#narrativa ed etica
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pier-carlo-universe · 28 days ago
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Informazioni generali sulla narrativa di Doniyorova Zulayho
Informazioni generali sulla narrativa. Universit�� di Alfraganus, Facoltà di Medicina,. Studente del 2° anno in Farmacia Doniyorova Zulayho. La narrativa è un potente strumento di espressione artistica e sociale. Scopri il suo ruolo nella cultura, i generi letterari e il suo impatto sulla società su Alessandria today. Annotazione: Questo articolo fornisce informazioni essenziali e precise…
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multiverseofseries · 1 year ago
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Dune
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LA RECENSIONE IN BREVE
- Dune mette in scena solo la prima metà del romanzo, gettando solide basi per reggere una storia estremamente complessa.
- Villeneuve prende decisioni che possono piacere o meno, ma dimostra piena consapevolezza della materia narrativa che sta adattando.
- Il minuzioso world building non rappresenta una premessa, ma è essenza stessa di Dune.
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«Io sono un seme» è ciò che dice Paul Atreides a circa metà del romanzo scritto da Frank Herbert nel 1965. Una rivelazione indottagli della spezia geriatrica, la droga che altera la percezione spazio-temporale, e che impregna l’aria di Arrakis, o meglio conosciuto come Dune. È in quel momento che il ragazzo smette di essere, improvvisamente, solo un ragazzo. E per la prima volta, Paul, figlio del Duca Leto Atreides e Lady Jessica, educato dalla donna alle sacre vie del Bene Gesserit, esprime consapevolezza di sé, trovando alcune dolorose risposte alle sue domande, nella conclusione del primo arco narrativo del suo personaggio. Primo arco narrativo di molti, tanti quanti sono i nomi con cui verrà chiamato all’interno del libro: Muad'dib, Usul, Lisan al Gaib, Kwisatz Haderach, Madhi. Un seme, creato con un determinato scopo, certo, ma dalla crescita imprevedibile, che penetra in profondità, si diffonde, si trasforma, e modifica il territorio circostante.
Dune di Frank Herbert, è uno dei romanzi di fantascienza più influenti di sempre, il libro ha dato origine a una saga che ha cambiato profondamente l’immaginario collettivo a partire dalle sue fondamenta, è esso stesso un seme. Lo è nel suo modo di contenere tutta una serie di idee, temi, suggestioni, capaci di sbocciare in luoghi e situazioni sempre diverse, senza però perdere specificità. Perché, questa saga, dietro la sua facciata di epica eroica di tradizione classica, che sembra solo apparentemente seguire il monomito, ovvero il viaggio dell’eroe (di cui, in realtà, Dune rappresenta un’aspra critica), la storia di Paul e dei Fremen, il popolo nativo di Arrakis, è invece un romanzo che a volte sembra un trattato di filosofia, di psicologia, di etica o di religione. Altre acquista connotati politici, parlando di lotta di classe e degli effetti del colonialismo, mettendo in discussione sia le figure messianiche che i leader carismatici. Altre ancora assume la forma di un’eco-narrazione che anticipa alcune delle problematiche che oggi sembrano più urgenti che mai.
Anche la prima parte dell’adattamento di Denis Villeneuve, in cui è Timothée Chalamet ad interpretare Paul Atreides, è un seme. O perlomeno, il primo stadio di un qualcosa che sembra destinato ad acquistare forma. È, però, necessario prima piantarlo per poi poter godere dei suoi frutti, ed è quello che Villeneuve ha provato a fare con il suo Dune, che segue piuttosto fedelmente la storia di Herbert, ma risulta anche intimamente villeneuviano,(scusate l’aggettivazione). È qui che forse c’è un equivoco di molti: il ricercare compiutezza in un’opera che per sua natura rappresenta un inizio. Questa versione di Dune è un tentativo di gettare solide basi per reggere una storia ancora più complessa, non tanto nell’intreccio, quanto nella stessa costruzione del suo stesso mondo. Di fatto, si tratta della prima parte di un dittico, e come tale deve essere considerata.
In molti lo hanno ripetuto così tante volte da farlo divenire un logo comune: Dune è un libro impossibile da trasporre al cinema. Potrebbe essere vero ma solo in parte, nel senso che un adattamento presuppone sempre il dover fare alcune scelte, perché a un cambiamento del mezzo di narrazione deve seguire, necessariamente, un cambiamento della stessa materia narrativa. Sta di fatto che il romanzo di Herbert è così denso, stratificato e colto, da per poter essere raccontato in un altre forma che non sia il libro, figuriamoci quella filmica che ha durata limitata. il libro di Herbert lo si può paragonare a un prisma dalle molte facce, che riflettono la luce in modo diverso a seconda di come le si guarda. Ora immaginate di dover dipingere quel prisma. Prima di tutto è necessario scegliere come orientarlo e farlo colpire dalla luce. È quello che fa Villeneuve, insieme ai co-sceneggiatori Jon Spaihts e Eric Roth, prendendo delle decisioni che possono piacere o meno, ma dimostrando una profonda consapevolezza. Mancano dei personaggi questo è vero e alcuni snodi non sono ancora esplicitati, ma non era difficile aspettarsi qualcosa di diverso da questo. 
Il Dune di Frank Herbert è realmente uno strano oggetto letterario. Ha un approccio molto concreto al mondo che racconta, costruendo nei minimi dettagli interi ecosistemi per soffermarsi poi in maniera particolare a delineare il contesto dal punto di vista politico e socio-economico. C’è una parte del romanzo in cui il Duca Leto (nel film interpretato da Oscar Isaac) discute dei salari da offrire agli estrattori di melange, la sostanza presente solo su Arrakis e che permette i viaggi interstellari, il cui monopolio è detenuto dalla Gilda spaziale. Leto ha, infatti, ricevuto dall'Imperatore Padiscià Shaddam IV, che governa l’Universo, l’ordine di trasferirsi dal suo pianeta natale Caladan ad Arrakis, subentrando ai nemici di sempre, gli Harkonnen, per gestire la raccolta di spezia.
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Shai Hulud è il termine usato dai Fremen per indicare i vermi delle sabbia, ossia l'incarnazione fisica della loro unica divinità.
Si tratta di una scena, quella di cui sopra, rievocata nel film di Villeneuve di sfuggita, con una sola linea di dialogo, non particolarmente importante ai fini della trama, eppure per me sufficiente per comprendere il tono dell’adattamento. Una situazione che poco c’entra con una storia nota per le atmosfere lisergiche e un certo gusto per l’eccesso, elementi enfatizzati dai due prodotti culturali più noti legati al libro: il grandioso e folle progetto naufragato di Jodorowsky nel 1975, raccontato in Jodorowsky's Dune, documentario del 2013 di Frank Pavich, e l’affascinante quando confuso disastro di David Lynch con Kyle MacLachlan del 1984 - a cui, nonostante tutto, voglio benissimo, anche solo per aver ispirato l’avventura grafica omonima, quella sì un capolavoro, di Cryo Interactive del 1992.
Dune è anche questo: l’approccio è spesso pragmatico, l'atmosfera più mistica che lisergica, il tono più solenne che eccessivo. Il film di Villeneuve è così, presenta un’austera grandiosità estetica, coerente con la visione d’insieme. La fotografia di Greig Fraser è caratterizzata da toni scuri, metallici e terrosi, mentre nella scenografia ricorrono forme geometriche e massicce, soprattutto negli edifici di Arrakeen, modellati sulle ziqqurat mesopotamiche, o nei fregi dei palazzi che ricordano i bassorilievi neoassiri. Antichità e futuro si incontrano quasi per alludere a un tempo fuori dal tempo, e non si è  fuori strada si parlasse di «tempo del mito». Mentre il vasto deserto, territorio dei Fremen dei giganteschi Shai Hulud, i vermi della sabbia, fa il resto.
Anche se narrativamente sobrio, Dune colpisce per la semplicità con cui racconta gli eventi, senza banalizzare o semplificare una vicenda parecchio strutturata già di per se. Villeneuve fa delle scelte e, per esempio, tutto il contesto religioso (e in particolare il ruolo del Bene Gesserit, ordine religioso matriarcale che muove i destini dell’Impero e che sarà al centro di una serie TV attualmente in pre-produzione), viene relegato un po’ sullo sfondo, presente solo in alcune pennellate. È anche vero che il libro è fatto di parole, pensieri, annotazioni. D’altronde, ogni capitolo del libro è corredato da estratti tratti dai testi storiografici della principessa Irulan, figlia dell’imperatore. Mentre il film di Villeneuve, puntuale nell’esporre l’intreccio, costruisce il suo mondo e delinea i rapporti anche attraverso sogni, allusioni, piccoli dettagli e, soprattutto, sguardi e gesti. Un linguaggio corporeo che va a sostituire il flusso costante di pensieri dei personaggi letterari.
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Il Bene Gesserit è la sorellanza che muove i destini dell'Impero, il cui compito è quello di incrociare e conservare le linee genetiche delle casate.
Villeneuve utilizza così le lingue, anche quelle dei gesti, in modo fluido, forse anche più del romanzo, dove l'uso di nomi e termini mutuati dalla lingua araba erano comunque fondamentali nella costruzione culturale di Arrakis. Ma non è la prima volta che il regista dimostra una certa attenzione verso tematiche come il valore fondante del linguaggio nell’identificazione culturale, il suo ruolo nell’intrecciare relazioni e la possibilità di alterare la percezione del mondo. Lo aveva fatto nel suo film più peculiare: Arrival del 2016. Che anche in quel caso si trattava di un testo letterario molto difficile da trasporre. A Villeneuve, del resto, piacciono le sfide e spesso non sembra nemmeno interessato a dare al pubblico quello che vuole o si aspetta.
Riprendendo il discorso sul linguaggio, e in particolare a come nel film è stata resa la famosa Voce, ossia una tecnica Bene Gesserit che influenza il subcoscio di chi l’ascolta attraverso la modulazione del tono, presta il fianco anche a un altro aspetto dell’opera che non lascia indifferenti: suono e colonna sonora contribuiscono in maniera attiva alla definizione del mondo stesso. Il sound designer Theo Green, che aveva già lavorato con Villeneuve in Blade Runner 2049, fa qui un lavoro impressionante nel modulare intensità e volume, giocando con l’assenza di suono in brevi, ma significativi momenti. In questo, lavora in sinergia con Hans Zimmer, che compone una roboante colonna sonora, certamente ingombrante, ma di grande importanza narrativa. Il risultato è una base sonora costante, granulosa e avvolgente su cui si innesta il racconto, e che dà costantemente la sensazione di arrancare e sprofondare nelle sabbie di Arrakis.
Giocando sulla contrapposizione tra i campi lunghi degli sconfinati paesaggi, i primi piani e dei dettagli, la macchina da presa indugia spesso sui volti dei personaggi e in particolare gli occhi. Sono gli occhi blu - per effetto della spezia geriatrica - di Chani (Zendaya) che appare nei sogni di Paul; quelli del popolo di Arrakis che accoglie il giovane duca al suo arrivo sul pianeta al grido di Lisan al-Gaib, «la voce da un altro mondo»; quelli forti, consapevoli ma spaventati di Jessica, mentre cerca di far convivere gli obiettivi del Bene Gesserit con i propri, in un’interpretazione notevolissima di Rebecca Ferguson.
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I Fremen sono i misteriosi abitanti di Arrakis. Vivono in insediamenti segreti chiamati sietch.
Timothée Chalamet è un Paul abbastanza coerente con il personaggio del libro, ma forse troppo monocorde. Di certo, non ha avuto la possibilità di emergere completamente. In questa parte della storia, Paul è un ragazzo in balia di forze che hanno segnato il suo destino, alla ricerca di se stesso.
La vera sfida d’altronde, non è cercare il Dune di Frank Herbert in quello di Villeneuve, ma provare a capire cosa il regista stia cercando di dirci attraverso Dune. In questa prima parte di un progetto più articolato, si può certamente intuire il percorso intrapreso da Villeneuve, all’interno dei tanti offerti da Frank Herbert. È un seme, come detto in precedenza, e bisogna capire dove piantarlo e cosa nascerà.
È comunque difficile guardare a un film come il Dune di Denis Villeneuve senza però sentire la voce di tutta la tradizione precedente e senza farsi influenzare dal peso dell’opera originale o dalle visioni dei diversi autori. Dune è, forse esagerando, il Gilgamesh del nostro tempo, o almeno la cosa più simile a un poema mitologico declinato in forma post-moderna. Contiene, come le grandi epopee antiche, molti dei temi della cultura da cui ha preso forma. Ma allo stesso tempo, è uno dei principali modelli per tutte le storie di fantascienza che sono venute dopo. Non solo un libro inadattabile ma il libro che forse più di tutti può ambire allo status di mito, quando si parla di narrazione investita di sacralità e significatività. A livello estetico, il film è eccezionale. Si questa solennità può essere, in un certo senso, interpretata come mancanza di originalità, ma in verità credo che la forza di questo adattamento di Dune sia nelle cose molto più piccole. Proprio nei piccoli dettagli sullo sfondo, nei gesti dei personaggi che hanno tutti, sempre un significato, nonostante esso spesso non sia esplicitato. Nella cura con cui una parola, detta in un determinato modo, alluda invece a un mondo intero. In questa storia, del resto, il world building non rappresenta solamente una premessa ma ne è essenza stessa. Quello che manca in un film che forse sarebbe stato meglio chiamare Dune Parte I è, letteralmente, l’epica. Ma quella verrà dopo, perché in questa fase della storia non era prevista. In questa fase abbiamo il racconto di una crisi, dello smarrimento, di morte e rinascita. L’epica verrà dopo, si spera.
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alessandro55 · 9 months ago
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Kendell Geers
OrnAmenTum ‘EtKriMen
Edited by Danilo Eccher
M77, Milano 2021, 143 pagine, 21x28cm
euro 40,00
email if you want to buy [email protected]
Mostra Milano 21 settembre 2020 - 30 gennaio 2021
Europeo di origine, africano di nascita, Kendell Geers si definisce animista e mistico, sciamano e alchimista, punk e poeta. Impegnato nella lotta contro l’apartheid sin dall’adolescenza, Geers ha usato la sua esperienza di rivoluzionario per sviluppare un approccio psico-socio-politico in cui etica ed estetica sono viste come due facce della stessa medaglia che ruota sul grande tavolo della storia. Nelle sue mani la vasta narrativa dell’arte e i linguaggi del potere vengono messi in discussione, i codici ideologici interrotti, le aspettative deluse e i sistemi di convinzione e fede trasformati in canoni estetici.
Le contraddizioni intrinseche all’identità dell’artista sono incarnate nel suo lavoro. Le sue opere coniugano storia personale e politica, poesia e miseria, violenza e tensione erotica. Geers lavora con vari media e tecniche che vanno da oggetti di uso comune e installazioni di larga scala all’uso di neon sconfinando nella performance e nel video.
Il titolo della mostra OrnAmenTum’EtKriMen si basa sul saggio del 1908 Ornamento e Crimine dell’architetto austriaco Adolf Loos, pioniere dell’architettura moderna che condannò le decorazioni sulle facciate degli edifici come un eccesso inutile, persino pericoloso, guidando il corso dell’architettura verso il concetto di funzionalità. Per M77, Geers abbraccia l’eredità culturale di Loos interrogando i linguaggi del minimalismo e il modello della galleria “white cube”, gettando l’estetica contro un muro di mattoni e frammenti di etica infranta.
Attraverso una selezione di opere storiche, la più recente produzione e installazioni site-specific progettate per interagire con gli interni della galleria, l’artista crea un itinerario in cui la giustapposizione di materiali diversi e il forte impatto creato dal suo sapiente uso di colori e motivi danno origine a una serie di riferimenti incrociati e contrasti intesi a minare le credenze care all’osservatore, consapevolmente o inconsciamente immerso in un ambiente che è sì attraente ma che si dimostra in realtà inospitale e potenzialmente pericoloso.
11/07/24
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personal-reporter · 2 years ago
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Porte Aperte Festival 2023 a Cremona
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L’Associazione Culturale Porte Aperte, con il Centro Fumetto Andrea Pazienza, il Comune di Cremona e il gruppo dei curatori, per l’inizio dell’estate propone l’ottava edizione del  Porte Aperte Festival che si terrà a Cremona dall’8 all’11 giugno 2023.  Collocato nel contesto della Cremona città d’arte e della musica, il Paf è un festival ,ideato da un’associazione di agitatori culturali cremonesi, con lo scopo di valorizzare le energie della città e del territorio, per offrire un’occasione di incontro e confronto con varie  esperienze provenienti dall’intero territorio nazionale. Sono previsti oltre 60 appuntamenti nell’arco di quattro giorni, dislocati in quattro  location principali della città, strategiche per la loro ubicazione nel centro storico e per la prossimità al tessuto sociale, culturale ed economico locale. I cortili di  Palazzo Affaitati, Palazzo Guazzoni Zaccaria e Palazzo Comunale faranno da cornice agli incontri diurni:, mentre gli appuntamenti serali ed i concerti si terranno come sempre all’interno del Bastione Medioevale di Porta Mosa, che quest’anno li ospiterà nelle serate di giovedì, venerdì e sabato. All’ora di pranzo, sempre a Palazzo Guazzoni Zaccaria,  verranno  proposti appuntamenti letterari e musicali, intervallati da offerte eno-gastronomiche a tema, curate da realtà locali. Una delle novità di questa edizione, dopo il felice esito dello scorso anno, è rappresentata dagli appuntamenti del giovedì pomeriggio, ospitati nel chiostro di Palazzo Guazzoni Zaccaria e inseriti in un piccolo e innovativo festival nel festival, che ha il nome di Alter: le stanze della traduzione. Si tratta di una serie di incontri con traduttori e traduttrici da lingue diverse, che esploreranno  gli universi della narrativa, della saggistica e del Graphic Novel, portando nelle stanze dove operano quotidianamente, per rendere accessibili e coinvolgenti a tutti gli appassionati di lettura i contenuti delle opere scritte in lingua originale come Clelia Bettini, Maurizio Bettini, Franca Cavagnoli, Donata Feroldi, Tommaso Pincio, Alessio Torino e Andrea Toscani. Inoltre ci saranno  tre mostre intorno ai linguaggi del fumetto, della fotografia e dell’arte contemporanea, alcune delle quali dedicate a tematiche ambientali e civili, allestite in collaborazione con importanti rassegne culturali come il Festival della Fotografia Etica di Lodi, come  una personale di opere originali realizzate da un ospite della RSD di Sospiro nell’ambito del laboratorio creativo Manica Lunga. Il tema che quest’anno accompagnerà questi quattro giorni ricchi di incontri è dis-armonie, che possono costituire elementi di particolare originalità e arricchimento del brano, così anche nella vita, dove la bellezza non deve essere necessariamente ricercata solo nella regolarità e nell’ordine costituito. La nuova immagine dell’8^ edizione, affidata all’illustratrice e fumettista Gabriella Giandelli,  mostra quindi una prospettiva inedita della piazza di Cremona, dove un trittico di personaggi domina i tetti della cattedrale, promuovendo arte, cultura e dis-armonie in tutta la città. Read the full article
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dudewayspecialfarewell · 4 years ago
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Ciao! Avete mai pensato di utilizzare i bug del cervello per vendere eticamente? In questo articolo proverò a fare una lista di baias cognitivi e come possono essere utilizzati per la vendita.
