#scenariopubblico
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BE INTERNATIONAL together
Martedì 5 marzo è iniziata a Scenario Pubblico la settimana dedicata a Be International un progetto «selezionato per la seconda volta tra i vincitori della quarta edizione del bando Boarding Pass Plus del MIC che incentiva l’internazionalizzazione delle carriere dei giovani artisti e dei giovani organizzatori italiani attraverso un percorso di formazione e di esperienze da sviluppare all’estero e in Italia».
Capofila del progetto è la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano relazionata a partner nazionali (Bolzano Danza, Festival Ipercorpo, COORPI, Festival Prospettiva Danza, Scenario Pubblico) e internazionali (Festival KoresponDance, Nu Dance Festival, Art Republic, Chrysanthi Badeka, Machol Shalem, Quinzena de Dança, Centre de vidéo-danse de Bourgogne).
Il workshop intensivo svolto a Catania fino a domenica 10 marzo è stato dedicato alla video danza ed è stato tenuto da Chrysanthi Badeka, partner internazionale di Be International, nonché danzatrice, coreografa e video maker ateniese.
Attraversiamo brevemente in questo diario il "succo" di ogni giorno - con punti, immagini, citazioni - consapevoli che l'essenza di questa esperienza sia (giustamente) impossibile da trasmettere nella sua globalità.
Il primo incontro si è svolto martedì pomeriggio, durante il quale tutti i partecipanti si sono presentati attraverso la condivisione di un lavoro performativo in video, sia proprio che di altri autori.
Dalle visioni video Chrysanthi ha esordito presentando la dance on screen come
un linguaggio diverso, peculiare, che non ha a che fare con la documentazione e dunque la "semplice" ripresa di un evento performativo.
mercoledì. La prima giornata si è aperta con un esercizio dei corpi nello spazio. L'obiettivo è stato quello di immaginare di essere ad una festa all'interno della quale gli occhi di ognuno dovevano concentrarsi per diventare come le ottiche di una camera. Dal lavoro è scaturita una scaletta dei movimenti degli occhi-camera per ognuno diversa. Divisi in coppie, director - camera operator, ognuno ha poi realizzato il proprio long shot (piano sequenza) immaginato con strumenti amatoriali.
dentro la grammatica. Chrysanthi ha guidato il gruppo in un percorso analitico del linguaggio filmico specifico della danza dove esistono la VIDEO DANCE o SCREEN DANCE o DANCE FOR CAMERA - ovvero un prodotto audiovisivo breve - e il DANCE FILM - cioè un prodotto audiovisivo più lungo e articolato. In entrambi i casi il corpo umano e il corpo della camera dialogano tra loro - come nella contact improvisation - collaborando per la trasmissione di una storia. Quindi, la scelta della location, insieme a ogni sua possibile angolatura, risulta importante poiché sarà la camera a guidare lo sguardo degli spettatori, un po' come è accaduto durante l'esercizio del "party", in cui ciascuno decideva attentamente dove indirizzare il proprio sguardo. Da esso vengono a svilupparsi una storia e una drammaturgia:
parole -> inquadrature frase -> scena paragrafo -> sequenza capitolo -> macro-sequenza libro -> film
Come guardo? Cosa? A che altezza? Da quale angolatura? A quale distanza?
Prima di creare sono molto importanti le prove corpo-camera affinché possa essere deciso un movement script consapevole. Si ritorna allora alla location che, oltre ad essere scelta, deve essere visitata, studiata e vissuta più possibile per poi essere ri-mappata in studio. Dallo script dei movimenti (corpo - corpo camera) emergeranno o dovranno essere decisi tutti gli altri elementi da sviluppare: scene, costumi, musica e tutti gli altri aspetti della post-produzione.
longline synopsis script storyboard decoupage
Per poter comunicare bene con quel linguaggio tecnico Chrysanthi ha mostrato due lavori di video danza grazie al quale è stato possibile consolidare la terminologia della grammatica filmica in inglese e, allo stesso tempo, provare a estrapolare longline e synopsis da due opere a posteriori. Fare questi esercizi è servito a tutte e tutti a capire di più anche del proprio sguardo, tappa necessaria per chi vuole sviluppare propri progetti autoriali.
giovedì. Dopo aver assistito alla performance Body Teaches della CZD Chrysanthi ha guidato le riprese del party del giorno prima stavolta con il gimbal. Ognuno ha ripreso la propria festa e dopo sono stati proiettati tutti i video: un esercizio dello sguardo attivo. Alla fine della giornata, ognuno ha presentato la propria idea di progetto, con la lettura della logline e della sinossi. Insieme poi, si è presa la decisione su quale idea realizzare.
Il progetto che ha convinto tuttə è stato quello di Alessandra Indolfi, director, quindi, del corto realizzato.
TRE GIORNI INTENSI NEL WORKSHOP INTENSIVO.
venerdì. E' stato svolto tutto il lavoro di pre-produzione: lavoro coreografico in studio insieme alla director e al camera operator scelta dei costumi scelte del suono composizione dei soli divisi in tre gruppi con rispettivi director, cinematographer e assistenti sopralluogo a villa Bellini.
sabato. giornata di riprese
domenica. editing e presentazione del lavoro.
a sinistra Lucia Carolina De Rienzo (COORPI) a destra Chrysanthi Badeka.
IL PROGETTO UNTIED HANDS
Torna sovente e prendimi, palpito amato, allora torna e prendimi, che si ridesta viva la memoria del corpo, e antiche brame trascorrono nel sangue, allora che le labbra ricordano, e le carni, e nelle mani un senso tattile raccende. Torna sovente e prendimi, la notte, allora le labbra ricordano, e le carni... (Torna di Konstantinos P. Cavafis)
creato da Alessandra Indolfi Carmine Dipace Eros Brancaleon Mariangela Di Santo Melania Caggegi Roberta Indolfi Siria Cacco Sofia Bordieri Veronica Messinese Vanessa Lisi
Special thanks to Chrysanthi Badeka, Mara Serina, Lucia Carolina De Rienzo.
#scenariopubblico#catania#danza contemporanea#danceonscreen#beinternational#civicapaolograssi#danza#filming
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Scatti eseguito presso il Teatro Casa Giovani e Ragazzi all'interno della rassegna palcoscenico danza per il progetto "Made for You" che ha visto in scena la coreografia "Trapped" di Alessio Di Stefano, danzatori Roberta Inghilterra e Carlo Di Lorenzo di Eko dance International project diretti da Pompea Santoro. ©FotOpera2017 https://www.facebook.com/media/set/?set=a.1284697504977808.1073741835.572332516214314&type=1&l=14e32c2676
#trapped#mychoreography#ballet#catania#scenariopubblico#work#fotopera#2017#dance#contemporarydance#alessiodistefano
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THE 3 OF US is available FOR FREE, just press play and watch. The process took about 2 years, there was a little budget, a studio to rehearse in and a lot of help from friends. If you feel it's worth a coffee or a beer, you can decide to support the next project with some spare change:
youtube
THE 3 OF US is an experimental short movie. It blends together the BLADING and the CONTEMPORARY DANCE languages in order to get over "steps" and "tricks" and reach their common ground which is movement, sharing the same tool: THE BODY. SYNOPSIS: A calm observer is moved by the infinite flow of the wind while looking at the endless sea. We are guided through a labyrinth of thoughts, riding the forces that rule the physical world, ultimately seeking freedom. ___ The short movie was shot on locations all around the coasts of Sicily as well as in the EUR neighborhood in Rome. These places carry a highly surreal symbolism, reflecting the inner landscape of the self. It's inspired by the book THE REALITY OF BEING by Jeanne De Salzmann. Co-produced by #COORPI and #CENTROBIBITE with the support of #SCENARIOPUBBLICO #RESEARCHONMOVEMENTSANDTIME
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Intervista con Emio Greco, coreografo di ROCCO.
Abbiamo incontrato Emio Greco (1965), danzatore e coreografo italiano che dopo essersi formato a Cannes ha danzato e collaborato con numerosi artisti tra cui Jan Fabre e Saburo Teshigawara. Dal 1995 lavora con Pieter C. Scholten (1965), con il quale ha fondato ad Amsterdam la compagnia Emio Greco/PC riconosciuta come una delle più importanti del panorama europeo.
Rocco è stato portato per la prima volta in scena nel 2011. Come si è sviluppato il processo creativo e come lo spettacolo è cambiato oggi da allora? La genesi risale al 2008 quando inizialmente io e Pieter pensavamo di creare uno spettacolo di teatro in collaborazione con un importante regista, oggi molto famoso per i musical, che voleva curare la messa in scena di Rocco. Il suo linguaggio però era molto realistico, così abbiamo deciso di sviluppare le nostre idee iniziali. La prima ufficiale fu a Vienna a ImpulsTanz nel 2011; da allora lo spettacolo si è nutrito del proprio vissuto acquisendo qualcosa di nuovo e perdendo qualcos’altro, com'è naturale. Abbiamo poi creato anche una versione femminile, Rocca. Adesso il cast è misto e diciamo che questo aspetto fa anche parte della storia di Rocco dal punto di vista etico-sociale: la scelta dei performer, infatti, va oltre il gender e la rappresentazione dell’uomo e della donna. È più uno stato di amicizia, relazione, combattimento, distanza, sfida ad essere in scena. Ciò che importa è l’energia che emana quella specifica persona aldilà del proprio gender.
