradotto dall'inglese, So probably the first stop should be by your hometown Florence?
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scenariopubblico · 1 year ago
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Intervista con Emio Greco, coreografo di ROCCO.
Abbiamo incontrato Emio Greco (1965), danzatore e coreografo italiano che dopo essersi formato a Cannes ha danzato e collaborato con numerosi artisti tra cui Jan Fabre e Saburo Teshigawara. Dal 1995 lavora con Pieter C. Scholten (1965), con il quale ha fondato ad Amsterdam la compagnia Emio Greco/PC riconosciuta come una delle più importanti del panorama europeo.
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Rocco è stato portato per la prima volta in scena nel 2011. Come si è sviluppato il processo creativo e come lo spettacolo è cambiato oggi da allora? La genesi risale al 2008 quando inizialmente io e Pieter pensavamo di creare uno spettacolo di teatro in collaborazione con un importante regista, oggi molto famoso per i musical, che voleva curare la messa in scena di Rocco. Il suo linguaggio però era molto realistico, così abbiamo deciso di sviluppare le nostre idee iniziali. La prima ufficiale fu a Vienna a ImpulsTanz nel 2011; da allora lo spettacolo si è nutrito del proprio vissuto acquisendo qualcosa di nuovo e perdendo qualcos’altro, com'è naturale. Abbiamo poi creato anche una versione femminile, Rocca. Adesso il cast è misto e diciamo che questo aspetto fa anche parte della storia di Rocco dal punto di vista etico-sociale: la scelta dei performer, infatti, va oltre il gender e la rappresentazione dell’uomo e della donna. È più uno stato di amicizia, relazione, combattimento, distanza, sfida ad essere in scena. Ciò che importa è l’energia che emana quella specifica persona aldilà del proprio gender.
Il lavoro tra te, coreografo, e Pieter, regia, come si sviluppa? Posso dire che siamo entrambi coreografi perché la regia è qualcosa che emerge dal corpo e da me. In altre parole, per regia intendo il fatto di leggere, cogliere ciò che il corpo che ho di fronte ha bisogno in relazione al circostante e alla situazione teatrale…bisogna capire cosa fornire affinché il corpo possa vivere in modo ottimale. Riguardo Rocco avevamo chiaro sin dall’inizio l’idea spaziale del ring – tra l’altro quella di considerare la scena come un ring è una suggestione che ho da molto prima della creazione – e la suddivisione del tempo in round di tre minuti. Idee che avevamo sin dall’inizio a differenza di molti altri lavori in cui la forma scenica si specifica dopo.
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Molti hanno parlato di Rocco come uno spettacolo rappresentativo del vostro lavoro. Che significato ha, allora, Rocco nella vostra carriera? È piuttosto importante perché mi ha permesso di lavorare su una dualità; il rapporto a due che nella danza è molto importante (penso al passo a due) e che qui acquisisce nuove soluzioni formali e coreografiche.  Abbiamo studiato come creare altre strategie, una forma nuova che abbiamo sperimentato per la prima volta con Rocco che quindi è un tourning point nel nostro percorso.
Ci sono delle figure di riferimento nella storia della danza, della musica, del cinema e dell'arte che sono state importanti nel corso degli anni? Da italiano sento che c'è una cultura classica che mi impregna. Sono cresciuto a Brindisi dove c’è una presenza artistico-architettonica greca e romana. Ci rapportiamo quindi con quel tipo di idea di “purezza” nelle dimensioni e nelle proporzioni. Anche con il cinema c’è un rapporto importante. Ho un legame particolare perché quando vivevo nel mio paese non avevo molto accesso all’arte e alla cultura e quella cinematografica è una delle forme d'arte più accessibili. Un riferimento su tutti è David Lynch, con la sua magistrale capacità di trovare sempre un'altra narrazione, cioè un altro modo per dire qualcosa. Riguardo la danza mi sono formato negli anni Ottanta, quindi con un pensiero neoclassico di base da cui mi sono poi allontanato. L’astrazione della tecnica è una delle cose che mi affascina di più, poiché da quella situazione – con le tecniche incorporate nel corpo – puoi disfare qualsiasi cosa e quindi ricreare qualsiasi cosa. Riferimenti principali sono Cunningham e Forsythe e le loro danze fanatiche che sono qualcosa che dal punto di vista energetico mi hanno sempre colpito. Ulteriore figura importante è Jan Fabre, altra faccia di uno stesso oggetto… Siamo molto legati anche all’ambito musicale, e questo si vede nelle scelte sonore che facciamo che si nutrono di mondi ed epoche diverse. Non mi dispiace la musica di ricerca, più sofisticata, nel campo dell’elettronica.
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Il vostro manifesto, scritto nel 1996, è ancora oggi perfettamente valido nella vostra est-etica? Senza che venga considerato un tabù, il manifesto è ancora qualcosa di valido a cui ci riferiamo. Abbiamo elaborato il nostro linguaggio proprio sulla base di questi punti che ci hanno permesso anche di dialogare con altre situazioni e altri ambiti di ricerca come musica, teatro, filosofia e ricerca scientifica. È affascinante un pensiero della danza così poliedrico… ed è importante anche dal punto di vista dell’approccio sociale.
1. It is necessary for me to tell you that my body is curious about everything and I am my body 2. It is necessary for me to tell you that I am not alone 3. It is necessary for me to tell you that I can control my body and play with it at the same time 4. It is necessary for me to tell you that my body is escaping 5. It is necessary for me to tell you that I can multiply my body 6. It is necessary for me to tell you that you have to turn your head 7. It is necessary for me to tell you that I am leaving you and I am giving you my statue
Infatti, il punto tre dice «io posso controllare il mio corpo e allo stesso tempo giocarci». Un concetto che esplica un tipo di lavoro di ricerca e allo stesso tempo una posizione politica, nei confronti del pubblico. Questo si lega anche a un'ulteriore domanda: quale pensi sia il ruolo della danza nella società di oggi? Sappiamo che la danza è stata una delle forme più importanti di espressione sia per il suo potenziale vibrante che per il suo essere sociale, aggregante. Questo è un elemento fondante, presente intrinsecamente, che rimane nonostante l’evoluzione della forma. Penso che le capacità di grido e parola siano eccezionali. La danza è poi la forma che evolve più velocemente di ogni altra e riesce a comunicare senza barriere: legata ai corpi è legata alla società e quindi al cambiamento, c’è una corrispondenza.
Secondo te, in generale, il pubblico vuole dialogare con la danza? O è più predisposto ad accogliere un intrattenimento?   Soprattutto dopo il Covid noto che c’è una dipendenza a volere cose che si riconoscono e che siano riconoscibili...