Ovviamente parliamo di una vendita etica, non per fregare la gente.
**Inoltre potrete capire che trucchi possono essere utilizzati su di voi. **
Achoring Baias => è un pregiudizio cognitivo in cui un individuo dipende troppo da un'informazione iniziale offerta per formulare giudizi successivi durante il processo decisionale.
Esempio: vendere significa truffare la gente.
Voi continuate ad insistere dicendo “ Non è vero, non è vero”
Il vostro interlocutore continua a pensarlo
Come risolverlo. Ci sono modi diversi. Le opzioni sono due
Emotivo => comunicazione del brand emotiva e priori
Lógico => un discorso che deve terminare con “ Come vede le sue tesi sono infondate signor Mancini” . Ricordarsi che la logica quasi mai vende.
Una frase che ho notato funzioni molto è sottolineare le condizioni che obbligano la persona all’ acquisto e dire una frase del tipo:
“Anche se io ti ho convinto a comprare lo yogurt tu lo yogurt lo avresti comprato lo stesso perché dovevi fare la cacca”
Il che è una palese presa in giro, perché l’olio di ricino, la crusca, le prugne avrebbero dato lo stesso effetto. Ma non menzionarle e dire di non avere scelta a volte fa sentire senza scelta davvero.
Availability Euristic => L'Euristica della disponibilità è una scorciatoia mentale che si basa su esempi immediati che arrivano alla mente di una determinata persona quando valuta un argomento, un concetto, un metodo o una decisione specifici.
“ Gli squali non sono abituati alla carne umana, quindi non la cacciano. Noi siamo per gli squali come il Sushi per tua nonna. Potrebbe mangiarlo ma non è abituata e quindi non lo fa”.
Questo argomento è sostenuto d una scorciatoia mentale => le nonne amano i piatti tradizionali e non il Suhi ( fatto tutto da dimostrare)
Se andate da persone che :
Da anni hanno bisogno di servizi di informatica
Di marketing
Di Vendita
Che già usano quei servizi, è estremamente facile che compreranno i vostri se li sapete vendere meglio. E dentro questo gruppo ci sono tutte le informazioni per essere e vendersi al meglio.
Bandwagon Effect : Lavoro per ( aggiungiere nome di grande brand ) . Se una cosa è stata scelta di molti la vostra proposta verrà maggiormente sottolineata. Se avete fatto centinaia di clienti mettetelo nel sito. Evitate di dire che avete lavorato con grandi brand. Viviamo nell’era della terziarizzazione dove io ho fatto la voce di Google Maps 4 anni fa ( se il vostro google bestemmia in marchigiano sapete chi è stato), ma non vado a dire in giro che ho lavorato per google. A meno che non abbiate lavorato in reparto o influito in modo significativo, non è rilevante dirlo
l bias blind spot è il bias cognitivo di riconoscere l'impatto dei bias sul giudizio degli altri, mentre non si riesce a vedere l'impatto dei bias sul proprio giudizio
Io che parlo
“La gente è proprio scema a comprare servizi da 300 euro al mese di SMM sperando di beccare un cliente”. Ma io sono la stessa persona che scrive come un pazzo due ore al giorno per il mio blog su Tumblr sperando che la mia content strategy mi aiuti ad procurarmi lead. Con scarsi risultati. Ma io sono un fighissimo scrittore di nicchia, loro no. O almeno questo è quello che penso nella mia testa.
Per vendere, basta fare leva sul confirmation Bias, e non dire la verità ( che 1 post su 10 becca 10 like e gli altri 2 di cui uno da una vecchietta che mis talkera)
Choice supportive baias => La distorsione a supporto della scelta o la razionalizzazione post-acquisto è la tendenza ad attribuire retroattivamente attributi positivi a un'opzione che è stata selezionata e / o a ridurre le opzioni dimenticate
Quello che pensa il cliente dopo che ha acquistato per 450 euro un servizio di SMM a 5 post a settimana con immagini, due video da 4 minuti al mese, gestione delle ads, copy, pixel installato, e sis ente soddisfatto del suo acquisto. A due mesi di distanza e zero risultati l’ effetto del baias svanisce.
Note: se fai parte di quel gruppo di persone che con 450 euro e un sacco di content riesce a ottenere risultati, ti faccio i miei complimenti: ora inizia a venderti almeno per 800
Clustering illusions => tre amiche sono state tradite dal ragazzo, quindi tutti i ragazzi tradiscono. Il fatto che un evento ripetuto vicino a noi possa darci l’illusione di essere una statistica. E così non è. In particolare questo genera obiezioni sull’efficacia del marketing, del servizio vendite, e di qualunque servizio al mondo. Semplicemente sappiate quali KPI la vostra azienda cliente deve monitorare, e leggeteli in modo da capire se potette aiutarli o meno.
Confirmation bias. Se mi faccio un’idea tendo a confermare questa . Motivo per cui si dice sempre la prima impressione è quella fondamentale.
Questo porta ad un paradosso che vi voglio presentare: il paradosso delle figure di merda: all’aumentare delle pessime figure aumenta la possibilità di migliorare la propria presentazione.
Da qui deriva l’ assunto: se sei agli inizi invia pure email con l’ indirizzo [email protected], manda email scritte male formattate peggio e senza firma ( come faccio io regolarmente e perdendo anche clienti grazie a questa pratica) , manda presentazioni scarse della tua azienda, a patto che la gente ti invii un feedback. Ecco, se non ti metti a piangere perché il cliente brutto e cattivo ha ferito i tuoi sentimenti, potresti ottenerne un discreto vantaggio.
A patto che il potenziale cliente ti risponda, tu continua a chiedere e a migliorare. Io con alcuni sono arrivati a pagarli per avere un feedback.
Conservation bias. La gente se deve scegliere se dare da mangiare alla famiglia o a voi, sceglie la famiglia. Certo a livello mondiale il concetto di conservazione è diverso. In Italia le spese di marketing le scarichi e c’ è chi con 20k in banca non investirebbe 1000 eu al mese x 3 mesi nemmeno con una pistola puntata alla testa. Di base il trucco e far diventare la narrativa del costo per acquisizione cliente un mantra in modo da normalizzarlo. Se ci fossero più post sull’argomento visti da migliaia di imprenditori, allora si potrebbe abbattere la barriera di coloro che vedono i costi di marketing come un extra.
Paradosso di Stockdale: coloro che sovrastimano gli esiti positivi di un’attività tendono a fallire più facilmente ( cfr capitolo sull’imprenditoria nel libro) questo perché ci sis sente più arrivati e più protetti, in realtà il cigno nero è dietro l’ angolo
Conservative Minset: il nostro cervello è fatto per essere conservativo e per vedere ogni cambiamento come brutto, sporco e cattivo. Più rendiamo questo cambiamento che rappresentiamo per gli altri quando vendiamo come supponente, arrogante, shady, pesante, mutatore, rivoluzionario, peggiori saranno i risultati,
Di contro, se riuscite ad essere divertenti, chiari ed esplicativi, a legarvi con la realtà delle persone, più facile sarà la vendita.
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veronica-nardi · 4 years ago
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Karamazov no Kyodai
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Ho fatto la paraculata: siccome non ho mai letto I Fratelli Karamazov di Dostojieski, ho deciso di “leggerlo” guardando questa serie, tratta appunto dall’omonimo romanzo.
Nella mia ignoranza, pensavo che I Fratelli Karamazov fosse un pippone sullo stile di Delitto e castigo (che credo di non essere mai riuscita a finire perché la letteratura russa è un’odissea), quindi sono rimasta molto stupita quando @dilebe06 mi ha fatto capire che si trattava di un giallo, e mi sono detta “lo devo vedere subito!”.
Avevo in programmazione Hana Yori Dango - seconda stagione, ma siccome sono una grandissima amante dei gialli non ho potuto aspettare nemmeno un giorno per buttarmi su questa serie.
Ora, voglio dirlo subito: questa serie è un falso giallo. E non lo dico in modo negativo.
La vicenda parte con la morte del padre di tre fratelli, e io pensavo che la storia fosse capire quale dei tre fratelli fosse il colpevole, perché di solito un giallo è così.
I Fratelli Karamazov si presenta come un giallo, ma a serie conclusa mi viene da dire che si tratta di un dramma psicologico. Parla di etica, di realismo, di emozioni umane, di fratellanza, della complessità degli esseri umani, delle conseguenze della solitudine e della mancanza di amore. È complesso e interessante, e ancora adesso sto ragionando su certe cose e cercando di capire se alcuni passaggi sul finale mi sono più o meno piaciuti.
Ma posso già dire che questo drama mi è piaciuto un sacco.
Non ha una trama che si sviluppa episodio dopo episodio, perché tutto parte con la morte del vecchio, e ogni puntata è una guida alla scoperta dei personaggi, dei loro caratteri e psicologie.
I tre fratelli sono molto diversi gli uni dagli altri, e ognuno di loro è caratterizzato meravigliosamente bene: abbiamo il primogenito Mitsuru, un uomo fallito, sognatore, tragico ed eroe romantico; poi l'avvocato Isao, freddo, distaccato e soggiogato al padre; e infine il buon Ryo, il fratello minore che è sempre stato protetto, ingenuo, fiducioso ed innocente.
Essendo il padre un emerito bastardo stronzo sadico, tutti e tre hanno ottimi motivi per volerlo morto, quindi mi ci è voluto un po' per individuare il mio sospettato (che poi si è rivelato sbagliato, ma comunque).
Il padre è davvero il peggior genitore e marito che abbia visto in un film/serie: violento, cattivo, dissoluto, egoista, privo di compassione o empatia o di qualsiasi emozione umana. Un mostro sadico e dispettoso, che si diverte a far soffrire i figli per il solo gusto di vedere le loro facce deluse e sofferenti.
Non ricordo di aver mai visto un personaggio che incarnasse il male tanto quanto lui.
Uno degli aspetti più interessanti della serie è vedere che tipo di conseguenze un padre del genere provoca nei figli: destabilizzazione, mancanza di autostima, squilibri, rabbia, dolore, frustrazione, odio.
Viene anche da chiedersi quale dovrebbe essere la punizione se uno di questi ragazzi ha davvero ucciso il padre. E siccome ha commesso un omicidio significa che adesso è una brutta persona? Significa che è diventato come il padre e che è caduto nell'oscurità? Significa che è un debole che non ha saputo resistere?
Non pongo queste domande per dare delle risposte, non pretendo di averne. Non so nemmeno dove sta la verità. Non so nemmeno se esistono delle risposte effettivamente giuste a queste domande.
È stato per me molto interessante vedere come i tre fratelli reagivano, ognuno in modo diverso, a: i comportamenti del padre, la morte di quest'ultimo, gli interrogatori della polizia, l'arresto di uno di loro, la scoperta della verità.
Nel corso della serie i fratelli compiono un percorso profondamente umano, ognuno deve lottare con i propri demoni interiori e ognuno di loro acquista sempre più consapevolezza.
È molto bello vedere la storia da tutti e tre i punti di vista. Tutti e tre hanno i loro spazi per essere caratterizzati e sviluppati e nessuno è lasciato indietro.
Per la maggior parte del tempo ho dato il mio cuore a Mitsuru, un cucciolone che tenta di fare il duro, ma a fine serie Isao mi ha completamente conquistata, lo considero il mio eroe e il vero protagonista della storia.
Solo chi guarda questa serie può capire la bellezza di questo personaggio grigio, stratificato e complesso.
È il fratello che risulta essere il più difficile da amare, e sono molto contenta di esserci riuscita, anche se solo alla fine.
Io sul finale non mi pronuncio, dico solo una cosa: ci sto ancora riflettendo.
Ma al di là del fatto che devo capire quanto mi sia piaciuta una certa svolta narrativa, adoro sempre quando le serie mi fanno riflettere così tanto, perché significa che hanno qualcosa da dire e che offrono degli spunti di riflessione interessanti.
Personalmente, adoro le serie in cui la più grande bellezza sta nei personaggi, nelle loro psicologie, evoluzioni e relazioni. La trama per me è sempre al secondo posto. Quindi I Fratelli Karamazov è stato piuttosto affascinante per me.
È davvero difficile trovare dei difetti a questa serie: la recitazione è ottima, non ci sono buchi di trama o domande che rimangono senza risposta, bella e inquietante la scenografia della casa, e una colonna sonora perfettamente azzeccata.
Penso che anche il finale abbia il suo perché, se non ci si ferma ad una lettura superficiale, ma qui mi rimetto a @dilebe06, che ha saputo dare una chiave di lettura della serie secondo me giusta e interessante.
È per me un po' difficile dare un voto sicuro e preciso a questa serie, anche perché essendo la trasposizione in chiave moderna di uno dei romanzi più famosi ed acclamati dell'Ottocento, mi piacerebbe leggere l'opera originale per capire quanto la serie è stata brava e se c'è qualcosa che ha lasciato indietro.
Ma al di là dell'opera cartacea e delle mie pippe mentali personali, rimane a mio parere un'ottima serie molto interessante ed intrigante.
Peccato non sia conosciuta di più.
Punteggio: 8.4
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pangeanews · 5 years ago
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Quando Mick Jagger e David Bowie si appropriarono di “Arancia meccanica”. Storia di un romanzo sfuggito al controllo del suo autore
Un testo con la “fedina penale” sporca. È difficile separare il romanzo di Anthony Burgess del 1962, Arancia Meccanica, con la notorietà acquisita dall’adattamento cinematografico di Stanley Kubrick del 1971. La brutale rappresentazione del delinquente Alex e della sua banda che violentano e saccheggiano la futuristica Londra sulle note di Elgar, di Purcell e della nona sinfonia di Beethoven, faceva parte della nuova violenza cinematografica emersa dopo un allentamento della censura avvenuto a fine anni ’60. Subito dopo l’uscita, l’incriminazione di un quattordicenne accusato di omicidio colposo alludeva all’influenza di Arancia Meccanica sul crimine. Il film è stato inoltre collegato a un altro omicidio adolescenziale e a uno stupro di gruppo, poiché si riteneva venissero recitate scene del film. Corroso da una forte pressione, il regista ha ritirato il film dalla circolazione nel Regno Unito, e ha osservato questo divieto con severo vigore giuridico fino alla sua morte, avvenuta nel 1999. Si poteva vedere il film solo in proiezioni illegali o, in seguito, per 27 anni, su copie video abusive. Per tutto quel tempo, Arancia Meccanica ebbe il fremito di ciò che turba, una implacabile suggestione.
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Burgess detestava il film (come Stephen King detestava ciò che Kubrick aveva fatto a Shining). Burgess pensava che Kubrick avesse completamente frainteso la premessa del libro. Ma già dai primi anni ’70, l’autore deve aver iniziato a capire che la lettura errata del libro gli avrebbe garantito, per paradosso, l’unica narrativa intramontabile in una ricca e variegata carriera editoriale. Già Mick Jagger dei Rolling Stones (una band che Burgess disprezzava quasi quanto i Beatles) aveva espresso interesse per le riprese cinematografiche del libro. Burgess ha riportato che Jagger era apparso come la “quintessenza della delinquenza”. David Bowie si appropriava di elementi del libro per i suoi spettacoli teatrali fino al 1971. Eppure questa era la cultura pop che il conservatore ed elitario Burgess intendeva castigare. Il modo in cui la lingua e l’iconografia del libro continua a saturare la cultura popolare oggigiorno, avrebbe davvero spaventato l’autore.
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Origini e primi contesti. Arancia Meccanica ha le sue origini in un orribile incidente durante la Seconda guerra mondiale, quando la moglie di Burgess, Lynne, fu aggredita e violentata da quattro disertori americani a Londra durante un’incursione aerea nel 1940. Il romanzo è ambientato in un futuro distopico – genere che ribalta la lunga tradizione dell’utopia idealizzata e che sarebbe potuto nascere solo durante le atrocità del XX secolo. L’immediato futuro è presentato in una città triste e anonima in cui le bande di giovani vagano alla ricerca di possibilità di “ultra-violenza”; pertanto l’opera tratta di una serie di ansie postbelliche.
La superficie del mondo che è rappresentata contiene echi di 1984 di George Orwell, con il suo sistema sociale per blocchi abitativi standard in rovina, uniforme, vagamente comunista con rigide politiche sociali. Al contrario della rappresentazione del controllo totalitario di Orwell, Burgess riprende il discorso sulla delinquenza giovanile e sul collasso generazionale tipico del panico morale che conquistò la stampa e i politici negli anni ’50. Mentre gli Stati Uniti erano preoccupati per i giovani cittadini che indossavano lo zoot suit e per le bande di motociclisti che creavano disordini sociali, l’Inghilterra aveva cresciuto i Teddy Boys e gli scontri perenni tra Mod e Rocker. Sociologi e psicologi hanno ampiamente discusso di cosa significassero queste rivolte: questi furono i primi sintomi dell’eruzione della cultura giovanile degli anni ’60, in cui Arancia Meccanica prosperò inaspettatamente, poiché non solo derise la conformità socialista, ma anche le indulgenze delle democrazie occidentali liberali.
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Teologia di fronte alla questione criminale. In effetti, nonostante la sua reputazione, il nucleo del libro è in realtà un dibattito religioso piuttosto serio sul destino dell’anima nella modernità del dopoguerra. A differenza degli inquietanti e ambigui pensieri cattolici obsoleti di Graham Greene, Arancia Meccanica è un’opera relativamente ortodossa e incontestabile. Questo è un didattismo che sorge spesso con i generi di utopia e distopia.
La figura centrale, il delinquente Alex, è una creatura bestiale che vediamo nella sua ostentazione immorale nella Prima parte. Alex è propriamente malvagio per Burgess, non è mai scusato come prodotto del suo ambiente. Nella Seconda parte, Alex viene imprigionato e scelto come soggetto sperimentale per un nuovo trattamento, la “cura Ludovico”, progettata attraverso tecniche di ipnosi e condizionamento per cancellare la sua capacità di commettere un crimine. Questo materiale si basa sulle teorie comportamentiste dello psicologo Burrhus Frederic Skinner, allora molto in voga. Come gli esperimenti di Ivan Pavlov sui cani nell’Unione Sovietica negli anni ’20, Alex è addestrato ad associare nausea e disgusto ai sentimenti violenti e sessuali: questo correggerà la sua devianza sociale. Eppure per Burgess, questo avviene solo per forzare l’anima. L’autore attacca la teoria del comportamento per la sua mancanza di interesse per i sentimenti dell’uomo, la vita personale, l’anima. Il comportamentismo, come suggerisce il nome, è interessato solo all’atto esterno, considerando l’interiorità come un semplice errore di proiezione psicologica. Mentre gli psichiatri di Alex vengono derisi, Burgess ha poca pazienza con i liberali che difendono i diritti umani. Alex viene liberato come cittadino modello alla fine della Seconda parte, solo per essere umiliato e tormentato dalle complete restrizioni che la moderna scienza comportamentale ha posto sulla sua anima.
