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Intervista a Joy Alpuerto Ritter
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Ex danzatrice della Compagnia di Akram Khan oggi Joy è assistente alle coreografie e ripetiteur nonché coreografa freelance. Nata a Los Angeles e cresciuta a Friburgo in Germania, oggi vive a Berlino. Alcuni giorni fa si è collegata da Londra per incontrarci su Skype. Di mattina, prima di iniziare la giornata di prove, ci ha raccontato della sua storia ripercorrendo il lavoro con Khan arrivando poi alla sua attività di oggi.
Photo by Jean-Louis Fernandez
Ricordi il primo incontro con Akram Khan? Che percezioni hai avuto e come sono cambiate nel tempo?
Penso che il mio primo incontro con Khan non sia stato granché speciale perché, impegnata con una produzione del Cirque du Soleil, non ho potuto partecipare all’audizione ufficiale. La compagnia è stata molto generosa però a offrirmi l’opportunità di fare un’audizione privata con il direttore delle prove Jose Agudo che ha poi mostrato il video a Khan. Quindi, attraverso il video, Khan mi ha scelta e invitata per un suo nuovo progetto nel 2013. È stato strano perché io non lo avevo mai incontrato e la prima volta è successo in Francia per una cena con tutta la compagnia. Lì abbiamo parlato per la prima volta, ricordo in particolare dello spettacolo su Michael Jackson che avevo appena fatto con il Cinque du Soleil.
Nel primissimo periodo ricordo di essermi sentita molto nervosa, ero l’unica nuova nella compagnia quindi Khan conosceva già tutti e mi sentivo sotto esame. Ho imparato tantissimo: il lavoro era molto giocoso con tantissime improvvisazioni, ma anche con tanto materiale coreografico. Khan usava due strade per conoscere al meglio i nostri punti forti ma soprattutto la nostra personalità, un aspetto importante per quel lavoro caratterizzato da diversi personaggi.
Ricordi il nome del progetto?
Era iTMOi (nella mente di Igor). Ciò che mi ha messo alla prova è stata la fisicità del lavoro, le rotazioni, i miei piedi bruciavano al pavimento. Khan chiedeva tantissima energia ed era anche molto sfidante in termini di ritmo. Io non desideravo altro, ero in quella fase in cui stavo imparando e volevo farlo il più possibile. Khan è una persona davvero rispettosa e sa come essere esigente con i suoi danzatori spingendoli sempre al di fuori della loro comfort zone.
Durante i suoi processi creativi collabora con i danzatori?
Dipende dal progetto, per esempio ricordo che abbiamo collaborato per Kaasha e iTMOi e abbiamo anche danzato insieme con lui in Until the lions. Danzare con lui è stupendo. C’era tantissima potenza che riuscivo a cogliere e dare ai suoi pezzi; lui non si aspetta altro che il massimo. Bisogna essere sempre focalizzati sul lavoro senza mai marcare.
Qual è il training quotidiano della compagnia?
Dipende anche qui dal progetto. Solitamente il direttore delle prove si occupava della lezione di riscaldamento e rafforzamento con una lezione di danza contemporanea. Poi danzavamo anche il Kathak – che è la base del lavoro di Khan insieme a un mix di danza tradizionale indiana, danza contemporanea e altri stili di danze folkloriche. Di base si trattava di danza contemporanea o di un altro tipo di training fisico (come lo yoga), poi il Kathak e poi le prove. Il riscaldamento durava più o meno due o tre ore. Il suo è un lavoro davvero corposo e in quel contesto non importava mai quanto si riuscisse a fare in termini di quantità. Ciò che contava era sempre di avere una buona preparazione fisica ed essere pronti per le prove. Alla fine della giornata spesso facevamo anche degli esercizi per migliorare le nostre capacità ritmiche, con pattern ritmici che cantavamo e seguivamo con i passi, spesso molto difficili!
Cosa vuoi trasmette del lavoro della compagnia, soprattutto per coloro che non hanno mai fatto esperienza del lavoro di Khan?
Credo che si debba avere innanzitutto la volontà che ti permette di impegnarti al massimo. Invito tutti coloro che parteciperanno a fidarsi del viaggio che faremo e di permettere a loro stessi di andare a fondo della ricerca e mettendola anche in discussione.