La danza allora deve prendere considerazione di questo aspetto e sforzarsi di andare incontro al pubblico? Si, ma senza svendere la sua natura e questa è la cosa più difficile…penso che debba avvicinarsi il più possibile ma senza diventare inutile. Intendo, cioè, di dare qualcosa soltanto in accordo con un gusto particolare. Che senso avrebbe a quel punto? Bisogna "indicare" sempre un pensiero attraverso la danza…il pensiero è ciò che ha fatto evolvere la società. Gli artisti prima di noi hanno indicato una strada, con il loro pensiero…sono stati pionieri con qualcosa di nuovo. Noi siamo qui grazie a loro, grazie a chi ha smosso resistenze e tabù ed è stato artista per noi.
di Sofia Bordieri
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C'è ancora domani 1° in classifica al Box Office
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:: Trama C'è ancora domani ::
Delia è "una brava donna di casa" nella Roma del dopoguerra: tiene il suo sottoscala pulito, prepara i pasti al marito Ivano e ai tre figli, accudisce il suocero scorbutico e guadagna qualche soldo rammendando biancheria, riparando ombrelli e facendo iniezioni a domicilio. Secondo il suocero però "ha il difetto che risponde", in un'epoca in cui alle donne toccava tenere la bocca ben chiusa. E Ivano ritiene sacrosanto riempirla di botte e umiliarla per ogni sua "mancanza". La figlia Marcella sta per fidanzarsi con il figlio del proprietario della pasticceria del quartiere, il che le darebbe la possibilità di migliorare il suo status e allontanarsi dalla condizione arretrata in cui vive la sua famiglia, nonché da quella madre sempre in grembiule e sempre soggetta alle angherie del marito. Per fortuna fuori casa Delia ha qualche alleato: un meccanico che le vuole bene, un'amica spiritosa che la incoraggia, un soldato afroamericano che vorrebbe darle una mano. E soprattutto, ha un sogno nel cassetto, sbocciato da una lettera ricevuta a sorpresa.
C'è ancora domani è l'esordio alla regia di Paola Cortellesi, ed è una pura emanazione della sua persona.
Il tono è divulgativo, pensato per raggiungere il più ampio pubblico possibile, ma questo non va a scapito della sua vocazione autoriale, che è manifesta in scelte molto precise di colore (il film è girato nel bianco e nero della cinematografia d'epoca con grande attenzione filologica del direttore della fotografia Davide Leone), di formato (che cambia lungo il corso della narrazione), di commento musicale (che in aggiunta alle composizioni originali di Lele Marchitelli alterna brani retrò di Fiorella Bini e Achille Togliani con titoli italiani molto più recenti - di Dalla, Nada, Silvestri, Concato -- e innesti internazionali di hip hop, elettronica e rock alternativo, in maniera non dissimile da quanto fa nel suo cinema Susanna Nicchiarelli).
La sceneggiatura, della stessa Cortellesi insieme ai sodali Giulia Calenda e Furio Andreotti, è intenzionalmente didascalica nell'obiettivo esplicito di parlare al grande pubblico, soprattutto - ma non solo - femminile, e concentra nei personaggi di Ivano e Delia l'ingiustizia di un sistema patriarcale di cui anche Ivano è in qualche modo vittima (oltre che perpetuatore), e Valerio Mastandrea riesce a inserire nella sua caratterizzazione quel tanto di umano e di fragile da non farcelo liquidare completamente come un orco d'antan (ma non abbastanza da farcelo perdonare).
Tuttavia la sceneggiatura è astuta nel distribuire anche a tutti gli altri personaggi una misura dello stesso veleno culturale, e dunque le donne di ogni condizione (tranne la venditrice al mercato interpretata da Emanuela Fanelli) vengono messe a tacere dai loro mariti, e anche gli uomini più gentili possono (devono?) cadere preda del loro imprinting socialmente approvato.
Le botte di Ivano inferte a tempo di musica in una danza macabra e un paso doble del terrore (intuizione cinematografica straziante ed efficacissima) non hanno nulla a che vedere con quelle testosteroniche importate nel cinema da Martin Scorsese, e molto con quelle inferte da Zampanò a Gelsomina, così come la preparazione della famiglia nelle scene iniziali di C'è ancora domani deve tutto all'incipt di Una giornata particolare.
Un film (in Italiano anche pellicola) è una serie di immagini che, dopo essere state registrate su uno o più supporti cinematografici e una volta proiettate su uno schermo, creano l'illusione di un'immagine in movimento.[1] Questa illusione ottica permette a colui che guarda lo schermo, nonostante siano diverse immagini che scorrono in rapida successione, di percepire un movimento continuo.
Il processo di produzione cinematografica viene considerato ad oggi sia come arte che come un settore industriale. Un film viene materialmente creato in diversi metodi: riprendendo una scena con una macchina da presa, oppure fotografando diversi disegni o modelli in miniatura utilizzando le tecniche tradizionali dell'animazione, oppure ancora utilizzando tecnologie moderne come la CGI e l'animazione al computer, o infine grazie ad una combinazione di queste tecniche.
L'immagine in movimento può eventualmente essere accompagnata dal suono. In tale caso il suono può essere registrato sul supporto cinematografico, assieme all'immagine, oppure può essere registrato, separatamente dall'immagine, su uno o più supporti fonografici.
Con la parola cinema (abbreviazione del termine inglese cinematography, "cinematografia") ci si è spesso normalmente riferiti all'attività di produzione dei film o all'arte a cui si riferisce. Ad oggi con questo termine si definisce l'arte di stimolare delle esperienze per comunicare idee, storie, percezioni, sensazioni, il bello o l'atmosfera attraverso la registrazione o il movimento programmato di immagini insieme ad altre stimolazioni sensoriali.[2]
In origine i film venivano registrati su pellicole di materiale plastico attraverso un processo fotochimico che poi, grazie ad un proiettore, si rendevano visibili su un grande schermo. Attualmente i film sono spesso concepiti in formato digitale attraverso tutto l'intero processo di produzione, distribuzione e proiezione.
Il film è un artefatto culturale creato da una specifica cultura, riflettendola e, al tempo stesso, influenzandola. È per questo motivo che il film viene considerato come un'importante forma d'arte, una fonte di intrattenimento popolare ed un potente mezzo per educare (o indottrinare) la popolazione. Il fatto che sia fruibile attraverso la vista rende questa forma d'arte una potente forma di comunicazione universale. Alcuni film sono diventati popolari in tutto il mondo grazie all'uso del doppiaggio o dei sottotitoli per tradurre i dialoghi del film stesso in lingue diverse da quella (o quelle) utilizzata nella sua produzione.
Le singole immagini che formano il film sono chiamate "fotogrammi". Durante la proiezione delle tradizionali pellicole di celluloide, un otturatore rotante muove la pellicola per posizionare ogni fotogramma nella posizione giusta per essere proiettato. Durante il processo, fra un frammento e l'altro vengono creati degli intervalli scuri, di cui però lo spettatore non nota la loro presenza per via del cosiddetto effetto della persistenza della visione: per un breve periodo di tempo l'immagine permane a livello della retina. La percezione del movimento è dovuta ad un effetto psicologico definito come "fenomeno Phi".
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There's Still Tomorrow non è ancora presente
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:: Trama C'è ancora domani ::
Delia è "una brava donna di casa" nella Roma del dopoguerra: tiene il suo sottoscala pulito, prepara i pasti al marito Ivano e ai tre figli, accudisce il suocero scorbutico e guadagna qualche soldo rammendando biancheria, riparando ombrelli e facendo iniezioni a domicilio. Secondo il suocero però "ha il difetto che risponde", in un'epoca in cui alle donne toccava tenere la bocca ben chiusa. E Ivano ritiene sacrosanto riempirla di botte e umiliarla per ogni sua "mancanza". La figlia Marcella sta per fidanzarsi con il figlio del proprietario della pasticceria del quartiere, il che le darebbe la possibilità di migliorare il suo status e allontanarsi dalla condizione arretrata in cui vive la sua famiglia, nonché da quella madre sempre in grembiule e sempre soggetta alle angherie del marito. Per fortuna fuori casa Delia ha qualche alleato: un meccanico che le vuole bene, un'amica spiritosa che la incoraggia, un soldato afroamericano che vorrebbe darle una mano. E soprattutto, ha un sogno nel cassetto, sbocciato da una lettera ricevuta a sorpresa.
C'è ancora domani è l'esordio alla regia di Paola Cortellesi, ed è una pura emanazione della sua persona.