In un saggio che Burgess ha scritto per The Listener nel 1972, l’autore ha messo in rilievo l’assenza di teologia nell’adattamento cinematografico fatto da Kubrick. Burgess ha sostenuto con forza che il comportamentismo era “in termini di etica giudaico-cristiana, e che Arancia Meccanica cerca di esprimere… un’eresia grossolana”. “Il desiderio di diminuire il libero arbitrio”, ha concluso lo scrittore, “è, dovrei ritenere, il peccato contro lo Spirito Santo”. Nella Terza parte la cura Ludovico viene ribaltata, ma questa non è una celebrazione dell’umanesimo liberare sul socialismo. Per Burgess quello che conta è la scelta morale e infine teologica di Alex se essere un criminale o meno. Che la prima edizione americana abbia eliminato l’ultimo capitolo, in cui Alex rinuncia alla violenza, ha danneggiato la narrazione teologica di Burgess mettendo in rilievo soltanto i timori della giovinezza non redenta. E questo è un altro esempio molto importante in cui Burgess ha perso il controllo del suo testo.
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Inventare la lingua: il Nadsat. Da quando il romanzo è stato oggetto di studio, il suo significato religioso è stato trattato a stento. In parte, ciò è dovuto al fatto che l’elemento più sorprendente di Arancia Meccanica sono le sue innovazioni linguistiche, e non i dibattiti filosofici. La lingua di strada di Alex e dei suoi ‘droog’ è scritta in un gergo inventato che deriva principalmente da influenze del cockney e della lingua tedesca, ma principalmente da quella russa (droog = amico, deng = denaro, veck = uomo, viddy = vedere e nadsat stesso, che qui significa adolescente, richiama l’uso del suffisso inglese “-teen” che sta per teenager). Burgess disse di aver sentito per caso la frase “un’arancia meccanica” in un pub dell’East End di Londra e pensò che catturasse perfettamente la collisione tra anima umana e controllo cibernetico.
L’esperimento nel linguaggio futuro non è radicale come La veglia di Finnegan di James Joyce (un libro che Burgess ha ammirato, studiato e desiderato emulare con le sue abilità di poliglotta), ma ha effetti più alienanti sul lettore rispetto alla Neolingua di Orwell in 1984, chiaramente uno dei modelli per pensare a come il linguaggio possa influenzare la trasformazione sociale e politica. Il lettore di Arancia Meccanica deve lavorare sodo per mettere insieme il significato in base al contesto. L’introduzione di un romanzo linguistico è una tattica comune di diffamazione nella fantascienza. Questo è forse il motivo per cui è stato criticato così fortemente, tanto che nella prima edizione americana è contenuto in fondo al libro un elenco di traduzioni: ha reso le cose troppo facili.
Attraverso la scelta del russo, Burgess suggerisce che il futuro, dal 1962, avrebbe potuto essere più sovietico che socialista, o che almeno i giovani si sarebbero rivolti al fascino di una completa rivoluzione sociale. In una certa misura, ha avuto ragione, dato che il dominio del partito conservatore in Gran Bretagna terminò nel 1964 e gli studenti radicali si ribellarono contro l’establishment nel 1968 in tutta l’Europa occidentale.
L’uso del Nadsat era di nuovo qualcosa che Burgess non poteva necessariamente controllare o prevedere. Nel 2016, uno dei brani dell’ultimo album di David Bowie, “Girl Loves Me”, è composto principalmente nella lingua inventata in Arancia Meccanica. Se si ascolta attentamente, viene il sospetto che si riesca a sentire in sottofondo il suono di Anthony Burgess che si rivolta a poco a poco nella tomba.
Roger Luckhurts
*L’articolo è pubblico sul sito della British Library come “An introduction to A Clockwork Orange”; la traduzione è di Caterina Rosa
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fumonegliocchiblog · 4 years ago
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Perchè la ricerca sponsorizzata dall'industria viene ignorata?
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La ricerca sponsorizzata dall'industria può contribuire alla conoscenza scientifica. I conflitti di interesse sono ovunque.
Non importa il risultato ma chi paga
Il mese scorso, una rivista scientifica ha pubblicato uno studio peer-reviewed con notizie incoraggianti per chiunque sia preoccupato per il tributo che il fumo impone alla salute pubblica.
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Lo studio dell'American Journal of Health Behavior ha identificato più di 17.000 fumatori di sigarette che hanno acquistato uno starter kit Juul, che include una sigaretta elettronica ricaricabile e quattro cartucce co liquidi aromatizzati. Un anno dopo, più della metà ha affermato di aver smesso di fumare e di essere passato alle sigarette elettroniche, che, a detta di quasi tutti, causano molti meno danni del tabacco combustibile. "È un risultato sorprendente", dice Cheryl Healton, preside della School of Public Health della New York University ed ex presidente della Truth Initiative, una no-profit contro il tabacco. "Lo studio ha dei limiti", prosegue, "ma i suoi risultati si allineano con l'esperienza nel Regno Unito, dove il fumo è diminuito bruscamente da quando le autorità sanitarie pubbliche incoraggiano i fumatori a passare alle sigarette elettroniche." C'è solo un problema: lo studio è stato condotto da Juul Labs. La ricerca, di conseguenza, è stata sommariamente respinta dagli attivisti del controllo del tabacco. Matthew Myers, presidente di Campaign for Tobacco-Free Kids, ha detto al British Medical Journal (BMJ): "Dopo decenni in cui le compagnie del tabacco hanno pagato scienziati precedentemente credibili per produrre studi progettati per raggiungere un risultato predeterminato, per favorire i loro obiettivi di marketing e ingannare il pubblico sullo stato generale delle prove, una cosa dovrebbe essere abbondantemente chiara: la ricerca finanziata dalle compagnie del tabacco non può essere trattata come una fonte credibile di scienza o prova. Nessuna rivista scientifica credibile dovrebbe permettere a un'azienda del tabacco di usarla per questo scopo." Questa reazione è comprensibile. Ma decisamente poco saggia. Proviamo a capire perchè
L'università stia alla larga dalla ricerca sponsorizzata dall'industria
Ho trovato un'ottima sintesi di questa opinione in un articolo, pubblicato qualche anno fa, da dal titolo " Perché le Università e il mondo scientifico dovrebbero stare alla larga dalle industrie del tabacco Viaggio tra gli inganni di Big Tobacco". "La ricerca scientifica delle Università non dovrebbe mai accettare finanziamenti da aziende operanti nel medesimo settore in cui essa è applicata con studi e ricerche, per evidenti conflitti d’interesse che potrebbero influenzare o condizionare l’andamento e i risultati della ricerca stessa. Ciò vale a maggior ragione per industrie i cui metodi produttivi o prodotti finiti recano danno alla salute dell’uomo, come quella del tabacco. Le Università che scendono a patti con questo mercato, accettando i vantaggi offerti da sovvenzioni e donazioni, diventano complici nel diffondere “l’epidemia del tabacco” perché il denaro dei finanziamenti deriva direttamente dalla vendita dei prodotti del tabacco! Si tratta di soldi “sporchi” che causano malattia, sofferenza e morte delle persone" Una posizione intransigente che antepone una questione etica importante, colpendo le nostre emozioni più profonde. Per decenni la ricerca sponsorizzata dall'industria del tabacco è servita per dimostrare quanto il fumo non fosse dannoso per la salute.  Mi chiedo solo se la stessa severità e intransigenza venga adottata anche in altri ambiti di ricerca: a sponsorizzare le università, in molti paesi del mondo, è spesso una multinazionale operante nei più disperati settori. Sicuri che siano tutte vergini?
Proibire la ricerca sponsorizzata dall'industria
Alcune riviste scientifiche, tra cui il BMJ, Tobacco Control (che è pubblicato dal BMJ) e PloS Medicine, rifiutano di pubblicare ogni ricerca sponsorizzata dall'industria del tabacco. Le grandi compagnie del tabacco hanno "ripetutamente e sistematicamente interferito con la ricerca scientifica legittima, e ripetutamente usato scienziati finanziati dall'industria e le loro scoperte facilitate dall'industria per ingannare i consumatori e minare la salute pubblica", ha scritto Ruth Malone, editore di Tobacco Control, nel 2012 quando i suoi editori hanno scelto di smettere di pubblicare la ricerca finanziata dall'industria del tabacco. Altri, tra cui l'American Journal of Health Behavior, che ha dedicato un intero numero alla ricerca di Juul, rimangono aperti. La politica di Nicotine & Tobacco Research, per esempio, richiede la divulgazione di potenziali conflitti di interesse ma dice che la ricerca scientifica dovrebbe essere "giudicata il più possibile sulla base dei dati piuttosto che sulla fonte dei dati". Ci sono pochi dubbi che i finanziamenti dell'industria influenzino i risultati. Nel caso delle sigarette elettroniche, un sondaggio del 2019 su Preventive Medicine ha scoperto che i documenti per i quali sono stati rivelati i conflitti legati all'industria presentavano - sorpresa! - meno probabilità di trovare danni nelle sigarette elettroniche rispetto agli studi per i quali non sono stati segnalati conflitti. Le stesse pratiche di Juul non hanno aiutato alla causa. Uno studio appena pubblicato su Tobacco Control da Nicholas DeVito e altri, ha scoperto che Juul non ha rivelato tutti i risultati dei suoi studi clinici a ClinicalTrials.gov, un archivio pubblico per i risultati dei trial che migliora la loro disponibilità e trasparenza. "Crediamo fermamente che sia nell'interesse pubblico che tutti i risultati di tutti i trial… siano pienamente e pubblicamente riportati in modo tempestivo", ha scritto DeVito. Juul è stata anche criticata per la sua mancanza di trasparenza in uno studio del 2019 su The Lancet. Il gigante del vaping è stato sottoposto a un intenso esame da quando Altria, la società madre di Philip Morris USA, ha investito 12,8 miliardi di dollari in Juul nel 2018, acquisendo il 35% delle sue azioni. Detto questo, i documenti realizzati da Juul e dai suoi consulenti e pubblicati sull'American Journal of Health Behavior sono passati attraverso la consueta revisione tra pari. Si basano su ricerche presentate da Juul alla FDA, i cui scienziati hanno accesso ai dati sottostanti, come parte dello sforzo dell'azienda per ottenere l'approvazione dei suoi prodotti. Ingannare la FDA potrebbe mettere a rischio l'azienda. Sono lontani dall'essere definitivi, ma si aggiungono a un crescente corpo di conoscenze sulle sigarette elettroniche, una tecnologia potenzialmente dirompente che milioni di fumatori utilizzano per smettere.
La domanda sorge spontanea
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Se i sempre accaniti anti-tabacco vogliono ridurre la morte, la malattia e la sofferenza causata dal fumo, non dovrebbero, per lo meno, essere aperti a nuove prove sull'impatto delle sigarette elettroniche? Clive Bates, un attivista di lunga data contro il fumo che crede che il vaping possa ridurre i danni indotti dal fumo, sostiene che il rifiuto delle forze anti-tabacco di prendere anche solo in considerazione la ricerca di JUUL è "assurdo, antiscientifico e alquanto inquietante". "Con l'aumento della popolarità di Juul, abbiamo assistito a cali insolitamente rapidi nelle vendite di sigarette e nella prevalenza del fumo sia negli adulti che negli adolescenti", ha scritto Bates in una lettera al BMJ .  “La risposta giusta è volerne sapere di più.  La risposta sbagliata è cercare di sopprimere o screditare dati e analisi informativi solo perché raccontano una storia che è in contrasto con una narrativa sui mali delle sigarette elettroniche e delle aziende che le producono" Anche Elbert Glover, redattore capo dell'American Journal of Health Behavior , ha difeso il numero speciale.  "Rifiutare un documento sulla base di chi ha finanziato il lavoro piuttosto che sulla scienza è sbagliato", ha detto a BMJ.  Gli scienziati di Juul, in una lettera , hanno espresso la speranza che la ricerca sarebbe stata giudicata "in base hai meriti della scienza, non solo sulla sua provenienza". Il numero di 219 pagine , che copre un ampia serie di problemi, si conclude con un modello demografico che prevede il fumo di sigaretta, l'uso di sigarette elettroniche e i tassi di mortalità negli Stati Uniti tra il 2000 e il 2100 in una varietà di scenari.  Non sorprende che la disponibilità di sigarette elettroniche riduca il fumo e prevenga 2,5 milioni di morti premature entro il 2100. Non prendere questo come oro colato , ma considera che anche i modelli di popolazione di scienziati senza legami con l'industria evidenziano che le sigarette elettroniche possono fornire significativi benefici per la salute, tutto sommato.  (Per ulteriori informazioni sui modelli, vedere questo studio di Kenneth Warner e David Mendez, questo di David Levy e altri e una critica dell'articolo Juul di Stanton Glantz.) Forse la cosa più sorprendente della discussione sui conflitti e sulla ricerca - sorprendente per me, almeno - è quanto ruota intorno all'industria.  Il finanziamento da parte di governi o fondazioni è considerato puro. Questo è miope se non altro perché ad esempio, il National Cancer Institute, parte del National Institutes of Health (NIH), ha come obiettivo esplicito " un mondo libero dal consumo di tabacco ".
"Tutte le parti coinvolte presentano conflitti di interesse"
I contributi pubblici sono di gran lunga la principale fonte di finanziamento per la ricerca sul tabacco.  Il NIH ha speso quasi 700 milioni di dollari per la ricerca sul tabacco nell'anno fiscale 2020, secondo Brad Rodu, ricercatore e sostenitore della riduzione del danno il cui lavoro è in parte finanziato dall'industria. "C'è questa percezione che il finanziamento NIH non è di parte e non c'è conflitto di interessi, ma, semplicemente non è vero.  La missione del NIH per una società senza tabacco influenza sicuramente tutti i ricercatori nel produrre o evidenziare i peggiori risultati o interpretazioni possibili riguardo il coinvolgimento di tutti i prodotti del tabacco. Ci sono conflitti di interesse da tutte le parti e devono essere segnalati, è così semplice" I conflitti derivano anche da fonti che ricevono "molta meno attenzione: le credenze, i preconcetti e le teorie preferite dei singoli scienziati", scrive Marcus Munafo, editore di Nicotine and Tobacco Research .  I ricercatori si sposano con le loro posizioni, in un campo sempre più polarizzato. L'approccio migliore è ascoltare con scetticismo tutte le fonti, afferma la psicologa e ricercatrice sul tabacco Lynn Kozlowski.  In un saggio del 2016 su Science and Engineering Ethics intitolato Affrontare la pandemia di conflitto di interessi ascoltando e dubitando di tutti, incluso te stesso , Kozlowski ha scritto che "Il conflitto di interessi dovrebbe generalmente essere assunto, indipendentemente dalla fonte del sostegno finanziario o dalle espresse dichiarazioni di conflitto e anche rispetto al proprio operato. Ascolta tutti, ma ascolta tutti con un solo orecchio.  Il vantaggio di dubitare anche di te stesso potrebbe anche contribuire a un cambiamento di posizione piuttosto che a scavare più a fondo per difendere ciò che hai detto prima" Questo è un buon consiglio per coloro che sono su entrambi i lati del dibattito sulla sigaretta elettronica. Read the full article
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cinquecolonnemagazine · 4 years ago
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Un'altra Mantova di Vincenzo Corrado