Il lavoro tra te, coreografo, e Pieter, regia, come si sviluppa? Posso dire che siamo entrambi coreografi perché la regia è qualcosa che emerge dal corpo e da me. In altre parole, per regia intendo il fatto di leggere, cogliere ciò che il corpo che ho di fronte ha bisogno in relazione al circostante e alla situazione teatrale…bisogna capire cosa fornire affinché il corpo possa vivere in modo ottimale. Riguardo Rocco avevamo chiaro sin dall’inizio l’idea spaziale del ring – tra l’altro quella di considerare la scena come un ring è una suggestione che ho da molto prima della creazione – e la suddivisione del tempo in round di tre minuti. Idee che avevamo sin dall’inizio a differenza di molti altri lavori in cui la forma scenica si specifica dopo.
Molti hanno parlato di Rocco come uno spettacolo rappresentativo del vostro lavoro. Che significato ha, allora, Rocco nella vostra carriera? È piuttosto importante perché mi ha permesso di lavorare su una dualità; il rapporto a due che nella danza è molto importante (penso al passo a due) e che qui acquisisce nuove soluzioni formali e coreografiche. Abbiamo studiato come creare altre strategie, una forma nuova che abbiamo sperimentato per la prima volta con Rocco che quindi è un tourning point nel nostro percorso.
Ci sono delle figure di riferimento nella storia della danza, della musica, del cinema e dell'arte che sono state importanti nel corso degli anni? Da italiano sento che c'è una cultura classica che mi impregna. Sono cresciuto a Brindisi dove c’è una presenza artistico-architettonica greca e romana. Ci rapportiamo quindi con quel tipo di idea di “purezza” nelle dimensioni e nelle proporzioni. Anche con il cinema c’è un rapporto importante. Ho un legame particolare perché quando vivevo nel mio paese non avevo molto accesso all’arte e alla cultura e quella cinematografica è una delle forme d'arte più accessibili. Un riferimento su tutti è David Lynch, con la sua magistrale capacità di trovare sempre un'altra narrazione, cioè un altro modo per dire qualcosa. Riguardo la danza mi sono formato negli anni Ottanta, quindi con un pensiero neoclassico di base da cui mi sono poi allontanato. L’astrazione della tecnica è una delle cose che mi affascina di più, poiché da quella situazione – con le tecniche incorporate nel corpo – puoi disfare qualsiasi cosa e quindi ricreare qualsiasi cosa. Riferimenti principali sono Cunningham e Forsythe e le loro danze fanatiche che sono qualcosa che dal punto di vista energetico mi hanno sempre colpito. Ulteriore figura importante è Jan Fabre, altra faccia di uno stesso oggetto… Siamo molto legati anche all’ambito musicale, e questo si vede nelle scelte sonore che facciamo che si nutrono di mondi ed epoche diverse. Non mi dispiace la musica di ricerca, più sofisticata, nel campo dell’elettronica.
Il vostro manifesto, scritto nel 1996, è ancora oggi perfettamente valido nella vostra est-etica? Senza che venga considerato un tabù, il manifesto è ancora qualcosa di valido a cui ci riferiamo. Abbiamo elaborato il nostro linguaggio proprio sulla base di questi punti che ci hanno permesso anche di dialogare con altre situazioni e altri ambiti di ricerca come musica, teatro, filosofia e ricerca scientifica. È affascinante un pensiero della danza così poliedrico… ed è importante anche dal punto di vista dell’approccio sociale.
1. It is necessary for me to tell you that my body is curious about everything and I am my body 2. It is necessary for me to tell you that I am not alone 3. It is necessary for me to tell you that I can control my body and play with it at the same time 4. It is necessary for me to tell you that my body is escaping 5. It is necessary for me to tell you that I can multiply my body 6. It is necessary for me to tell you that you have to turn your head 7. It is necessary for me to tell you that I am leaving you and I am giving you my statue
Infatti, il punto tre dice «io posso controllare il mio corpo e allo stesso tempo giocarci». Un concetto che esplica un tipo di lavoro di ricerca e allo stesso tempo una posizione politica, nei confronti del pubblico. Questo si lega anche a un'ulteriore domanda: quale pensi sia il ruolo della danza nella società di oggi? Sappiamo che la danza è stata una delle forme più importanti di espressione sia per il suo potenziale vibrante che per il suo essere sociale, aggregante. Questo è un elemento fondante, presente intrinsecamente, che rimane nonostante l’evoluzione della forma. Penso che le capacità di grido e parola siano eccezionali. La danza è poi la forma che evolve più velocemente di ogni altra e riesce a comunicare senza barriere: legata ai corpi è legata alla società e quindi al cambiamento, c’è una corrispondenza.
Secondo te, in generale, il pubblico vuole dialogare con la danza? O è più predisposto ad accogliere un intrattenimento? Soprattutto dopo il Covid noto che c’è una dipendenza a volere cose che si riconoscono e che siano riconoscibili...
La danza allora deve prendere considerazione di questo aspetto e sforzarsi di andare incontro al pubblico? Si, ma senza svendere la sua natura e questa è la cosa più difficile…penso che debba avvicinarsi il più possibile ma senza diventare inutile. Intendo, cioè, di dare qualcosa soltanto in accordo con un gusto particolare. Che senso avrebbe a quel punto? Bisogna "indicare" sempre un pensiero attraverso la danza…il pensiero è ciò che ha fatto evolvere la società. Gli artisti prima di noi hanno indicato una strada, con il loro pensiero…sono stati pionieri con qualcosa di nuovo. Noi siamo qui grazie a loro, grazie a chi ha smosso resistenze e tabù ed è stato artista per noi.
di Sofia Bordieri
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Un Altro Scenario: la prima rubrica di Humus
Siamo felici di fare spazio alla penna degli studenti del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Catania – Donato Gabriele Cassone, Giulia Celeste, Laura Raneri, facenti parte del corso di Scienze e Tecniche psicologiche.
L’iniziativa prevede il lancio di una rubrica chiamata Un ALTRO SCENARIO. Danza e psiche, dove, Eine andere Schauplatz (per l’appunto, Un’Altra Scena) è l’espressione che Freud prende a prestito da Fechner per il suo celebre saggio L’interpretazione dei sogni, indicando così l’inconscio.
Nella rubrica che verrà ospitata in queste pagine, la psiche è osservata a tutto tondo: dalla sua dimensione storica sino ai processi formativi che la modificano nel corso dell’esistenza, dagli aspetti mitici e filosofici fino alla dimensione “somatica” di psiche incarnata in un corpo con cui è in costante contrappunto. È una archeologia della psiche quella che si propone, certamente in debito con la clinica della psicologia ma ancor di più in volo ad ali spiegate verso le aperture di un orizzonte che cela lati insospettati di noi.
La rubrica si svilupperà in una serie di articoli redatti dagli studenti e dalle studentesse, originati dalla visione di cinque diversi spettacoli della stagione Sp*rt! di Scenario Pubblico. I loro sguardi, posizionati in prossimità di discipline come psicologia, pedagogia, filosofia, andranno a penetrare gli spettacoli, i processi creativi, gli incontri con gli artisti durante le open door per riflettere e rintracciare tematiche altre.
«I sogni molto frequentemente esprimono ricordi e conoscenze che il soggetto da sveglio è ignaro di possedere»;
scriveva Freud e la danza, un po’ come il sogno, ha la capacità di far riemergere, sollecitare e rilevare sentimenti, desideri, paure personali e, soprattutto, riflessioni, dubbi, contraddizioni collettive. Tutti argomenti che potranno essere approfonditi e che potremo leggere qui, per cinque mercoledì tra novembre e gennaio.
L’iniziativa è promossa dal prof. Emanuele Coco e Roberto Zappalà con il contributo di Maurizio Leonardi e la supervisione dei testi di Sofia Bordieri.
A mercoledì con il primo testo su Sport di Salvo Lombardo | Chiasma.
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Un viaggio spirituale, metodico, chiaro…
È questo ciò che è stato vissuto domenica 11 novembre al Teatro Sangiorgi di Catania, con Africa - orizzonti di rinascita, un progetto coreografico di Claudia Scalia danzato da Rebecca Bendinelli, Ismaele Buonvenga, Rachele Pascale e Nunzio Saporito.
Scalia è direttore artistico insieme a Marco Laudani, di Ocram Dance Movement, compagnia associata a Scenario Pubblico/ Compagnia Zappalà Danza Centro di Rilevante Interesse Nazionale per la danza.
Africa è stato il primo spettacolo “fuori abbonamento” della stagione in corso, portato in scena nella costola del Teatro Massimo Bellini grazie al progetto Be resident-nella città la danza, l'articolato protocollo d'intesa stretto tra Scenario Pubblico e il Teatro Massimo Bellini per promuovere la danza contemporanea nel territorio.
