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Sulle coste dell’Oceano Artico – Edward L. Moss. Recensione di Alessandria today
Il racconto epico della spedizione polare del 1875-76: tra ghiaccio, coraggio e sopravvivenza.
Il racconto epico della spedizione polare del 1875-76: tra ghiaccio, coraggio e sopravvivenza. Sulle coste dell’Oceano Artico di Edward L. Moss è un’opera straordinaria che documenta una delle spedizioni polari più significative del XIX secolo. Con uno stile vivido e dettagliato, l’autore ci trasporta nell’epoca delle esplorazioni polari, raccontando le difficoltà, le scoperte e il coraggio di…
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Tour nella città fantasma di Pyramiden, vent’anni dopo l’abbandono. Alle Svalbard, dove Lenin si erge tra gli orsi e tutto è a prova di Armageddon
La porta di legno era chiusa a chiave dall’interno. Quando finalmente ritrovarono la Swedish House, la casa svedese, nell’Isfjorden, alle Svalbard, la casa di legno, la casa più antica delle Spitsbergen, era immersa in un silenzio sinistro. All’esterno, i corpi di cinque cacciatori di foca avvolti in coperte di tela catramata. Era l’estate del 1873 e una nave era partita da Tromso, dalla Norvegia settentrionale, per cercarli. I diciassette cacciatori svedesi avevano fatto sparire le proprie tracce il 14 ottobre 1872, diretti alla “Svenskhuset”. Avevano trovato alloggio e rifugio, nella casa svedese appunto, quei diciassette cacciatori svedesi, scelti tra quelli privi di famiglia, non tutti potevano essere assistiti dall’esploratore Adolf Erik Nordenskiöld, in spedizione nel territorio artico. Ma in quella casa c’era tutto il necessario, cibo, carbone e abiti in abbondanza, per affrontare la lunga notte artica. La porta, su cui è disegnato un divieto d’accesso, viene spalancata e, dentro, si trovano i cadaveri, stecchiti dal gelo, degli svedesi dispersi. In tutto quindici (due saranno trovati anni dopo). Dentro casa, i corpi dei cacciatori sono seduti sulle sedie, sdraiati a letto e sul pavimento, conservano la postura esatta del momento in cui la morte li ha colti e il gelo custoditi. I cadaveri vengono presto bruciati e uno dei misteri delle Svalbard e Jan Mayen passa alla storia come una delle numerose tragedie dello scorbuto, tra i ghiacci polari. Eppure erano già note all’epoca le malattie che potevano colpire gli esploratori e i cacciatori di foche e di orsi. Nel 2008, alcuni medici riescono a riaprire il caso, c’era qualcosa di sospetto in quelle morti, qualcosa di maledetto in quella Swedish House. “Si tratta di avvelenamento da piombo”, ci spiega la giovane guida, un allegro ragazzo siberiano a bordo del piccolo catamarano Aurora Explorer, mentre attraversiamo le fredde acque dell’Isfjorden, diretti a Pyramiden. Mi racconta che la storia della casa svedese è parecchio nota. Mi mostra anche un libro in cui avrei potuto trovare maggiori informazioni, Isfjorden di Kristin Prestvold. La casa svedese è una di quelle storie leggendarie che si possono facilmente scoprire tra queste terre artiche e inospitali. Con la strana sensazione di sapere che non si tratta affatto di leggende. L’avvelenamento da piombo – mi spiega la guida – è stato causato dal cibo intossicato che, lentamente ma inevitabilmente, ha condotto questi robusti e avventurosi svedesi alla morte certa. Non erano morti per la mancanza di vitamina C, ma a causa del piombo utilizzato per sigillare le lattine dei cibi. Una morte forse più inquietante di quella di Roald Amundsen, l’Aquila Bianca della Norvegia, scomparso per sempre e inghiottito dall’Artico mentre andava alla ricerca del suo rivale, amico nemico, Umberto Nobile, il cui dirigibile Italia era naufragato sul pack, a nord est delle Svalbard.
La città fantasma di Pyramiden, nata intorno alle miniere di carbone, è russa dal 1929 ed è stata abbandonata nel 1998 (le fotografie del servizio sono di Linda Terziroli)
Sulle spedizioni polari, la giovane guida russa mi consiglia di visitare il North Pole Expedition Museum di Longyearbyen, dove lui vive felicemente da quattro anni e dove ritrovo cimeli straordinari, testimonianze dei pionieri dell’Artico, da Nansen a Cook e Peary, fino ai disegni e filmati originali dei dirigibili che hanno raggiunto il Polo, prima il Norge e poi l’Italia e persino dei residui di telai, radio, cordami, libri e documenti di inestimabile valore. Fotografie e lettere, storie di chi ha fatto ritorno e di chi non è mai tornato vivo dal Polo. Come il giovane giornalista Ugo Lago, scomparso a bordo dell’Italia nei cieli dell’Artico. La sua lettera scritta alla vigilia della partenza, dalla grafia dannunziana, non si può leggere senza provare una dolorosa fitta al cuore. “Carissimi papà, mammà e Dora, io tornerò certamente da questo viaggio polare. Se mai non tornassi, e se avete, come avete, fede in Dio e nell’immortalità dell’anima, pensate che il più grande dolore che possiate dare al mio spirito, in cielo, è quello di vedervi disperati. Il vostro dolore tranquillo deve rassegnarsi, se volete sapere la mia anima felice. Questa è la mia più viva preghiera. Vi bacio tutti con affetto eterno Ugo”. La lettera è datata 11 aprile 1928. Il dirigibile su cui viaggiava Ugo Lago, giornalista de Il Popolo d’Italia, scomparve il 25 maggio. Non c’è tenerezza tra questi ghiacci, benché i fiori di cotone inizino a spuntare ad agosto e il papavero artico faccia la sua comparsa breve. La desolazione è sublime, il cielo plumbeo incombe, insieme a scuri gabbiani che attraversano il cielo. C’è persino una scuola e l’asilo qui a Longyearbyen, i bambini sono imbacuccati e con piccoli giubbotti catarifrangenti. Mentre il loro “prato” brullo è circondato dall’alta maglia della rete di recinzione. Non è possibile non fare i conti con gli orsi da queste parti. Chiunque deve sapere che un orso polare potrebbe spingersi fino in paese da un momento all’altro. Quindi tutti girano armati di fucile. All’ufficio postale e in banca non è possibile entrare armati e un cartello con il singolare divieto è incollato alle porte scorrevoli di vetro. Si vede che l’orso non ama la vita civile. Qualche mese fa è successo – racconta sempre la guida – ad una ragazza che stava passeggiando a breve distanza dalla città di Longyearbyen. È stata azzannata. Qui l’orso non ispira una simpatia da circo, ma incute il timore delle belve feroci. In questo fiordo non si vedono altre imbarcazioni, ma tutto intorno sipari di montagne dalla forma triangolare, piramidale, mentre i ghiacci finiscono in mare. Piccoli pezzi di ghiaccio galleggiano in superficie e iniziano a sciogliersi. Si vedono due orsi, a occhio nudo, sulle rocce vicino al ghiacciaio Nordenskiöld, di fronte alla città mineraria abbandonata di Pyramiden. Quando arriviamo al vecchio molo di legno scricchiolante di Pyramiden, saliamo su un vecchio pullman, l’autista russo tiene la sua vecchia pistola sovietica, in un vassoio, vicino alle monete della mancia. Lui è uno dei pochissimi russi che abitano a Pyramiden, uno dei due che vivono qui tutto l’anno. Dodici persone in tutto, russe e ucraine nel periodo del sole di mezzanotte. L’autista vive da decenni in questa città fantasma, sin da prima che venisse abbandonata, ma non possiede le chiavi del vecchio ospedale, dove alcuni dicono che siano racchiusi molti misteri. Ma Pyramiden, Pyramida in russo, è una città mineraria fantasma, quasi al 79° parallelo (N 78°40’), abbandonata nel 1998, dopo il crollo dell’Urss, ma ancora oggi baluardo russo in territorio norvegese. Un’altra causa dell’abbandono fu il disastro aereo del 29 agosto 1996, quando persero la vita un centinaio di abitanti di Pyramiden, dopo lo schianto del volo Vnukovo Airlines nei pressi di Longyerabyen. Una semplice e umile croce di legno ricorda quelle morti. Passeggiando tra le vie deserte di Pyramiden, sembra di vivere dentro il romanzo Dissipatio H.G., di Guido Morselli: la città deserta, scomparsi tutti gli uomini. Ogni cosa è rimasta immobile, si vedono solo aggirarsi animali, volpi artiche come gatti che camminano tra le case, mentre i gabbiani hanno fatto grandi nidi alle finestre, che non si aprono più.