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Non solo storie Un'altra Mantova di Vincenzo Corrado edito da Editoriale Sometti, è un’accattivante raccolta di storie, raccontate dall’autore nel corso della sua professione di giornalista professionista. Accattivante, perché non si tratta di racconti di fantasia, ma di storie reali, che l’autore ha selezionato tra le tante che ha indagato e riportato nelle colonne della Gazzetta di Mantova, il quotidiano in cui lavora come redattore da dodici anni. Per Vincenzo Corrado, però, queste storie erano monche, dovevano essere “ripescate”, perché dietro c’era molto di più. Erano storie che raccontavano altro, mondi sommersi ma anche semplici storie che non dovevano essere dimenticate, perché umanamente rilevanti o perché di stimolo ad una riflessione ben più ampia. Mantova è un microcosmo che ingloba in scala ciò che avviene, né più né meno, in Italia. Maestri di giornalismo, clochard, operatori umanitari, club e musica live, truffatori del pallone, a Mantova c’è tutto e l’autore sentiva il bisogno di raccontarlo. Vincenzo Corrado, classe 1987, è catanese di nascita e mantovano d’adozione. Attualmente si occupa di cronaca ed è uno dei redattori che cura l’aspetto editoriale del sito internet della Gazzetta di Mantova e dei canali social a esso collegati. Nel 2010 con l’articolo Arte e speranza nei territori dilaniati dalla guerra si è aggiudicato la targa Athesis nell’ambito del Premio giornalistico nazionale Natale UCSI - Unione cattolica stampa italiana. Nello stesso anno è stato tra i vincitori del Premio letterario 800 euro... forse! organizzato dalla Cgil di Mantova. E’ coautore di 5G e il complotto maledetto. L'inchiesta che smonta tutte le fake news (Amazon, 2020). Abbiamo avuto il piacere di scambiare alcune battute con l’autore e ci siamo fatti raccontare qualcosa in più sul libro e sui suoi progetti futuri. Un'altra Mantova di Vincenzo Corrado Partiamo dall’inizio. Perché ha sentito il bisogno di raccogliere e raccontare in un libro fatti e storie di cui si è occupato nel corso del suo lavoro di giornalista? Diciamo che esistono vicende paradigmatiche, che hanno un valore universale. Sono convinto che ogni singola storia umana abbia in sé elementi utili per comprendere fenomeni articolati: per esempio raccontare le difficoltà di un gruppo di migranti può essere uno spunto per una riflessione su un tema molto complesso e di grande attualità come il razzismo. In buona sostanza sentivo la necessità di andare oltre la cronaca, il tentativo è stato quello di partire da un fatto singolo per stimolare un ragionamento più ampio. I temi su cui invito a riflettere sono decisamente diversi tra loro: dal calcio alla povertà, dal giornalismo al nostro approccio ai social network passando per la guerra e le difficoltà dei giovani. C’è un criterio che ha seguito per la selezione delle storie di “Un'altra Mantova” oppure ha scelto esclusivamente quelle che l’hanno coinvolta emotivamente? Ho scelto le storie che meglio potessero dimostrare un assunto ben preciso: a Mantova come in qualsiasi altro luogo è possibile osservare fenomeni universali, farsi un'idea di come gira il mondo. Dal punto di vista quantitativo succedono molte più cose a Londra o a New York, questo è ovvio, ma volevo rivendicare l'importanza della "provincia" intesa come pezzo di mondo vivo, popolato da persone illuminate e persone spregevoli, fatti positivi e altri disdicevoli. Vorrei che dopo aver letto "Un'altra Mantova" qualcuno pensasse: "Forse dovrei stare più attento a ciò che succede sotto casa mia, nel mio quartiere o nel paese vicino e smetterla di pensare che il meglio accada sempre da un'altra parte". Nel suo libro lei affronta temi importantissimi, tra cui la solidarietà, e racconta ne Il clochard e la dolce vita una storia bellissima a lieto fine, che è uscita dai confini di Mantova. Qual è il sentimento predominante di un giornalista quando una bella notizia ottiene un tam tam così importante? Chiaramente fa piacere quando una bella notizia diventa "virale", ne abbiamo un disperato bisogno visto il periodo buio che stiamo attraversando da oltre un anno a causa della pandemia. Però va considerata anche l'altra faccia della medaglia e cioè che più la notizia circola, più purtroppo c'è il rischio che venga "inquinata". Mi spiego: io scrivo un articolo dopo aver parlato direttamente con i protagonisti, ho assistito di persona alla vicenda, la mia è prima di tutto una cronaca fedeli ai fatti; nel momento in cui la notizia viene ripresa da altre testate può capitare che chi se ne occupa aggiunga dei particolari o ne sottolinei un aspetto in particolare (per errore o magari per rendere la news più attraente per il lettore). Mi è capitato di leggere una vicenda raccontata da me su un giornale nazionale che ne ha stravolto il senso per assecondare la propria linea editoriale: ecco, se dovessi dire cosa non è il giornalismo è proprio questo, piegare i fatti alle proprie opinioni. Mi racconta qual è, secondo lei, un aspetto brutto ed uno bello del suo lavoro? Sono una persona molto curiosa quindi l'aspetto positivo del mio lavoro è l'obbligo di essere costantemente informato, conoscere ogni giorno fatti nuovi, ampliare le mie conoscenze in vari campi. L'aspetto negativo è parente stretto del positivo: capita a volte di doversi occupare di vicende emotivamente pesanti, ad esempio fatti di cronaca nera, ma fa parte del gioco, nel mondo capitano ogni giorno tragedie che tendiamo ad ignorare, ma ciò non toglie che esistano. E qualcuno dovrà pure raccontarle.  Mi ha colpita il suo mettersi a nudo in tante storie, raccontando il suo carattere, le sue debolezze, i suoi attacchi di panico, il forte senso etico e di giustizia. Perché ha deciso di condividere con i lettori il suo privato? Per quanto riguarda le debolezze e gli attacchi di panico sono fermamente convinto che se ne parli troppo poco, sono tabù che vanno abbattuti a tutti i costi e per farlo serve il coraggio di esporsi, a tutti i livelli, in una discussione al bar come nelle pagine di un libro. Non esistono super uomini e super donne, il modello di perfezione a cui un po' tutti tendiamo è tossico e porta soltanto infelicità. Ho deciso di raccontare alcune mie esperienze sperando che sempre più persone facciano lo stesso, nessuno deve sentirsi solo nei momenti difficili, ognuno di noi ha dei limiti e deve imparare a riconoscerli per vivere meglio. Allo stesso modo temi come il senso di etica e giustizia vanno rivendicati, aggrapparsi al "così fan tutti" per giustificare comportamenti vili o scorretti è patetico e alla lunga dannoso per chiunque. Prima o poi la vita presenta sempre il conto, meglio arrivare all'appuntamento con la coscienza il più possibile pulita. Che progetti ha per il futuro? Ha pensato ad un altro libro? Ho da poco terminato il mio primo libro di narrativa, verrà pubblicato entro la fine dell'anno. Dalle storie di "Un'altra Mantova" ho deciso di fare il salto verso la finzione letteraria, seppur rimanendo ben ancorato al reale e al quotidiano. Ne è venuto fuori un libro di cui sono molto soddisfatto, schietto e diretto.  Read the full article
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liviaserpieri · 7 years ago
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1. La cosa più singolare della lettura consecutiva dei romanzi di un autore molto amato è che si crede di leggere dei libri e invece si chiacchiera con un uomo. Un uomo che spesso non c’è più. Ho amato molto Tolstoj nell’epoca della mia meglio gioventù di lettore appassionato   e un po’ rétro.  Credo di averlo letto tutto –  quello edito e in circolazione nella  metà degli anni ’70 –  eccetto “I cosacchi” e “Chadzi- Murat” e gli scritti saggistici e religiosi dell’ultimo periodo della sua vita. In cima alla mia predilezione ci sono “La morte di Ivan Il’ič ”, “La sonata a Kreutzer”  e gli immensi “Anna Karenina” e “Guerra e pace”. Ho letto la Karenina due volte e “Guerra e pace” una:   per leggerlo due volte  occorrerebbero due vite. Ho letto questo   lunghissimo romanzo  (oltre 2000 pagine nella mia edizione Garzanti Grandi Libri, trad. P. Zveteremich) in marce forzate, è il caso di dire vista la materia bellica,  in una calda estate siciliana, nel cortile di casa, con il conforto di un pacchetto di sigarette “MS” a notte, e   boccali di  una bevanda al limone ghiacciata che mi preparavo da me. Praticamente la felicità.  Devo dirlo: non avevo altri diversivi, distrazioni o divertimenti.  Mentre i miei amici si avventuravano nei primi interrail, io che ero abbastanza malestante  e lavoravo da imbianchino   per mantenermi agli studi, chiedevo alla letteratura  di espletare il suo ufficio di narcotico  per poveri, di  proiezione a poco prezzo in mondi fantastici:  il raddoppio delle sensazioni nientemeno. Quelle mediate  dalla letteratura avrebbero dovuto affiancarsi,  nelle mie intenzioni, a quelle immediate provenienti dalla vita, ma nei fatti le sostituivano. Chiedevo alla letteratura di salvarmi la vita. E ci sono riuscito. O c’è riuscita la letteratura, nel senso che ha agito con una forza tutta propria su di me. Mi sono distratto, e distraendomi dalla vita vera, proiettandomi  in quella fantastica,  prendevo le misure di quella reale. Chiedevo all’ homo fictus, al lettore qual ero, di dare una mano all’homo naturalis, di dargli la mappa della  vita – i fondamentali –   tale che al momento di vivere più che conoscerle le emozioni, le esperienze, le situazioni, io potessi ri-conoscerle. La lettura era insomma una anticipazione della vita, una gigantesca simulazione, come quella che fanno i piloti prima di saliere sui jet, un vivere preavvisato, fuori dai condizionamenti della vita vissuta. Una specie di libertà assoluta quella del lettore dunque,  se quella del vivente è una libertà vigilata.
Sia come sia, Tolstoj (insieme a Stendhal, Rousseau, Brancati, Pavese, Verga, Moravia, Flaubert, Hemingway e tanti altri) accompagnò gli anni belli e afflitti della giovinezza. Ero angosciato – dal bisogno materiale soprattutto – ma avevo questi beni spirituali in eccesso. Rischiavo:  leggevo più di quanto mi necessitasse per vivere. Una situazione di squilibrio pericolosissima, di accumulo di eccitazioni mentali , di exacerbatio cerebri, che in genere conduce gli individui senza pesi  a  librarsi nel vuoto della nevrosi, della più grande e irrimediabile infelicità, oppure andare incontro al destino tipico dell’intellettuale spiantato: trovare impiego con artifici e raggiri a  Mediaset o vagheggiare inacidito il sovvertimento violento dell’ordine esistente. Forse  vivere significa  garantire un’accettabile integrità all’io, ovvero impedirne letteralmente la   disintegrazione, porre solide basi all’arco dell’esistenza  tra progetto ed esecuzione, giovinezza e maturità, speranza e ricordo. C’era dalla mia parte tuttavia anche la nascita plebea e l’ironia popolaresca  che mi impedivano di “prendere la tangente” come avvenne a tanti  viziati borghesi della mia città. Nel dialetto del mio popolo dopotutto la parola “pensiero” coincide con il campo semantico di “preoccupazione” e suggerisce vivamente  di non averne troppi di questi “pensieri” in testa.  Mi “salvai”, se mi salvai (« Non dire che un uomo è felice se non hai visto l’ultimo dei suoi giorni», ultima battuta di “Edipo re” di Sofocle),  soprattutto grazie a Tolstoj. Cosa ho trovato in Tolstoj di tanto salutare e salvifico? Semplice: la vita.  Boom! Sì la vita etica. Non che Tolstoj mi abbia dato chissà quale formula che mondi potesse aprirmi, forse soltanto indicato una tana (la letteratura, la lettura in sé) da dove scrutare la lotta per la vita (degli altri), o forse qualche indicazione generica sui salvacondotti per superare alcune frontiere dell’essere, allo scopo di  affrontare,  anche schivandola forse, quella res severa che è la vita stessa. Che come è noto, tanto fu seria con lui da farlo deragliare  in età tardissima  poco prima della morte (a comprova che di formule facili non ce n’è proprio).  Ma solo dopo molti anni ho compreso  che Tolstoj mi aveva indicato la vita etica, ovvero la vita matrimoniale. Una cosa dopotutto  non scontata in un’epoca  (fine anni Settanta)  di attacchi all’istituzione matrimoniale,  di  “familles, je vous haie!”, di coppie aperte, di nomadismo sessuale, di “comuni “ e di Macondi.
2. Quando si  legge un’opera non abbiamo mai contezza dell’azione che essa esercita su di noi. Spesso non sappiamo neanche condurre una ricognizione ragionata della trama, figurarsi  capire il centro   profondo che l’opera ha in sé e per sé o solo per noi (non sempre i due piani infatti coincidono).  Dell’opera  perdiamo la visione nel corso del tempo, ci sfugge non solo la trama, ma anche l’impressione complessiva, restando nella nostra memoria soltanto alcuni punti luminosi, i “fosfeni “ di quell’opera, come  quando chiudiamo gli occhi e li strizziamo a palpebre chiuse. «Un nugolo di impressioni, alcuni punti chiari che emergono da un’incertezza fumosa: è tutto questo che in genere possiamo sperare di possedere di un libro» e «un libro non è una catena di fatti, è una singola immagine».  (cit. P.Lubbock – “Il mestiere della narrativa”, Sansoni 1984”). E ciò accade per i dettagli del libro e a volte del suo insieme, si tratti del viso di Natasha,   della morte di Bolkonskij, del peregrinare cogitativo di Bezukov, del saggio Kutuzov  o dell’epilogo stesso della vicenda, che tuttavia   ricordiamo benissimo:  finisce in un tranquillo tinello familiare. Relativamente alla “forma” per esempio ancora il nostro critico inglese Percy Lubbock dice che “Guerra e pace” non ne ha, come struttura forte egli intende dire, ma   è piuttosto un “flusso” inarrestabile di eventi, lungo come un grande fiume  o come un inverno russo: «Lo scorrere del tempo, l’effetto del tempo appartiene al cuore del soggetto» di questo romanzo . Probabilmente quel tipo di narrazione “fluviale” oggi non avrebbe  corso, è fuori dalla nostra stessa percezione del tempo,  la quale è accelerata e sincopata ormai come un videogioco. Alcuni critici (Italo Calvino, non ricordo più dove, forse in “Perché  leggere i classici” che  non ho sottomano) dicono che è cambiata la nostra stessa percezione del tempo: nell’Ottocento la visione della realtà era come quella osservata da un tranquillo signore sul parapetto di una nave, oggi  è  quella, accelerata e vorticosa, di chi cade nella tromba delle scale. E qui forse ha ragione  Alfred Polgar (“Piccole storie senza morale”, Adelphi 1994) quando dice: “La vita è troppo breve per la forma letteraria lunga, è troppo fuggevole perché lo scrittore possa indugiare in descrizioni e commenti, è troppo psicopatica per la psicologia, troppo romanzesca per il romanzo; la vita fermenta e si decompone troppo rapidamente per poterla conservare a lungo in libri ampi e lunghi”. Nel vortice della nostra vita sociale suggerire la lettura di “Guerra e pace”  a soggetti debilitati dagli scossoni di un assetto sociale  che ruba vita alla vita  potrebbe perciò sembrare un azzardo quando vorrebbe essere solo  una proposta aristocratica e insieme terapeutica. Se oggi  infatti si moltiplicano gli inviti a consumare  cibo,  musica, televisione  lentamente, perché non anche la narrativa lenta di Tolstoj?
3. Nel corso di una di quelle   scorribande da lettore  onnivoro e disordinato quale sono,  mi imbattei in  un illuminante passo di Remo Cantoni (“La coscienza inquieta”,  Il Saggiatore, Milano 1976, n. 18, p.55) che improvvisamente mi delineò il rapporto tra me e Tolstoj e mi mise sulle tracce di un’ interpretazione pungente dell’arte tolstojana, sul solco delle “filosofia dell’esistenza”. Interpretazione  che da allora mi accompagna.   Il libro di Cantoni è una delle più belle e penetranti disamine del pensatore danese ancora circolante in lingua italiana. Riassumiamo a grandissime linee  (e con qualche mio tradimento) questa dialettica esistenziale. Don Giovanni, l’Assessore Guglielmo e Abramo sono nel pensiero di Kierkegaard le figure emblema  dell’itinerario   fenomenologico dell’esistenza.  Vita estetica, morale e religiosa sono i tre “stadi” possibili della vita. Sono essi coincidenti con in tre stadi della vita biologica:  giovinezza, maturità e vecchiaia? No, certamente (a me è capitato il contrario: una infanzia e giovinezza religiose, una maturità etica, un inizio di  terza età estetica, speriamo!), anche se i tre stadi in genere si attraversano secondo questa sequenza e i tre personaggi portatori delle istanze sembrano ricalcare le tre età della vita. Il giovane don Giovanni, il maturo Guglielmo, il vecchio Abramo. Diciamo subito che chiunque abbia superato le rapide dello stato nascente dell’innamoramento ed è entrato nel placido stadio istituzionale del matrimonio (o della diade stabile)  sa che la nascita di un figlio immette la coppia in un universo di valori in cui l’eticità è la “dominante”. Anche se si troverà la propria personale vibrazione estetica nel cambio dei pannolini, nei fatti ,i figli,  che pur sono una nostra vena che batte fuori di noi, non sono   noi, sono altro da noi e chiedono cure indifferibili, impegno diuturno, fatica e apprensione infinite. Oltre che serietà coscienziosa. Se la giovinezza è uno stato “estetico” per definizione (da aisthesis, esperire con i sensi) visto che si hanno addosso troppo pochi giri d’esistenza per avere una dimensione più sedimentata e ragionata della vita, la nascita di un figlio pone il soggetto immediatamente nella dimensione etica. Il marito è l’eroe coniugale se, di contro, i grandi amanti sono eroi  pre-coniugali, post-coniugali o meta-coniugali.
Ora, i tre stadi vivono in maniera autonoma nelle scelte di vita di ciascuno di noi, ma c’è da aggiungere che non sono “isolati”, allo stato puro, sono misti dialetticamente e si contaminano a vicenda,  nel senso che c’è nella vita estetica una piega a volte religiosa. Don Giovanni ha il culto della donna si potrebbe dire, ma,  oltre ai  genitali di lei, da acquisire in maniera compulsiva  e seriale in una “cattiva infinità” nel tentativo, sempre fallito, di possederli per sempre,  c’è la ricerca inesausta delle infinite modalità estetiche in cui si manifesta  l’inebriante “femminile” nelle donne. Un fatto che di per sé vale la coazione a ripetere. Ma anche nella vita religiosa vi sono componenti estetiche.  Non occorre aver letto Freud per intero per capire che in alcune esperienze religiose estreme, nei cilici e nelle autofustigazioni o addirittura nella scelta finale della morte autoinflitta come quella dei  martiri qualcuno ha visto una sorta di piacere,  voluptas dolendi  estrema  fino all’amor mortis. Clemente Alessandrino lo vide negli occhi dei martiri cristiani e se ne spaventò a tal punto  da sospettare che fossero dei voluttuosi aspiranti suicidi infiltrati tra le fila dei  “veri” cristiani. “Noi per parte nostra biasimiamo coloro che si sono gettati in  braccio alla morte: giacché esistono alcuni che non sono realmente dei nostri, ma hanno in comune con noi soltanto il nome, e che ardono dal desiderio di consegnarsi, poveri miserabili innamorati della morte (grassetto mio) in odio al Creatore. Noi affermiamo che questi uomini  commettono suicidio e non sono martiri, anche se vengono ufficialmente giustiziati. “ (citato da A. Nock.  “La conversione”, Laterza, Bari, p.155).
In fondo, la scelta della vita etica è di tipo mediano, fuori dai,  e forse contro i, grandi turbamenti  e le sfide estreme della vita estetica e religiosa. L’istanza della vita etica può imporsi in due modi secondo ciò che  ho compreso provvisoriamente. A) sorgere dalla malinconia, dallo squallore, dall’autodistruzione  insita  nella vita estetica stessa. C’è un momento in cui la vita estetica appare all’esteta come insensato scialo che  brucia solo nell’attimo; la propria genialità sensibile e sensualità demoniaca  gli appaiono senza scopo se non se stesso.  Oppure B) come strategia di ritiro calcolato della “cattiva coscienza”, la quale “spontaneamente”  tenderebbe sempre e comunque alla vita estetica, approvandola nell’intimo,  ma quasi sempre negli individui medi non ha i mezzi per metterla in atto. Accade così che non potendo vivere una vita di piaceri ce ne inventiamo una di doveri.   È, infine,  anche vero che  nella vita etica  si assaporano le dolcezze dell’uno e dell’altro stadio sia estetico che religioso (per chi ha fede). Com’è vero che nell’amore coniugale si trova sia  quella Venerem facilem parabilemque  – il sesso facile e abbordabile  di cui parlava Orazio -, sia   il  culto dell’unione familiare, che era già “sacra”, signori, prima del cristianesimo. Proprio in ultimo mi occorre aggiungere che se il seduttore non ama una donna, ma la donna, l’uomo etico è tentato di amare  la donna in una donna.