Da dove ha origine Africa? Ce lo spiega il coreografo:
«Questo lavoro nasce da un viaggio che ho fatto con il desiderio di trovare un luogo ‘incontaminato’ dall’uomo: naturale, puro e vergine. Così, prima di iniziare il processo creativo, mi sono recato in Africa con la speranza di trovare quel tipo di luogo "vuoto", ma allo stesso tempo pieno di tutto ciò che ci può offrire la natura. Purtroppo questo mito si è tramutato in qualcosa di negativo in quanto nel 2019, anno di nascita del lavoro, la ricerca di quest’Eden è stata vana, perché ho visto che anche acque di mari e fiumi e luoghi così naturali e paradisiaci sono contaminati da spazzatura e plastica. Quest’anno, riprendendo il lavoro, dopo quattro anni, la situazione del nostro pianeta è degenerata. Riflettendo mi sono detto, perché non riportarlo in scena con un messaggio di speranza? Da qui l’aggiunta del sottotitolo orizzonti di rinascita. Il nome Africa l’ho scelto perché mi piaceva l’idea di personificare la mia idea e non semplicemente assegnare un titolo».
La scena si è aperta con una lunga striscia di plastica sita a bordo palco perché, riprendendo le parole di Claudio, la ricerca di un territorio incontaminato si rivela un fallimento nel momento in cui anche i territori paradisiaci celano angoli bui e sporchi...
Africa è nato ispirandosi al connubio di quattro elementi che danno vita alla materia pragmatica: acqua, aria, fuoco e terra. Come gli uomini, essi sono governati da amore e discordia che si incontrano e si scontrano, dominano a tempi alterni. È così che, attraverso il linguaggio del coreografo, i danzatori hanno instaurato un profondo ascolto con il pubblico e una potente connessione tra i loro corpi, con un’energia scattante. È proprio quell’energia che ha permesso di coinvolgere, inebriare, spettinare ed entrare a pieno in quella visione del pianeta, in cui viene continuamente soffocato e sopraffatto dall’azione degli uomini.
Claudio Scalia è coreografo di Africa ma, nell'anno di nascita della creazione, è stato anche danzatore. Cosa e come è cambiato oggi il lavoro?
«Se ripenso al 2019 ritrovo un Claudio con una visione della coreografia non matura come quella di adesso…ero coinvolto dall’idea, dalla coreografia e riuscivo a esprimere ciò come danzatore. Successivamente ho fatto un passo indietro, volevo vedere da fuori per capire cosa arrivasse. Ho capito così che, in questo momento della mia vita il mio desiderio era quello di vederlo dalla parte del pubblico. Sicuramente a livello drammaturgico un contributo importante mi è stato dato da Marco Laudani e Sergio Campisi che ringrazio per avermi aperto nuovi orizzonti».
Mani e braccia evocative e comunicative risaltate dal continuo gioco di luci che ha aperto scenari diversi, la pioggia sui corpi, il riflesso di un fascio di luci gialle sui corpi dei danzatori... È in questo momento che sembra essersi creato un equilibrio tra l’uomo e la natura.
Voi artefici del vostro destino, incuranti del domani, Voi ignari della grandezza della natura. Voi uomini, già sconfitti, contro Madre Terra T.S Eliot
Ogni danzatore nascosto da una maschera, appariva sicuro della propria individualità e della forza del gruppo, ma allo stesso tempo sembrava che volesse nascondersi dai sensi di colpa….
Ma una volta caduta la maschera?
E’ proprio il senso di comunità a far dell’uomo l’artefice del destino del pianeta. Tutti abbiamo la stessa colpa di aver reso il mondo come lo vede T.S Eliot, una terra desolata e devastata.
L’offuscarsi delle luci insieme all'inizio di un monologo di Greta Thunbergha in sottofondo ha preceduto l’ingresso di un sacco di plastica riciclata (come i costumi utilizzati) insieme i quattro danzatori. Una volta in scena, hanno tolto le maschere, spostato la plastica e iniziando a rotolarvi sopra e intorno, dando la sensazione di restare intrappolati, metaforicamente e fisicamente, nelle conseguenze delle loro azioni.
Il faro sul fondo palco ha illuminato Ismaele che, avvolto dalla plastica, è diventato come la silhouette di un disegno caotico, tempestoso e incessante. Nell'intento di volersi liberare, è riuscito a sfuggire e a raggiungere, insieme agli altri danzatori lo Shanti, quella pace ineffabile, riferimento anch’essa al testo di Eliot. Alla fine di tutto l’uomo sovrastato dai sensi di colpa, capisce che è la natura a governare il mondo e pertanto capisce di doverne rispettare il ruolo indiscusso.
È così che al termine della performance è stato riproposto lo stesso quadro iniziale: le ombre dei danzatori, in fila, messe in risalto dalla luce in fondo, simboleggiano l'aperta ricerca dell'orizzonte di rinascita in una situazione di quiete comune.
Abbiamo chiesto a Ismaele, uno dei danzatori, se rispetto al codice di movimento di Claudio, ha inserito proprie sfumature personali. Andiamo a vedere cosa dice al riguardo…
«Nonostante il lavoro a livello coreografico sia molto settato e preciso ci sono anche vari momenti di improvvisazione, soprattutto in relazione allo studio dei quattro elementi. In quanto elemento-terra, ho avuto massima libertà di esprimere sia la forza della terra che ci sostiene, ma anche la friabilità, perché il suolo non è poi così tanto solido come sembra e può sgretolarsi».
Il numeroso pubblico presente in platea e in tribuna ha avuto la possibilità di immergersi in un viaggio senza tempo e di cogliere la chiarezza esponenziale della performance. Gli applausi di gradimento sono stati notevoli a dimostrazione di quanto effettivamente il pubblico sia stato coinvolto dal flusso incessante dell’acqua e da quello travolgente dell'aria, dal fuoco impetuoso e dalla forza e friabilità della terra.
E tu che leggi, hai recepito il messaggio e contribuirai a creare nel tuo piccolo un orizzonte di rinascita?
A cura di Martina Giglione
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#FICFest: 9 maggio
***English Below***
La scena si è aperta con due spettacoli che hanno condiviso la terza serata del #FICFest: T.R.I.P.O.F.O.B.I.A. e Cu’ mancia fa muddichi.
Nel foyer di Scenario Pubblico, prima dell’inizio della performance, ci siamo domandati cosa questi titoli stessero suscitando nella mente degli spettatori, ricevendo diversi riscontri a caldo. Quello che ci ha colpito di più è stato: <<Uno spettacolo che ti ipnotizza>>.
T.R.I.P.O.F.O.B.I.A. è una creazione della Compagnia IVONA, di cui Pablo Girolami è direttore artistico e coreografo, interpretata dai danzatori Guilherme Leal e Lou Thabart.
❓❓MA COS’È LA TRIPOFOBIA?❓❓
La tripofobia è la paura dell’uomo nei confronti di gruppi irregolari di piccoli buchi o protuberanze. La creazione si ispira a questa peculiare paura, che ha portato altre suggestioni come, ad esempio, l’immagine del rospo del Suriname. Quest’ultimo, nel processo di creazione, ha determinato la scelta di utilizzare in scena delle coppette che i danzatori applicano sul proprio corpo durante la performance; concretizzando fisicamente la paura.
L’obiettivo della performance è quello di partire dalla tripofobia per indagare l’irrazionalità della mente e il comportamento dell’uomo nei confronti delle paure. Uno spettacolo, infatti, che lascia appesi ad un filo di tensione conducendo tutto il pubblico, in maniera incisiva, a confrontarsi con il ricordo delle sensazioni che nascono dalle proprie paure.
È presente una straordinaria attenzione al dettaglio che possiamo ritrovare nelle qualità di movimento usate, come: staticità e compulsività, fluidità e convulsione. Anche nel disegno luci, un quadrato bianco proiettato sul pavimento, è possibile cogliere particolari minuziosi. Entrare all’interno del quadrato luminoso, infatti, significa mettersi in contatto con le proprie paure.
Cu’ mancia fa muddichi
è il titolo della seconda performance, un proverbio della tradizione siciliana legato al concetto: chi fa delle azioni commetterà degli errori… dove errore può essere sinonimo di possibilità, produttività, crescita.
La creazione è di Dario Rigaglia, giovane artista di origine siciliana, nominato da Danza&Danza Miglior Ballerino Italiano all'Estero 2016, vincitore del bando ACASA 2022/2023. Per il #FICFest ha portato in scena la sua prima produzione come coreografo e danzatore.
Lo spettacolo si è aperto con una registrazione di un breve testo pronunciato da Rigaglia, dove emerge un invito al rischio e a non aver paura di tentare e commettere errori. Uno spettacolo che coinvolge umanamente, che offre uno spunto di riflessione riguardo le aspirazioni che ognuno di noi ha.
Il coreografo, immerso nel profumo di arance e terra, lascia la libertà di viaggiare all’interno del tema scelto per la performance. Il movimento virtuoso del danzatore ha mostrato il ventaglio di possibili sfumature che caratterizzano una scelta: da quelle più oscure e cupe, a quelle più brillanti e colorate.
Il #FICFest prosegue oggi, 10 maggio, con Satiri di Virgilio Sieni, in scena alle 20.45 presso il Teatro Sangiorgi di Catania.
A domani con la prossima pagina del Blog!