Ciò che importa è la qualità, non conta la quantità di cose che si è in grado di fare. Non importa quanto posso fare ma come posso farlo. Questo vale pe tutto dal movimento più virtuosistico fino al semplice stare in piedi fermi. Il focus è sull’estremità e non su quale movimento mi rende un grande interprete; spingerò molto in questa direzione, perché essere un bravissimo danzatore non significa essere un grande performer e viceversa. Tutto sta nel come si trasmette al pubblico, di certo bisogna avere la tecnica ma non solo. La combinazione dei diversi aspetti è la soluzione! Per questo è importante capire il miglior approccio mentale per danzare, che include sacrificio e impegno. Bisogna anche credere e fidarsi nel percorso che si fa e permettere di andare sempre più a fondo.
Ora che sei anche coreografa, quali esperienze del passato pensi ti abbiano segnato di più?
Il mio background da danzatrice è stato sempre versatile: ho iniziato con la danza classica, poi con la danza folklorica filippina, mia madre mi ha insegnato la danza tradizionale asiatica poi ho studiato danza contemporanea, jazz e hip hop.
Sono sempre stata curiosa, volevo ispirarmi a più stili e ambiti di danza: quello professionale rimanendo legata anche al senso di comunità che ha la danza popolare.
Ciò che porto con me è un mix di stili e penso anche al Kathak di Akram. Da coreografa sto provando a connettere tutto ciò che ho provato nel mio corpo per raggiungere una libertà di espressione personale. Questa modalità mi proviene da Khan che dice sempre: «Trova il tuo modo». Mi ci è voluto un po’ per capirlo.
Un’ultima cosa importante è il lavoro di Khan con diversi personaggi, in Untile the Lions e iTMOi ad esempio. Lui usa storie ma invita ogni volta ogni danzatore a creare la propria.
Photo by Jean-Louis Fernandez
Do you remember your first meeting with Akram Khan? What kind of sensations did you live and how these emotions changed during the time?
I think my encounter was first time quiet not special, because I auditioned a second time. I came from Cirque du Soleil, I couldn’t enjoy the official audition, so the company was generous to make a private audition with the rehearsal director Jose Agudo. I was auditioned with him, and he showed the video of my dance to Akram. Then, through the video, Akram invited me to the first research of a project in 2013. It’s weird because I had never met him in my life, the first time we were in France with all the dancers in a restaurant. We had a private conversation, especially about Michael Jackson Circle du Soleil show. At the beginning with the company, I was nervous because he knew the other dancers already and I was new, it looked like a test. At the beginning dancing was very playful with lots of improvisation, but he also gives a lot of choreographic material, so as both to know our special skills and getting to know our personality especially for that project where there were a different kind of characters. I learned so much!
Do you remember the name of the project?
Yes, iTMOi (In the mind of Igor). What I really was memorized and challenge by was also really grounding physicality and spins; my feet were burning on the floor. This was a special technique that really push you and challenge you also in terms of rhythm. I really wanted that challenge because I was in the phase of learning as much as possible as dancer. He is very respectful, but he really knows how to push people out of their comfort zone.
During his creative process does he collaborate with dancers?
It depends on the project. For example, in the beginning yes for Kaash, iTMOi and we also danced together in Until the lions. Dancing with him was amazing. There was a lot of power that I was able to discover in his pieces, he expects you to really go for it. No marking, you go for it very focused. I really like the balance between be respectful and very challenge.
What is the physical training did you do with him daily?
It depends on the project. At the beginning we had the rehearsal director giving us a warmup, strengthening out the body, in contemporary dance. Than we also dance kathak – which is the base of his work mixed with Indian classical dance, contemporary dance and also other folk dances style. Basically, the training was contemporary dance or different training (as yoga), kathak than we went to rehearsals. It’s around two or three hours. It is a very consistency training, it does not matter how much you tour, the quantity; It is important to have a good base of physical fitness. At the end of the rehearsal, we used to improve our learning and rhythm with different and challenging patterns.
For those who don’t know your work, what is the physical focus that you want to transmit to the dancers?
I think there is some feeling allow to commit. I invite them to trust in the journey and allow yourself to go deep search also questioning. It is important the quality, not even the tricks or to impress but the quality. It is not important the quantity, not what I can do but how I do it. From very virtuous physical movement versus just standing still. The focus is extremities not which movement makes me a great performer. Of course I will push in this direction, because great dancer does not mean great performer and vice versa. It is about how to transmit to the audience and space and of course we have the technique so that combination is the answer. It is important to understand the best mental approach to dance, which involves sacrifice and commitment, you also need to have trust in the journey, and allow yourself to go deep. It’s important the quality, how I do something, either a physical movement or just standing still.
Now as a choreographer what aspects of his work and your past experiences made a sign in your today’s work?