Non tutti gli edifici si possono visitare. Quasi tutti sono chiusi a chiave, sigillati, al riparo dai furti e danneggiamenti. La nostra guida russa, una bella ragazza di nome Anna, ha una rivoltella alla cintura e lo sguardo circospetto. Teme che qualcuno dei visitatori possa rimanere intrappolato nei vecchi edifici sovietici, come è successo a una coppia qualche mese fa. Anna vive qui con il suo fidanzato ed entrambi lavorano per la compagnia russa Grumant, arctic travel company, che organizza spedizioni alle miniere, anche a quelle tuttora in opera e tra i ghiacci di Barentsburg. Sia Pyramiden che Barentsburg erano insediamenti olandesi che furono venduti all’Unione Sovietica nel 1929. Gli anni d’oro delle miniere carbonifere alle Spitsbergen furono tra gli anni ’70 e ’80 quando lavorare alle Svalbard era una piccola fortuna per i sovietici. Un cartello russo, sul muro di mattoni rossi, recita solenne ancora oggi: “In onore del trentesimo anniversario della miniera carbonifera sovietica. Piramida Agosto 1976”. Gli uomini e le donne che lavoravano qui vivevano in edifici separati tra loro, Paris e London, e si sussurra che ci fosse un tunnel sotterraneo che permetteva incontri clandestini. La città fantasma aveva un edificio (ormai non più visitabile) con due piscine per adulti e bambini, con acqua di mare riscaldata, un ospedale ben equipaggiato, l’ufficio postale, un luogo dove mangiare, la Crazy house per far giocare i bambini, una scuola che accoglieva i circa centocinquanta piccoli russi che vivevano qui. C’era una palestra con un campo da basket e da calcio, ben conservata e con le fotografie ancora appese alle pareti che ricordano celebrazioni e intrappolano avvenimenti rilevanti che nessuno dei turisti può riconoscere. Un teatro e addirittura un grande pollaio e una stalla, l’orto dove si coltivava la terra che dava, incredibilmente, grandi frutti (stando alle parole della guida). Un piccolo paradiso agli estremi confini delle terre abitate. Alle finestre degli alloggi femminili, alcuni piccoli sportelli di metallo fungevano da refrigeratori naturali per piccoli utilizzi. Dai soffitti dei palazzi pendono ancora preziosi e importanti lampadari dell’epoca sovietica, nella stanza della musica un pianoforte verticale aperto aspetta il pianista che si è allontanato, “da qualche istante”, lasciando lo spartito aperto sull’ultima nota. Ci sono anche i piatti, una vecchia batteria e diverse pianole sul davanzale della finestra che guardano questa desolazione artica, punteggiata di neve. Ci sono le scale bloccate da una panchina di legno che ormai nessuno sale più, le ringhiere e i corridoi che conducono a stanze e ampi saloni che sono diventati improvvisamente deserti e silenziosi. In un corridoio, una cartina politica del mondo, in cirillico, rende ancora più vasta la grandezza dell’Urss, mentre gli angoli si arricciano in giù. Intorno alle stanze, vicino alle grandi finestre, vasi con vecchie piante ormai rinsecchite e prive d’acqua. Ovunque vestigia russe di una gloria perduta, sepolta tra i ghiacci.
La strada principale era chiamata per un vezzo oggi ridicolo “Champs-Élysées”, mentre il busto di Lenin (quello più a nord del mondo) volge severo lo sguardo dall’alto di una colonna di cemento posta sopra tre gradini. Alle spalle di Lenin, la casa della cultura e dello sport con un campo da pallavolo e una biblioteca e, seguendo il suo sguardo, si vedono i palazzi abbandonati, la lingua cerulea del mar glaciale artico e, a sinistra, il ghiacciaio. Nessuno più si cura di cambiare le lampadine ai lampioni, mentre le aule della scuola, dalle mura rosso acceso e decorate – uno degli edifici più belli e meglio conservati – sembrano abbandonate da poco. Nelle cucine lasciate per sempre, i forni sono spalancati e dentro le loro bocche, come carie nei denti, si è insinuata abbondante la ruggine. Piccoli pezzi d’intonaco si stanno lentamente staccando dal soffitto, mentre un odore appiccicaticcio, tra l’acidulo e il rancido, solletica le narici. Quanti anni saranno passati dall’ultimo pasto cucinato qui? Per quale occasione è stato preparato? C’è anche un albergo nella città abbandonata – dove vivono quasi tutti i pochi abitanti, compresa la nostra guida, un paio vivono in un “garage”, vicino al molo – si chiama Tulpan Hotel e costa un centinaio di euro per notte (all’incirca 1000 corone norvegesi). Chi vuole può passare qualche notte nella città fantasma. La nostra guida ci racconta che molti sono i progetti in campo a Pyramiden, un filmfestival – il più a nord del globo – e alcuni registi americani intendono girare un film e un horror. Il set è già pronto. Anna ci rivela che le piacerebbe vedere, nel cast, George Clooney. Ma qui non c’è nemmeno la TV e neppure la connessione Wi-fi, ci tiene a sottolineare, il loro “internet point” (l’unico posto in cui c’è campo) è vicino al molo e quando ce lo mostra è una postazione, con una vecchia cornetta telefonica. L’impressione più vivida che si ha è quella di camminare tra i fantasmi, di una città fantasma, mentre le parole russe che un tempo qui si udivano sono state sostituite dalla voce alta e querula dei gabbiani che qui nidificano a migliaia. Le persone che vivevano qui e lavoravano alla miniera di carbone ormai potrebbero essere già morte. Il vento increspa le onde, mentre ci allontaniamo dalla visione di Pyramiden, la città fantasma presto viene nascosta da altre montagne piramidali, ma deserte. Quando il fiordo ghiaccia, si può arrivare qui in motoslitta.
Attracchiamo a Longyearbyen, la città più popolosa delle Svalbard, con i suoi 2200 abitanti; la visione di una città che vive ancora dà un certo sollievo. Del resto qui tutto si conserva, tutti i semi di tutte le piante, allo Svalbard Global Seed Vault, il deposito globale di sementi, aperto dieci anni fa, vicino a Longyerbyen, con porte d’acciaio e la struttura in calcestruzzo, a prova di Armageddon e di affamati orsi polari. Nelle terre artiche, non si perde nulla e tutto si conserva, a volte, con l’inevitabile scioglimento dei ghiacci, compare qualche capitolo di una leggenda perduta. Anche al buio delle notti polari, che tra qualche mese faranno piombare Pyramiden in una città fantasma ancora più sinistra, l’aurora boreale renderà più misteriosi e affascinanti questi luoghi estremi. La terra delle Svalbard, scoperte dall’olandese Willem Barents nel 1596 ma battezzate così nel 1194 in lingua islandese, il “litorale freddo”, dove si cacciavano le balene, il cui grasso veniva bollito e messo nei barili. E dove, ancora oggi, si cacciano le foche. Dove, qui più che altrove, la natura mette a dura prova la resistenza fisica e psichica degli uomini. Ma l’unica terra al mondo dove non si può nascere né morire. Quelle porte qui non si aprono più.