Credits Redattore: Matilde Bianchi Reporter: Martina Adelfio Media: Iolanda Longo Revisione: Sofia Bordieri
🪂🪂🪂🪂
The stage opened with two shows that shared the third day of #FICFest: T.R.I.P.O.F.O.B.I.A. and Cu' mancia fa muddichi.
In the foyer of Scenario Pubblico, before the start of the performance, we asked what these titles were stirring in the minds of the audience, receiving several feedbacks. The one that struck us the most was, <a show that mesmerizes>.
T.R.I.P.O.F.O.B.I.A. is a creation of IVONA Company, of which Pablo Girolami is artistic director and choreographer, performed by the dancers Guilherme Leal and Lou Thabart.
❓❓WHAT IS TRYPOPHOBIA?❓❓
Trypophobia is a man's fear of irregular groups of small holes or protuberances. The creation was inspired by this peculiar fear, which brought other suggestions such as, for example, the image of the Surinam toad. The latter, in the creative process, determined the choice to use cups that the dancers apply to their bodies during the performance, in order to physically concretize the fear.
The goal of the performance is to start from trypophobia to investigate the irrationality of the mind and human behavior towards fear. A performance that leaves you hung by a thread of tension, leading the whole audience, in an incisive way, to face the memory of the sensations that arise from their own fears.
An extraordinary attention to detail can be found in their quality of movement, such as: stillness and compulsiveness, fluidity and convulsion. Even in the lighting design, a white square projected onto the floor, minute details can be captured. To enter inside the light square, in fact, means to get in touch with one's fears.
Cu' mancia fa muddichi
The title of the second performance is a traditional Sicilian proverb related to the following concept: those who do actions will make mistakes … but mistake can be synonymous with possibility, productivity, growth.
That's the first production as choreographer and dancer for Dario Rigaglia, a young Sicilian-born artist, named Best Italian Dancer Abroad 2016 by Danza&Danza and winner of the ACASA 2022/2023 call for applications.
The performance opened with a recording of a short text spoken by Rigaglia himself, an invitation to risk and not to be afraid of trying and making mistakes. A humanly engaging performance that offers food for thought regarding the aspirations each of us has.
Between the scent of dirt and oranges, the choreographer lets freedom travel, showing the range of nuances that might characterize a choice: from the darkest and gloomiest, to the brightest and most colorful.
The #FICFest continues today, May 10 at 8.45 p.m., with Virgilio Sieni's Satiri at the Sangiorgi Theater in Catania.
We'll see you tomorrow with the next Blog news!
Credits Redaction: Matilde Bianchi Reporter: Martina Adelfio Media: Iolanda Longo Text revision: Sofia Bordieri Translation: Luca Occhipinti
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E' in arrivo la contaminazione del FIC FEST!
Benvenuti e benvenute in questo spazio dedicato al FIC FEST!
Il Festival dedicato alla danza contemporanea che abbraccia musica, teatro, cinema, arti visive organizzato da Scenario Pubblico/Compagnia Zappalà Danza, Centro di Rilevante Interesse Nazionale di Catania.
Ogni giorno verrà raccontato, in questo spazio, tutto ciò che succederà, attraverso lo sguardo dei giovani danzatori di Modem Atelier, un programma di formazione della danza contemporanea di Scenario Pubblico/Compagnia Zappalà Danza.
Con l’intento di documentare e archiviare le iniziative, tra performance, talk e incontri, cerchiamo di rendere sempre più capillare la conoscenza della danza, un’arte fatta con il corpo destinata a tutti, affidando questo importante compito ai giovani sguardi. Convinti del solido potere di cambiamento della danza, attraverso il suo essere poetico e concettuale, costruiamo insieme da più di trent’anni una comunità più coesa, viva e creativa.
Il FIC, acronimo di Focolaio di Infezione Creativa, inizierà il 5 e 6 maggio la contaminazione creativa itinerante per le strade e le piazze del centro di Catania, insieme ai danzatori della Compagnia Zappalà Danza.
Nel tempo della città apriremo tutti insieme un canale contagioso: ci uniremo e rallenteremo il passo per concederci la visione di spettacoli, stimoleremo un flusso che ci porterà ad ascoltare e dialogare con artisti, coreografi, danzatori e studiosi delle arti performative.
L’obiettivo è incontrarci, stare e crescere insieme nella cultura.
A partire dal 7 maggio il FIC FEST si svilupperà a Scenario Pubblico con alcuni appuntamenti anche da Isola Catania, il teatro Mario Sangiorgi e l’Orto Botanico. Puoi consultare il programma completo cliccando su questo link https://www.scenariopubblico.com/rassegne/fic-fest-2023/
Seguici e lasciati contaminare.
A presto!
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Intervista a Joy Alpuerto Ritter
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Ex danzatrice della Compagnia di Akram Khan oggi Joy è assistente alle coreografie e ripetiteur nonché coreografa freelance. Nata a Los Angeles e cresciuta a Friburgo in Germania, oggi vive a Berlino. Alcuni giorni fa si è collegata da Londra per incontrarci su Skype. Di mattina, prima di iniziare la giornata di prove, ci ha raccontato della sua storia ripercorrendo il lavoro con Khan arrivando poi alla sua attività di oggi.
Photo by Jean-Louis Fernandez
Ricordi il primo incontro con Akram Khan? Che percezioni hai avuto e come sono cambiate nel tempo?
Penso che il mio primo incontro con Khan non sia stato granché speciale perché, impegnata con una produzione del Cirque du Soleil, non ho potuto partecipare all’audizione ufficiale. La compagnia è stata molto generosa però a offrirmi l’opportunità di fare un’audizione privata con il direttore delle prove Jose Agudo che ha poi mostrato il video a Khan. Quindi, attraverso il video, Khan mi ha scelta e invitata per un suo nuovo progetto nel 2013. È stato strano perché io non lo avevo mai incontrato e la prima volta è successo in Francia per una cena con tutta la compagnia. Lì abbiamo parlato per la prima volta, ricordo in particolare dello spettacolo su Michael Jackson che avevo appena fatto con il Cinque du Soleil.
Nel primissimo periodo ricordo di essermi sentita molto nervosa, ero l’unica nuova nella compagnia quindi Khan conosceva già tutti e mi sentivo sotto esame. Ho imparato tantissimo: il lavoro era molto giocoso con tantissime improvvisazioni, ma anche con tanto materiale coreografico. Khan usava due strade per conoscere al meglio i nostri punti forti ma soprattutto la nostra personalità, un aspetto importante per quel lavoro caratterizzato da diversi personaggi.
Ricordi il nome del progetto?
Era iTMOi (nella mente di Igor). Ciò che mi ha messo alla prova è stata la fisicità del lavoro, le rotazioni, i miei piedi bruciavano al pavimento. Khan chiedeva tantissima energia ed era anche molto sfidante in termini di ritmo. Io non desideravo altro, ero in quella fase in cui stavo imparando e volevo farlo il più possibile. Khan è una persona davvero rispettosa e sa come essere esigente con i suoi danzatori spingendoli sempre al di fuori della loro comfort zone.
Durante i suoi processi creativi collabora con i danzatori?
Dipende dal progetto, per esempio ricordo che abbiamo collaborato per Kaasha e iTMOi e abbiamo anche danzato insieme con lui in Until the lions. Danzare con lui è stupendo. C’era tantissima potenza che riuscivo a cogliere e dare ai suoi pezzi; lui non si aspetta altro che il massimo. Bisogna essere sempre focalizzati sul lavoro senza mai marcare.
Qual è il training quotidiano della compagnia?
Dipende anche qui dal progetto. Solitamente il direttore delle prove si occupava della lezione di riscaldamento e rafforzamento con una lezione di danza contemporanea. Poi danzavamo anche il Kathak – che è la base del lavoro di Khan insieme a un mix di danza tradizionale indiana, danza contemporanea e altri stili di danze folkloriche. Di base si trattava di danza contemporanea o di un altro tipo di training fisico (come lo yoga), poi il Kathak e poi le prove. Il riscaldamento durava più o meno due o tre ore. Il suo è un lavoro davvero corposo e in quel contesto non importava mai quanto si riuscisse a fare in termini di quantità. Ciò che contava era sempre di avere una buona preparazione fisica ed essere pronti per le prove. Alla fine della giornata spesso facevamo anche degli esercizi per migliorare le nostre capacità ritmiche, con pattern ritmici che cantavamo e seguivamo con i passi, spesso molto difficili!
Cosa vuoi trasmette del lavoro della compagnia, soprattutto per coloro che non hanno mai fatto esperienza del lavoro di Khan?
Credo che si debba avere innanzitutto la volontà che ti permette di impegnarti al massimo. Invito tutti coloro che parteciperanno a fidarsi del viaggio che faremo e di permettere a loro stessi di andare a fondo della ricerca e mettendola anche in discussione.
Ciò che importa è la qualità, non conta la quantità di cose che si è in grado di fare. Non importa quanto posso fare ma come posso farlo. Questo vale pe tutto dal movimento più virtuosistico fino al semplice stare in piedi fermi. Il focus è sull’estremità e non su quale movimento mi rende un grande interprete; spingerò molto in questa direzione, perché essere un bravissimo danzatore non significa essere un grande performer e viceversa. Tutto sta nel come si trasmette al pubblico, di certo bisogna avere la tecnica ma non solo. La combinazione dei diversi aspetti è la soluzione! Per questo è importante capire il miglior approccio mentale per danzare, che include sacrificio e impegno. Bisogna anche credere e fidarsi nel percorso che si fa e permettere di andare sempre più a fondo.