My dancing background has been versatile: I started with ballet, Philippine folk dance, my mum taught me Asian folk dance, then contemporary dance, jazz, and hip hop, I also did hip hop battles! I was always curious, I wanted to be inspired by different styles and fields. Professional of course but also remaining close to the sense of community of the popular dance. As a choreographer I’m trying to connect different styles that I have tried in my body, and I try to achieve the freedom to express through these different styles. It is from Akram: “Find your way”. You get inspired by different techniques and styles and then make it your own, it took me a while to that. Lastly, another thing is that I like working with characters. I worked with Akram on Until the Lions and iTMOi. He uses stories but he invites every time to make it to your own.
Photo by David Scheinmann
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Aspettando il FIC dance workshop in dialogo con Maud de la Purification
Danzatrice e assistente alle coreografie della Compagnia Zappalà Danza, nel 2011 ha incontrato Roberto Zappalà e da allora vive a Catania. Quest’anno ha ricevuto il Premio Danza&Danza come migliore danzatrice del 2024 per la sua interpretazione solistica nello spettacolo Oratorio per Eva. Parliamo di Maud de la Purification storica componente dell’ensemble catanese che incrociamo ogni giorno tra gli spazi di Scenario Pubblico ma che, in occasione del FIC dance workshop, abbiamo voluto incontrare per farci raccontare la sua storia.
Qual è il tuo percorso di formazione nella danza?
Ho studiato al conservatorio di danza classica di Tolosa e a diciotto anni dopo aver ottenuto il diploma ho frequentato per qualche mese la scuola del Ballet National de Marseille dove poi stata presa come stagista. La compagnia era diretta da Marie-Claude Pietragalla e quell’anno tra le tappe del tour di Giselle c’era anche il Teatro Bellini di Catania. Ricordo molto bene quel momento. Il primo contratto ufficiale l’ho avuto a Tolosa nella compagnia Balanchine che era per me quella del cuore. Per la direttrice – che aveva lavorato con Balanchine – ero però troppo “modern” così non mi ha rinnovato il contratto dopo il primo anno. Mi sono trovata con una ferita enorme. Una signora dell’amministrazione, però, mi aveva parlato di Kylian consigliandomi di provare per la compagnia junior. Così mi sono impuntata e ho creato un solo, sapendo che, ufficialmente, non avevo più l’età per rientrare nella compagnia giovane che sarebbe venuta a Toulouse in tour. Nel frattempo, avevo ottenuto un contratto – la mia ultima esperienza con la danza accademica – quindi la sera conclusa la giornata mi mettevo a lavorare per il solo che, incredibile, si chiamava Eve (cioè Eva). Quando sono andata a vedere NDT, ho consegnato il mio CD al direttore e poi mi hanno invitata all’audizione. Proprio quell’anno hanno richiesto un solo e ho finito il mio proprio davanti a Kylian. Purtroppo, non c’era posto nel gruppo, ma una ragazza ha abbandonato in corso e così mi hanno chiamata. Dopo un anno, ho deciso di andare a New York dove durante un tour avevo fatto amicizia con dei danzatori della Cedar Lake. Lì è stato un periodo molto libero, ho lavorato con una giovane coreografa, poi sono andata a Berlino per fare una residenza e sono rimasta per lavorare in un altro progetto con un coreografo che aveva ideato una propria tecnica, molto mista, partendo da un background di hip hop. Era un momento non felice della mia vita e proprio in quel periodo ho capito tantissime cose del mio corpo.
Quando e come è iniziata poi la tua collaborazione con Roberto Zappalà?
Era il 2011 e stavo lavorando a un progetto con un ex collega dell’NDT al Korzo theater. Quello con Zappalà era un vero e proprio stage-audizione e il mio amico me lo aveva consigliato…così ho incontrato Roberto. Avevo un ginocchio infortunato e durante l’audizione ho iniziato ad avere dolore. Quando è arrivata la pausa ho preso le mie cose per andare via ma Roberto mi ha vista e mi ha chiesto “Cosa fai?”. Ho spiegato che non potevo farmi male, avevo uno spettacolo da fare, ma lui mi ha chiesto di rimanere, mi ha detto che potevo fermarmi quando volevo e così sono rimasta. Poi mi hanno chiamata e, così, sono arrivata a Catania. Ho lavorato con persone bellissime e ho deciso di rimanere. Nonostante non volessi entrare in una compagnia, ho subito accettato il contratto, era evidente che c’era qualcosa che mi aspettava qui.
In quanto danzatrice e ripetiteur, qual è, secondo te, la cosa importante da trasmettere a chi farà il workshop?