Linda Terziroli
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Forse non tutti sanno che. Roald Amundsen a 21 anni scelse di abbandonare gli studi in medicina e di assecondare la passione per le esplorazioni. A 25 prese parte alla prima spedizione invernale nell'Antartide, a 29 anni scoprì e attraversò il Passaggio a Nordovest, a 39 raggiunse (a piedi, perché non si poteva altrimenti) il Polo Sud. Io, invece, ho freddo. #leparolecreanomondi #michelelamacchia #libri #books #libros #leggere #leggeremania #living #lettura #leggeremania #frasi #citazioni #visitnorway #ice #snow #norge #myjourney #mytravelgram #travelblogger #travel #polar #minimalism #white #bigwhite #nature #naturelovers #boat #amundsen #northpole
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L’edizione 2017 di Lucca Comics & Games sarà dedicata agli Heroes, gli eroi, non di carta, di pixel o di celluloide, ma in carne e ossa come i veri protagonisti che per 5 giorni renderanno unico l’evento: gli spettatori, protagonisti fin dal poster di questa edizione, creato da Michael Whelan. L’artista statunitense, ospite a Lucca, omaggiato di una mostra personale, è tra i maggiori artisti fantasy viventi, autore delle copertine di Isaac Asimov, Stephen King e di Michael Jackson. Nel poster coniuga un’antica leggenda lucchese con l’allegra passione di coloro che si mettono in viaggio verso Lucca Comics & Games per essere eroi… anche solo per cinque giorni.
I grandi ospiti internazionali
Robert Kirkman sarà per la prima volta in Italia, a Lucca Comics & Games. Americano, creatore della saga a fumetti “The Walking Dead” (in Italia da SaldaPress), da cui è tratta la serie televisiva in esclusiva su FOX (Sky, 112) e dal 23 ottobre in partenza con la stagione 8, incontrerà il pubblico, con eventi e firmacopie. Sempre dall’America, Raina Telgemeierapproda a Lucca sull’onda dell’Eisner Award per Fantasmi (Il Castoro) e sarà onorata con una mostra. Dal Giappone arrivano, tra gli altri, Taiyo Matsumoto (J-Pop), anch’egli protagonista di una personale, autore di Sunny (Gran Guinigi 2016), e Tite Kubo (Panini Comics), autore del celeberrimo manga Bleach. Ci sarà Jason Aaron, dal 2015 autore della saga a fumetti ufficiale di Star Wars, artefice del restyling di testate tra cui Thor e L’incredibile Hulk e co-sceneggiatore di Avengers vs X-Men. Non mancheranno i big italiani, da Zerocalcare a Gipi, da Leo Ortolani a Sio, quest’ultimo “fresco” reduce dalla spedizione al Circolo Polare Artico, raccontata in una mostra a Lucca anticipata a Milano nella libreria Feltrinelli di piazza Duomo.
La narrativa e l’arte fantasy trovano a Lucca un popolo attento di appassionati, e gli ospiti sono attesissimi: Timothy Zahn, tra i principali scrittori americani della novellizzazione di “Star Wars”, noto per la “Thrawn Trilogy”, una trilogia di romanzi ambientati cinque anni dopo la fine del “Ritorno dello Jedi”; Licia Troisi, protagonista come ogni anno a Lucca Comics & Games; la pittrice americana Heather Theurer, vincitrice del nostro OverLuk Award e di vari premi internazionali; la spagnola Victoria Francés, celebre nel mondo fin dal suo primo libro illustrato, “Favole” (Lizard); Sarah Wilkinson, designer di carte da gioco di “Star Wars – Episodio III: La vendetta dei Sith”. Torna a Lucca con un nuovo progetto anche John Howe, tra i più apprezzati artisti tolkieniani.
Per il gioco da tavolo e di ruolo, ci saranno, tra gli altri, John Wick, game designer autore di “7th Sea” (Gioco di Ruolo dell’Anno 2017), che ha spopolato su Kickstarter; Bill Slavicsek, che ha contribuito allo sviluppo di famosi giochi di ruolo (“Star Wars” e “D&D”); Roberto Fraga, autore dei successi “Captain Sonar” e “Shrimp” (Giochi Uniti); Robert J. Schwalb, prolifico creatore di manuali per giochi di ruolo.
E non mancherà nemmeno quest’anno Cristina D’Avena, la regina delle sigle tv. Il suo pubblico affezionato la attende per il nuovo spettacolo, sul Main Stage sabato 4 novembre.
Ciò che rende unica Lucca Comics & Games
In mostra, i mondi di Lucca Comics & Games.
Le esposizioni dedicate al meglio di fumetto, game art, illustrazione fantasy e per i ragazzi sono un tratto salienti della manifestazione. Oltre alle già citate mostre personali di Whelan, Sio, Matsumoto e Telgemeier, ci saranno mostre su Igort, poliedrico autore di graphic novel pluripremiate, editore e illustratore, autore di racconti, romanzi e musiche; Arianna Papini, illustratrice di oltre 100 libri pubblicati con importanti case editrici per ragazzi, scrittrice e arte-terapeuta; Federico Bertolucci, disegnatore Gran Guinigi nel 2011 e ben tre volte nominato all’Eisner Award; Raphael Lacoste, uno dei più importanti concept designer e art director dell’industria del videogioco; Dragonero, viaggio fantastico tra fumetto e animazione. E non vanno dimenticate le mostre nelle filiali di Intesa Sanpaolo, tra cui B-Comics: Storia di Lucca Comics & Games.
“Star Wars”, 40 anni dalla A alla Z. L’anniversario della saga ideata da George Lucas sarà celebrata con eventi e ospiti, da Aaron a Zahn. Tra i momenti salienti, l’incontro tra Aaron, Marco Checchetto e Doc Manhattan, e all’auditorium S. Francesco il concerto delle colonne sonore degli Episodi 1, 4 e 7 della serie. E al Family Palace, lo spazio LEGO™ sarà tutto dedicato a “Guerre Stellari”.
Gli spettacoli dedicati a fumetto e fantasy. Lucca Comics & Games ha inventato il format mozzafiato delle “Voci di Mezzo”, in cui i doppiatori italiani di film e serie tv leggono dal vivo i più memorabili brani di letteratura fantasy, col suggestivo accompagnamento delle colonne sonore, al Teatro del Giglio, la casa di Giacomo Puccini. Ma quest’anno c’è una novità ulteriore: “Una Ballata per Corto Maltese”, la drammatizzazione di Nicola Zavagli di “Una ballata del Mare Salato”, in collaborazione con Rizzoli-Lizard e Cong, in cui andrà in scena con attori in carne ed ossa la prima leggendaria apparizione del marinaio di Hugo Pratt.