Il tono è divulgativo, pensato per raggiungere il più ampio pubblico possibile, ma questo non va a scapito della sua vocazione autoriale, che è manifesta in scelte molto precise di colore (il film è girato nel bianco e nero della cinematografia d'epoca con grande attenzione filologica del direttore della fotografia Davide Leone), di formato (che cambia lungo il corso della narrazione), di commento musicale (che in aggiunta alle composizioni originali di Lele Marchitelli alterna brani retrò di Fiorella Bini e Achille Togliani con titoli italiani molto più recenti - di Dalla, Nada, Silvestri, Concato -- e innesti internazionali di hip hop, elettronica e rock alternativo, in maniera non dissimile da quanto fa nel suo cinema Susanna Nicchiarelli).
La sceneggiatura, della stessa Cortellesi insieme ai sodali Giulia Calenda e Furio Andreotti, è intenzionalmente didascalica nell'obiettivo esplicito di parlare al grande pubblico, soprattutto - ma non solo - femminile, e concentra nei personaggi di Ivano e Delia l'ingiustizia di un sistema patriarcale di cui anche Ivano è in qualche modo vittima (oltre che perpetuatore), e Valerio Mastandrea riesce a inserire nella sua caratterizzazione quel tanto di umano e di fragile da non farcelo liquidare completamente come un orco d'antan (ma non abbastanza da farcelo perdonare).
Tuttavia la sceneggiatura è astuta nel distribuire anche a tutti gli altri personaggi una misura dello stesso veleno culturale, e dunque le donne di ogni condizione (tranne la venditrice al mercato interpretata da Emanuela Fanelli) vengono messe a tacere dai loro mariti, e anche gli uomini più gentili possono (devono?) cadere preda del loro imprinting socialmente approvato.
Le botte di Ivano inferte a tempo di musica in una danza macabra e un paso doble del terrore (intuizione cinematografica straziante ed efficacissima) non hanno nulla a che vedere con quelle testosteroniche importate nel cinema da Martin Scorsese, e molto con quelle inferte da Zampanò a Gelsomina, così come la preparazione della famiglia nelle scene iniziali di C'è ancora domani deve tutto all'incipt di Una giornata particolare.
Un film (in Italiano anche pellicola) è una serie di immagini che, dopo essere state registrate su uno o più supporti cinematografici e una volta proiettate su uno schermo, creano l'illusione di un'immagine in movimento.[1] Questa illusione ottica permette a colui che guarda lo schermo, nonostante siano diverse immagini che scorrono in rapida successione, di percepire un movimento continuo.
Il processo di produzione cinematografica viene considerato ad oggi sia come arte che come un settore industriale. Un film viene materialmente creato in diversi metodi: riprendendo una scena con una macchina da presa, oppure fotografando diversi disegni o modelli in miniatura utilizzando le tecniche tradizionali dell'animazione, oppure ancora utilizzando tecnologie moderne come la CGI e l'animazione al computer, o infine grazie ad una combinazione di queste tecniche.
L'immagine in movimento può eventualmente essere accompagnata dal suono. In tale caso il suono può essere registrato sul supporto cinematografico, assieme all'immagine, oppure può essere registrato, separatamente dall'immagine, su uno o più supporti fonografici.
Con la parola cinema (abbreviazione del termine inglese cinematography, "cinematografia") ci si è spesso normalmente riferiti all'attività di produzione dei film o all'arte a cui si riferisce. Ad oggi con questo termine si definisce l'arte di stimolare delle esperienze per comunicare idee, storie, percezioni, sensazioni, il bello o l'atmosfera attraverso la registrazione o il movimento programmato di immagini insieme ad altre stimolazioni sensoriali.[2]
In origine i film venivano registrati su pellicole di materiale plastico attraverso un processo fotochimico che poi, grazie ad un proiettore, si rendevano visibili su un grande schermo. Attualmente i film sono spesso concepiti in formato digitale attraverso tutto l'intero processo di produzione, distribuzione e proiezione.
Il film è un artefatto culturale creato da una specifica cultura, riflettendola e, al tempo stesso, influenzandola. È per questo motivo che il film viene considerato come un'importante forma d'arte, una fonte di intrattenimento popolare ed un potente mezzo per educare (o indottrinare) la popolazione. Il fatto che sia fruibile attraverso la vista rende questa forma d'arte una potente forma di comunicazione universale. Alcuni film sono diventati popolari in tutto il mondo grazie all'uso del doppiaggio o dei sottotitoli per tradurre i dialoghi del film stesso in lingue diverse da quella (o quelle) utilizzata nella sua produzione.
Le singole immagini che formano il film sono chiamate "fotogrammi". Durante la proiezione delle tradizionali pellicole di celluloide, un otturatore rotante muove la pellicola per posizionare ogni fotogramma nella posizione giusta per essere proiettato. Durante il processo, fra un frammento e l'altro vengono creati degli intervalli scuri, di cui però lo spettatore non nota la loro presenza per via del cosiddetto effetto della persistenza della visione: per un breve periodo di tempo l'immagine permane a livello della retina. La percezione del movimento è dovuta ad un effetto psicologico definito come "fenomeno Phi".
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chez-mimich · 1 year ago
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C’È ANCORA DOMANI
Per una volta cominciamo dal pubblico in sala e non dal film: una sala gremita alle quindici di domenica pomeriggio, di questi tempi almeno, è sempre qualcosa di sospetto. Infatti si percepisce che non si tratta del pubblico abituale amante del cinema, ma prettamente di un pubblico televisivo, trasferitosi al cinema per via della regista-interprete Paola Cortellesi; un pubblico che commenta le scene più pregnanti come è abituato a fare nel salotto di casa, davanti alla televisione, col marito o con la moglie. Ma queste sono osservazioni di contorno, benché abbiano una loro pertinenza. Paola Cortellesi è stata attrice (ma soprattutto intrattenitrice), ma mai regista, e questo lo si nota dopo poche inquadrature e bisogna, tuttavia, ammettere che il film non è di cattiva qualità. E’ un prodotto con una sua dignità costruito intorno a Delia, proletaria romana, e ad Ivano il marito-padrone che usa più le mani che i sentimenti per tenere in piedi una famiglia che vive di privazioni e stenti. Sarà il probabile fidanzamento della figlia maggiore Marcella a far deflagrare la situazione: la ragazza infatti si innamora del figlio del proprietario del bar più elegante del quartiere, ma quando Delia si accorge che anche Marcella sta per finire nelle mani di un uomo-padrone, decide( probabilmente) di fuggire con il primo amore, un meccanico male in arnese che sta per trasferirsi al nord. Questo esile impianto narrativo si intreccia con le vicende dell’immediato secondo dopoguerra, con gli americani ancora di stanza a Roma e il primo voto femminile alla porte. Paola Cortellesi profonde il massimo sforzo e ottiene un apprezzabile risultato, imbastendo un film dignitoso, ma sceglie per la sua narrazione un bianco/nero piuttosto prevedibile e che, inutile dirlo, vuole richiamare le atmosfere del neorealismo italiano (solo che la signora Cortellesi non è Roberto Rossellini e forse avrebbe dovuto ricercare modelli più vicini al suo pubblico e alle sue capacità). Ritmo sincopato, qualche piccola divertente gag, qualche misurato sconfinamento nella surrealtà, con qualche buona trovata (come il ballo tra Ivano e Delia) strizzando l’occhio ad un pubblico di bocca buona alla ricerca di conferme alle proprie convinzioni, ma nulla di più. Se si tratta di fare della divulgazione al grande pubblico del politicamente corretto, il bersaglio è stato centrato in pieno, se invece Cortellesi pensa che basti un b/n, che fa molto “Giornata particolare”, e crede di essere nel Barrio “Roma” di Alfonso Cuaron, allora è parecchio fuori strada. Ma diamo tempo al tempo, una prima regia un po’ acerba non significa che non ne possano seguire altre migliori. È ancora giovane e ha tanto tempo davanti…
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lapolani · 1 year ago
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“Simposio” di Platone. L'elogio di Eros (Amore) Dialogo introdotto, letto e commentato da Lapo Lani
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Museo Casa Rurale di Carcente
Comune di San Siro (CO)
Sabato 19 agosto, ore 17:00
(In caso di maltempo la lettura verrà rinviata a sabato 26 agosto, ore 17:00)
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Aristofane [1] racconta, celebrando Eros durante il simposio [2], che l’uomo in antichità era di figura rotonda, ed era doppio, con quattro braccia, quattro gambe, doppie pudende, e due visi simili fra loro. Non c’erano due sessi come oggi, ma tre: maschio, femmina e androgino. Quest’ultimo aveva sia del maschio che della femmina.