4. Analogamente, nei personaggi di Tolstoj gli stadi dell’esistenza kierkegardiana appaiono misti, mai allo stato puro. Se Pierre Bezukov e Konstantin Dmitric Levin (veri e propri alter ego di Tolstoj) sembrano scolpiti nella pietra viva della vita etica (anche se bellamente  “estetica” è la scena “etica” della falciatura del grano perché è il padrone Levin che sceglie di mischiarsi a torso nudo in uno slancio etico-estetico  con i propri  contadini), se  Nechljudov di “Resurrezione” e Ivan Il’ič sembrano smarriti nella dimensione religiosa della vita, Anna Karenina  (una crasi narrativa di Madame de Rênal ed Emma Bovary) è una bella che sbanda  tragicamente dallo stadio  etico a quello estetico, presa al laccio dei  frutti sublimi e amari dell’adulterio. Immensi sommovimenti psichici e sessuali sembrerebbe destare l’amore extraconiugale che oggi  “aggredisce” (o felix culpa!)  le coppie perlopiù intorno ai quarant’anni e ai tempi di Anna ai trenta; una forza  estetica inebriante non solo per i graditi e liberatori sensi di colpa che esso genera, per quel  lato avventuroso  e teatrale di sdoppiamento della personalità  di chi giocoforza deve recitare  due parti in commedia, ma soprattutto  per la “riscoperta”  e la reviviscenza del sesso infeltrito  dalle ambagi  del coniugio e dai gravosi impegni  “etici” dell’allevamento della prole che procurano ottundimento dei sensi e la  fatale clorosi della vita “estetica” dei primi anni matrimoniali quando i sensi scattavano come levrieri all’apertura dei cancelli. L’io tolstojano  come l’io di ogni grande artista è ovviamente frantumato in tutti i suoi personaggi e in tutt’e tre gli stadi dell’esistenza.  Tolstoj è Anna Karenina, è Pierre Bezukov, Levin,  Ivan Il’ič, Nechliudov e anche  Vronskij (l’avete visto nelle foto giovanili quant’era bello?).  Ma solo Tolstoj e i grandi artisti, o anche noi, si parva licet? Non accade anche a noi, in fondo, di attraversare per avventura romanzesca della  nostra esistenza o per adesione cosciente i tre stadi dell’esistenza?  Com’è anche vero che ci può toccare di essere  classici alle nove del mattino, romantici a mezzogiorno  e barocchi   o  decadenti alle ventuno, o se volete da giovani, nella maturità e nella vecchiaia, ad libitum. “Un io è come un club dove vecchi soci si dimettono e nuovi si iscrivono” avvertiva Gadda. Il giovane Petja Rostov  vive nello stadio estetico ed estatico della vita militare,  dimensione in cui perlopiù si racchiude la vita estetica di Tolstoj  in quanto uomo e narratore, si vedano  i “Racconti di Sebastopoli”.  A noi potrà sfuggire questa dimensione estetica della vita militare. Cosa può avere di estetico l’occupazione di dare morte agli altri a colpi di cannone? Nulla, ma la vita estetica cui qui si allude è quella dell’esuberanza dei corpi, quella  dei giovani conviventi nelle caserme che hanno consuetudine con le altrui nudità  nelle camerate, quella dei giovani soldati  alle prese con bevute  colossali (com’è normale esperienza  dello zapoj, le inenarrabili ciucche russe), che scommettono sulla propria resistenza   sui davanzali  delle finestre della camerate con sotto l’abisso in cui rischiano di schiantarsi, nel gioco ferale della roulette russa, che frequentano i bordelli, esperienza quest’ultima che segnerà di interrogativi angosciosi il Tolstoj di “Sonata a Kreutzer” quando si chiede se quelle stesse mani che hanno toccato le carni guaste e viziose delle prostitute sono le stesse che dovranno sfiorare  i visi angelici di fanciulle educate tra i merletti e spinette,  intente a singhiozzare davanti ad abissali e ridicoli amori romantici e che nulla sanno degli sperdimenti della carne, della sua fosca, sporca,  inebriante fisicità “estetica”. È bene ricordare che educazione sessuale ed educazione sentimentale divergevano per tutto l’Ottocento. Che i giovani maschi apprendevano l’Ars amandi e venivano iniziati sessualmente nei bordelli. Che questo tipo di iniziazione sessuale si è protratta almeno fino agli anni ’60 del ‘900 e che forse la generazione dei nati attorno agli anni ’40-50 del secolo scorso (quella del ’68 per intenderci) è stata la prima in assoluto in Occidente in cui educazione sentimentale ed educazione sessuale coincidono e sono avvenute contestualmente con coetanei. Ma prima di allora  la vita sessuale dei giovani fino al matrimonio, e per molti  anche dopo, si svolgeva  principalmente nei postriboli.
Tolstoj è il cantore dei tre stadi dell’esistenza così  bene “isolati” e descritti da Kierkegaard in tutta la sua opera. Enten Eller, aut aut o piuttosto et et? E benché lo stadio etico-matrimoniale sembra essere il proprium di questo grande artista che secondo Isaiah Berlin era una volpe che si credeva un istrice (ne sapeva tante di cose della vita e non una sola, e inoltre era una cosa e si credeva un’altra), si falserebbe la prospettiva  nel comprenderlo appieno se ci si fermasse solo a questo stadio come abbiamo visto. Ma la vita matrimoniale, quella che Kierkegaard ha intravisto con la sua Regina Olsen, è in Tolstoj materia perenne di canto. Tutti ricordano l’incipit di Anna Karenina. “Tutte le famiglie sono felici allo stesso modo ogni famiglia è infelice a modo proprio”. Ma che dire de “La felicità domestica”? che proprio l’elemento etico ed estetico sembra già coniugare nel titolo. E la vita coniugale nella sua forma ossessiva è al centro della indimenticabile “Sonata a Kreutzer” e in “Resurrezione”.  E se si pone mente alla trama di “Guerra e pace” si ricorderà che sono scoppiate mille granate, sono state attraversate decine di fiumi, combattute battaglie eroiche  senza fine, è morto Bolkonskij  in quel modo sublime che tutti abbiamo letto, ma  sembrerebbe che le monde existe pour aboutir une … famille. Tutta la storia e tutto il mondo esistono perché la tenera  Natasha e il pacioso, pacifico e meditabondo Bezukov possano sposarsi. La pace, dopo la guerra, l’idillio domestico di questa coppia dopo lo… scoppio delle granate, sembra che l’epos di tutto il romanzo si incanali e si acquieti in questo tranquillo tinello borghese. Sembra dire Tolstoj “ I drammi ci capitano, ma le tragedie dobbiamo meritarcele, come tutto ciò che è grande”.  Ma in mezzo  o dopo  eventi così perigliosi occupiamoci delle tartine e dei  bambini, perché a  essi  si deve  tornare dopo i grandi “cannoneggiamenti” della vita.
Alfio Squillaci
La frusta letteraria
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dilebe06 · 7 years ago
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Si stava meglio, quando si stava peggio. In GoT.
Spirale certezza- compiacenza:Meccanismo che ha dato luogo alla ripetizione in modo acritico delle tesi conferendo loro credibilità e anzi, amplificandone la valenza: "più si è certi che un fatto esista, meno si dubita delle tesi avanzate da altri." Così accade che anche idee basate su affermazioni non supportate dall'evidenza vengono citate in modo automatico, come se invece presentassero prove ed evidenze. L'opinione sostituisce la riflessione ponderata e le percezioni del senso comune prendono il posto dell'evidenza. Piuttosto che formulare ipotesi robuste da testare, le tesi vengono ripetute come fossero verità incontrovertibili, fatti assodati, riducendo così la possibilità di un dibattito aperto e razionale. ( Bennet e Maton 2010)
è ormai consueitudine e luogo comune definire la settima stagione una schifezza. Consolatevi, non siete i soli. Infatti molte testate giornalistiche e siti hanno decretato questa ultima stagione, come la peggiore. ( qui , qui ed anche qui per dirne sono tre)
Vogliamo ricordare il perchè? Buchi di trama, narrativa illogica, teletrasporto, dialoghi piatti... Ma in realtà i problemi sono iniziati molto prima: già nella 5 stagione, si annusava un aria diversa. Che fosse sparito il lavoro certosino, complesso e accurato, per fare spazio "ad una trama che va avanti a qualunque costo", mi sembra la risposta migliore.
Ma noi sappiamo il perchè di ciò: Martin dalla quinta stagione in poi ha abbandonato la serie, lasciando praticamente tutto in mano a D&D, che si sono trovati a fronteggiare una storia caotica, piena di colpi di scena intelligenti, con storie parallele e collegate una con l'altra. Loro ci hanno provato, ed a mio parere, hanno scelto un approccio più scenografico che pompasse il colpo di scena, piuttosto che la fredda logica. Per dirla in altri termini: non è importante il come succede, ma basta che succeda. Un esempio tra tutti, i Cavalieri della Valle che intervengono nella Battaglia dei Bastardi. Da un punto di vista scenografico e di sorpresa, nulla da dire per carità. I problemi arrivano quando il fan si fa due conti e capisce che quello che si è visto, è difficile che accada. Da dove sono arrivati? Come hanno fatto a raggiungere Grande Inverno senza che nessuno si è accorto di nulla? Perchè Sansa non ha detto nulla a Jon?
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Questo è il problema: il fan di Got, è un fan pensante. Non si accontenta del misero colpo di scena, ma vuole una sorpresa che quando arriva, può riguardare agli avvisi precedenti e maledirsi perchè non ha visto arrivare niente. Dopo anni di studi, siamo diventati esperti nel gioco del Risiko di Westeros, abbiamo affinato il nostro sapere giuridico sul diritto medievale, abbiamo frequentato corsi di etica e politica. Abbiamo studiato con Macchiavelli e sviscerato temi come la schiavitù, la giustizia, la fede, il fanatismo, l'onore. Siamo ufficialmente pronti, occhiali da nerd in bella vista, a mettere alla prova tutto il nostro sapere, di fronte a Got. 
E poi... arriva la settima stagione. E basta pensare a quale è la differenza di contesto, tra la morte di Ned e quella di Petyr, ad esempio.
E la settima stagione è l'apoteosi di tutto questo: grandi sorprese non ce ne erano ( anche perchè gli spoiler giravano da mesi) con una trama che è stata di un piattume assoluto. Personaggi che compiono azioni illogiche ( cattura del non-morto in testa), caratterizzazioni dei personaggi bruciate ( Arya miss killer), relazioni create con la livella, coronano una stagione, per me, da dimenticare. Detto tutto ciò, è pienamente comprensibile il clima di sospetto che aleggia tra i fan per la prossima stagione. Ed è una buona cosa. Essere sospettosi aiuta ad avere una mente critica e razionale delle vicende, dando la giusta importanza agli eventi e personaggi senza cadere nel fanatismo. Permette inoltre di essere più obbiettivi ed aperti a nuove teorie seguendo la logica. Essere critici con questa serie, significa che ci piace abbastanza da non volerla vedere trattata cosi. La cosa assume contorni preoccupanti e fastidiosi però, quando questa sospettosità diviene disfattismo, venendolo pubblicizzato ovunque. Quando la bruttura racchiusa in questa stagione, contamina anche un futuro di cui non si sa nulla. Sono piuttosto sicura che avrete letto milioni di volte la frase " finisce con la morte di tutti".
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Questa non è per me una frase intelligente detta con cognizione di causa ma una, detta per pubblicizzare la propria delusione al mondo. Ed a me sta bene, come detto prima, che siamo delusi, è legittimo esserlo. Quello che è illegittimo, è sbandierare la nostra delusione su una cosa che ancora non abbiamo nemmeno visto, e di cui a ragion fatta, non ne sappiamo nulla. 
E se prendiamo per acclarato che D&D siano cani, allora dobbiamo anche prendere per buono che il finale, e quindi l'ottava stagione, sarà la stessa dei libri. ( di cui mai ci siamo lamentati). D'altronde non abbiamo urlato al fanservice di fronte alla relazione Brienne/ Jamie. Non ci siamo strappati i capelli quando le uova di Dany si sono schiuse, perchè dai era palese. (O uscivano dei draghi o una frittata). Incredibile a dirsi, i finali più probabili sono un inno alla concordia. Perchè se è vero che l'ottava stagione farà schifo, è anche vero che abbiamo scelto dei finali che mettono d'accordo tutti. Il primo, è quello dove appunto muoiono tutti e per forza di cose, siamo tutti d'accordo. Il secondo, quello che prevede Jon e Dany morti, con pargolo accudito da Sansa e Tyrion, e mette d'accordo Stark, Targaryen e Lannister. Quanto amore!
E trovo tutto ciò degno di riflessione: Se infatti viene chiesto il perchè di questi finali, la risposta più data è solitamente perchè sono i più brutti e quindi in linea, con l'orrore delle passate stagioni. Sono finali palesi, fanservice e che mettono d'accordo chiunque. Qui, mi sembra che sia di nuovo è il disfattismo a parlare.
Permettetemi dunque un giudizio: questa è una risposta paracula, data per giustificare un finale paraculo! è infatti comodo e semplice creare questi finali, che non tengono conto di svariate criticità:
dove si trovano ad esempio, riferimenti ad una futura restaurazione Targaryen?
che fine hanno fatto in questo idilliaco finale, Gendry, Arya, Bran, Brienne...?
Cosa è successo al Re della Notte?
Se i Targaryen tornano al potere, la Ribellione di Robert a cosa è servita?
Che bisogno c'era di creare la R+L, se tanto Jon crepa e sale al trono il figlio? Politicamente quindi la parentela di Jon non vale niente?
siamo sicuri che Sansa e Tyrion vorranno tornare insieme?
Perchè il personaggio di Sansa deve badare al figlio di Jon e Dany, come per espiare le colpe della madre?
Come mai la narrazione anzichè andare avanti, da un punto A ad uno B, è tornata a 300 anni fa?
Perchè Tyrion che fino a qualche stagione fa non aveva nessuna possibilità di essere Re, adesso è su un trono? è diventato convenientemente adatto a governare adesso?
" Domanda : Perché pensi che le istituzioni politiche nei Sette Regni siano così deboli?
GRRM : il Regno era unificato con draghi, quindi il difetto del Targaryen era di creare una monarchia assoluta altamente dipendente da loro , con il piccolo consiglio non progettato per avere un vero controllo ed equilibrio. Quindi, senza draghi, ci fu un re selvaggiamente incompetente e megalomane , un principe colpito dall'amore , una brutale guerra civile , un re dissoluto che non sapeva davvero cosa fare con il trono e poi il caos. "
- da un account di fan, GRRM in Messico , 2016.
Ricordo per i fan più disattenti che Martin disse espressamente che Dany e Jon sono il 10% della storia totale. 10%. E noi siamo cosi disfattisti e paraculi da creare un finale che non solo non ci piace, ma non tiene nemmeno conto delle parole stesse dell'autore.
Questa è magia.
Questo è solo un esempio che è applicabile anche a tutti i finali creati con "poco sforzo", sull'onda dello sconforto.
Come siamo passati da questo:
"I draghi sono il deterrente nucleare , e solo Daenerys Targaryen,  li possiede, che in qualche modo la rende la persona più potente del mondo", ha detto Martin nel 2011. "Ma è sufficiente? Questi sono i tipi di problemi che sto cercando di esplorare. Gli Stati Uniti adesso hanno la capacità di distruggere il mondo con il nostro arsenale nucleare, ma ciò non significa che possiamo raggiungere specifici obiettivi geopolitici. Il potere è più sottile di quello. Puoi avere il potere di distruggere, ma non ti dà il potere di riformare, migliorare o costruire ".
...che è un argomento su cui dibattere, a "va beh che ci pensiamo a fare, che tanto muoiono tutti!" ?
Quando risponde alla domanda per descrivere la sua storia, Martin dice quanto segue: Ho cercato di fondere la fantasia epica con la narrativa storica per catturare parte della grinta e del realismo che vedo nella migliore narrativa storica, e iniettarla in una modello di fantasia. (...). Tematicamente, il potere è al centro di questo: l'uso del potere, le influenze corruttrici del potere, ciò che le persone faranno per ottenere potere e ciò che il potere farà a loro. E riguarda la politica. Non è un'allegoria. (...) Ci sono alcune cose che sto cercando di dire sulla politica, la governance, l'uso del potere, i re e tutte queste cose.
Poi arriviamo noi e in cinque minuti decretiamo che tutto ciò è inutile.
Concludendo: Il problema non è se questi finali siano possibili e no, ma la motivazione che li ha creati che mi sembrano provenire dallo sconforto. Non vorrei che la brutta opinione che ci siamo fatti su dove sta andando la serie tv, sostituisca la riflessione razionale e che le nostre percezioni prendano il posto dell'evidenza. Cosi facendo piuttosto che formulare delle buone teorie da provare, le tesi vengono ripetute come fossero verità assoluta, fatti certi, riducendo così la possibilità di un dibattito aperto e razionale.
Mi rende triste leggere di gente che liquida in due frasi, una storia complessa, pregna di sottotesti e simbolismi, perchè delusa dall’andamento fanservice e prevedibile dell’ultima stagione. Possiamo fare di meglio e dobbiamo fare di meglio! 
C’è gente che crea e partecipa a gdr a tema Got e cosplay. Gente che scrive meta intelligenti e riflessioni molto acute o fanfiction. Ci sono persone che hanno tazze, magliette, puzzle e tutto il comprabile solo per testimoniare il suo amore per Got. E allora innalziamo quest’amore per Game of Thrones in modo intelligente e senza farci condizionare dalle brutte esperienze.
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alessandro55 · 9 months ago
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Kendell Geers
OrnAmenTum ‘EtKriMen
Edited by Danilo Eccher
M77, Milano 2021, 143 pagine, 21x28cm
euro 40,00
email if you want to buy [email protected]
Mostra Milano 21 settembre 2020 - 30 gennaio 2021
Europeo di origine, africano di nascita, Kendell Geers si definisce animista e mistico, sciamano e alchimista, punk e poeta. Impegnato nella lotta contro l’apartheid sin dall’adolescenza, Geers ha usato la sua esperienza di rivoluzionario per sviluppare un approccio psico-socio-politico in cui etica ed estetica sono viste come due facce della stessa medaglia che ruota sul grande tavolo della storia. Nelle sue mani la vasta narrativa dell’arte e i linguaggi del potere vengono messi in discussione, i codici ideologici interrotti, le aspettative deluse e i sistemi di convinzione e fede trasformati in canoni estetici.
Le contraddizioni intrinseche all’identità dell’artista sono incarnate nel suo lavoro. Le sue opere coniugano storia personale e politica, poesia e miseria, violenza e tensione erotica. Geers lavora con vari media e tecniche che vanno da oggetti di uso comune e installazioni di larga scala all’uso di neon sconfinando nella performance e nel video.
Il titolo della mostra OrnAmenTum’EtKriMen si basa sul saggio del 1908 Ornamento e Crimine dell’architetto austriaco Adolf Loos, pioniere dell’architettura moderna che condannò le decorazioni sulle facciate degli edifici come un eccesso inutile, persino pericoloso, guidando il corso dell’architettura verso il concetto di funzionalità. Per M77, Geers abbraccia l’eredità culturale di Loos interrogando i linguaggi del minimalismo e il modello della galleria “white cube”, gettando l’estetica contro un muro di mattoni e frammenti di etica infranta.
Attraverso una selezione di opere storiche, la più recente produzione e installazioni site-specific progettate per interagire con gli interni della galleria, l’artista crea un itinerario in cui la giustapposizione di materiali diversi e il forte impatto creato dal suo sapiente uso di colori e motivi danno origine a una serie di riferimenti incrociati e contrasti intesi a minare le credenze care all’osservatore, consapevolmente o inconsciamente immerso in un ambiente che è sì attraente ma che si dimostra in realtà inospitale e potenzialmente pericoloso.
07/07/24
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tmnotizie · 6 years ago
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SAN BENEDETTO – Si terrà domani, venerdì 9 novembre, alle ore 21.15 presso il Teatro “San Filippo Neri” in San Benedetto del Tronto, la prolusione dell’anno accademico della scuola di Formazione Teologica della diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto. Con l’occasione, si festeggeranno anche i 45 anni della fondazione della scuola di Formazione Teologica diocesana iniziata da Padre Giuseppe Crocetti.
Il direttore, Don Gian Luca Pelliccioni afferma: “La vita della scuola di formazione è fatta dello studio, delle relazioni interpersonali e dei momenti istituzionali. Domani sarà uno dei momenti più importanti della scuola, e visti i 45 anni di esercizio, assume un tono di nobile gratitudine. Il Vescovo Carlo Bresciani, presidente della scuola, farà gli onori di casa con il prof. Alici Luigi dell’università di macerata. Il prof. Alici ci offrirà la sua riflessione intorno al tema ‘Dare forma alla vita: il laico tra fede e storia’, di sicuro spessore e interesse”.