Premiamo il meglio di fumetto e gioco. Il Premio Gran Guinigi è il principale riconoscimento per il fumetto in Italia. La Selezione Gran Guinigi, identifica 30 opere di qualità, dalle quali la giuria di esperti sceglie i vincitori e assegna ulteriori premi speciali agli artisti. I riconoscimenti del Gioco dell’Anno e il Gioco di Ruolo dell’Anno sono marchio di garanzia per il pubblico italiano quest’anno i vincitori sono stati rispettivamente “Kingdomino” (di Bruno Cathala, illustrato da Cyril Bouquet, distribuito da Oliphante) e “7th Sea” (di John Wick, Asterion/Asmodee Italia). Ma ricordiamo anche il Project Contest (in collaborazione con Edizioni BD) e il Gioco Inedito (con dV Giochi), che pubblicano i migliori progetti di storia a fumetti e di gioco da tavolo.
Torna la Esports Cathedral. Dopo l’incredibile successo nel 2016, torna anche quest’anno l’esclusivo “evento nell’evento” organizzato da ESL Italia, che porterà a Lucca la 1ª edizione degli Italian Esports Open – Internazionali d’Italia 2017. Nell’insolita e straordinaria cornice dell’auditorium di San Romano, nel pieno centro della città, i videogiocatori si sfideranno su varie discipline fra cui “StarCraft: Remastered” e “Overwatch” in un’atmosfera d’altri tempi.
Fumetto, narrativa, gioco e divertimento nel cuore di una città unica
Lucca Comics & Games abbraccia l’inconfondibile tessuto urbano di Lucca, dalle Mura rinascimentali alle vie ed edifici medievali su tracciato di origine romana. In questo contesto, la manifestazione è l’antesignana dei grandi eventi fieristici nei centri storici.
Padiglione Napoleone: il regno del fumetto. Da sempre, piazza Napoleone e dintorni sono sinonimo della grande editoria a fumetti. Il Padiglione Napoleone sarà di 3.500 mq, con novità editoriali e sessioni di dediche degli autori, che occuperanno anche i padiglioni Giglio e Passaglia. Le novità saranno innumerevoli, confermando Lucca come perno del calendario editoriale italiano. Il Napoleone ospita anche il live painting degli illustratori della nuova Area Performance Comics, che si aggiunge a quella storica nel padiglione Carducci, mentre Corso Garibaldi sarà meta obbligata per i collezionisti di tavole originali e pezzi rari. E torna la Comics Artists Area, quest’anno all’interno del padiglione Giglio.
Il padiglione Bonelli. Da alcuni anni, piazza S. Martino è diventata tappa fissa per i padiglioni monotematici di Bonelli e Panini. Per Bonelli quest’anno, saranno tre le location dove si potranno incontrare gli autori e scoprire le novità: il cuore dell’evento resterà vicino al Duomo, ma è prevista anche la presenza nel Padiglione Carducci rivolto al mondo Games e un terzo, dedicato a Dylan Dog, nell’Oratorio San Giuseppe. A fianco di nuovi albi a fumetti e tanti prodotti ufficiali, tra le novità registriamo l’edizione speciale di quattro storici numeri a colori, in un’esclusiva “edizione oro”: Tex 100; Martin Mystère 100; Mister No 200; Zagor 84; senza dimenticare il Grouchomicon, cofanetto con 13 albi inediti dedicati al folle assistente di Dylan Dog, Groucho.
Il “PalaPanini”. In piazza S. Martino si alterneranno numerosissimi autori di punta e saranno disponibili tutte le novità in uscita, oltre alle celebri figurine. Inoltre, Panini Comics, Indigo Film e Rai Cinema presentano “Il Ragazzo Invisibile – Seconda Generazione”. Il nuovo capitolo della saga crossmediale made in Italy, dal grande schermo alla graphic novel, in un incontro (sabato 4 novembre) tra Gabriele Salvatores, Alessandro Fabbri, Diego Cajelli e Diego Malara. Il 2° capitolo della saga diretta da Gabriele Salvatores è previsto sul grande schermo per gennaio 2018; la natura cross-mediale del progetto è confermata dall’uscita di una graphic novel originale che espande il racconto filmico, introducendo nuovi personaggi e punti di vista. E nella migliore tradizione dei comic-book, non mancherà un “villain” d’eccezione… Il film, prodotto da Indigo Film con Rai Cinema, uscirà nelle sale italiane il 4 gennaio 2018 distribuito da 01 Distribution.
Non solo editori: dalla Self Area, lo scouting in Area Pro, i cicli e i Comics Quiz. Da anni Lucca dà spazio agli autori indipendenti, alle autoproduzioni e alla ricerca dei talenti del futuro. La Self Area si conferma nella sontuosa Chiesa dei Servi. L’Area Pro con le sue attività dedicate ai professionisti si colloca al Centro Agorà. Quinta edizione per il Translation Slam, il concorso per traduttori di fumetto in inglese, francese e giapponese. La storia e il futuro del fumetto saranno poi analizzati e studiati nei cicli “Comics Talks”, “Bànghete!”, “Comics & Science”, “Cento di queste nuvolette” e gli attesissimi Showcase in Sala Tobino. Novità di quest’anno: i Comics Quiz, in cui il pubblico potrà misurare in modo divertente la propria competenza a tema fumetto.
I mondi del gioco da tavolo e della narrativa fantastica padroni del Padiglione Carducci. Nella tensostruttura più grande d’Italia (9.000 mq) si concentrano i protagonisti del gioco da tavolo, di ruolo, dell’editoria fantasy, sci-fi e horror, da Mondadori a Salani, passando per Fanucci. Protagonisti assoluti i tavoli da gioco degli editori leader e un numero crescente di illustratori fantasy di fama mondiale. Saranno di scena i principali giochi di carte collezionabili per tutte le età, come Vanguard, Pokémon, Yu-Gi-Oh!, Magic The Gathering, Force of Will. La grande arte fantasy resta al centro del Carducci con artisti come Whelan, Steve Argyle, Hether Theuer e i grandi studios: Six More Vodka e Schoolism con artisti come Marko Djurdjevic, Jelena Kevic o Helen Chen, protagonista del cortometraggio vincitore del Premio Oscar “Paperman” e grandi successi come “Big Hero 6” e “Frankenweenie”.
Piccole e grandi sculture. Dagli action figure alle miniature per giochi di ruolo, dal giocattolo all’opera d’arte, a Lucca saranno presenti nomi importanti. L’unica tappa italiana del Tamashii Nations 10th Anniversary World Tour si terrà proprio a Lucca Comics & Games, con prototipi, prodotti esclusivi e diorami dedicati a Naruto, Dragon Ball, One Piece, Sailor Moon e i Cavalieri dello Zodiaco. Gli appassionati dei robot anni ’70 e ’80 troveranno in mostra tanti Chogokin, action figure in plastica e metallo dei più amati mecha, e potranno acquistare articoli creati in esclusiva per il tour del celebre brand giapponese. Gormiti, che miti! Il più famoso giocattolo italiano, diffuso in tutto il mondo, arriva per la prima volta a Lucca, con una mostra unica che permetterà di apprezzare l’evoluzione degli eroi della Natura, dalla loro prima apparizione fino alle ultime collezioni. CMON – CoolMiniOrNot porta da Singapore per la prima volta a Lucca le sue miniature per giochi di ruolo e il team che vi lavora: gli artisti Adrian Smith, Paul Bonner, i fratelli Karl e Stefan Kopinski, Edouard Guiton, Mike McVey ed Eric M. Lang. A Lucca sarà presentata, tra l’altro, la versione Italiana del gioco di miniature “Songs of Ice and Fire” basata sui romanzi di George Martin. A proposito di Singapore, da lì arriva anche, per la prima volta in Europa, XM Studios: sculture dal design fuori dal comune, realizzate a mano da artisti selezionati e guidati dai fondatori. XM Studio sarà presente nella Japan Town con il creative director Seng Ang e l’executive producer Bryan Tan.