Quegli uomini originari avevano vigore e animo grande, ed erano assai superbi, condizione che li portò a sfidare gli dèi. Zeus, dopo aver tenuto consiglio coi numi, decise di limitare la loro potenza e tracotanza segandoli in due, dando a ciascuna metà un sesso, maschile o femminile. Chi proveniva da un intero androgino, cercava la propria metà nel sesso opposto; chi proveniva dal maschio o dalla femmina, si accoppiava con la metà del suo stesso sesso.
Così da quel momento l’amore è innato negli uomini: esso ci riconduce al nostro essere primitivo, e si sforza di unire due creature in una sola ricreando l’intero, risanando la primordiale natura umana.
Quindi, conclude Aristofane, Eros (Amore) è il desiderio di trovare la propria metà originaria e unirsi a essa.
L’intervento di Socrate espone una visione che confuta quella di Aristofane, la quale troppo rimane vicina al pensiero mitologico dal sapore sentimentale. (Dalla narrazione di Aristofane nascerà l’idea dell’”anima gemella”, della “dolce metà”; idea che ancora oggi continua a regolare il concetto di Amore.)
Socrate racconta che Eros è l’amore di qualche cosa che viene desiderata, quindi di una cosa che non è posseduta: e viene desiderata per sempre.
Socrate poi riferisce la storia che una donna di Mantinea, Diotima [3], gli ha confidato riguardo a Eros, il quale, racconta lei, non è un dio bensì un demone, un essere tra il mortale e l’immortale, tra l’uomo e il dio; è quindi un messaggero che mette in comunicazione gli dèi con gli uomini, un interprete che non possiede il bello e il bene [4], ma li desidera passionalmente.
Eros (Amore) è figlio del dio Poros (Acquisto) e della mendicante Penia (Povertà), la quale, terminato il banchetto che riunì gli dèi nel giorno natalizio della bella Afrodite, si unì all’ubriaco Poros rimanendo incinta.
A Eros quindi toccò la seguente sorte: «Innanzi tutto è sempre povero, e lungi dall’essere delicato e bello, come generalmente si crede, è anzi duro, squallido, scalzo, senzatetto, uso a dormire sulla nuda terra, senza coperte, dinanzi alle porte, a cielo aperto, per natura simile alla madre e sempre in miseria. Ma, d’altro lato, per parte del padre è pronto sempre a tendere insidie ai belli e ai buoni, coraggioso, temerario, impetuoso, cacciatore terribile, sempre occupato a preparar lacciuoli, avido d’intendere, ricco d’espedienti, dedito a filosofare per tutta la vita, incantatore, mago e sofista insuperabile. E di sua natura non è né immortale né mortale, ma a volte, nello stesso giorno, germoglia e vive, quando tutto gli va a vele gonfie; a volte muore e poi, data la natura del padre, rivive d’accapo, e spreca sempre tutto quel che guadagna, sicché non è mai né povero né ricco, e d’altro lato tiene il mezzo tra la sapienza e l’ignoranza» [5].
Riguardo allo scopo di Eros, Diotima prosegue: «Degli dèi nessuno filosofeggia [nessuno viene preso dalla forza Erotica di conoscere il vero] o desidera di divenir sapiente – perché è già tale. Ma, d’altronde, neppure gl’ignoranti filosofeggiano o desiderano di diventar sapienti. Perché proprio questo è il guaio dell’ignoranza: che chi non è né morale né saggio s’illude di essere un uomo che basti a se medesimo. E chi non crede di essere manchevole non desidera nemmeno per sogno quello di cui non crede di essere privo» [6].
Eros quindi, come tutti gli Amanti [7], non si accontenta dell’intesa sentimentale o del piacere dei corpi, ma desidera ardentemente conoscere ciò che è vero, eterno e immutabile [8]. (A discapito dei luoghi comuni, il Cristianesimo confermerà quest’impostazione: Dante Alighieri, nel Canto V dell’Inferno della Divina Commedia, confina gli eterni innamorati Paolo e Francesca nel secondo cerchio dell’Inferno, luogo in cui sono puniti i peccatori carnali, giudicando perverso il loro amore, cioè incapace di fare loro conoscere e raggiungere il vero fine dell’Amore, che certo non risiede nella loro reciproca e smisurata passione.)
Socrate, attraverso la voce di Diotima, insiste sulla natura di Eros, intenta a conoscere: «Perché la sapienza è tra le cose più belle, ed Eros è l’amore del bello, sicché di necessità Eros deve aspirare alla sapienza, deve essere filosofo, e come filosofo tenere in mezzo tra sapiente e ignorante. E anche questo gli viene dalla nascita, perché è di padre sapiente e ricco, ma di madre né sapiente né ricca» [9].
Diotima esorta poi Socrate a non confondere l’amante con l’amato: Eros è l’amante, tutt’altro che bello, delicato, leggiadro, perfetto e tale da stimarsi beato. Ma è solo l’amante che, conoscendo il bello e il buono, ovvero le virtù eterne e immutabili, può raggiungere la beatitudine.
Così si chiude la critica mossa al racconto tenuto precedentemente da Aristofane, tutto chiuso a voler mortificare l’amore riducendolo all’unione privata di due persone: «Eppure, seguitò Diotima, corre per le bocche un certo discorso: che quelli i quali vanno in cerca della propria metà, questi amano. Il mio discorso invece dice che l’amore non è né nella metà né nell’intero, ove non si creda di scorgere un bene. Perché io non vedo altra cosa che gli uomini amino, all’infuori del bene» [10].
Con il concetto di bene, Diotima (ovvero Socrate, quindi Platone) non intende un bene privato; non una passione condivisa tra due amanti, ma qualcosa di diverso: l’amore per la saggezza e le altre virtù, di cui sono interpreti e generatori i poeti e gli artisti [11]. Poi, procedendo verso ciò che è ancora più prezioso: l’amore per gli ordinamenti politici – a cui corrispondono le virtù di prudenza e giustizia –, per le istituzioni politiche, per le leggi. E dopo le istituzioni, la guida di Eros può condurre più in alto, alle scienze, affinché l’Amante possa mirare «all’ampia distesa del bello, non più, estasiandosi come uno schiavo, davanti alla bellezza di una singola cosa, d’un giovanetto o d’un uomo [o di una donna] o d’una istituzione sola, e servendo sia una abietta e meschina persona [l’amato]; ma vòlto al gran mare della bellezza, e contemplandolo, partorisca molti e belli e magnifici ragionamenti e pensieri in un amore sconfinato di sapienza, fino a che non si elevi alla visione di quell’unica scienza, che è la scienza di tanta bellezza [la filosofia, la conoscenza del vero, dell’epistème]» [12].