Ora che sei anche coreografa, quali esperienze del passato pensi ti abbiano segnato di più?
Il mio background da danzatrice è stato sempre versatile: ho iniziato con la danza classica, poi con la danza folklorica filippina, mia madre mi ha insegnato la danza tradizionale asiatica poi ho studiato danza contemporanea, jazz e hip hop.
Sono sempre stata curiosa, volevo ispirarmi a più stili e ambiti di danza: quello professionale rimanendo legata anche al senso di comunità che ha la danza popolare.
Ciò che porto con me è un mix di stili e penso anche al Kathak di Akram. Da coreografa sto provando a connettere tutto ciò che ho provato nel mio corpo per raggiungere una libertà di espressione personale. Questa modalità mi proviene da Khan che dice sempre: «Trova il tuo modo». Mi ci è voluto un po’ per capirlo.
Un’ultima cosa importante è il lavoro di Khan con diversi personaggi, in Untile the Lions e iTMOi ad esempio. Lui usa storie ma invita ogni volta ogni danzatore a creare la propria.
Photo by Jean-Louis Fernandez
Do you remember your first meeting with Akram Khan? What kind of sensations did you live and how these emotions changed during the time?
I think my encounter was first time quiet not special, because I auditioned a second time. I came from Cirque du Soleil, I couldn’t enjoy the official audition, so the company was generous to make a private audition with the rehearsal director Jose Agudo. I was auditioned with him, and he showed the video of my dance to Akram. Then, through the video, Akram invited me to the first research of a project in 2013. It’s weird because I had never met him in my life, the first time we were in France with all the dancers in a restaurant. We had a private conversation, especially about Michael Jackson Circle du Soleil show. At the beginning with the company, I was nervous because he knew the other dancers already and I was new, it looked like a test. At the beginning dancing was very playful with lots of improvisation, but he also gives a lot of choreographic material, so as both to know our special skills and getting to know our personality especially for that project where there were a different kind of characters. I learned so much!
Do you remember the name of the project?
Yes, iTMOi (In the mind of Igor). What I really was memorized and challenge by was also really grounding physicality and spins; my feet were burning on the floor. This was a special technique that really push you and challenge you also in terms of rhythm. I really wanted that challenge because I was in the phase of learning as much as possible as dancer. He is very respectful, but he really knows how to push people out of their comfort zone.
During his creative process does he collaborate with dancers?
It depends on the project. For example, in the beginning yes for Kaash, iTMOi and we also danced together in Until the lions. Dancing with him was amazing. There was a lot of power that I was able to discover in his pieces, he expects you to really go for it. No marking, you go for it very focused. I really like the balance between be respectful and very challenge.
What is the physical training did you do with him daily?
It depends on the project. At the beginning we had the rehearsal director giving us a warmup, strengthening out the body, in contemporary dance. Than we also dance kathak – which is the base of his work mixed with Indian classical dance, contemporary dance and also other folk dances style. Basically, the training was contemporary dance or different training (as yoga), kathak than we went to rehearsals. It’s around two or three hours. It is a very consistency training, it does not matter how much you tour, the quantity; It is important to have a good base of physical fitness. At the end of the rehearsal, we used to improve our learning and rhythm with different and challenging patterns.
For those who don’t know your work, what is the physical focus that you want to transmit to the dancers?
I think there is some feeling allow to commit. I invite them to trust in the journey and allow yourself to go deep search also questioning. It is important the quality, not even the tricks or to impress but the quality. It is not important the quantity, not what I can do but how I do it. From very virtuous physical movement versus just standing still. The focus is extremities not which movement makes me a great performer. Of course I will push in this direction, because great dancer does not mean great performer and vice versa. It is about how to transmit to the audience and space and of course we have the technique so that combination is the answer. It is important to understand the best mental approach to dance, which involves sacrifice and commitment, you also need to have trust in the journey, and allow yourself to go deep. It’s important the quality, how I do something, either a physical movement or just standing still.
Now as a choreographer what aspects of his work and your past experiences made a sign in your today’s work?
My dancing background has been versatile: I started with ballet, Philippine folk dance, my mum taught me Asian folk dance, then contemporary dance, jazz, and hip hop, I also did hip hop battles! I was always curious, I wanted to be inspired by different styles and fields. Professional of course but also remaining close to the sense of community of the popular dance. As a choreographer I’m trying to connect different styles that I have tried in my body, and I try to achieve the freedom to express through these different styles. It is from Akram: “Find your way”. You get inspired by different techniques and styles and then make it your own, it took me a while to that. Lastly, another thing is that I like working with characters. I worked with Akram on Until the Lions and iTMOi. He uses stories but he invites every time to make it to your own.
Photo by David Scheinmann
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Aspettando il FIC dance workshop in dialogo con Maud de la Purification
Danzatrice e assistente alle coreografie della Compagnia Zappalà Danza, nel 2011 ha incontrato Roberto Zappalà e da allora vive a Catania. Quest’anno ha ricevuto il Premio Danza&Danza come migliore danzatrice del 2024 per la sua interpretazione solistica nello spettacolo Oratorio per Eva. Parliamo di Maud de la Purification storica componente dell’ensemble catanese che incrociamo ogni giorno tra gli spazi di Scenario Pubblico ma che, in occasione del FIC dance workshop, abbiamo voluto incontrare per farci raccontare la sua storia.
Qual è il tuo percorso di formazione nella danza?
Ho studiato al conservatorio di danza classica di Tolosa e a diciotto anni dopo aver ottenuto il diploma ho frequentato per qualche mese la scuola del Ballet National de Marseille dove poi stata presa come stagista. La compagnia era diretta da Marie-Claude Pietragalla e quell’anno tra le tappe del tour di Giselle c’era anche il Teatro Bellini di Catania. Ricordo molto bene quel momento. Il primo contratto ufficiale l’ho avuto a Tolosa nella compagnia Balanchine che era per me quella del cuore. Per la direttrice – che aveva lavorato con Balanchine – ero però troppo “modern” così non mi ha rinnovato il contratto dopo il primo anno. Mi sono trovata con una ferita enorme. Una signora dell’amministrazione, però, mi aveva parlato di Kylian consigliandomi di provare per la compagnia junior. Così mi sono impuntata e ho creato un solo, sapendo che, ufficialmente, non avevo più l’età per rientrare nella compagnia giovane che sarebbe venuta a Toulouse in tour. Nel frattempo, avevo ottenuto un contratto – la mia ultima esperienza con la danza accademica – quindi la sera conclusa la giornata mi mettevo a lavorare per il solo che, incredibile, si chiamava Eve (cioè Eva). Quando sono andata a vedere NDT, ho consegnato il mio CD al direttore e poi mi hanno invitata all’audizione. Proprio quell’anno hanno richiesto un solo e ho finito il mio proprio davanti a Kylian. Purtroppo, non c’era posto nel gruppo, ma una ragazza ha abbandonato in corso e così mi hanno chiamata. Dopo un anno, ho deciso di andare a New York dove durante un tour avevo fatto amicizia con dei danzatori della Cedar Lake. Lì è stato un periodo molto libero, ho lavorato con una giovane coreografa, poi sono andata a Berlino per fare una residenza e sono rimasta per lavorare in un altro progetto con un coreografo che aveva ideato una propria tecnica, molto mista, partendo da un background di hip hop. Era un momento non felice della mia vita e proprio in quel periodo ho capito tantissime cose del mio corpo.
Quando e come è iniziata poi la tua collaborazione con Roberto Zappalà?
Era il 2011 e stavo lavorando a un progetto con un ex collega dell’NDT al Korzo theater. Quello con Zappalà era un vero e proprio stage-audizione e il mio amico me lo aveva consigliato…così ho incontrato Roberto. Avevo un ginocchio infortunato e durante l’audizione ho iniziato ad avere dolore. Quando è arrivata la pausa ho preso le mie cose per andare via ma Roberto mi ha vista e mi ha chiesto “Cosa fai?”. Ho spiegato che non potevo farmi male, avevo uno spettacolo da fare, ma lui mi ha chiesto di rimanere, mi ha detto che potevo fermarmi quando volevo e così sono rimasta. Poi mi hanno chiamata e, così, sono arrivata a Catania. Ho lavorato con persone bellissime e ho deciso di rimanere. Nonostante non volessi entrare in una compagnia, ho subito accettato il contratto, era evidente che c’era qualcosa che mi aspettava qui.
In quanto danzatrice e ripetiteur, qual è, secondo te, la cosa importante da trasmettere a chi farà il workshop?