Per la prima volta, ci sarà un intero padiglione dedicato a Dragon Ball, in piazza S. Giovanni con Toei Animation Europe in occasione della messa in onda italiana (su Italia 1, Boing e Italia 2) della nuova serie “Dragon Ball Super”. In Piazza S. Giusto invece torna il padiglione Netaddiction, targato Multiplayer.it, con iniziative tra cui la collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana.
Le Mura e i Baluardi, il regno del fandom e del gioco di ruolo dal vivo. I Baluardi ospiteranno il fandom organizzato della Umbrella Corporation e della 501ª Italica Garrison, ma anche parti dedicate al costuming e al gioco di ruolo dal vivo. E le vie del centro saranno come sempre animate dalle parade, i flash mob e i mash up delle fan community da tutta Italia. Senza contare il Main Stage, su cui si esibirà Cristina D’Avena ma faranno la loro comparsa anche i mitici Oliver Onions, e il nuovissimo Fun Stage, su cui si esibirà il Velivolo Ghibli, band vincitrice del Cartoon Music Contest 2016.
Il mondo del videogioco in un contesto fuori dal comune
Activision avrà quest’anno una presenza di forte impatto, con due grandi padiglioni dedicati, in piazza S. Maria, con oltre 100 postazioni di gioco e un maxi schermo sul quale saranno trasmessi showmatch e altri contenuti esclusivi. Protagonisti i due titoli più amati di Activision, “Call of Duty: WWII” e “Destiny 2”. Per il lancio dell’attesissimo “Call of Duty: WWII”, in uscita proprio durante Lucca Comics & Games, sarà allestita l’esatta ricostruzione di un quartier generale militare americano della Seconda Guerra Mondiale, con autentici mezzi militari degli anni ’40. Nell’area dedicata a “Destiny 2”, lanciato da pochissimo ma già gioco da record, sarà possibile provare varie modalità di gioco e incontrare i volti più noti della community, che si alterneranno in un programma ricco di appuntamenti.
Bigben Interactive è presente con un’area all’interno della Cavallerizza dove i visitatori possono acquistare prodotti gaming a condizioni eccezionali e provare in anteprima “Outcast – Second Contact”, inoltre, sulle Mura della città è posizionato un container con postazioni “WRC 7” Gli aspiranti piloti possono vivere le entusiasmanti corse rally provando “Revolution Pro Controller 2” di Nacon™, l’innovativo controller per PS4 con licenza ufficiale Sony per essere utilizzato con PlayStation® 4 e compatibile PC. Inoltre, in tutti i punti di ristoro della città offrono speciali sottobicchieri in edizione limitata che, oltre a essere oggetti da collezione, permettono a tutti i visitatori che li portano allo stand Bigben di ricevere sia un poster di Michael Whelan autografato in regalo che fantastici sconti sui prodotti Bigben, interagendo con il QR code riportato.
Blizzard Entertainment, uno dei maggiori sviluppatori ed editori di videogiochi al mondo, sarà a Lucca con un padiglione in piazza S. Maria. Ci saranno postazioni dedicate ai loro titoli più amati tra cui “Overwatch” e “Heroes of the Storm” ma non solo: per la prima volta in Italia sarà possibile acquistare gadget e merchandising ufficiale al Blizzard Gear Store. Sempre in piazza S. Maria, i fan di “Hearthstone” potranno visitare e vivere in prima persona l’atmosfera della Taverna, ricreata all’interno della casermetta sulle Mura. Ad aspettarli, gli ambienti resi celebri dal gioco: il focolare, le panche, le botti, l’inconfondibile motivo musicale e un’area di gioco dove sfidarsi.
Numerose le attività in programma nel padiglione Everyeye, rigorosamente in live streaming sui canali Twitch e YouTube, 8 ore di dirette per i 5 giorni di Festival. Molti i titoli giocabili all’interno dell’area: “Dragon Ball FighterZ”, “Ninokuni 2”, “Ace Combat 7”, “Monster Hunter World” e altri. Samsung organizzerà ogni giorno tornei di “Overwatch”, “PlayerUnknown’s Battleground” e “League of Legends”. Presente all’interno del padiglione anche Nintendo, che organizzerà tornei dedicati ai best seller di Nintendo Switch: “Fifa 18”, “Splatoon 2”, “Mario Kart 8” e “Arms”. Ci sarà anche Bandai Namco con “Project Cars 2” e Koch Media che consentirà di giocare in anteprima a “Dissidia Final Fantasy NT” e “Attack on Titan 2”. Lato hardware HyperX presenterà la rinnovata gamma di periferiche all’avanguardia che esaltano le esperienze dei videogiocatori, come la tastiera Alloy Elite.
Lenovo e Motorola creeranno quest’anno a Lucca, all’arena di TechPrincess realizzata in “pixel art” (Area Cavallerizza, Stand CVL 102) un’esperienza multimediale immersiva. Dalle postazioni gaming, ai tablet rivoluzionari, fino ai nuovi smartphone che si trasformano grazie ai Moto Mods, i visitatori potranno provare una vasta gamma di dispositivi tra i più innovativi e iconici del leader mondiale in PC & tablet, e in fase di grande rilancio anche del suo prestigioso brand di telefonia, Motorola. Lenovo porta i suoi notebook gaming tra cui lo Y910 con schermo da 17,3”, scheda grafica NVIDIA ®GeForce® e prestazioni spinte al massimo, i tablet convertibili 2-in-1 Yoga Book, pluripremiati per il design esclusivo e la possibilità di scrivere e disegnare su carta o su pad con penna e digitalizzare automaticamente, e Yoga 720, il PC convertibile ancora più portatile e compatto. Motorola mette sotto i riflettori gli smartphone di nuova generazione, Moto Z2 Play, G5S, G5S Plus e gli ultimi annunciati Moto Z2 Force e Moto x4, dotati di funzionalità potenti. Con loro vanno gli ormai famosi Moto Mods – ciò che rende Motorola unica – dispositivi che permettono esperienze d’uso prima impensabili: speaker in alta definizione, fotocamera Hasselblad, console portatile per videogiochi e molto altro.
Il Netaddiction Dome, per il terzo anno di fila, occuperà piazza S. Giusto e come mai prima, ospiterà al suo interno un’area dedicata all’Agenzia Spaziale Italiana. Nella galassia dell’intrattenimento un posto d’onore è riservato alla Pringles Living Room, che accoglierà tutti i giorni le redazioni di Movieplayer.it e Leganerd.com per raccontare quello che accade per le vie di Lucca; tra gli ospiti attesi, Imanuel Casto, che presenterà “Squillo Deep Space 69”. L’area libreria sarà dedicata ai top seller di collana di Multiplayer Edizioni: Timothy Zahn, Siri Petersen, Matteo Strukul, Roberto Recchioni, autore assieme a Emiliano Mammucari di “Ringo Chiamata Alle Armi”, il primo romanzo spin off della serie Bonelli “Orfani”. Non si smette mai di giocare nella Galassia dell’intrattenimento di Netaddiction e non poteva mancare un pad per Multiplayer.it, che intratterrà i lettori nell’area dedicata a “Gravel” nella sfida off-road definitiva.