Così Socrate conclude il suo elogio di Eros: «Per questo affermo che ogni uomo ha l’obbligo di rendere onore a Eros: io stesso coltivo in modo speciale le cose amorose e vi spingo gli altri; e ora e sempre, per quanto è in me, lodo la potenza virile di Eros» [13].
Lapo Lani Milano, marzo 2023
Note:
Le notazioni tra parentesi quadra non appartengono agli scritti originali, ma sono state da me aggiunte per renderne più comprensibile la lettura.
[1] Commediografo, nato ad Atene nel 446 a.C. e morto a Delfi nel 386 a.C.
[2] Il discorso si è svolto durante un simposio immaginario – il simposio è un banchetto di fine cena, destinato alla degustazione dei vini, al canto e alla musica, alla recita dei carmi conviviali, e ad altri trattenimenti –, ambientato nel 416 a.C. circa a casa di Agatone (poeta e drammaturgo, 448-400 a.C.), in occasione della sua vittoria di un concorso drammatico. I partecipanti – seguendo l’ordine degli interventi: Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane, Agatone, Socrate, Alcibiade – fecero a turno l’elogio di Eros.
“Simposio”, (in greco antico Συμπόσιον, Sympósion) tradotto anche con “Convito” o “Convivio”, è un dialogo scritto in greco antico dal filosofo Platone, nato ad Atene nel 428 o 427 a.C. e morto ad Atene nel 348 o 347 a.C.
[3] Non sappiamo se sia un personaggio storico o di fantasia. Il nome Diotima significa “onorata da Zeus”. Alcuni storici pensano che potrebbe essere una sacerdotessa straniera molto ben reputata, che, capitata ad Atene alcuni anni prima della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) e della pestilenza che afflisse la città, suggerì agli ateniesi dei sacrifici rivelatisi successivamente salvifici.
[4] Nella cultura della Grecia antica una delle virtù più importanti è “kalòs kai agathòs”, il “bello” e il “buono” (il bene); la bellezza è concepita come una virtù eterna e immutabile, donata dagli dèi agli uomini; per Platone il bello è la causa dell'azione morale, quindi strettamente legato al buono. Plotino scrive nelle “Enneadi”: «Al bene bisogna risalire, a quel bene a cui ogni anima agogna… e sa in che modo sia bello». “Kalokagathìa”, concetto derivato da “kalòs kai agathòs”, identifica l'ideale di perfezione fisica e morale dell'uomo, virtù dell'uomo ottimo.
[5] “Simposio. Il dialogo dell’Eros”, La Biblioteca Ideale Tascabile, 1995, cap. XXII, traduzione di Emidio Martini.
[6] “Simposio. Il dialogo dell’Eros”, La Biblioteca Ideale Tascabile, 1995, cap. XXIII, traduzione di Emidio Martini.
[7] I greci antichi differenziano le figure dell’amante (Eros) e dell’amato, tenendole rigorosamente separate; il concetto verrà semplificato dal Cristianesimo – e ancor più dal Cattolicesimo –, che tenderà ad avvicinare le due figure, facendo diventare ciascuna delle due contemporaneamente amante e amata: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona» («L’Amore non tollera che l’amante, colui che ama, non sia amato a sua volta»), verso 103, Canto V dell’Inferno, Divina Commedia.
Tuttavia deve essere chiaro che l’amore dei due amanti-amati è finalizzato, in perfetta analogia con la cultura Greca, alla virtù divina, e non alla loro reciproca passione sentimentale e carnale.
[8] I greci antichi chiamano la verità “epistème”, parola che deriva dal greco (ἐπιστήμη) ed è composta dalla preposizione epì- (“su”) e dal verbo histemi (“stare”); quindi “stare sopra”. L'epistème designa la conoscenza certa e incontrovertibile delle cause e degli effetti del divenire, ovvero quel sapere che intende porsi “al di sopra” di ogni possibilità di dubbio attorno alle ragioni degli accadimenti. Platone contrappone epistème a “dòxa” (opinione personale soggettiva).
[9] “Simposio. Il dialogo dell’Eros”, La Biblioteca Ideale Tascabile, 1995, cap. XXIII, traduzione di Emidio Martini.
[10] “Simposio. Il dialogo dell’Eros”, La Biblioteca Ideale Tascabile, 1995, cap. XXIV, traduzione di Emidio Martini.
[11] L’uomo, se amante, può concepire solo stando nel bello, e viene spinto a farlo perché ama l’immortale, cioè l’immortalità. Ci sono uomini fecondi nel corpo, e sono amorosi per questa via, procurandosi l’immortalità per mezzo della generazione dei figli; e ci sono uomini fecondi nell’anima, capaci di partorire la saggezza e altre virtù.
[12] “Simposio. Il dialogo dell’Eros”, La Biblioteca Ideale Tascabile, 1995, cap. XXVIII, traduzione di Emidio Martini.
[13] “Simposio. Il dialogo dell’Eros”, La Biblioteca Ideale Tascabile, 1995, cap. XXIX, traduzione di Emidio Martini.
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Copertina: “Eros”.
Disegno di Lapo Lani, realizzato con colori acrilici su carta bianca, e successivamente elaborato con processi digitali. Dimensioni: cm 26x32,8. Anno: marzo 2023. Collezione privata.
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fiamma-e-il-caneciccio · 2 years ago
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Nel 2021 molti libri mi avevano delusa, così il 2022 ho deciso di iniziarlo con qualcosa che avevo letto giovanissima e volevo riaffrontare da adulta.
Moll Flanders si è confermato così non solo il libro più bello letto quest'anno, ma uno dei quattro o cinque della mia vita per ciò che mi lascia dentro.
La cosa bizzarra è che un libro che proprio quest'anno compie 300 anni. Fu pubblicato infatti nel 1722 e si svolge in un arco temporale fra 1650 e 1720.
La cosa ingiusta è che provando ad approfondire la critica sul romanzo, questa si chiede solamente quale sia la visione morale dell'autore rispetto al personaggio, come se l'unica cosa a contare fosse lo scrittore, mettendo invece totalmente in ombra la assoluta forza di questo personaggio femminile. Abbandonando questa centralità maschile per formulare un giudizio, invece, direi che l'autore non voglia mostrare una visione morale sul personaggio ma solamente descrivere l'arco della vita e il sentimento di angoscia che pervade il suo essere donna, in subordine e priva di strumenti in un mondo maschile.
È una storia molto potente, e la precarietà della vita della protagonista, rispetto alla quale non ha strumenti per difendersi, emerge in ogni pagina. Io la sento profondamente vicina, la comprendo e penso che orrore fosse essere donna nel mondo alle nostre spalle. Ed è proprio su questo aspetto che l'autore è vicino al proprio personaggio: non lo giudica e non lo biasima, lo lascia agire. È lei stessa, Moll Flanders, a biasimarsi per tutto l'arco della propria vita, ma come mero risultato della propria educazione e del guardarsi con gli occhi del mondo e di quello che si aspetta da lei.
Pochi sono i personaggi femminili che ho amato così tanto nella letteratura, e credo nessun altro fosse frutto di una penna maschile.
E pochi sono i romanzi così forti nella narrazione, con tale capacità di portare il lettore lungo una vita difficile e ingiusta.
Se sono scrittrice, lo sono perché da lettrice amo questi libri e li guardo come al mio modello.
Una nota finale: esiste un film ma è spazzatura che non riprende nemmeno la trama.