Questa è la bellezza che mi nutre ogni giorno quando insegno Modem: avere le migliori condizioni per accedere al momento presente. Non c’è spazio per altro, hai la possibilità per un’ora e un quarto senza stop di rimanere nella tua concentrazione – ed è una cosa speciale, perché di solito ci si ferma. Per me questa è la cosa più interessante e nobile da cercare nella danza. Essere qui, che poi è il migliore degli allenamenti per il palco. È una concentrazione e una presenza che si chiama onestà. Chi sono in questo momento? La cosa meravigliosa poi è portare sul palco quello status cercato a lezione. In questi stati si accede a una tale onestà, apertura e non c’è più il tabù, il pudore. Il pudore che viene a sporcare il danzare. In quella condizione il pudore viene eliminato da sé, non perché si vuole eliminarlo. Essendo presente in quel momento, senti il flusso che davvero ti attraversa e rimbalza nel corpo e se c’è una certa intensità richiesta dal task si accede a qualcosa di vero quindi il viso sarà specchio della pancia e non ci sarà più una maschera dell’essere presentabile. Sono quello che c’è. Ed è la cosa più onesta che si possa cercare. Cos’è danzare? Perché lo faccio? Si creano poi delle situazioni con il gruppo che non puoi riprodurre da solo. È anche incredibile percepire l’influenza degli altri, di quello che succede attorno a me. Se qualcuno ha un giorno down lo sentiamo tutti. In quel caso è meglio osservare, prendere appunti…si impara lo stesso. Possiamo creare una magia d’armonia se ognuno è responsabile della sua presenza. Si arriva a cose incredibili, speciali. Non c’è una mosca che vola, è super bello.
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Rosario Guerra: intervista per il FIC Dance Workshop
In attesa dell’inizio dei workshop curati da Ocram Dance Movement nell’ambito del Catania Contemporanea/FIC Fest ci siamo messi in contatto con i danzatori invitati a condurre le lezioni per poterli conoscere meglio. A rispondere in questa prima breve intervista è Rosario Guerra che sarà presente a Catania dall'8 al 12 maggio in qualità di ripetiteur del repertorio di Marco Goecke.
Ricordi com’è stato il tuo primo incontro con Marco Goecke? Quali sensazioni hai vissuto entrando sempre più in contatto con il suo lavoro?
Il mio primo incontro con Marco é stato a Stoccarda, ricordo che stavamo lavorando su un solo I found a fox, e già li mi sentii catapultato in questo nuovo modo di creazione. Lo scrutavo da lontano, ero piccolo ed ero ancora tanto timido ma super eccitato. Stavo riscoprendo un nuovo me. Marco riuscì a farmi conoscere nuove sensazioni mai sentite prima. Riusciva a leggere il mio umore e a farmelo usare nel migliore dei modi. E cosi é stato poi per il resto dei suoi lavori: ogni volta mi ritrovavo in un ambiente diverso, sempre più challenging, puro e stimolante. Ancora oggi quando entro in sala non so cosa sarà ma di sicuro si dovrà affrontare una nuova sfida, che, secondo me, it’s a must per un danzatore.
Qual è il suo training quotidiano e il suo processo di creazione insieme ai danzatori?
Come dicevo con Marco non si può avere una routine nel quotidiano, lui é un artista cosi sensibile che percepisce il nostro stato d’animo; perché l’uno non funziona senza l’altro, ci si deve connettere altrimenti non si va avanti. Bisogna adattarsi alle esigenze dell’altro per entrare nel suo processo di creazione. E quando questo inizia non si perde né tempo né animo. Marco ha un modo di fare coreografia molto unico e inimitabile. A volte é più facile viverlo che spiegarlo.
In quanto danzatore e ripetiteur, cosa vuoi trasmettere del suo modo di lavorare ai partecipanti che non hanno mai lavorato con lui? Qual è il modo per avvicinarsi alla danza di Goecke?
Cercherò di fare del mio meglio per far entrare i partecipanti nel suo stile. Cercherò di far aprire il loro cuore e di stimolarli a fidarsi del proprio istinto esprimendo ciò che realmente sono, proprio cosi come fa Marco con noi.
Infine, cosa ti ha segnato di più del suo lavoro che pensi rimarrà per sempre importante per la tua carriera da danzatore e magari autore?
Si fa fatica a lavorare con altri, solo con pochi si può avere la sensazione di libertà e onestà che Marco ti fa sentire quando ci lavori insieme. Questa sensazione farà sempre parte di me e cercherò di trasmetterla il più che posso al prossimo, sia nell’arte sia nella vita.
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