Alla serata sono stati invitati tutti gli ex alunni degli ultimi 30 anni della Scuola di Formazione Teologica diocesana, i parroci, i religiosi, i dirigenti e i docenti di tutti gli istituti comprensivi della diocesi e gli assessori alla cultura dei comuni presenti nel territorio.
La serata si concluderà con la consegna degli attestati di formazione teologica agli alunni che hanno concluso il percorso di studi triennali nell’anno 2017/2018. Tutti sono invitati a partecipare.
Luigi Alici, filosofo, Professore ordinario di Filosofia morale, titolare dei moduli di insegnamento di Filosofia morale istituzionale e Filosofia morale (corso triennale), Etica pubblica ed Etica della vita (corso magistrale). Presidente del Corso di laurea in Filosofia (1997/2003). Presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana dal 2005 al 2008. Coordinatore del Dottorato di ricerca, indirizzo Filosofia e teoria delle Scienze umane / Filosofia, Storia della filosofia e Scienze umane (2008/2013). Presidente del Presidio di Qualità di Ateneo (2013/2016).
Direttore della Scuola di Studi Superiori “Giacomo Leopardi” per il triennio 2017/2020. Direttore della Collana “Saggi”, sezione di “Filosofia” (Editrice La Scuola Brescia) e della Collana “Percorsi di Etica” (Aracne, Roma). Docente di Etica della cura, presso il Master in “Medicina narrativa, comunicazione ed etica della cura”, Facoltà di Medicina, Università Politecnica delle Marche.
I principali ambiti di ricerca nascono da una rilettura del pensiero agostiniano, condotta alla luce di alcune istanze della filosofia contemporanea, e riguardano i temi dell’identità personale, della “reciprocità asimmetrica”, della cura e della fragilità, esaminati sotto il profilo della loro rilevanza morale.
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gazemoil · 7 years ago
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RECENSIONE: Clarence Clarity - THINK: PEACE (Deluxe Pain, 2018)
Il cantautore, musicista e super produttore inglese Clarence Clarity pubblica il suo secondo album in studio THINK: PEACE, a tre anni di distanza dal notevole debutto No Now, in cui l’artista - secondo la sua personale visione e lasciandosi ispirare da numerosissime correnti musicali - rivisita con moderna inventiva pop ed rnb, manipolandovi glitch e deformazioni elettroniche, sovrapposizioni massimali e trasformandoli in suoni cacofonici che assemblati insieme, grazie ad intenzioni focalizzate portate avanti con impavida fiducia, funzionano con brillante stranezza. Quest’album è una specie di dichiarazione del decennio, ma d’altra parte è difficile da metabolizzare. Ad ogni modo, Clarence ha cercato di raccogliersi un suo seguito producendo successivamente per Rina Sawayama e pubblicando singoli indipendenti come Vapid Feels Are Vapid, Fold ‘Em o Naysayer Godslayer; tracce che per la maggior parte sono poi finite all’interno del secondo album, occasionalmente rinominate e lievemente rivisitate. La più vecchia di queste risale a quasi due anni fa, dunque, l’ascolto di THINK: PEACE è in parte un re-contestualizzare canzoni già familiari, cercando di individuarne la legittimità in un nuovo disco.
Questo secondo album è anche l’occasione per capire chi è veramente Clarence Clarity, perché avendo alle sue spalle un debutto così lungo, versatile e sperimentale è difficile intuire quale direzione potrebbe intraprendere il suo progetto artistico. THINK: PEACE non rappresenta un considerevole cambio di rotta rispetto a No Now: è sempre molto pop, stravagante, vario, pieno di collage e rattoppi musicali, in qualche modo futuristico e allo stesso tempo nostalgico. Tuttavia, è anche molto più coinciso, diretto, accessibile e soprattutto l’impatto è decisamente meno forte, almeno paragonandolo al massiccio No Now. Questo perché Clarence riavvolge e trattiene le strumentazioni, usa meno campionamenti, la stratificazione sonora non si avvicina lontanamente alla follia del precedessore - il che è ciò che ha reso No Now così particolare, ma è anche ciò che ha allontanato molti potenziali ascoltatori - e certi brani sono persino orecchiabili. È davvero interessante vedere Clarence adattarsi a questa formula leggermente nuova, specialmente considerando come in precedenza fosse un artista che mirava esclusivamente ad esagerare ed abbondare al massimo. Ad ogni modo, i suoi tentativi rimangono abbastanza creativi e fuori dagli schemi, essendo sempre considerabile come una delle voci più interessanti del pop-non-pop grazie ai suoi vocalizzi frementi, le scelte di synth bizzarri ed alienanti, effetti psichedelici, strani cambi e transizioni sonore tra le canzoni e dentro le canzoni stesse, non sfruttate nella misura in cui lo erano nell’album precedente, ma questo ormai lo abbiamo capito e va più che bene. 
“I’ll sleep forever / On the hands that were given to me / Haunt me forever / Or till I jump back into the sea” canta in Adam & The Evil*, una tracche che osando, può essere definita come ideale anche per passare alla radio, in quanto è molto organica per gli standard di Clarence, ma sempre fedele alla sua etica del caos, meccanicismi e distorsioni. Il punto di forza è il ritornello assolutamente contagioso fatto di synth giocosi ed esplosivi. 
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W€ Chang£ è una strana fusione tra pop futuristico e la sigla di un cartone animato a tema Halloween che incorpora frammenti di synth inquietanti in cui si confondono porte scricchiolanti, folgorazioni, voci mostruose distorte e cingoli. Inoltre, aggiunge un passaggio - subito dopo il ritornello - di synth pesanti e cupi. Il messaggio nascosto nel nucleo è fondamentalmente triste e vede Clarence riflettere su un amore destinato a fallire perché nonostante uno sembra interessato all’altro, i due potrebbero cambiare come persone e l’amore non sarebbe più realizzabile. E’ come se questa paura fosse stata tradotta nella spettrale - ma sempre colorata - strumentale. Naysayer, Magick Obeyer, come citato prima, è la versione estesa e rivisitata di una fantastica traccia uscita l’anno scorso in cui vengono di nuovo mescolati passato e futuro in una canzone appassionante che sembra potersi adattare al momento in cui tutti si scatenano sulla pista da ballo ad una festa degli anni ottanta, ma contemporaneamente pare uscita dalle mani di un teenager che sperimenta sul suo computer di ultima generazione. Attraverso una transizione fatta di glitch ed un assolo di synth, la traccia si tramuta verso la metà, sfociando in un bellissimo intermezzo conclusivo. Se c’era un modo per migliorare un brano già esistente è questo. Vapid Feels Ain’t Vapid è anch’essa una variazione della edita Vapid Feels Are Vapid, una traccia che presenta una linea di basso funky, divertente, robotica ed incalzante; il passaggio tra strofe, pre-ritornello e ritornello è una delle cose più soddisfacenti dell’album. “Self-inflict / Your projected / I've seen what you deleted / Now I'm a stranger / In my mind”. Sotto il punto di vista del testo presenta le stesse inquietudini riguardanti la sfera romantica, manifestando insicurezza e fragilità emotive. 
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Next Best Thing è un cambio di narrativa che si traduce nella dichiarazione dell’intento creativo di Clarence, alimentato attraverso la lente dell’amore. Egli canta di come non voglia essere “la prossima cosa migliore” piuttosto “la cosa migliore”, qualcosa che può concretamente diventare se continua a realizzare tracce contagiose ed accattivanti come questa. “Exhausted by my unhappiness / Have to to wear my human suit to impress”. Tuttavia, c’è sempre una nota di malessere sepolta tra la gloria dei suoi brani, infatti ci sono diversi riferimenti alla morte ed arriva a dichiarare come voler essere artisticamente il migliore sia così importante da considerare la morte se non dovesse riuscirci, ma la strumentale della traccia finisce tranciandone l’ultima parola, come a voler censurare l’aspetto “imperfetto” della sua arte e del suo messaggio intrinseco. Questo voler mettere musicalmente in scena una sorta di giostra dei divertimenti ricorda la facciata ideale ed utopistica delle pubblicità, e dunque, riconduce all’estetica vaporwave - una delle tante influenze dell’artista - ed al suo uso dei campionamenti provenienti appunto da queste fonti. Tra l’altro, Clarence non dimostra soltanto una notevole bravura nella produzione, ma la sua voce suscita altrettanto interesse e possiede un suo stile caratteristico.
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Sfortunatamente, nell’ultima metà THINK: PEACE perde un pò la sua rotta. Fold’Em è un tentativo fallito di incorporare l’hip-hop nel suo stile, principalmente perché risulta fuori tema in un contesto di traccie molto pop che possiedono quella peculiare componente musicale di ritorno al passato; mentre la seconda parte Silver Lake Resevoir è una specie d’intermezzo ambient che non suscita molto in quanto totalmente piatto sotto l’aspetto sonoro. Nonostante ciò, rimane bella l’idea di fondo di inserire questa nuova influenza musicale, magari avvalendosi di rapper emergenti interessanti - e Clarence ha già dimostrato di saper fare di meglio, ad esempio nell’occasione dell’inedita Rafters che però è stata esclusa dalla tracklist finale o anche di Adam & The Evil*, per la quale esiste una versione che include una strofa rap di Pizza Boy, anche questa inspiegabilmente scartata. Ci sono anche alcuni momenti più delicati nella seconda parte del disco che non colpiscono così tanto, non perché siano più morbidi, ma perché le melodie non sono sufficientemente accattivanti. Non sono tracce mediocri ma neanche sensazionali, ogni tanto si distingue positivamente qualche traccia, come quella di chiusura intitolata 2016.  
Complessivamente, ascoltare THINK: PEACE è un’esperienza piacevole, consigliabile come un’introduzione notevolmente semplificata alla sua musica rispetto a No Now. E’ un album più chiaro e diretto, a volte meno interessante e piatto ma ha anche i suoi punti forti. Piuttosto, il suo difetto più grande è quello di non riuscire a concludersi con la stessa tenacità, vigore e creatività con le quali aveva iniziato.
TRACCE MIGLIORI: Adam & The Evil*; Naysayer, Magick Obeyer; Vapid Feels Ain’t Vapid; Next Best Thing
TRACCE PEGGIORI: Fold ‘Em/Lake Resevoir; Law Of Fives
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persinsala · 7 years ago
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A Pontelagoscuro si è conclusa la prima edizione del nuovo corso di Totem Art Festival, contesto virtuoso in cui il teatro si fa «strumento di evoluzione sia per lo spettatore che per l’attore».
Se la questione delle barriere economiche (American First di Trump) e patriottiche (l’Ungheria di Orban) è ormai tornata a essere assoluta protagonista nel dibattito pubblico e politico internazionale, il rapporto dell’arte con il territorio promosso da Teatro Nucleo suggerisce una possibile prospettiva ostinata e contraria e, con il Totem Art Festival, prova a sublimare nell’esperienza estetica un mondo senza barriere. Un mondo nel quale il teatro rappresenta un autentico linguaggio universale e, ribaltato il pessimismo pirandelliano, chiunque ha uguali diritti di cittadinanza e nessuno è clandestino.
Dopo cinque edizioni sostanzialmente riservate alle location del Teatro Julio Cortázar e del Parco Solomoni, il Totem si apre, infatti, alla contaminazione di ambienti di vita quotidiana per agirvi direttamente dall’interno, dalla Piazza Buozzi al cortile del Centro Civico, dalla casa priva di Carla (per sole donne) alle scuole Carmine della Sala (primaria) e Braghini Rossetti (dell’infanzia).
L’orizzonte dell’esperienza artistica e antropologica dei due giorni cui abbiamo assistito è quello emotivo e poetico di un’arte che prova a organizzare il vuoto (di risorse, di senso comunitario, di visione politica), che evita – per esempio – di indagarsi quale manifestazione sintomatica dell’estro fantasmatico di un artista e, così facendo, cerca di sfuggire a ogni compromesso riduzionista dell’atto spettacolare a oggetto di consumo per, quindi, riaffermare il perturbante legame che intreccia etica ed estetica – dimostrato da diversi progetti pedagogici, d’intrattenimento e di formazione e dall’aver eretto il contesto en plein air (tale può essere considerato anche lo spazio aperto del Teatro Cortázar) a luogo prioritario nel quale attuare il proprio desiderio di autenticità condivisa con il pubblico.
Non è più la tensione all’avanguardia o un anelito rivoluzionario a muovere la direttrice artistica Natasha Czertok, la cui intenzione appare muoversi in uno splendido ossimoro, la provocazione degli interessi pubblici nel privato. La Czertok, infatti, rivendica con orgogliosa lucidità le proprie radici nel Terzo Teatro, di chi «vive ai margini, spesso fuori o alla periferia dei centri e delle capitali della cultura» (Manifesto del Terzo Teatro, Eugenio Barba) e, allo stesso tempo, si pone in curiosa attesa e ascolto di ogni possibile germe di tensione e rinnovamento, di ricerca di un’arte performativa concepita quale momento di incontro con una precisa comunità storico-sociale, quella di Pontelagoscuro, scampolo di confine tra Emilia e Veneto, terra non lontana dalla Lombardia, nonché ambiente affine – almeno idealmente dopo le migrazioni degli anni ’50 – alle Marche, dunque stabile perché radicata, ma anche hic et nunc perché di passaggio e attraversamento.
Tre giorni di eventi, tra laboratori, performance urbane, spettacoli di circo, danza e teatro. E poi, una mostra fotografica (Oggi so di Francesca Marra), «giochi antichi al giardino della scuola dell’infanzia Braghini Rossetti», un mercatino in piazza, un «progetto di poster art ispirato agli spettacoli dell’edizione 2018». Se, di certo, non bastano i numeri a sintetizzare la portata dell’ambizioso tentativo operato da Teatro Nucleo di «attivare» una trasformazione del e nel borgo di Pontelagoscuro, altrettanto sicuramente (i numeri) rendono l’idea dello sforzo messo in atto dalla «compagnia di origine argentina che da più di 40 anni opera sul territorio estense» (fondata nel 1974 a Buenos Aires da Horacio Czertok e Cora Herrendorf, nel 1978 venne trasferita a Ferrara in seguito alla repressione di Videla) e della sua strenua volontà di crescita in stretta sinergia con le realtà associative locali (Comitato Vivere Insieme, Pro Loco, Biblioteca Bassani, Istituto Comprensivo Cosmè Tura, Cooperativa Il Germoglio, Associazione Un bel dì).
Sin con Salvatore Sciancalepore e Rocco Suma, nostro spettacolo di esordio al Totem Art, rappresenta splendidamente la portata narrativa del tango. Accompagnati da musiche più o meno celebri del genere (Por una cabeza di Carlos Gardel e Alfredo Le Pera, Tango to Evora di Loreena McKennitt, Misterienzo di Electrocutango), i due interpreti maschili cui Mario Coccetti  affida la coreografia riescono a dissimulare con realismo la complessa verità di una relazione che, nata infuocata, va – tra passione e delusione, tra amore e freddezza – lentamente spegnendosi (nonostante alcuni passaggi risultino didascalici, sono opportunamente compensati da sfumature più ironiche).
È seguito,  al cortile del Centro Civico, Shame in Italy, diritti? No, grazie, performance di Simona Argentieri ispirata «agli scandali nei settori tessile e calzaturiero che in Asia, Est Europa e nelle nostre regioni da nord a sud coinvolgono milioni di lavoratori, a cui sono negate dignità professionale e condizioni minime di sicurezza». Vestiti ammassati come rifiuti «da idolatrare a totem simbolico» e semplici movimenti coreografici se ne restituiscono l’idea di fondo, ossia quella del rischio, della standardizzazione, della miseria cui intere generazioni (sia di lavoratori, sia di cittadini) sono state consegnate da un’ansia di consumo tanto propria, quanto indotta, allo stesso solo in nuce lasciano apparire i contorni di una possibile soluzione (il riciclo differenziato).
Chiude questa prima giornata, all’interno dello stupefacente Teatro Cortázar, lo spettacolo Digito ergo sum della compagnia Gandomi-Lorenzetti, «atto unico tragicomico, nato dalla necessità di sensibilizzare il pubblico al tema dell’identità e delle dinamiche relazionali nell’epoca digitale», realizzato grazie al Premio Giovani Talenti Creativi 2016 del Comune di San Lazzaro (BO).
Scelto «grazie all’intenso lavoro della giuria composta da Teatro Nucleo, Manuela Rossetti (regista e storica del teatro), dal collettivo Altre Velocità di Bologna e dalla Giuria dei ragazzi composta da due classi delle scuole medie dell’Istituto Comprensivo Comsè Tura» (Selezione call Totem Arti Festival), lo spettacolo soffre tremendamente un’interpretazione sembrata, in realtà, arrangiata e un testo troppo piegato sul facile sarcasmo nei confronti di un fenomeno, la rivoluzione digitale, nei confronti del quale sarebbe opportuna ben altra analisi per offrirsi credibile.
La nostra ultima giornata ha visto in scena un ensemble misto di «professionisti di teatro, educatori esperti in ambito teatrale e persone con disabilità congenita fisica e cognitiva» con Il corpo traduce. Lodevole per la caratura disciplinante di sensibilità complesse da strutturare all’interno di una coreografia rigorosa come quella realizzata dal Gruppo Teatro Danza Fragile, siamo rimasti increduli dall’aver assistito a un allestimento declinato sull’occultamento della sensibilità dietro l’apparente normalità scenica in cui lo spettacolo si disvela. Una scomparsa che, se dal un lato depriva ingenuamente l’arte della propria connotazione espressiva, dall’altro tradisce l’assunzione di un anacronistico e pericoloso paradigma di integrazione e non di inclusione. Ossia di un’ottica normativa eterodiretta e, di conseguenza, incapace di sostenere l’idea che con la e nella disabilità possano affermarsi creativamente le differenze delle singole individualità, modalità esistenziali irriducibili a ogni astratto modello di appartenenza a categorie di abilità o disabilità. Il corpo traduce contraddice non solo le proprie nobili intenzioni nel fiume di parole, video e didascalie in cui si presenta, ma anche negando la possibilità che ogni persona possa contribuire a valorizzare e valorizzarsi attraverso le relazioni artistiche, sociali e di tutti i giorni e, quindi, di essere portatrice di una propria connaturata e originale dignità.
A far calare il sipario su questa sesta edizione del Totem Art Festival, Dialoghi con Trilussa di Teatro Potlach, sontuosa prova d’attrice di una Daniela Regnoli in stato di grazia nel gestire il corpo, la voce e lo spazio. Spettacolo in romanesco, Dialoghi con Trilussa ha convinto, in modo particolare, per la capacità di utilizzare la poesia tragicomica, satirica e dissacrante del maestro Trilussa per sbeffeggiare i potenti di un tempo (in taluni aspetti non così tanto diversi da quelli di oggi), oscillando tra ironia e malinconia, tra amore e tristezza con splendido equilibrio e ritmo sostenuto.
Provando a fare un bilancio dell’esperienza, rispetto all’imponenza delle premesse, non ogni singolo evento (almeno delle giornate di sabato e domenica) ha suonato all’unisono con la condivisibile impostazione di «individuare lavori che […] aiutassero a porre domande sul tema delle relazioni e ad approfondire la nostra indagine in tal senso».