Questa è la bellezza che mi nutre ogni giorno quando insegno Modem: avere le migliori condizioni per accedere al momento presente. Non c’è spazio per altro, hai la possibilità per un’ora e un quarto senza stop di rimanere nella tua concentrazione – ed è una cosa speciale, perché di solito ci si ferma. Per me questa è la cosa più interessante e nobile da cercare nella danza. Essere qui, che poi è il migliore degli allenamenti per il palco. È una concentrazione e una presenza che si chiama onestà. Chi sono in questo momento? La cosa meravigliosa poi è portare sul palco quello status cercato a lezione. In questi stati si accede a una tale onestà, apertura e non c’è più il tabù, il pudore. Il pudore che viene a sporcare il danzare. In quella condizione il pudore viene eliminato da sé, non perché si vuole eliminarlo. Essendo presente in quel momento, senti il flusso che davvero ti attraversa e rimbalza nel corpo e se c’è una certa intensità richiesta dal task si accede a qualcosa di vero quindi il viso sarà specchio della pancia e non ci sarà più una maschera dell’essere presentabile. Sono quello che c’è. Ed è la cosa più onesta che si possa cercare. Cos’è danzare? Perché lo faccio? Si creano poi delle situazioni con il gruppo che non puoi riprodurre da solo. È anche incredibile percepire l’influenza degli altri, di quello che succede attorno a me. Se qualcuno ha un giorno down lo sentiamo tutti. In quel caso è meglio osservare, prendere appunti…si impara lo stesso. Possiamo creare una magia d’armonia se ognuno è responsabile della sua presenza. Si arriva a cose incredibili, speciali. Non c’è una mosca che vola, è super bello.
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Rosario Guerra: intervista per il FIC Dance Workshop
In attesa dell’inizio dei workshop curati da Ocram Dance Movement nell’ambito del Catania Contemporanea/FIC Fest ci siamo messi in contatto con i danzatori invitati a condurre le lezioni per poterli conoscere meglio. A rispondere in questa prima breve intervista è Rosario Guerra che sarà presente a Catania dall'8 al 12 maggio in qualità di ripetiteur del repertorio di Marco Goecke.
Ricordi com’è stato il tuo primo incontro con Marco Goecke? Quali sensazioni hai vissuto entrando sempre più in contatto con il suo lavoro?
Il mio primo incontro con Marco é stato a Stoccarda, ricordo che stavamo lavorando su un solo I found a fox, e già li mi sentii catapultato in questo nuovo modo di creazione. Lo scrutavo da lontano, ero piccolo ed ero ancora tanto timido ma super eccitato. Stavo riscoprendo un nuovo me. Marco riuscì a farmi conoscere nuove sensazioni mai sentite prima. Riusciva a leggere il mio umore e a farmelo usare nel migliore dei modi. E cosi é stato poi per il resto dei suoi lavori: ogni volta mi ritrovavo in un ambiente diverso, sempre più challenging, puro e stimolante. Ancora oggi quando entro in sala non so cosa sarà ma di sicuro si dovrà affrontare una nuova sfida, che, secondo me, it’s a must per un danzatore.
Qual è il suo training quotidiano e il suo processo di creazione insieme ai danzatori?
Come dicevo con Marco non si può avere una routine nel quotidiano, lui é un artista cosi sensibile che percepisce il nostro stato d’animo; perché l’uno non funziona senza l’altro, ci si deve connettere altrimenti non si va avanti. Bisogna adattarsi alle esigenze dell’altro per entrare nel suo processo di creazione. E quando questo inizia non si perde né tempo né animo. Marco ha un modo di fare coreografia molto unico e inimitabile. A volte é più facile viverlo che spiegarlo.
In quanto danzatore e ripetiteur, cosa vuoi trasmettere del suo modo di lavorare ai partecipanti che non hanno mai lavorato con lui? Qual è il modo per avvicinarsi alla danza di Goecke?
Cercherò di fare del mio meglio per far entrare i partecipanti nel suo stile. Cercherò di far aprire il loro cuore e di stimolarli a fidarsi del proprio istinto esprimendo ciò che realmente sono, proprio cosi come fa Marco con noi.
Infine, cosa ti ha segnato di più del suo lavoro che pensi rimarrà per sempre importante per la tua carriera da danzatore e magari autore?
Si fa fatica a lavorare con altri, solo con pochi si può avere la sensazione di libertà e onestà che Marco ti fa sentire quando ci lavori insieme. Questa sensazione farà sempre parte di me e cercherò di trasmetterla il più che posso al prossimo, sia nell’arte sia nella vita.
#scenariopubblico#catania#Catania Contemporanea/FIC Fest#marco goecke#rosario guerra#ficdanceworkshop#danza contemporanea#interviste
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Angolo di salvezza
Ormai solo un DIO ci può salvare
Martin Heidegger
Ph. di Balto Videomaker
Se per far esistere qualcosa basta darle un nome, forse così non è per gli esseri umani. A loro serve essere pensati, essere guardati ed in definitiva, quindi, essere amati. Solo per questo, forse, Barabba ha compiuto quegli atti osceni, perché si sentiva escluso dal mondo che lo circondava. Inneggiava la delinquenza, la menzogna e l’odio probabilmente solo perché non conosceva l’amore. In conclusione dello spettacolo diretto da Teresa Ludovico (testo di Antonio Tarantino), nel momento in cui Gesù si sacrifica per lui, ecco… ecco che per la prima volta capisce che a qualcuno importa di lui, realizza per la prima volta che esiste altro oltre il male che era abituato a fare e a ricevere, quasi senza pensare a ciò che faceva. Tolstoj diceva «non fate il male e il male non esisterà». L’antidoto ai mali del mondo sarebbe, in definitiva, il bene? Troppo semplice risolvere un’equazione che si morde la coda dall’inizio dell’esistenza citando solo “il bene o il male”. Bisognerebbe perciò capire chi ha inventato il male, compito non semplice, in cui l’uomo si diletta da secoli senza riuscire a darsi una risposta probabilmente poiché la risposta sarebbe brutale e cioè… l’uomo stesso.
Ph. di Balto Videomaker
«Non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco, perciò non si può combattere il male con il male» diceva Lev Tolstoj.
Barabba non era mai stato trattato adeguatamente da nessuno, come si poteva pretendere che trattasse piacevolmente gli altri? Riesce a sentirsi, per la prima volta, minimamente integrato in questo piccolo-grande mondo nel momento in cui gli viene dato amore. Gli proviene proprio da colui che aveva insultato chiamandolo “povero illuso”, colui che non riusciva a compatire; ormai alienato dai trattamenti ricevuti in prigione, come se vivesse in una bolla di sola malvagità, in cui non si riesce a provare altro che odio verso chi ti sta attorno. I monologhi all’interno dello spettacolo veicolano messaggi strazianti con tono rassegnato come se niente mai potesse cambiare. Nemmeno un “dono” da parte di un altro carcerato, da cui si è ereditata la cella, permettono di cessare le vessazioni allessitimiche di Barabba. Nulla può fargli cambiare idea, eccetto l’amore. Quell’idea fredda che ha degli uomini veicola tutte le insicurezze che, in primis, nutre verso sé stesso.
Sarebbe stato interessante chiedere a Barabba se pensasse di conoscersi. Cicerone diceva «quando si dice all’uomo “conosci te stesso”, non è soltanto per abbassare il suo orgoglio, ma è anche per fargli sentire quanto egli vale». Barabba, possiamo immaginare, nonostante si vantasse dei suoi continui crimini, di cui era rimasto prevalentemente impunito, non credeva davvero alle sue parole, forse vagavano nel suo cervello esclusivamente per convincersi che quello che faceva era giusto e tutti gli altri erano degli stolti.
Secondo Mark Twain, «i due giorni più importanti della vita sono quello in cui sei nato e quello in cui capisci perché». Crediamo che Barabba nel giorno del perdono abbia compreso il suo “perché”.
Perché Barabba voleva convincersi di ciò?
Sicuramente, in primis, perché nessun uomo vuole pensare al fatto che quello che sta facendo sia sbagliato ed è sempre più facile puntare il dito verso gli altri piuttosto che guardarsi allo specchio. Come disse Luigi Pirandello d'altronde «Notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri». Qui sottolineiamo che il problema non sia solo di Barabba in quanto uomo “spregevole” già di suo, bensì di tutti gli esseri umani. Difatti nello spettacolo viene messo in luce come le guardie delle prigioni abusavano in maniera oltraggiosa del loro potere sui prigionieri. Barabba, nei suoi monologhi, raccontava di tutte le atrocità che doveva subire all’interno di quelle celle e di come la realtà fosse ben diversa da quello che doveva essere in base alle regole stipulate all’epoca. Inoltre parlava anche di come al di fuori delle celle venisse raccontato che la loro situazione di vita all’interno delle prigioni fosse ottimale e che ovviamente ciò, non corrispondendo al vero, andava solo ad aumentare l’astio che si aveva nei confronti dei carcerati causando abbondanti richieste per ridurre il loro status di “comfort”, che nella realtà non esisteva. Ovviamente, la storia raccontata dal punto di vista di Barabba avrebbe fatto cambiare idea a coloro che, al di fuori di quelle mura, votavano contro di lui, ma egli era lì dentro e la sua voce non contava. Importava solo la voce degli ufficiali e delle guardie che come unico interesse avevano quello di rendere la vita dei carcerati un inferno ancora più buio.
Ph. di Balto Videomaker
Chi sta sbagliando quindi? Chi dovrebbe puntare il dito? Barabba o la guardia?