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pier-carlo-universe · 1 month ago
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Fiore di Roccia di Ilaria Tuti: Un Romanzo che Celebra il Coraggio delle Portatrici della Prima Guerra Mondiale. Recensione di Alessandria today
La forza e la resilienza delle donne protagoniste della storia dimenticata del fronte alpino italiano.
La forza e la resilienza delle donne protagoniste della storia dimenticata del fronte alpino italiano. Recensione: Fiore di Roccia, romanzo di Ilaria Tuti, porta alla luce la storia delle Portatrici, donne friulane che durante la Prima Guerra Mondiale affrontarono con coraggio e sacrificio le montagne innevate per portare viveri, medicinali e munizioni ai soldati italiani al fronte. Con il loro…
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antennaweb · 1 day ago
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IL COGNOME DELLE DONNE - AURORA TAMIGIO In questo anno ho avuto la fortuna di leggere dei libri veramente belli ed interessanti. Tra questi c’è “il cognome delle donne”di Aurora Tamigio. Quella raccontata è una storia familiare che ripercorre il Novecento e che mette come tema centrale della narrazione le donne. Il racconto parte da inizio secolo, da una Sicilia arcaica fino ad arrivare agli anni ottanta pieni di leggerezza, di musica e di progresso. La prima protagonista è Rosa, persona gentile, forte e resiliente che , per sfuggire alle angherie del padre, scappa con Sebastiano Quaranta, un uomo semplice e buono. Dalla loro unione nascono tre figli: Fernando, Donato e Selma. Quest'ultima semplice ed ingenua, va in sposa a Santi Meraviglia, un uomo inetto che sa imporsi soltanto con la forza. Quando diventa il capofamiglia iniziano i guai e a farne le spese sono le loro figlie, Patrizia , Lavinia e Marinella.Patrizia dal carattere ribelle e indomito, mentre Lavinia bella e sognatrice e l’ultima, Marinella, molto chiusa, ma che piano piano imparerà ad aprirsi al mondo. La vita di queste donne si intreccia inevitabilmente con altri personaggi, avendo come sfondo il tempo che passa portando con sé gli inevitabili cambiamenti: il voto delle donne, l’avvento della lavatrice, il cinematografo, i cibi tipici dell’epoca, la musica, le varie fazioni politiche, i mondiali di calcio del 1982, ecc. Il filo conduttore del romanzo è l’eredità femminile che si passa di generazione in generazione, attraverso anche agli oggetti simbolici che vengono tramandati come la macchina per cucire” Singer”. Sono tutte donne capaci di essere sempre resilienti.Un racconto vivo, dalla scrittura semplice, scorrevole e intensa. L’intercalare siciliano contestualizza e non appesantisce la lettura, anzi aiuta a tenere alta l’attenzione del lettore dalla prima all’ultima pagina. Ascolta la recensione play_arrow IL COGNOME DELLE DONNE SERENELLA MARIANI Read the full article
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lalacrimafacile · 2 months ago
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Godless: Il Western Epico di Netflix che Ridefinisce un Genere
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Un Racconto di Intensa Drammaticità e Dialoghi Profondi
“Godless” è una serie che affascina fin dal primo episodio, trascinando lo spettatore in un mondo di intensità drammatica.
Ammetto di averla cominciata solo per la presenza di un particolare attore come co-protagonista. Ma dopo pochi minuti dalla opening scene ho compreso quanto questa serie mi avrebbe coinvolto.
I dialoghi, scritti con maestria, risuonano come eco nei deserti del selvaggio West, rivelando l’umanità e la fragilità dei personaggi.
Ogni scambio di battute è carico di significato, ogni silenzio è eloquente. La serie non ha paura di affrontare temi difficili, e lo fa con una profondità che raramente si trova in televisione.
Recitazione Naturale e Coinvolgente: Il Cast Straordinario di Godless
L’interpretazione degli attori in “Godless” è semplicemente straordinaria.
Jeff Daniels, nel ruolo del crudele Frank Griffin, offre una performance che è al contempo terrificante e affascinante. La sua capacità di infondere vita a un personaggio così complesso è ammirevole.
Michelle Dockery, conosciuta per il suo ruolo in “Downton Abbey”, dimostra una versatilità incredibile interpretando Alice Fletcher, una donna forte e indipendente.
Meritato Riconoscimento per le Interpretazioni di Jack O’Connell e Scoot McNairy
Jack O’Connell, nei panni del tormentato Roy Goode, trasmette una vulnerabilità che colpisce al cuore. La sua chimica con Merritt Wever, che interpreta la risoluta Mary Agnes, è palpabile, creando alcune delle scene più memorabili della serie.
Scoot McNairy, come lo sceriffo Bill McNue, offre una performance che bilancia fragilità e determinazione, rendendo il suo personaggio uno dei più amati dagli spettatori.
Una Storia di Redenzione e Resilienza: Il Messaggio di “Godless”
Oltre alla sua spettacolare narrazione e alle interpretazioni indimenticabili, “Godless” trasmette un messaggio profondo e significativo.
La serie esplora temi di redenzione, resilienza e comunità in un’epoca in cui la legge era dettata dalla forza.
I personaggi, nonostante le difficoltà e le ingiustizie, lottano per un futuro migliore, mostrando che anche nei momenti più bui, la speranza e la determinazione possono prevalere.
L’Empowerment Femminile nel Selvaggio West
Un aspetto particolarmente rilevante di “Godless” è la rappresentazione delle donne.
In un genere tradizionalmente dominato da figure maschili, la serie pone al centro donne forti e determinate, che guidano la comunità di La Belle.
La loro lotta per la sopravvivenza e l’indipendenza è un tema potente e attuale, che risuona profondamente con il pubblico moderno.
Questo show riesce in qualcosa che, personalmente, pochi prodotti audiovisivi sono riusciti a fare. Hanno mostrato la forza delle donne e la loro capacità di perseveranza senza dipingerle come delle s*****e senza sentimenti.
Esse sono donne sensibili che amano e piangono, soffrono e gioiscono. Sono semplicemente anche forti, non solo donne forti. Non so se sono riuscita a trasmettere il concetto.
Conclusione Godless: Un Capolavoro Moderno del Western
“Godless” non è solo una serie western; è un’esperienza cinematografica che ridefinisce il genere. Con la sua storia avvincente, dialoghi intensi, recitazione naturale e un cast eccezionale, riesce a toccare corde emotive profonde. È una serie che rimane nel cuore e nella mente degli spettatori, lasciando un’impronta indelebile.
Scoprite “Godless” su Netflix e lasciatevi trasportare in un viaggio emozionante nel selvaggio West, dove ogni episodio è una lezione di vita e ogni personaggio un simbolo di coraggio e speranza.
Consiglio vivamente questa serie per chi ha voglia di una storia coinvolgente, forti colpi di scena e di protagonisti dal carattere forte. Una miniserie che colpisce dritta al cuore, con una pallottola piena di pathos e emozioni. Parola di EasyTears.
Se volete altri consigli su cosa vedere in queste sere di Ottobre cercate il vostro prossimo titolo negli ultimi post��o nelle mie liste. Al prossimo episodio!