Soprattutto il processo di «coinvolgimento del territorio […] attraverso la selezione degli artisti […] tramite la call Totem Arti Festival 2018» sembra ancora da affinare. Tuttavia l’impressione è che il complessivo progetto di «rigenerazione urbana, dell’apertura alla bellezza, del diritto/dovere alla cultura, della articolazione di una proposta culturale partecipata, in un’ottica di maggior coinvolgimento degli abitanti del territorio non solo per quanto concerne la fruizione culturale, ma anche in termini di audience engagement» non risulti inficiato dall’uscita dalle confortevoli braccia delle location abituali; e che tanto meno lo sia la sua audace proposta di «una partecipazione pratica della comunità alla progettazione e realizzazione di eventi/momenti socio-culturali capaci di significare, modificare e, talvolta, migliorare il contesto urbano in cui si agisce». Nella virtuosa convinzione che un’arte scevra delle proprie stesse sovrastrutture e grotowskianamente povera sia effettivamente in grado di provocare positivamente il rapporto dei cittadini col proprio ecosistema.
Dialoghi con Trilussa. Foto Di Giulia Paratelli
Il corpo traduce. Foto Di Daniele Mantovani
Gli eventi sono andati in scena all’interno di Totem Art Festival location varie, Pontelagoscuro 19, 24-25-26-27 maggio
Tutti i giorni INTERVENTI CREATIVI a cura di Silvia Meneghini e della classe I F della scuola media Ferruccio Mazza di Barco
dalle ore 19 alle ore 23 Teatro Julio Cortázar OGGI SO mostra fotografica di Francesca Marra
sabato 26 maggio IL BAULE IN PIAZZA Mercatino in collaborazione con la Proloco
ore 18:00 Giardino della Scuola Braghini Rossetti SIN Teatro fisico e danza contemporanea coreografia Mario Coccetti con Salvatore Sciancalepore e Rocco Suma produzione Associazione Culturale Cinqueminuti con il sostegno di De Micheli Festival e Teatro Due Mondi Compagnia Progetto S / CINQUEMINUTI – Reggio Emilia Selezione call Totem Arti Festival
ore 20:00 Cortile Centro Civico Pontelagoscuro SHAME IN ITALY, DIRITTI? NO, GRAZIE performance danza urbana di Simona Argentieri produzione Babel Crew
ore 21:30 Teatro Cortazar DIGITO ERGO SUM di e con Ulduz Ashraf Gandomi e Cecilia Lorenzetti voce Fabrizio Carbone regia Alessandra Tomassini aiuto regia Fabrizio Carbone Marta Sappa adattamento drammaturgico Camilla Mattiuzzo movimenti di scena Daniela Mariani sound designer Marianna Murgia lighting designer e locandina Daniela Gullo costumi Jone Filippi Elena Sueri video proiezioni Aras Ashraf Gandomi tecnico audio Fabio Vassallo progetto realizzato grazie al Premio Giovani Talenti Creativi 2016 del Comune di San Lazzaro (BO) Selezione call Totem Arti Festival
domenica 27 maggio IL BAULE IN PIAZZA Mercatino in collaborazione con la Proloco
ore 15:00 Wunderkammer BICICLETTATA COLLETTIVA in collaborazione con Fiab e con animazioni a cura di Andrea Zerbin
ore 17:00 Teatro Cortázar IL CORPO TRADUCE regia Cinzia Cervi aiuto regia Elena Bonfa’, Beatrice Ferrari, Adele Gazzotti con Chiara Atti, Giulia Barban, Francesco Chierici, Marco Chierici, Matteo Fusi, Massimo Peroli, Taryn Soriani e con Cinzia Cervi, Beatrice Ferrari, Adele Gazzotti, Chiara Scaglianti voce Sergio Fortini video Beatrice Ferrari testi di Fragile Teatro Danza
ore 21:30 Teatro Cortázar DIALOGHI CON TRILUSSA di Teatro Potlach con Daniela Regnoli regia Pino Di Buduo
Estetica dell’apertura / Totem Art Festival A Pontelagoscuro si è conclusa la prima edizione del nuovo corso di Totem Art Festival, contesto virtuoso in cui il teatro si fa «strumento di evoluzione sia per lo spettatore che per l’attore».
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un concerto, un CD, un libro di poesia …
LA FAVOLA DI LILITH
un’opera in due atti di edo notarloberti e viviana scarinci Libro e CD
La prima edizione comprende il CD e un libro di 24 pagine per una tiratura limitata di 500 copie PREZZO DI COPERTINA: 15,00 euro
ordini: [email protected] e su Amazon
La favola di Lilith libro e CD
La favola di Lilith è un’opera musicale suddivisa in due atti e nata nell’ambito del Fondo Librario di Poesia Contemporanea di Morlupo, dall’incontro di due linguaggi artistici diversi e insieme profondamente affini, quello della musica e quello della poesia. Il compositore edo notarloberti e la poetessa viviana scarinci, hanno accettato di confrontarsi attraverso un vero e proprio work in progress, la cui profonda vocazione interculturale viene pienamente rappresentata dal tema costituito dalla figura di Lilith. Il progetto è diventato un’opera musicale e un libro edito in versione bilingue da ARK Records e presentato in anteprima europea in Germania nell’ambito del Wave Gotik Treffen Lispia 2014.
L’opera Lilith è un personaggio della mitologia ebraica e prima ancora di quella babilonese. È un diavolo femmina ma risulta anche essere la donna esistita prima di Eva, colei che fu creata spaccando in due la prima creatura umana che era duplice, come Ermafrodito. La favola di Lilith tuttavia non nasce dall’intento artistico di mettere in scena la rielaborazione narrativa di una storia nota ma da una riflessione che vuole accomunarsi all’attualità, attraverso gli strumenti della musica e della poesia contemporanea. Il violino di edo notarloberti cavalca l’onda delle parole di viviana scarinci sintetizzando i percorsi pregressi delle esperienze passate (vedi Argine e Ashram) proiettandoli in una direzione ancora più essenziale in quanto affrancata dalla schematica forma canzone che da un lato garantisce integrità formale, dall’altro limita il fluire liquido delle note che come le parole, in quest’opera intensa, sono alla ricerca di una verità essenziale attraverso una dimensione sonora assolutamente acustica, neoclassica.
CRITICA E RECENSIONI
Luglio 2015,  su Il Segnale 101 una recensione di M.T.
Con il sottotitolo di “due atti di Viviana Scarinci e Edo Notarloberti” viene distribuita La favola di Lilith, poema sonoro recitato su base di archi e pianoforte e inciso su un cd. Ci si trova dunque di fronte ad una poesia che recupera la dimensione non solo della vocalità, e dell’oralità, ma anche quella della performance, o meglio della irripetibilità performativa, che non consente la tradizionale lettura e rilettura a cui la poesia lineare da sempre ci ha abituati. Tuttavia i significati del testo, pur nella versione con sottofondo musicale, non sfuggono alla decifrazione, magari nella solita sfumatura e incertezza dell’enigma, che la poesia, come arte votata al simbolico, inevitabilmente si trascina dietro. La favola di Lilith si mostra così, ad un ascolto attento, come la vicenda etica e intellettuale di un’anima e dei suoi tentativi di comprensione di tutto un mondo di relazioni. E’ la parola che interroga l’universo, e offre come risposta l’intreccio tra suoni della musica e suoni del linguaggio. Da questo punto di vista le melodie e le armonie musicali divengono speculari e simboliche rispetto alle armonie della voce, ma anche, semanticamente, rispetto alle armonie e alle empatie a cui i rapporti interpersonali cercano disperatamente di dar vita. Nella favola di Lilith, infatti, pianoforte e archi entrano in simbiosi con le parole, una simbiosi evidentemente cercata, e alla fine perfettamente ottenuta. La recitazione, in sé quasi monotona, volutamente neutra nell’intonazione, dà rilievo al ritmo e alla forza semantica dei versi, e consente alle parole quasi di spogliarsi per rivestirsi appunto di musica. In questo modo si crea una unione unica tra i suoni, quelli degli strumenti e quelli della poesia. Certo, si tratta di una poesia dimezzata, una poesia che rinuncia sia alla ripetibilità del foglio bianco sia alle tonalità del parlato, e si ricompone in una lingua univoca, densa di contenuti complessi, ma per assurdo priva di cantabilità a causa della sottrazione di accenti e fenomeni tonici. Tuttavia, come detto, questo spogliarsi di tonalità si traduce in un rivestirsi di altra melodia, di altra armonia, quella appunto suadente della musica, che da sottofondo diviene protagonista, quasi si trasforma a sua volta in parola. In realtà le coloriture romantiche ed emotive non sono solo quelle della composizione sonora, ma anche le parole, proprio nel loro essere controcanto al canto musicale, divengono esteticamente belle e attraenti, nonostante gli sforzi indubitabili della voce recitante di restare in una specie di anonimato interpretativo, quasi per evitare le intonazioni e le forzature di una resa da attore e da interprete vocale. Si prenda ad esempio la traccia due, dove l’attacco determinato dalla pregnanza semantica del termine “placenta” è sottolineato da un singulto di archi davvero notevole, capace di dare vita ad una espressione raddoppiata, potenziata dall’alleanza fra le due forme d’arte. E’ così anche nella traccia 25, dove la voce recita “Non subito cielo amore” e la malinconia, rimarcata dalla musica, può finalmente liberarsi senza finte retoriche. Musica e voce danno vita così ad una danza che coinvolge l’ascoltatore, gli fa comprendere un super-significato, denso di segnali emotivi. Quello che si riesce a cogliere, anche nella fuggevolezza delle parole recitate, è il tentativo, ma si potrebbe dire destino, di comprendere le cose e gli esseri, di determinarne giudizi; anche se le cose si fanno spesso ombra e frenano, sembrano bloccare le soluzioni, in realtà una verità è possibile rinvenirla, essa è nella “mescita di nascita e morte”. Parole, isole di contenuto che rimangono nella memoria dell’ascoltatore, commentata da una musica bellissima, coinvolgente come forse le parole non sanno essere. Però le parole di questo poema riescono a fare di più della musica, riescono a dire anche il senso della musica. E’ il senso è in un dolore testardo che si percepisce dietro l’alternarsi dei versi detti, un dolore che alla fine la meravigliosa mescolanza di voce e note riesce a dileguare. Insomma un esperimento più che riuscito questo della favola di Llith, che dimostra la necessità per la poesia contemporanea di cercare altre vie oltre quella della parola.
Luglio 2015,  su Poesia 2.0 una recensione di Loredana Magazzeni
La favola di Lilith, edita da ARK Records, con testo inglese a fronte, nella traduzione di Natalia Nebel, presentata nel 2014 in anteprima europea occasione del festival internazionale musicale di Lipsia, è un poema musicale in versi, su testi di Viviana Scarinci e musiche del compositore Edo Notarloberti. Il poema, che riprende e dà voce a nuclei tematici forti già presenti nella poesia di Viviana, come il rapporto col femminile, la conoscenza di sé e il tempo, si presenta nutrito di un “sentire tattile”, come scrive Giorgio Bonacini in margine a Piccole estensioni, raccolta vincitrice del premio Montano 2014. Un sentire sinestesico dunque, tattile e visionario, in cui la musica si addensa attorno all’andamento “poematico”, tipico della migliore parte della poesia femminile del Novecento (Rosselli, Vicinelli), che attraversa e rilegge l’esperienza e la coscienza. Il poema è diviso in due atti: il primo in cui Lilith torna da uno stato di lutto ottundente o dalla regione vita/morte del mito. E il secondo atto, al cui inizio, con un monologo, Lilith si rivolge a Dio (di cui secondo una credenza dell’ebraismo è stata amante), e che prosegue con un dialogo tra Lilith ed Er, il personaggio del mito platonico cui è stato dato modo di andare e tornare dalla morte. Così come Lilith è creatura di confine tra visibile e invisibile, porta di ogni ambiguità, Er, che conosce vita e morte diviene il “vedente” per antonomasia, restando pur sempre uomo. Come insegna Ida Travi, in Poetica del basso continuo, poeta che accosto a questo esito poetico di Viviana Scarinci, scrivere poesia oggi è cercare un varco continuo, non una verità ma una delle verità possibili fra noi e “lo spiazzo millenario nel quale irrompono le civiltà che forse dormono”. Dichiaro di voler leggere eventuali successive raccolte pubblicate dall’autore per seguirne la futura scrittura, riferendone in questa rubrica.
Marzo 2015,  su Darkroom una recensione di Ferruccio Filippi
Quanto è difficile recensire un’opera come questa… Difficile perché “La Favola di Lilith” è un qualcosa che sta a metà fra una composizione neoclassica e il reading poetico. È conveniente forse partire proprio dalla parte lirica per capire il lavoro. Lilith è considerata la donna che venne prima di Eva, e quindi, per certi versi, lo spirito della donna, al di là del tempo e dello spazio. La poetessa Viviana Scarinci costruisce un possente corpus poetico intorno a questo concetto, a questo voler rappresentare la femminilità stessa nella sua duplice natura, divina e terrena, nella sua potenza e nella sua fragilità. Il linguaggio è complesso e raffinato senza essere didascalico o dottrinale, e possiede un ritmo che lo rende sempre vivo e interessante. La cosa si sarebbe potuta fermare alla realizzazione di un poema sul femminino eterno ma, e qui sta l’originalità, si è deciso di far sposare quelle parole con la musica. Per questo non ci poteva essere autore migliore di Edo Notarloberti (già con Argine, Ashram e Corde Oblique), anima fra le più sensibili dell’odierna scena musicale italiana. Una composizione per archi ora drammatica, ora onirica, ora sperimentale che accompagna e dà il mood giusto a tutta l’opera. Non a caso il testo è recitato dalla Scarinci in maniera quasi atonale, senza espressione, per dare alla musica il compito di trasmettere ed enfatizzare l’emozione di tutto il lavoro. “La Favola Di Lilith” è un opera difficile e coraggiosa che merita ascolti e letture approfondite.
Febbraio 2015,  su Rock Impressions
Progetto piuttosto ambizioso e culturalmente pregno quello condiviso dalla poetessa Viviana Scarinci e dal violinista Edo Notarloberti. La Scarinci ha vinto nella sezione Scrivere i Colori del Premio Grinzane Cavour ed ha pubblicato una manciata di testi. Edo è un musicista coinvolto in diversi progetti, come Ashram, Corde Oblique, bellissimo il suo disco solista edito sempre dalla Ark. I due hanno condiviso questa avventura artistica, con l’intento di unire musica e poesia, con uno stile spoken words a tinte neoclassiche, musica da camera se volete. Non è un episodio del tutto isolato, ma desta sempre un certo stupore trovarsi di fronte ad un’opera così complessa, nella sua apparente semplicità. Ai due si aggiunge anche il contributo della pianista Martina Mollo.
Ci sono delle tradizioni, in particolare ebraiche, per cui la prima moglie di Adamo non fu Eva, bensì Lilith, questa, pare, non volle sottomettersi ad Adamo e venne quindi scacciata dall’Eden. Poi in altre tradizioni è stata anche considerata un demone (o tale è divenuta a seguito dell’allontanamento dall’Eden), per diventare più tardi simbolo per la rivoluzione femminista, insomma un personaggio pieno di richiami e riferimenti, tra l’esoterico e la modernità. Onestamente non ho colto in quest’opera dei riferimenti precisi alle tradizioni di cui ho accennato, i versi della Scarinci sono piuttosto ermetici e ricchi di cenni colti, per cui non è facile comprendere appieno il significato:
“Se all’assemblea delle forme i corpi si dimettono io il tuo ordito sboccio fiore di questo dolo”
non manca la suggestione nella forza delle parole, però il senso spesso sfugge. Discorso a parte per le musiche, che sembrano improvvisate sul declamare dei versi, Edo mette in campo esperienza e gusto, dimostrandosi raffinato e passionale al tempo stesso. Viviana declama i suoi versi con trasporto, anche se a volte la sua voce appare distaccata e quasi asettica, con una cadenza poco armonica. Francamente ho faticato ad entrare nel senso del testo, che richiede un’attenzione molto elevata, tale da cannibalizzare le musiche, difficile concentrarsi sulle seconde se si vuole approfondire l’opera poetica.
Per questo il mio giudizio resta sospeso, pur riconoscendo che l’opera possiede un certo fascino.
Settembre 2014, su theregionofunlikeness – UNA RECENSIONE DI PAOLO FICHERA
Lilith è un nome, che scrive nel proprio nome la donna che parla di lei, che è lei.
La voce si impone fin dai primi versi precisa, salmodiante, incalzante come una litania. Comandamenti: bruciare, trovare, resistere e studiare il buio. E il buio è il luogo della propria genesi attesa, il sapere che la convergenza dell’acqua al buio è possibile, ma soltanto per chi, e non per lei, si è perfezionato nella distanza che scinde una persona in due.
È la constatazione che oltre la dualità apparente, esiste un varco aperto come una ferita in cui curare è precipitare per raffinare le mani e la percezione, oltre le mani di un uomo invocato o desiderato, la cui pelle toccata priva il corpo della mano che tocca, come la notte tocca la sua ombra e la ingloba senza possederla. E pare che il desiderio e la mancanza di Diotima qui non abbiamo luogo. Non vi è neanche la finzione della mancanza o del desiderio. La pelle è l’unica forma del giorno che appare nella notte. Nulla manca perché a mancare è la stessa Donna che parla e che scrive la sua mancanza nella voce che si avvera, dando al presente l’instancabilità del senso che non si compie.
L’amore erompe, perché non c’è attrito che possa essere negato. Un amore che non si dà in atti espansi oltre il proprio pensiero. C’è qualcosa, nell’amore, che rende questa donna un’estensione nelle cose, ma non per negare né per affermare perché “non esiste parola/per cui si cerchi più/di un bisogno ammutolito”. La presenza, si afferma, sempre e comunque, perché è, nell’istante di sapersi e di eclissarsi in quell’attimo che ha la coerenza perduta e manifesta che attende chi sa di non poter toccare la mole enorme di un’esistenza che si stende oltre se stessi.
Il nodo disciolto non esprime la vita, resta quel che non deve apparire. L’incessante risvegliarsi che torna non compiuto. La litania non cessa, i Se si susseguono: l’ustione della doglia, l’arsura, la fitta sono chiamate, avocate, elette a ipotesi di una mutazione che appunto perché invocata non può avere altro corso che nell’invocazione e non in qualche atto manifesto di cambiamento. La lotta è nell’immobilità di fronte al proprio Dio a cui si annuncia che l’inevitabilità dell’atto al suo interno manca, come chi chiama pur non volendo risposta.
L’intensità non rinuncia a nulla, resta immobile a fissare quanto le asperità del bianco intorno e il suo corollario di forme rinuncino a Lei. L’anima non ha volto, perché il volto è una maschera, l’ambizione suprema è quella di non esserci, come la constatazione di un’attesa a cui non si può rinunciare. Il luogo che si abita è quello del taglio, dove il mestruo è ostinato come la grazia che nutre certi animali. La minuzia delle ossa ne forma e ne sostiene la loro assenza. E il Dio che ha donato i figli, quegli occhi che raspano e avvinghiano alla vita, nonostante noi, quel Dio ha vietato un pane che è al di là di ogni forma pensata e voluta, in un nucleo compatto che pare non poter essere colmato, come una enorme distesa di sassi bianchi lasciati lì perché le mani possano erigere altari sommessi, o altre mani desiderino scagliarli sulla superficie dell’acqua.