La risposta, avendo entrambi le versioni, è chiara…nessuno dei due. Però, nello spettacolo viene messo in luce come all’epoca non si avessero entrambe le versioni…ed è qui che può tornare utile la frase di Anthony De Mello «Volete cambiare il mondo? Che ne dite di cominciare da voi stessi? Che ne dite di venire trasformati per primi? Ma come si ottiene il cambiamento? Attraverso l'osservazione. Attraverso la comprensione. Senza interferenze o giudizi da parte vostra. Perché quel che si giudica non si può comprendere».
Ovviamente si evince che le guardie non avessero nessuna intenzione di comunicare per cercare di comprendere i disagi dei carcerati e questo fa capire che, in fondo, non erano poi così tanto meglio rispetto a loro. Questo concetto viene ripreso nello spettacolo durante il discorso fatto tra Barabba e Gesù, nel quale quest’ultimo gli dice che siamo tutti peccatori e che quindi la salvezza serve e sarà data a tutti. Molto spesso, invece, quello che accade è che consideriamo le guardie o chi possiede un ruolo di autorità come persona “buona” che si impegna a far vigere l’ordine...ma abbiamo notato come il “bene” ed “il male” siano concetti relativi, cosa che traspare apertamente nella performance.
La scintilla che ha portato alla stesura di questo articolo è scoccata dopo aver visto lo spettacolo Barabba andato in scena a Scenario Pubblico. Siamo stati coinvolti emotivamente, come forse successe anche un tempo, nel prendere una decisione su chi punire?
Barabba… o forse tutti noi?
A cura di Donato Gabriele Cassone e Laura Raneri
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ROI di Nicola Simone Cisternino
Restituzione delle prime tre settimane di creazione
ROI, da leggere così com'è scritto, è il titolo del nuovo progetto del danzatore e coreografo Cisternino. Traslazione della pronuncia della parola roi (cioè re, in francese) il titolo è direttamente legato all'argomento di indagine che è appunto sulla figura del re.
«Sto tentando di indagare su una figura per me ambigua. Primo tra gli uomini e allo stesso tempo schiavo di tutti, il re si posiziona al centro di una doppia trazione - tra investitura divina e necessità di vita e riconoscimento altrui».
Come ha raccontato, Nicola ha lavorato sull'accumulazione di materiali, sulla somma, prima ancora di prendere delle decisioni volontarie. Per far ciò tutta l'attenzione è stata posta sulla predisposizione del corpo messo nelle condizioni di poter cercare derive, percorsi e frequenze con lo scopo, poi, di veicolare sensazioni verso l'esterno.
Nicola Cisternino durante la sua open door ha mostrato tutto il materiale accumulato nelle tre settimane di residenza. Dopo trenta minuti di azione ha chiesto al pubblico:
Quali momenti, sensazioni, figure o ritmi hanno aperto in voi territori esplorativi sulla figura del re?
Grottesco Serietà, divertimento Destabilizzato, attraente Sguardo e luci danza, lentezza, le mani, i piedi occhi aperti, occhi chiusi perché? un re che può essere fragile, sciocco, fiero, potente Elvis performante Sottofondo fuoco, le notifiche
Si è parlato a lungo con i presenti. Suggestioni, feedback, riflessioni sono stati i nuovi appunti per il performer che continuerà il suo lavoro di ricerca, dosaggio e selezione di temperature, iconografie e architetture di paesaggi.
#scenariopubblico#danza contemporanea#catania#ACASA#Nicola Simone Cisternino#residenzeartistiche#attraversamenti
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La storia delle residenze di SP/CZD
Tra le attività più articolate sostenute da Scenario Pubblico vi sono senza dubbio le residenze artistiche. Ne parleremo brevemente qui per diffondere la conoscenza su cosa sono e come funzionano con l'obiettivo di creare un quadro chiaro, anche se non esaustivo, che possa essere l'incipit di una serie di attraversamenti che faremo nei prossimi mesi in cui conosceremo tutti i soggetti selezionati dal bando ACASA 24-25.
Introduciamo questo breve attraversamento consigliando la visione di un video che ripercorre - attraverso le immagini - la genesi di Scenario Pubblico e la sua vita di ogni giorno 👇
Non per niente siamo partiti dalla storia
Da spazio privato voluto per diventare casa della Compagnia Zappalà Danza, Scenario ha iniziato subito ad ospitare una stagione di danza. Conseguenza "naturale" del circuitare di artiste e artisti sono state le diverse richieste di ospitalità per avere spazi e poter creare. Così in concomitanza con la stagione è iniziato un programma di residenze artistiche regolamentato poi nel 2015 0anno in cui Scenario diventa Centro di Produzione della Danza riconosciuto dal MiC.
Nel tempo il progetto di residenze si è andato strutturando meglio. Quello che esiste oggi è un bando biennale - chiamato ACASA - (giunto alla sua seconda edizione) destinato ad artiste e artisti over 30. In un biennio l'impegno è quello di garantire continuità ai progetti anziché rimanere esperienze isolate.
Nel corso del biennio la residenza si articola in due fasi: una prima creativa che si conclude con uno sharing del lavoro e un dialogo con il pubblico e una seconda parte tecnica finalizzata alla messa in scena del lavoro creato.
A coronamento dei due anni i lavori vengono presentati durante il FIC Fest, occasione di ritrovo, condivisione, confronto. Questa possibilità è utile sia per i programmatori che possono quindi vedere più artisti nell’arco della durata del festival, che per gli stessi artisti.
Con questo tipo di articolazione il Centro e il pubblico hanno la possibilità di seguire gli artisti e le artiste nel loro percorso, vedere le evoluzioni, assistere al processo completo: dalla creazione alla messa in scena. Momenti importanti e sentiti in tal senso sono le open door, ovvero le prove aperte che si svolgono alla fine del primo ciclo di residenza. Insieme alla "restituzione" del lavoro fatto l'incontro con l'artista viene accompagnato da uno sharing dialogante con il pubblico che viene incoraggiato ad esprimere il proprio feedback, le proprie sensazioni.
Questo contributo è stato elaborato in collaborazione con Laura Gullotta, responsabile della programmazione di Scenario Pubblico che proprio in questi giorni rappresenta il centro nella Tavola Rotonda IntegrARTI intitolata Il ruolo delle Residenze Artistiche nella rigenerazione Urbana: spazi, modelli, comunità che si svolge dal 18 al 20 marzo a Messina.
A presto con il prossimo attraversamento che entrerà nella prima Residenza Artistica del 2024!
#scenariopubblico#catania#residenze#residenza artistica#danzacontemporanea#ACASA#Ministero della cultura
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Normalità Crocifissa
Chi era davvero Kristo? Potremmo definire quell’uomo strano? Cosa abbiamo appena visto? Quell’uomo era un pazzo o un visionario? Se lo spettacolo fosse presentato in altre parti del mondo le reazioni sarebbero le stesse? Cos’è la normalità?
Dopo aver visto lo spettacolo Kristo queste domande hanno pervaso la mia mente, creando uno stato di “ansia esistenziale”. Ciò che è stato messo in scena, avrà sicuramente scaturito in ognuno dei presenti dubbi e pensieri che urgentemente hanno stimolato in ognuno una “dissociazione temporanea” dal mondo circostante. Travolti dalle emozioni di quel preciso momento, quindi, la sensazione è stata quella di sperare un’epifania.
foto di Serena Nicoletti
Come disse Amadou Hampâté Bâ, scrittore, filosofo e antropologo maliano, «le persone di una persona sono numerose in ogni persona». Il termine persona indica in latino la maschera teatrale. Dall’etrusco phersu, che a sua volta deriva dal greco pròsopon, la parola indica fronte, volto, faccia e, per traslazione, maschera e personaggio. Interessante è notare come, per giungere al significato di persona come individuo si passi dal teatro e dall’idea di “rappresentare”, attraverso una maschera, un personaggio. Nel teatro la maschera, com’è noto, consentiva al pubblico di identificare, anche a distanza, le caratteristiche prototipiche del personaggio. Allo stesso modo, si può dire che avere un’idea rispetto alla personalità di un individuo fornisce dei punti di riferimento che aiutano a prevederne le intenzioni, gli atteggiamenti e i comportamenti.
Diversi autori hanno indagato l’individuo nelle sue interazioni con la società, come ad esempio Pirandello in Uno, nessuno e centomila o Goffman in Una vita come rappresentazione teatrale. Entrambi lo hanno fatto sicuri del fatto che la persona, all’interno di una vita sociale, utilizzasse più maschere per esprimersi, non rivelandosi mai completamente. Proprio in questo modo, l’uomo che chiamiamo “Kristo”, in virtù dei suoi atteggiamenti emulativi nei confronti della figura religiosa, si espone nella sua moltitudine di personalità ad un pubblico inerme, assuefatto dal momento presente, capace solo di osservare passivamente ciò che viene presentato, posticipando al finale “purificatorio” ogni giudizio.
foto di Serena Nicoletti
Andrea Camilleri, celebre scrittore siciliano, diceva: «non bisogna mai avere paura dell’altro perché tu, rispetto all’altro, sei l’altro». Spesso, di fronte alla stranezza si rimane immobilizzati in uno stato di paura mista ad incertezza, credo, perché non si riconosce a primo impatto ciò che si ha davanti, o forse, semplicemente perché diverso da come ci si sarebbe potuto aspettare.