Nintendo sbarca a Lucca Comics & Games, e lo fa in grande stile, con un intero padiglione monografico dedicato nel cuore del centro storico, in piazza Bernardini. Nintendo sarà presente con una ricca line up di giochi per Nintendo Switch e Nintendo 3DS, le due console che stanno spopolando sul mercato, entrambe acquistabili a Lucca. Protagonista indiscusso sarà “Super Mario Odyssey”: dopo alcuni assaggi parziali, il videogame dedicato all’idraulico più amato di sempre sarà finalmente disponibile in versione integrale a Lucca Comics & Games 2017. Ma il mondo Nintendo sarà ancora più ampio, nei prossimi giorni ci saranno ulteriori informazioni.
Tra i protagonisti dell’edizione 2017 ci sarà anche quest’anno Ubisoft che ritorna a Lucca in occasione del lancio del videogioco “Assassin’s Creed Origins”. Sul Baluardo S. Regolo, nelle antiche e suggestive Mura rinascimentali, si erigerà una grandiosa piramide di vetro che farà rivivere l’atmosfera dell’Antico Egitto, ambientazione del nuovo episodio del videogame. Al suo interno si terranno concerti di un’orchestra che eseguirà le colonne sonore della saga di “Assassin’s Creed”, nonché performance artistiche dal vivo. Nell’edificio prospiciente alle Mura, all’interno dell’Orto Botanico, una mostra ospiterà opere di game artist italiani, lavori di concept art realizzati dal team di Ubisoft Montreal e le opere dei vincitori del contest artistico ispirato ai temi del videogioco.
Lucca è la prossima tappa del leggendario carro Wargaming MGT-20. L’unità mobile di gioco è stata allestita con la trilogia di giochi Wargaming: il titolo di punta “World of Tanks” così come “World of Warships” e “World of Warplanes”. Il nuovo titolo pronto al lancio sarà la vera novità del carro: “Total War Arena”. I giocatori potranno divertirsi sulle postazioni PC dei loro titoli Wargaming preferiti così come sulla versione console di “World of Tanks” (PS4 e Xbox). Il nuovo community lead italiano accompagnerà il carro e darà il benvenuto ai visitatori all’ingresso della città. Per tutti e cinque i giorni, il team di Wargaming organizzerà numerose attività per il pubblico, che verrà premiato per la propria partecipazione.
Sarà “La Terra Di Mezzo L’Ombra Della Guerra” il titolo di punta di Warner Bros. Interactive Entertainment che, nel cuore del Area Cavallerizza, consentirà di giocare al secondo capitolo di uno dei titoli più apprezzati da pubblico e critica, e di vivere un’esperienza straordinaria. Oltre alla prova del gioco su di una batteria di console, ci si potrà immergere all’interno dell’ambientazione fantasy del titolo grazie alla ricostruzione di un ambiente simile a quello visto nel gioco, tra orchi e scenari a tema.
E negli spazi della Cavallerizza e nelle aree circostanti saranno presenti numerose aziende dei mondi del videogioco e della tecnologia: un vero e proprio polo tecnoludico, che l’anno scorso ha attirato decine di migliaia di visitatori.
Japan Town, 10 anni di passione per il Sol Levante
La Japan Town compie 10 anni. Sarà ancora una volta un intero quartiere dedicato ai prodotti di importazione, al cibo, ai costumi e all’arte nipponica, meta di migliaia di appassionati ogni anno.
Anche quest’anno Bandai Namco Entertainment e Bandai tornano a Lucca per portare un tocco di Giappone. Imponente la presenza dei due brand con due padiglioni a Japan Town. In uno dei due Bandai metterà a disposizione dei fan un intero mondo dedicato a Dragon Ball: nuove linee e anteprime verranno presentate all’interno e si potrà anche provare l’attesissimo nuovo videogioco “Dragon Ball FighterZ”. Nel secondo padiglione (tendone maggiore), ci sarà anche lo store ufficiale di Bandai Namco Entertainment Europe, insieme con le anteprime di diversi titoli, come “Ni No Kuni II: Il Destino di un Regno”, “Sword Art Online: Fatal Bullet”, “Code Vein”, oltre all’appena uscito “Gundam Versus”, mentre il gruppo Bandai porterà le linee di punta Banpresto per le action figures e “Sailor Moon” per la gadgettistica. E negli spazi della Cavallerizza ci sarà un’area dedicata al mondo videoludico di Dragon Ball: tante postazioni per “Dragon Ball FighterZ” e “Dragon Ball Xenoverse 2” per Nintendo Switch attenderanno tutti gli appassionati delle avventure di Goku e amici! Nel padiglione Everyeye spazio ai bolidi di “Project CARS 2” con uno stand dedicato al nuovo lavoro di Slightly Mad Studios: molte postazioni di gioco, tra cui anche dei modernissimi cockpit per provare al meglio il titolo. Infine, allo stand dedicato da Turner a “Ben 10”, sarà possibile provare il nuovo videogioco in arrivo il 9 novembre.
Il Family Palace, il regno delle famiglie e dei bambini
Il Family Palace, ad accesso gratuito, è l’approdo dei maggiori editori e autori per ragazzi e per l’infanzia. Le novità iniziano già all’esterno, dove Medio Evo ricostruirà per tutti i fan le atmosfere dei luoghi degli amatissimi maghi Harry, Ron ed Hermione. All’interno la colorata invasione dei Pokémon, con una nuova area completamente dedicata al gioco di carte collezionabili e ai videogiochi “Pokémon Sole” e “Pokémon Luna”.
L’area dedicata alla LEGO, grazie alla nuova partnership con Orange Team LUG ed EmPisa, celebra in grande stile i 40 anni di “Star Wars”, con ambientazioni e laboratori a tema, e il montaggio dal vivo del celebre Millennium Falcon UCS 10179. E per la prima volta sarà ospite un designer LEGO™: Robert Bontenbal.
Panini Kids arricchirà il palinsesto degli eventi con iniziative speciali dedicate a “Sam il Pompiere”, “Powerpuff Girls”, “My Mini Pony”, “Dragon Ball”, “Frozen” oltre che ai famosissimi eroi ed eroine disneyani.
Numerosi i laboratori per bambini tenuti da disegnatori di fama internazionale: Mario del Pennino, Luca Bertelè, Giulia Adragna, Stefano Zanchi sveleranno i segreti per disegnare Saetta McQueen, Spider-Man, i personaggi di “Star Wars”, e i protagonisti delle migliori storie Disney. Chris Ayers invece incanterà i bambini col suo Daily Zoo. Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso coordineranno la prima squadra di giovanissimi “Graphic Journalist” all’interno della manifestazione. Arianna Papini, protagonista in mostra a Palazzo Ducale, sarà al centro di due appuntamenti per le scuole. Grazie alla collaborazione con Coop.Fi i bambini avranno poi la possibilità di conoscere Bia, l’eroina a fumetti del disegnatore disneyano Paolo Mottura, che animerà un percorso di gioco, scoperta e spettacolo sulle buone pratiche per la sostenibilità ambientale. Ed Emanuela Pacotto, la voce più amata dei cartoni, presenta in anteprima l’ultimo episodio di FAVOLANANNA, progetto web diventato anche per alcune scuole metodo d’insegnamento multimediale alternativo. Parte la collaborazione di Lucca Comics & Games con la Fondazione Collodi, con un piano di animazione speciale legato a Pinocchio, per far conoscere e rivivere la sua storia in modi nuovi, interattivi e formativi. Il gioco di ruolo fa il suo ingresso nel mondo dei più piccoli, con importanti iniziative editoriali come “Kids & Dragons” e “Mostri, niente Paura” di Wyrd edizioni. Numerosi saranno poi i titoli della letteratura per l’infanzia presentati da Mondadori, Edizioni Piemme, Editoriale Cosmo con la nuova Collezione Vitamina, Rizzoli.