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londranotizie24 · 4 months ago
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La donna nelle arti di Bisanzio: cultura al femminile con la British Italian Society
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Di Pietro Nigro La donna nelle arti di Bisanzio è la conferenza di Andrea Mattiello con cui la British Italian Society all'Istituto Italiano di Cultura ha puntato i riflettori sul femminile della cultura medievale in Italia. La donna nelle arti di Bisanzio: cultura al femminile con la British Italian Society Ancora una volta l'Istituto Italiano di Cultura di Londra ha aperto le sue porte per ospitare una serata all'insegna dell'arte.. al femminile. Si tratta dell'evento speciale organizzato dalla British Italian Society: The Charles de Chassiron Lecture 2024, che con lo scorso lunedì ha chiuso la programmazione dell'associazione prima della pausa estiva; tema della serata: la donna nelle arti di Bisanzio. A condurre l'excursus di due ore l’esperto in arte bizantina Andrea Mattiello. Lo storico dell'arte oltre alla sua considerevole attività accademica, ha svolto lavori di ricerca all'estero in diversi paesi tra cui la ex Costantinopoli e la città di Mistra. Si può definire il suo intervento come uno sguardo sulla rappresentazione della donna nell'arte dal 330, anno in cui Costantino il Grande fonda Costantinopoli sulla preesistente Bisanzio, ma concentrandosi in particolare sul Medioevo. Un'analisi quella condotta dal dottor Mattiello, che aldilà della comparazione delle testimonianze di arte figurativa con i reperti (per esempio gioielli, tessuti), abbraccia anche l’aspetto antropologico. Un approccio che, ci spiega, trova riscontro anche nel libro Femina dell'illustre collega, la dottoressa Janina Ramirez. il Medioevo è contestualizzato attraverso le storie delle sue eroine, il che sembra sdoganare il periodo storico dalla definizione di Dark Ages. Parlare delle donne nell’arte bizantina fa inevitabilmente riflettere sul presente: l’oggi è poi così diverso? Esistono ancora realtà (ahimè) in cui come nel passato, il ritratto della donna è una narrazione fatta dagli uomini, dove non ci si muove dal ruolo di comparsa o confinati nel ruolo di madre. Durante l'impero Bizantino come ci illustra il relatore della serata, sono giunti fino i ritratti di donne che hanno avuto un ruolo sociale e politico. E’ il caso dell’imperatrice Teodora, moglie dell’imperatore Giustiniano il quale cambiò la legge per consentire agli aristocratici di sposare donne di ceti sociali inferiori …come lui e la stessa Teodora. A testimonianza del ruolo di prestigio a Ravenna è conservato l’emblematico mosaico bizantino del corteo di Teodora e Giustiniano nella Basilica di San Vitale. Altri esempi eccellenti vengono fatti nel corso della presentazione, ma non include un personaggio che il Dottor Andrea Mattiello ci confida a fine serata essere meritevole di studio e approfondimento. Fa il nome di Cleofe Malatesta che andò in sposa ad uno dei figli dell’imperatore bizantino (Teodoro di Manuele II Paleologo) e visse alla corte di Mistra. Non nego che il mio interesse e curiosità aumentano in modo considerevole quando mi racconta che sono state ritrovate le lettere scritte alla sorella Paola che sposando Gianfrancesco Gonzaga divenne prima Marchesa di Mantova, la mia città. Magari un prossimo incontro della British Italian Society verterà proprio sulla vita di questo personaggio storico, chissà? In caso sarò ovviamente in prima fila. Il prossimo appuntamento con la British Italian Society è per il prossimo 23 settembre e sarà all'insegna della musica. E' in programma il concerto della Monteverdi String Band dal titolo The Madrigal Reimagined. Per i dettagli dell'evento e per restare aggiornati sulle attivita' dell'associazione in invitiamo a consultare il sito British Italian society (british-italian.org). ... Continua a leggere su
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opulenzacinematografica · 5 months ago
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Ma She- Hulk è veramente femminista o è solo un supereroe sessualizzato?
In un periodo in cui il Marvel Cinematic Universe (e ne parleremo del perché i supereroi hanno un po’ stancato) sembra aver perso il suo hype, ho voluto rendere pubblica questa mia riflessione su un personaggio che sullo schermo non è stato apprezzato a dovere ma che rappresenta il cambiamento nell’industria dei fumetti.
She-Hulk è sempre stato il mio personaggio preferito non per come è nata ma per come sia riuscita a spezzare i canoni estetici e sociali a cui le donne erano costrette. 
L’introduzione di She-Hulk all’interno dell’universo Marvel ha sicuramente rivoluzionato l’idea del supereroe femminile visto sino ad allora.
COME NASCE?
Con il successo della serie tv su Hulk (tra gli anno Settanta e Ottanta), Stan Lee si sentì quasi obbligato a creare una versione femminile del “mostro verde” ma la sua scelta non fu dettata dalla voglia di creare una controparte femminile, bensì di garantirsi i diritti su un ipotetico spin-off della serie [1]. È il 1979 quando dalle idee e dalle mani di Lee e John Buscema, nasce She-Hulk, all’anagrafe Jennifer Walters, figlia dello sceriffo Morris Walter e orfana di madre. Jennifer acquisisce i poteri che la rendono forte grazie al cugino Bruce Banner che, in seguito ad un’aggressione che le ha provocato delle gravi ferite, le fa una trasfusione con il suo sangue mutandola quindi geneticamente. Sebbene all’inizio la donna si trasformi esattamente come il cugino, con il tempo riesce a controllare la sua mutazione tanto da abbracciarla totalmente rimanendo quasi sempre con l’aspetto da She-Hulk piuttosto che quello comune di Jennifer. [2]
La vita di Jennifer è alterata dalla ricerca della giustizia: la madre uccisa da criminali, suo padre che lavora per la legge, lei che viene aggredita ma è anche un avvocato. In un certo senso lei incarna la giustizia in un prodotto che rappresenta perfettamente l'epoca in cui è stato creato. Quando Savage She-Hulk[3] venne pubblicato la prima volta, la seconda ondata di femminismo e lotte per la parità di genere, aveva trasformato il mondo.
Le donne richiedevano la parità di lavoro, di non essere relegate solo al ruolo in famiglia e che venisse loro riconosciuto il diritto di abortire.  E la saga dell’avvocato Walter riflette proprio questa realtà, mostrando una donna che lotta per essere accettata in una professione dominata dall’uomo. Nonostante She-Hulk abbia un’impostazione femminista, il suo personaggio veniva oggettualizzato e sessualizzato.
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Questo primo arco narrativo racconta principalmente l’origine di Jen come She-Hulk ed esplora la sua accettazione di questa forma ma è in Sensational She-Hulk che il tono del personaggio cambia radicalmente. Si nota un cambiamento della percezione del corpo della protagonista che si rende conto dell’effetto che fa sugli uomini, questo rende il fumetto estremamente sessualizzato e degradante. Basti pensare che in un numero She-Hulk è disegnata mentre si spoglia per il lettore, invitandolo a comprare il suo fumetto. La sessualità di Jennifer diventa anche la chiave della narrazione del testo dato che, la gigantessa verde, acquisisce consapevolezza e gode della sua libertà sessuale ma costruisce quest’ultima per il singolo piacere dello sguardo maschile.
E questa non è libertà.
Jen preferisce la sua forma mostruosa al posto dell’aspetto normale, tanto da vestire raramente i panni da umana, lei è felice di essere bloccata nella sua forma di Hulk in quanto le porta numerosi vantaggi, vantaggi che prima poteva solamente sognare.
Come affermato da Dale Mitchell nel suo saggio dedicato a She Hulk[4], la supereroina è una creazione letterale e metaforica dell’uomo, come Eva è nata dalla costola di Adamo così la sua mutazione è stata avviata dal materiale genetico di Bruce Banner, eppure She-Hulk non è il risultato di qualche gesto simbolico o di ispirazione femminista, come detto in precedenza, è nata dall’esigenza di Stan Lee di garantirsi un seguito televisivo.