La stranezza però, se accolta, potrebbe portare a scoprire nuovi punti di vista, aprire nuove prospettive capaci di dimostrare che un’unica visione del mondo sarebbe riduttiva e insufficiente. Rinchiudersi in una cultura circoscritta ad un luogo di nascita, porta spesso all’essere bigotti o restii ad accettare il cambiamento nonché un semplice pensiero diverso dal nostro.
Ogni essere umano è diverso. Sono convinto che l’affermazione “siamo tutti uguali” sia erronea perché manchi di punti di vista alternativi. Ogni essere umano differisce dall’altro ed è proprio questo aspetto che rende il mondo vario e capace di progredire. Se fossimo tutti uguali, non ci sarebbe in nessuno di noi “particolarità”, una dote che ci rende unici all’interno di questo piccolo-grande mondo. Molto spesso, però, sono proprio le particolarità di ognuno di noi a farci sembrare “pazzi” o “strani” agli occhi giudicanti degli altri. Bisognerebbe però chiedersi cosa sia davvero la follia. Cosa ci rende normali?
foto di Serena Nicoletti
La normalità è un comportamento assunto da una maggioranza di persone. Si diventa “strani”, “pazzi” o “anormali” solo se inseriti in un contesto di riferimento. Molti atteggiamenti che in un contesto sono dati come normali agli occhi esterni diventano folli.
Paul Watzlawick (1921 – 2007) è stato uno psicologo e filosofo austriaco naturalizzato statunitense, eminente esponente della Scuola di Palo Alto, nonché seguace del costruttivismo, derivante dal pensiero relativista del costruttivismo filosofico. Egli, insieme al gruppo di studiosi della scuola di Palo Alto si interessò al concetto di “follia”, teorizzando, con un rimando al sociologo Durkheim, la contraddizione insita ai concetti di normalità e anormalità. C’è una diffusissima opinione sul fatto che "normale" sia sinonimo pressoché imprescindibile di "positivo". Qualcosa di normale è ampiamente accettato. La normalità va a braccetto con la quotidianità e l’inattaccabile certezza che qualsiasi cosa sia, l’aggettivo normale le conferisce un’aura di familiarità e, di conseguenza, di tranquillità, pace ed equilibrio. D’altro canto, è altrettanto largamente accetto che il suo polo opposto, conosciuto nell’opinione pubblica come "anormalità", venga visto e sentito con un’accezione negativa. Mentre così non dovrebbe essere.
Nel 1967 Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson, pubblicavano Pragmatics of Human Communication. A Study of Interactional Patterns, Pathologies, and Paradoxes, che riporta gli studi condotti al Mental Research Institute sugli effetti pragmatici che la comunicazione umana ha sui modelli interazionali e sulle patologie, con anche una disamina del ruolo dei paradossi comunicativi. La tesi centrale di questo libro riguarda il comportamento patologico (nevrosi, psicosi, e in genere le psicopatologie) che, affermano, non esiste nell'individuo isolato ma è soltanto un tipo di interazione patologica tra individui. Gli autori indagano la relatività delle nozioni di "normalità" e "anormalità" mostrando che ogni comportamento acquisisce un senso specifico all'interno del contesto in cui si attua. “Sanità" e "insanità" perdono così il loro significato, poiché ciò che è sano in un contesto può non esserlo in un altro, e l'osservatore può giudicare un dato comportamento come "normale" o "anormale" a seconda della sua ottica preconcetta. Gli autori, quindi, sostengono: «Ne consegue che la "schizofrenia" considerata come una malattia incurabile e progressiva della mente di un individuo e la "schizofrenia" considerata come l'unica reazione possibile a un contesto di comunicazione assurdo e insostenibile (una reazione che segue, e perciò perpetua, le regole di tale contesto) sono due cose del tutto diverse».
foto di Serena Nicoletti
Nella parte finale della performance, Kristo completamente denudato non solo dai vestiti ma anche da ogni certezza sul mondo che lo circonda, si esibiva in una doccia “purificatoria”. Le gocce che scivolavano sul corpo del performer (Massimo Trombetta) sapevano molto di pensieri perduti, di normalità perduta e pensiero critico acquisito. Forse è davvero di una doccia “purificatoria” ciò di cui l’umanità avrebbe bisogno, perché spesso incapace di guardare al di là della serratura dei propri confini, convinta che i pensieri che la pervadano siano giusti solo perché condivisi da una moltitudine. Forse questo Kristo, questo povero uomo kafkiano, non è un impostore di cui bisogna aver paura ma al contrario un “messia” venuto a salvare ciò che rimane del mondo. Forse è venuto a risvegliare un popolo di esseri non pensanti che si omologa ad una società alienata che scorre troppo veloce, incapace di fermarsi e riflettere sul proprio comportamento, incapace di capire che ciò che compie non ha nulla di “normale”. Bisognerebbe che qualcuno più spesso ci ricordi che abbiamo solo un tempo limitato in questo mondo e sprecarlo, a emulare comportamenti seriali di una società allo sbando, non è uno scopo di vita degno di essere perseguito.
Scritto da Donato Gabriele Cassone
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Estetica e coreografia dark di Marco Goecke
Quando mio padre diceva ai suoi colleghi di lavoro che suo figlio stava studiando per diventare coreografo, loro dicevano: "Ah, come Pina!".
Marco Goecke è nato a Wuppertal (la città di Pina Bausch) nel 1972. Dopo aver completato la sua formazione in danza classica a Monaco si è diplomato nel 1995 al Conservatorio Reale dell'Aia. Da subito poi, ha iniziato a lavorare come danzatore all'Opera di Stato di Berlino e al Theater Hagen dove, nel 2000, ha creato la sua prima coreografia intitolata Loch.
A partire da quel momento Goecke ha creato diversi lavori per la Noverre-Society con ballerini del Balletto di Stoccarda e per il New York Choreographic Institute che lo ha invitato. La sua cifra stilistica è stata apprezzata da subito, infatti, ha ricevuto sin dagli esordi diverse commissioni che lo hanno portato a lavorare con numerose compagnie come Les Ballets de Monte Carlo, il Norwegian National Ballet, il Pacific Northwest Ballet di Seattle e il Berlin State Ballet. Nella stagione 2005/2006 Marco Goecke è stato nominato coreografo in residenza presso il Balletto di Stoccarda e la stagione successiva presso lo Scapino Ballet di Rotterdam. Dall'anno 2013/2014 è coreografo associato presso il rinomato Nederlands Dans Theater e dal 2019 al 2023 è stato Direttore dello Staatsballett Hannover dove oggi è coreografo associato oltre all'essere Artist in Residence della Gauthier Dance.
Nel 2015 è stato nominato coreografo dell’anno dalla rivista TANZ ed è dell'anno successivo lo spettacolo che lo ha reso conosciutissimo in Italia: Nijinski (ricevendo, peraltro, sempre nel 2016 il premio Danza&Danza come miglior coreografo). Creato per la Gauthier Dance il suo Nijinski, dopo essere stato portato in scena, nel 2021 entra nel repertorio del Balletto del Teatro Massimo di Palermo.
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Sempre nel 2016, esce per la Königshausen & Neumann di Würzburg, la monografia di Nadja Kadel, Dark Matter. Achtzehn ausgewählte Choreographien von Marco Goecke 2003-2015.
A Spoleto 66 lo scorso luglio, Goecke ha partecipato con l'omonimo trittico di coreografie particolarmente rappresentative della sua estetica.
«Il motore del mio lavoro è l’angoscia, può diventare una fonte di speranza. Quello che cerco di fare con i movimenti veloci del mio vocabolario è rendere visibile e palpabile l’ansia per trasformarla in bellezza. Fuggire dal corpo, scappare dai propri limiti».
Più volte la sua danza è stata definita dark, cupa. Proprio per l'urgenza di Goecke di attingere al sentire interiore e profondo le sue coreografie sono poesie visive mai didascaliche ma fortemente legate ad una precisa estetica. Esito sono coreografie forti come radici e - allo stesso tempo - delicate come petali. Il suo lavoro è, anche per questo, sempre basato sulla relazione con i danzatori e le danzatrici, con cui si approccia in modo non gerarchico. Insieme all'ensemble viene a crearsi, prova dopo prova, un forte legame scaturito dalla condivisione della ricerca. Quest'ultima, come già accennato, è sempre affacciata sul vissuto emotivo che viene poi tradotto nel linguaggio di Goecke. Il meccanismo che si instaura è, come ha affermato in un'intervista curata da Maggie Foyer per Danza&Danza (1) - «come un segreto».
«Non c’è bisogno di comprendere la danza da cima a fondo, non si può capire tutto, sarebbe noioso. Meglio lasciare scivolare ciò che si vede a un livello più profondo».
Il repertorio di Marco Goecke approderà a Scenario Pubblico con il danzatore dello Staatsballett Hannover Rosario Guerra, dall'8 al 12 maggio 2024 nell'ambito del Catania Contemporanea/Fic Fest.
(1) Maggie Foyer, Marco Goecke, in «Danza & Danza» magazine bimestrale n.303 marzo-aprile 2022 anno XXXVII prima pubblicazione 25 febbraio 2022.
a cura di: Sofia Bordieri
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