Le serie tv e il cinema: grandi novità a Lucca 2017
L’Area Movie di Lucca Comics & Games, a cura di QMI, ancora una volta propone al pubblico di tutte le età anteprime, attività, incontri con i talent, masterclass ed eventi esclusivi sui film e le serie tv più attesi della prossima stagione, oltre a una serie di importanti novità.
Per la prima volta Netflix, il più grande servizio di intrattenimento via Internet del mondo, con oltre 104 milioni di abbonati in tutto il mondo, sarà presente all’edizione 2017 di Lucca Comics & Games. I visitatori del maggior transmedia show europeo potranno immergersi in un’esperienza divertente e coinvolgente che li porterà dritti al cuore della piattaforma, alla scoperta di alcuni tra i titoli Netflix più amati, come “Stranger Things” e “Star Trek: Discovery”. Questo, grazie a panel, meet & greet con i talent e tante altre iniziative. I fan potranno visitare l’hub Netflix in cui saranno presentati tantissimi titoli, compresi i più popolari show Marvel, e una “meravigliosamente terrificante” area sotterranea interamente dedicata a “Stranger Things”. All’interno di queste aree, ulteriori divertenti attività aspetteranno nuovi e vecchi fan di Netflix per conoscere per conoscere ancora di più la loro natura di streamer e diventare parte del mondo Netflix.
Tra le novità anche TIMVISION, che in occasione di Lucca Comics & Games proporrà al pubblico la visione di alcuni episodi di due grandi serie tv: “The Handmaid’s Tale” e “Vikings“. “The Handmaid’s Tale” è la serie tv più acclamata e discussa del momento, in esclusiva su TIMVISION, definita dall’Hollywood Reporter “la migliore novità della stagione e anche la più importante”. Tratta dal libro di Margareth Atwood “Il racconto dell’ancella”, la serie si è aggiudicata 8 Emmy, tra questi quello di “Miglior Serie Drammatica” e “Miglior Attrice Protagonista” a Elisabeth Moss. Altra esclusiva TIMVISION è “Vikings”, il dramma storico ideato da Michael Hirst, che racconta di Ragnar, il guerriero vichingo. La quinta stagione della serie sarà disponibile solo su TIMVISION a partire dal 30 novembre a 24 ore dalla messa in onda negli USA.
Infinity sarà presente con proiezioni e iniziative speciali, legate al tema dei supereroi e all’arrivo di serie tv in anteprima esclusiva. Il 2 novembre per la giornata promozionale Film Fox è prevista la proiezione di “The War – il pianeta delle scimmie”, pellicola fantascientifica del 2017 diretta dal regista Matt Reeves. Dal 2 al 5 novembre entriamo nel mondo della nail art della serie tv “Claws”, disponibile in anteprima esclusiva su Infinity dal 1° novembre. Direttamente nello stand Infinity sarà presente un corner di nail art in perfetto stile Claws. Il pubblico di appassionate potrà ricevere un trattamento estetico esclusivo per le unghie con smalti Faby e adesivi molto particolari, in linea con lo spirito della serie. Il 3 novembre Infinity celebra il tema degli eroi, mettendo a disposizione una make up artist che trasformerà chiunque lo desideri in uno dei supereroi che la piattaforma ha disponibile in catalogo: Superman, Batman, Arrow, Flash Supergirl e molti altri ancora. Il 4 novembre in collaborazione con Warner Bros, da non perdere l’attesissima proiezione del primo episodio dell’undicesima stagione di “The big bang Theory”, andato in onda su CBS lo scorso 25 settembre e che sarà disponibile in anteprima italiana su Infinity da gennaio 2018.
Tra le grandi anteprime, Universal Pictures International Italy presenterà a Lucca “Happy Death Day” (“Auguri per la tua morte”), il nuovo inquietante thriller dal produttore di “Split”, “La notte del giudizio” e “The Visit”, Jason Blum, in sala dal 9 novembre. Un thriller originale e creativo sul rivivere il passato, in cui una studentessa del college (Jessica Rothe) rivive in continuazione il giorno del suo omicidio, dai momenti del tutto ordinari che avevano scandito l’inizio della giornata alla sua terrificante conclusione, fino a scoprire l’identità del suo assassino.
Saranno ospiti di Lucca Comics & Games Luca Miniero e Frank Matano, protagonisti di un panel su “Sono tornato”, film diretto da Luca Miniero e scritto insieme a Nicola Guaglianone, e prodotto da Indiana Production. Remake del film rivelazione tedesco campione d’incassi, che vede Matano tra i protagonisti accanto a Massimo Popolizio, nei panni del Duce che ritorna ai giorni nostri; il film arriverà nelle sale italiane il 1 febbraio con Vision Distribution.
Confermata anche per il 2017 la presenza di Warner Bros., che torna con il grande padiglione in Piazza S. Michele, con un focus interamente dedicato all’universo DC in occasione delle uscite di “Justice League” al cinema e di “Wonder Woman” in Home Video, al cui interno saranno disponibili anche tante sorprese e attività per gli appassionati di “The Big Bang Theory”. Dal mondo delle serie tv targate Warner Bros., sarà a Lucca la proiezione del pilot di “Riverdale”, in onda su Premium Stories dal 9 novembre.
Non mancano ovviamente gli appuntamenti dedicati ai più piccoli targati Cartoon Network (canale 607 di Sky e 350 di Mediaset Premium), a Lucca con un lunghissimo tunnel gonfiabile in piazza Guidiccioni per far vivere un’esperienza di intrattenimento unica all’insegna di “Ben 10” – la serie con protagonista il bambino-eroe che grazie all’orologio Omnitrix riesce a trasformarsi in 10 diversi alieni – e “The Powerpuff Girls” – lo show che segue le avventure di Lolly, Dolly e Molly, tre piccole eroine capaci ogni giorno di salvare il mondo prima di andare a letto.
Eagle Pictures sarà invece presente con la proiezione di “Paddington” e un contenuto speciale dal nuovo “Paddington 2”, secondo capitolo diretto da Paul King (in sala dal 9 novembre), accompagnata da molte sorprese per i più piccoli.
Imperdibile anche l’anteprima di “Pipì, Pupù e Rosmarina in il mistero delle note rapite”, film d’animazione diretto da Enzo D’Alò con le voci di Giancarlo Giannini e Francesco Pannofino che arriverà in sala per Bolero Film. D’Alò porta sul grande schermo Pipì, Pupù e Rosmarina, già noti al pubblico poiché protagonisti della fortunata serie TV a loro dedicata, con una nuova serie di appassionanti avventure.
Rai4 torna a Lucca con un evento speciale dedicato a “Doctor Who”, intramontabile classico della fantascienza marcato BBC. Il 3 novembre saranno proiettati in anteprima lo speciale natalizio del 2016 “Il ritorno del Dottor Mysterio” e, a seguire, il primo episodio della decima stagione intitolato “Il pilota”. La serie fantascientifica più longeva della storia della tv tornerà sugli schermi di Rai4 con la nuova stagione, in prima visione assoluta, a partire dal 25 dicembre.
FOX sarà presente anche quest’anno in piazza Anfiteatro con una struttura fortemente scenografica e attività di gaming stimolanti e innovative come la FOX Hero Experience, pensate per divertire tutti i fan delle serie FOX. Il 3 novembre al cinema Astra sarà proiettata l’anteprima di “Long Road Home”, la nuova serie National Geographic che racconta l’eroica lotta per la sopravvivenza di un gruppo di soldati dell’esercito Usa vittime di un’imboscata in Iraq il 4 aprile 2004. Nel cast Michael Kelly (Doug in “House of Cards”).