She-Hulk nasce come versione femminile di Hulk ma in realtà riflette perfettamente la società patriarcale dove sono gli uomini a dover dare i diritti alle donne. Mitchell inoltre spiega come She-Hulk sia erroneamente considerata un’icona femminista, perché non è solo stata creata per il puro piacere maschile ma anche per farsi strada in una società di uomini, in un lavoro che all’epoca era riservato solamente agli uomini.
In una società patriarcale le esperienze maschili sono considerate la norma, quindi le esperienze femminili legate alla vita di una donna sono totalmente diverse e non adatte alla visione del mondo maschile, vi è un’inequità di genere che le femministe radicali vorrebbero annullare cambiando la società dalle basi.
Ovviamente il saggio di Mitchell si concentra sulla situazione della donna negli anni Ottanta ma, nonostante ciò, questi concetti sono ancora terribilmente presenti all’interno della nostra società che sta molto lentamente creando uno spazio per le donne.
Viene automatico domandarsi come le lettrici dell’epoca abbiano recepito il messaggio pseudo femminista di She-Hulk che sicuramente rappresentava una novità narrativa al quale ispirarsi ma che in realtà rivestiva perfettamente i panni di una donna vista da un uomo.
Basterebbe ragionare sul titolo per rendersi conto di quanto questa eroina vesta dei panni femministi visti da una mente maschile, infatti non nasce con il nome di Incredible She-Hulk come il cugino, bensì come Savage She-Hulk. L’aggettivo incredibile per Hulk denota qualcosa di estremamente buono e inaspettato (quando è noto che non è così) mentre savage viene usato quasi per descrivere la primitiva e selvaggia She-Hulk, questo immaginario pone l’eroina come secondaria rispetto alla sua controparte maschile. Quando però da savage diventa Sensational She-Hulk, quasi in contrasto con gli aggettivi usati in precedenza, sembra quasi che la figura del supereroe femminile venga costruito come un contrasto con la norma maschile, quasi come se non potesse avere una propria identità senza essere continuamente paragonata a un eroe maschile.
I personaggi femminili dell’epoca però, sia al cinema che nei fumetti come in questo caso, venivano raccontati nella maggior parte dei casi da uomini e quindi venivano visti con i loro occhi.
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Le donne venivano disegnate per esaltare i loro corpi per cullare la mente di un pubblico prettamente maschile portando quindi un esempio di sessualizzazione che sarebbe stata presa come esempio dai lettori. Lettori a cui viene insegnato come desiderarla tramite l’immagine di un corpo formoso che viene scoperto durante le battaglie e lettrici che vengono spinte a desiderare di essere come lei. All’epoca non vi era alcun tipo di lamentela riguardo la sessualizzazione di She-Hulk, il fatto che lei spesso posasse in copertina quasi come se fosse una rivista di Playboy era un modo per aumentare le vendite in calo. Per chi non conosceva il fumetto, sembrava quasi un albo pornografico soft-core dove la protagonista si sarebbe svestita per compiacere il lettore che diventava quindi un voyeur inconsapevole.
Eppure, si può considerare She-Hulk una femminista liberale, l’oggettivazione del suo corpo è voluta dagli autori e dai lettori ma lei aderisce all’ideologia di donna in carriera che rappresenta clienti sovrannaturali che senza di lei non avrebbero modo di essere tutelati perché ostracizzati da un sistema normativo dominato dagli umani, sistema che, bisogna ribadire, è patriarcale.
Il femminismo liberale vede lo stato come un ostacolo per il raggiungimento dell’eguaglianza di genere a causa di leggi che favoriscono la disparità di trattamento tra uomini e altri generi. [5]
  Per She-Hulk è la riforma del sistema politico e legislativo il mezzo che porterà alla libertà di genere, nonostante spesso, all’interno delle sue storyline, i tribunali e gli studi rivali di avvocati si divertono a pubblicare dettagli della sua vita privata e la magistratura le tolga l’abilitazione. Jennifer Walters non si arrende, e per aiutare i più deboli, nonostante la forza disumana, ripone la sua fede in un sistema patriarcale che riesce a sfruttare.
O che con gli occhi di oggi, possiamo dire che la sfrutta, illudendola di fare la cosa giusta. Isabella R.
[1] Uno spin-off è un'opera derivata da un'opera principale, tipicamente un prodotto audiovisivo nato da una serie televisiva, un film, un fumetto o un videogioco, che mantiene l'ambientazione dell'opera originaria ma si focalizza su storylines di personaggi secondari nell'opera di riferimento. [2] BYRNE J. (2018) Marvel Omnibus: La sensazionale She-Hulk. Modena: Panini Comics [3]  LEE S., KRAFT D. (1978-80) The Savage She-Hulk 1–25, Marvel Comics. [4] Dale Mitchell (2015) Paradoxes and patriarchy: a legal reading of She-Hulk, Griffith Law Review, 24:3, 446-481, DOI: 10.1080/10383441.2015.1087367 [5] CURTIS Neal, CARDO Valentina (2017) Superheroes and third-wave feminism, Feminist Media Studies, DOI: 10.1080/14680777.2017.1351387
Crediti: (created 2021, online since JULY 2024) Romeo Isabella Ma She- Hulk è veramente femminista o è solo un supereroe sessualizzato?: https://opulenzacinematografica.tumblr.com/post/755540030581358593/she-hulk-femminismo
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voracita · 1 year ago
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La storia di questo dipinto, o meglio, della sua proprietà ed esposizione, è talmente complessa e affascinante da essere divenuta essa stessa oggetto di narrazione, in alcuni libri. In particolare, per molto tempo - prima di essere venduto al Musee d'Orsay, dove è attualmente esposto - il quadro fu di proprietà dello psicanalista Lacan, il quale coniò persino una falsa etimologia per descriverlo, parlando di "ori-gine" dal latino os, oris, cioè la bocca, l'apertura, e dal greco gynê, la donna, dunque l'apertura della donna. Lacan custodiva il dipinto in una sua casa di campagna dove era esposto un altro dipinto, realizzato appositamente dal pittore Masson, che fungeva da velo, nascondendo l'opera di Courbet alla vista dei visitatori - fino al momento in cui Lacan stesso, azionando un congegno, faceva scorrere il primo dipinto su un binario in modo da rivelare alla vista il quadro che ritraeva la nudità del sesso femminile. Come a voler ricordare ai visitatori che il sesso femminile si mostra sempre in un certo senso celandosi, un po' come Heidegger diceva dell'Essere il cui dis-velarsi è pur sempre una ri-velazione.
C'è appunto da dire, sommariamente, che il quadro non mostra l'origine del mondo, non adempie al suo titolo e non esaudisce le aspettative che induce. Come fu più chiaro quando in una performance avvenuta presso il Musee d'Orsay durante l'esposizione dell'opera, quando una artista sedendosi sotto l'opera spalancò le gambe e le labbra della vulva, per cercare di mostrare veramente l'anatomia del sesso femminile, e in particolare l'orifizio vaginale, questo quadro nel suo realismo manifesta anche la difficoltà di esporre alla vista ciò che non è che una cavità, un vuoto. Se si tratta dell'origine del mondo, esso è qualcosa che tiene il posto di un'assenza. C'è, eppure non si mostra. Ciò che qui vediamo, è la carnalità della donna, di una donna reale, che è capace di accogliere fisicamente, di darsi fisicamente, di donare sensazioni erotiche e di sperimentarne essa stessa. E' una donna che esprime il desiderio di godere e far godere. Non l'origine del mondo, ma la sua natura sensuale.
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Gustave Courbet - The Origin of the World. 1866
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