Lo spazio dell’alterità è quello che Lilith nonostante se stessa abita. L’Altro, che ha la voce di un figlio-amante, invoca una salvezza che soltanto la venuta dei passi può dare e chiama sposa l’ombra, come un rabdomante che sa di poter dialogare con la pietra nell’occhio; e Lei lo invoca come si invoca la venuta insieme all’addio, la catastrofe insieme alla notte. Ed entrambi sono grembo d’assenza vissuta una nell’altro, come un principio di menomazione che muove il destino di una perversione per morire insieme, nella macerazione germinale che il veleno della vita suscita a contatto con la bellezza di alcuni incontri. E a dispetto del figlio la luce incarna la liquidità delle forme su cui s’adagiano i segni delle veglie non vissute, della speranza non vissuta perché non invocata, di una visione incarnata. E alla fine del libro la venuta della luce diluisce l’ossessione delle ombre, come a lavare gli umori di un parto sulla pelle di un neonato che vivrà nonostante la luce e l’ombra, perennemente infisso nella mancanza che resta alla sua fonte.
La voce di Lilith è un grumo di sangue che si scrive leggendolo. Che cerca di fissare i propri artigli in pelle e muri che non le rispondono o che forse non esistono. È un’alluvione che si muove secca e fluente, come alcuni occhi lasciati in qualche luogo del mondo e visti di sfuggita, come un monolitico grumo d’amore che ha resistito a ferite, aborti, morti, frustrazione. Più viva delle ombre che la muovono.
Luglio 2014, su SIL – Società Italiana delle Letterate, UNA RECENSIONE DI PAOLA DEL ZOPPO – La favola di Lilith di Viviana Scarinci e Edo Notarloberti è un poema in musica, un’opera composita, che si dipana all’ascolto con il ritmo dissociato e insieme consonante di due espressioni creative diverse. La messa in scena della compatibilità dell’incompatibile illumina la complessità della materia. Lilith è innanzitutto mito. Prende forma nella voce poetica come plasmata dalla sabbia, e si fa così donna prima, creazione originale, creatrice. Un’opera ridotta al necessario nella sua esecuzione, nell’utilizzo di pochi strumenti ad arco, suonati da Edo Notarloberti, e della voce intensa di Viviana Scarinci, ma che non ci lusinga con un’apparente semplicità. Il testo si compone di tre parti: nella prima, Lilith racconta di sé, della sua storia, dal suo preciso e veritiero punto di vista. Veritiero perché suo, senza elaborazioni, senza spazi per il tempo. Nella seconda parte Lilith dialoga con Dio. Nella terza Lilith dialoga con ER. Viviana Scarinci si era accostata alla figura di Lilith già nel suo Nascita della madre, in cui la dimensione del dialogo in absentia era sviluppata proprio nella declinazione dello svelamento delle mitologie. Lilith è creatura notturna che vuole abbattere tutti gli schemi, e così si sporca, si contamina per evidenziare la sua non domesticità. E’ un essere indomito, non per forza ribelle, perché è prima della necessità di ribellione. Personaggio della mitologia babilonese prima che di quella ebraica che la porta fino a noi, Lilith è donna prima di Eva ma anche ermafrodito, creatura senza sesso che è di entrambi i sessi. Ma non per questo in sé distruttiva, solo non sistematica. La connotazione antivitale di Lilith giunge non prima del medioevo: il mito della donna incontrollabile attraente e terrificante, si genera con la società de secoli bui, e nel romanticismo e nei movimenti letterari dell’Ottocento riprende la sua ambivalenza per svelare le perverse attitudini sessuali dovute alla repressione. Basti citare il Faust di Goethe, in cui Lilith è, nell’universo multifocale delle figure femminili, al centro della svolta nella notte di Valpurga. Mefistofele incita Faust a ballare con lei, come se lei potesse, diversamente da altre donne che Faust ha incontrato, fargli intravedere l’attimo e costringerlo a cedergli l’anima. Ma quando Faust torna schifato perché dalla bocca di Lilith è uscito un topolino, Mefistofele lo prende in giro «e che sarà mai, non era mica rosso, il topo». Mefistofele, l’ironico per eccellenza, non sta prendendosi gioco solo di Faust, ma della concezione medievale e maschile di Lilith, ridotta a un essere femminile dagli attributi seducenti in quel determinato sistema, le stesse caratteristiche descritte da Viviana Scarinci nel suo già citato Nascita della madre «caratteristiche non ‘domestiche’, una lunga chioma indocile, il corpo impudicamente cosparso di saliva e di sangue, residui di mestruo, di aborti, di altre promiscuità. Lilith: la creatura notturna, colei che è, senza il pensiero di nascondere, la distruttrice di ogni ordine prestabilito, la madre dell’invisibile fertilità della morte, il motore vitale dell’unicità non dissimulata, la fame e la profonda solitudine che l’imperativo della fame impone». La danza di Faust con Lilith richiama anche il mito di Salomone, l’unico ad aver danzato con lei, donna demone, madre di demoni e regina. Ma soprattutto, come Viviana Scarinci in questo testo, Goethe metteva in scena la debolezza dell’uomo, che non è del diavolo, bensì profondamente umana. Il suo bisogno di controllo, di percezione del potere, di domesticazione dell’innocenza oltre la bontà. Lilith, che è e rimane la parte rimossa di Eva, che accetta la sua cacciata dal Paradiso, fa della sua identità un tesoro. Chiede ad Adamo di essere sua pari, di non dovere giacere sotto di lui durante il coito, ma sopra, in un tempo primigenio, in cui i rapporti di potere non erano ancora stabiliti. Come nota Viviana Scarinci, «non fu lei, con questo gesto, a perdere l’innocenza», bensì Adamo, che risponde alla richiesta con la volontà di dominio, con la violenza. Perché conosce la paura dell’abbandono e insieme la paura della verità: Lilith è più forte di lui, perché non ha paura di se stessa. Lui, primo uomo, si fa schermo della sua posizione oltre qualunque altra considerazione, e scaccia la sua compagna. Secondo il mito, Lilith fugge in una zona del Mar Rosso nota per essere il rifugio dei demoni.
avrei subito l’ansa come un fatto silente avrei appreso la laguna come la convergenza dell’acqua al buio se altri moventi se altri garanti non mi avessero emulsionata in una fisica dirimpetta e io non mi fossi perfezionata nella distanza che mi divide, una dall’altra innervata che sloga volo e caduta.
Ma ancora trattiene il suo passato, fino a quando non disobbedisce all’ordine di Dio che per bocca di tre angeli le ingiunge di tornare al marito, perché la sua identità è ormai altro, ed è più importante di ogni altra cosa, anche del perdono divino. Non può tornare a essere moglie, dopo essere stata se stessa, nonostante il suo amore per Dio. Della complessità di Lilith Viviana Scarinci rende conto in una brevissima introduzione, in cui riprende tutti tratti principali del mito: l’origine Babilonese, demoniaca e regale, e i contorni ebraici, più noti: Lilith, prima moglie di Adamo, si rifiuta di essere sottomessa e si fa demone. Ma, ricorda Scarinci: «era segretamente innamorata di Dio, tentava spesso di volare verso l’amante e Adamo, per trattenerla, si alzò da carponi e prese a camminare diritto su due gambe. Forse l’uomo ha guardato al mondo perché Eva ha procreato ma si rivolto al cielo perché prima di Eva è esistita Lilith». Prima che l’uomo fosse uomo, Lilith era:
Tutti i fatti subiti e orditi dal corpo mi dicono che rimane sul polpastrello l’impronta, più che in questa creta plasmata altrove
L’intento artistico non sembra quindi quello mettere in scena la rielaborazione poetica di una storia nota, bensì di riportare alle origini del senso del mito una figura troppo raccontata: una riflessione che vuole accomunare Lilith all’attualità nella spinta all’indietro nel tempo, alle origini del mito. L’operazione di parallelismo con la parola poetica appare chiara nella scelta dei termini. Lilith, prima donna, è potenzialmente generatrice di ogni creatura. Così è la parola lirica, collocata in uno spazio ibrido in cui le connessioni binarie sono inutili e inesistenti. È una parola che guarda al tempo da cui proviene, universale e nucleare, parola in potenza. Viviana Scarinci sceglie quindi parole fenotipiche per descrivere stati d’animo, gesti, avvenimenti, che nella loro natura di intimità, allargano la percezione su un universo di possibilità, definendo e sfumando la figura di Lilith nella sua appartenenza a una natura primigenia che dà vita prima che vi sia ordine: Osso – Pelle –Concrezione – Crescita – Albero – Bambino – Cammino. La parola poetica è antica, minerale, fossile, frutto della creazione e principio generatore, quindi unione di presente e passato, fusione di padre e figlio:
l’unico modo sfalda le cortecce dei pini fino al cerchio che contiene il bambino nel folle trattenimento del tronco padre di sé piccolo
Ulteriore simbolo della congiunzione tra un remoto passato e un presente che si può conoscere solo in assenza è il fossile, pietra di memoria, che contiene ere e sostiene in futuro. La pietra fossile inerte annuncia una vita impossibile ma reale.
per un lungo attimo la notte ti asciuga, fossile indeducibile dalla sua pietra cosa inerte, mio frantume
É una pietra che deve rivivere, nel richiamo a Paul Celan, («è tempo che la pietra ritorni a fiorire») toccata dalla forza creatrice dell’io lirico, l’unica che può annullare la stasi :
Se entri in un accadere paralizzato di sequele io fruttifico le stasi che mi trasogni
Nel dialogo con Dio, culmine del secondo atto, Lilith esprime dubbi e rabbia, e si dice costretta alla rinuncia:
la mia eternità è una formula un rilevo un’asperità fittizia tre punti di sospensione un braille trafitto senza rumori di bianco, un morse a guerra finita che non serve il segreto ora l’intensità è minore si vede la coazione alla rinuncia
Ma Lilith è anche, qui figura che ricorda Sisifo, determinata a non accettare davvero la sua pena, nella “coazione” abbandona una lotta senza senso nello spegnersi della lotta. E così è anche legittimazione della poesia stessa, della scrittura, che come nel mito di Sisifo di Camus, è antidoto al suicidio, dunque alla morte. Il testo e la musica si appropriano dell’ascoltatore: la percezione della poesia si fa parte della poesia stessa, nella fusione delicata e mai ridondante di metafora e rappresentazione. Un’opera, questa di Scarinci e Notarloberti, che appare necessaria nella sua non semplicità e non semplificazione e nella passione vitale, corposa, forte della voce della lettrice che è voce di Lilith, voce di Dio ma soprattutto, voce limpida della poesia e della musica che plasmano nascite di intensa percezione, fioriture dalla pietra, da ricordi dimenticati e da tempi senza memoria. Lilith, la sua figura, il suo mito, è il fossile e la pietra, identità nuova che si pone in essere con l’accettazione della propria esistenza. Ma soprattutto La favola di Lilith è un’opera di grande coerenza, che sviluppa l’assunto iniziale in ogni risvolto, senza però cedere al concettualismo. Ogni piano di lettura è uno strato della compatta formazione geologico-poetica dell’opera, in sé tagliente e significativo, ma ancor più denso se esaminato nella sua stratificazione.
Luglio 2014, Luigia Sorrentino pubblica un’ampia pagina dedicata sul blog di poesia di RAINEWS  – Con una mia nota sulle modalità compositive dell’opere e un estratto dal testo http://poesia.blog.rainews.it/2014/07/13/viviana-scarinci-la-favola-di-lilith/
SU lurker’s realm luglio 2014, una segnalazione –  Che cosa possiamo aspettarci quando un musicista virtuoso e un poeta di talento si incontrano per lavorare insieme? La risposta può essere data da Ark Records, con l’uscita di “La Favola di Lilith”, un’opera realizzata da Edo Notarloberti e Viviana Scarinci.
La figura di Lilith è l’elemento comune del confronto tra il violino e la parola nell’ambito di un’opera divisa in due atti. Quest’opera è il frutto di due menti di talento e un pezzo d’arte delicato che rivela tutto il suo splendore a ogni ulteriore ascolto.
Chi ha già familiarità con il violino di Edo (e chi non la ha deve assolutamente colmare questa lacuna!) qui può realizzare il suo ulteriore potenziale espresso quando si combina alla parola poetica di Viviana. Questo potenziale si esprime completamente nell’intensità di questo lavoro. Non è un disco tradizionale, ma è un’esperienza che ci  parlerà sicuramente a lungo.
da http://lurkersrealm.blogspot.ae/2014/07/noticiaa-fusao-de-dois-mundos.html
IL NUOVO luglio 2014, una recensione di Maurizio Lancellotti –  La tradizione religiosa ha contribuito non poco a corroborare per secoli la subalternità della donna nel tessuto sociale, considerandola asservita all’uomo da cui ella deriverebbe e a cui dovrebbe sottomettersi. Ebbene, vi sono miti arcaici secondo cui prima di Adamo, Dio avrebbe creato una donna, Lilith, formandola a partire dalla TERRA e non dall’uomo. Lilith, quindi, sarebbe stata scacciata da Dio per via del suo rifiuto a sottomettersi all’uomo (ne L’alfabeto di Ben-Sira viene raccontato che Lilith abbandonò il Giardin dell’Eden a fronte del rifiuto di Adamo di riconoscerla come sua pari “Ella disse – non starò sotto di te – e egli disse – e io non giacerò sotto di te, ma solo sopra. Per te è adatto stare solamente sotto, mentre io sono fatto per stare sopra ”. In questo modo Lilith figura di origine mesopotamica, divenne nell’immaginari ebraico un demone, emblema di adulterio e lussuria per poi subire nel cristianesimo una damnatio memoriae. Nella sua Favola di Lilith, Viviana Scarinci, poeta e critico del nostro territorio, condensa degli studi condotti per anni in genere sulla questione femminile in filosofia e nella letteratura e in particolare sulla figura di Lilith. Si tratta di un’opera musicale in due atti che mostra un connubio, tra poesia e musica, due generi così diversi ma la contempo così affini, di Viviana Scarinci (poeta) ed Edo Notarloberti (musicista). Nell’intenzione degli autori “La favola di Lilith non nasce dall’intento artistico di mettere in scena la rielaborazione narrativa di una storia nota ma da una riflessione che vuole accomunarsi all’attualità, attraverso gli strumenti della musica e della poesia contemporanea. Il violino di Edo Notarloberti cavalca l’onda delle parole di Viviana Scarinci sintetizzando i percorsi pregressi delle esperienze passate (vedi Argine e Ashram) proiettandoli in una direzione ancora più essenziale in quanto affrancata dalla schematica forma canzone che da un lato garantisce integrità formale, dall’altro limita il fluire liquido delle note che come le parole, in quest’opera intensa, sono alla ricerca di una verità essenziale attraverso una dimensione sonora assolutamente acustica, neoclassica.” Il testo presenta pertanto elementi di complessità che lo rendono di non immediata comprensione per chi non abbia una certa dimestichezza con la filosofia e la poesia, tuttavia nel suo connubio con la musica risulta molto suggestivo e godibile anche a un pubblico più ampio.
SUONO 487 maggio 2014, nella sezione “SELECTOR tutto il meglio in arrivo sul mercato” una recensione di Guido Bellachioma  –  Un disco complicato e semplice al tempo stesso. Persino spoglio nell’utilizzo dei pochi strumenti ad arco (suonati da Edo, violinista anche di Ashram, Argine, Corde Oblique e di notevoli progetti solisti) e dell’espressiva voce di Viviana (poetessa alla prima performance artistica di questo tipo). Apparentemente una situazione già vissuta, non solo in ambito neoclassico, neofolk e dark, dove i momenti rarefatti e lirici vedono musiche avvolgenti fungere da tappeto per voci recitanti, più o meno sognanti. In questo caso, 32 tracce legate senza soluzione di continuità, il percorso è piuttosto diverso perché si tratta di una reale connessione tra i due universi; dove il fatto che non ci sia la classica forma canzone, sia pure “diversa”, finisce per dar risalto al ritmo che connette profondamente musica e parole, in grado di esplorare Lilith non come donna del mito (quella prima di Eva) ma come aggancio alla contemporaneità. Il disco richiede inizialmente grande concentrazione; una volta perforato il mare di emozioni, però, non si può che andare fino in fondo e, spesso, ricominciare da capo. Inutile fare confronti con momenti acusticamente simili di gruppi come i Current 93, anche se punti di contatto ci sono… Lilith è una moderna opera “antica”, dove al posto delle voci del melodramma c’è lo scavare nell’anima, modulando le parole negli spazi lasciati liberi dalle note e spesso avvinghiandovicisi mortalmente. L’operà sarà rappresentata in anteprima europea al The Wave-Gotik-Treffen 2014 di Leipzig Germania), il più importante festival per questi territori di confine, dove Edo non suonerà ma dirigerà un quartetto d’archi (due violini, viola, e violoncello). Per capire l’anima del suono dell’affascinante favola di Lilith abbiamo preso in prestito le parole di Antonio Esposito, tecnico del suono del Tp Studio di Napoli, dove è stato registrato:”Edo è uno di quei musicisti che più che per la tecnica ti affascina per la capacità evocativa del suono. Suonando assieme a lui e registrando la sua musica in contesti molto diversi, ho imparato a conoscere la particolarità di questo suono; dovendo scegliere come riprenderlo in un contesto “atipico” (3 violini e un violoncello, suonati tutti da lui), ho scelto di provare a renderlo il più naturale possibile, utilizzando un AKG 414 TLII come microfono principale, in coppia con un pre Universal Audio 710 e un AKG C4000 alle sue spalle per recuperare alcune frequenze basse. Altra scelta di base è stata quella di dare grande spazio ai suoni d’ambiente, posizionando due Rode Nt2-A, preamplificati da due API 512c, a grande distanza tra loro. Queste due room si sono rivelate poi centrali nell’equilibrio del mix finale di Giuseppe Spinelli, mix fatto ITB utilizzando un Reverbero Lexicon PCM 70 e un compressore DBX. Il piano, un Kawai verticale, è stato ripreso con tecnica A-B. Per la voce di Viviana, dopo aver provato varie soluzioni, l’AKG 414, accoppiato a un pre Universal Audio 610, si è rivelato la scelta migliore, soprattutto nel gestire le dinamiche molto differenti all’interno dei vari brani. Il mix ha provato a lasciare inalterata questa realtà sonora, senza puntare ad elevare il volume”. Le prime 500 copie hanno il libro dell’opera.
sito http://lafavoladililith.wordpress.com/ pagina facebook https://www.facebook.com/lafavoladililith
contattati rossana rossi: [email protected] edo notarloberti: [email protected] viviana scarinci: [email protected] Fondo Librario di Poesia di Morlupo: [email protected]
La favola di Lilith, libro e CD un concerto, un CD, un libro di poesia ... LA FAVOLA DI LILITH
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