Confermata inoltre la presenza di Universal Pictures Home Entertainment Italia che sarà presente con un proprio stand – all’interno dell’Area Movie al Loggiato Pretorio – dedicato a “Transformers: L’Ultimo Cavaliere” (in DVD, Blu-ray, 3D Blu-ray, 4K Ultra HD e Boxset Collezione Completa DVD e Blu-ray dal 25 ottobre), “Spider-Man Homecoming” (in DVD, Blu-ray, 3D Blu-ray, 4K Ultra HD e Boxset Collezione Completa DVD e Blu-ray dal 15 novembre) e “Cattivissimo Me 3” (in DVD e Blu-ray dal 6 dicembre). Le attività dedicate al pubblico vedranno 3 fumettisti di fama nazionale che presenteranno delle illustrazioni ispirate alle franchise e per i fan di Transformers e di Spider-Man è in programma una coinvolgente VR experience con contenuti speciali inediti.
Attesa anche l’anteprima di “Never Ending Man: Hayao Miyazaki”, il documentario sul genio creativo che ha rivoluzionato la storia dell’animazione mondiale che sarà nei cinema italiani solo il 14 novembre nell’ambito della stagione degli anime al cinema di Nexo Digital e Dynit. Inoltre sempre con Nexo Digital arriva in anteprima il 1° novembre (ore 15, Cinema Centrale) “Pokémon. Scelgo te!”, il film che racconta il primo incontro tra Ash e Pikachu e le loro avventure alla ricerca del Leggendario Pokémon Ho-Oh. L’appuntamento nelle sale sarà poi solo il 5 e 6 novembre, per riunirsi davanti al grande schermo per due giorni all’insegna dei Pokémon, con un film mai visto prima arricchito da montaggi speciali che daranno un inedito sguardo sui film animati precedenti. VVVVID.IT e Minerva Picturespresenteranno il nuovo canale di cinema digitale Film&Clips HD su VVVVID. La prima uscita prevede oltre 20 titoli completi in HD e numerose clip con nuove uscite settimanali. Durante l’evento di lancio a Lucca sarà proposto in anteprima italiana il film “Sharknado 5: Global Swarming”.
Per il terzo anno consecutivo, l’Area Movie ospiterà il Convegno del Cinema di Menare curato dalla redazione di I 400 Calci, tra le riviste online a tema cinematografico più amate d’Italia. Per l’occasione sarà presentato “I 400 calci: Manuale di cinema da combattimento” (Magic Press), una selezione dei migliori articoli dalla nascita del sito a oggi, più una serie di recensioni inedite dedicate a classici horror e action. Il libro è arricchito dalla copertina disegnata da Marcello Crescenzi, dalle illustrazioni di David Genchi, da una prefazione scritta di Roy Menarini e una disegnata di Leo Ortolani, e sarà disponibile in anteprima allo stand dell’editore.
Lucca Comics & Games Heroes 2017 - Tutto quello che c'è da sapere #luccacomics2017 #lucca2017 #luccaheroes #destroythislucca #destroythisnerd #dtn L’edizione 2017 di Lucca Comics & Games sarà dedicata agli Heroes, gli eroi, non di carta, di pixel o di celluloide, ma in carne e ossa come i veri protagonisti che per 5 giorni renderanno unico l’evento: …
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E’ partito il 12 Ottobre da Roma, il Team italiano della spedizione “Jobo Garu 2017” che vede ancora una volta l’ Explora Nunaat International in prima linea nella Regione del Rolwaling, in continuità con i progetti “Earth Mater 2011” e “Nepal – Gaurishankar 2013”.
La spedizione “Jobo Garu 2017”, in accordo con la Comunità locale Sherpa, punta alla realizzazione della “Via Ferrata Drolambau Ice Fall”, a una quota compresa tra i 5000 e 5400 m. La ferrata servirà a collegare il versante del ghiacciaio al Rifugio più alto dell’Himalaya che verrà realizzato sul Tashi Lapcha.
Il Rifugio fa parte del progetto “Project Austria Hut” ed è in procinto di costruzione a una quota di 5800 m, su idea dell’ associazione no-profit StepZero.One e finanziato dall’ imprenditore ed alpinista austriaco Josef Einwaller, con l’obiettivo di sostenere l’economia prevalentemente turistica di questi territori.
Il territorio della spedizione “Jobo Garu 2017” è contiguo al tracciato del “Percorso Bonatti” che l’associazione Explora ha ideato con il Parco Gran Sasso e Monti della Laga e che unisce idealmente Amatrice all’Himalaya passando per il Gran Sasso d’Italia. Il Team di Explora, grazie alla collaborazione del CAI di Amatrice, porta in Nepal una tegola della cittadina laziale distrutta dal terremoto che verrà sistemata sul tetto del rifugio più alto del mondo e la bandiera del Parco Gran Sasso, in qualità di ambasciatore nei territori dell’ Himalaya.
«La realizzazione del rifugio avverrà grazie all’impegno dell’imprenditore e alpinista austriaco Josef Einwaller, benefattore di Innsbruck – ha dichiarato Davide Peluzzi – i materiali verranno portati in parte a spalla con l’aiuto degli sherpa del posto, e in parte con gli elicotteri. La struttura sarà base di strumentazioni scientifiche, oltre che punto di rifugio e di riferimento turistico e per lo studio dei ghiacciai».
In continuità con le precedenti missioni in Nepal, il Team Explora proseguirà le ricerche bioantropologiche del Laboratorio di Antropologia Molecolare dell’ Università di Bologna.
Inoltre, sono state portate in Nepal le opere dell’artista italiana Daniela Savini: si tratta di incisioni a puntasecca raffiguranti alcune immagini fotografiche realizzate durante le precedenti spedizioni nella remota Rolwaling. Le opere saranno esposte a Kathmandu presso la libreria Vajra Books e presso il Tempio di Beding, recentemente ricostruito dopo il catastrofico terremoto che colpì il Nepal nell’aprile 2015.
L’esposizione delle opere a Beding sarà permanente e, a 3700m di altitudine, diventerà la mostra di incisioni a puntasecca più alta del mondo.
Il Team Explora è composto da Davide Peluzzi (capo spedizione), Giorgio Marinelli (vice Capo Spedizione), Phurba Tenjing Sherpa, Marco Di Marcello (Biologo), Paolo Cocco (Fotografo), Giuseppe de Angelis (Logistica), Marco Sazzini (Laboratorio Molecolare UniBo). E, dall’Italia, Roberto Madrigali (Meteo) e Carmela Modica (Press).
Jobo Garu 2017 Expedition è sponsorizzata da Intermatica, Mico Sport, e Persia Costruzioni.
*Explora Nunaat International è un’Associazione no-profit di esplorazione e ricerca in ambienti estremi nata nel 2007. Nel 2008, in occasione dell’Anno Internazionale Polare l’Associazione è stata premiata, per la spedizione in Artico (Groenlandia Orientale) con una medaglia e con una lettera di encomio a firma del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nel 2011 l’Associazione ha effettuato una spedizione a fini umanitari in Himalaya, denominata Earth Mater. Nell’occasione sono stati intrapresi rapporti di cooperazione con il Governo del Nepal. In data 9 novembre 2011 è stato sottoscritto un protocollo d’intesa tra l’Associazione e il Governo del Nepal, rappresentato dal Sottosegretario alla cultura Jaya Ram Shestha, nei settori delle risorse idriche, sanità e turismo nel progetto denominato “Nepal – Gaurishankar 2013”.
Un Team di Explora Nunaat International si è recato in Nepal nel mese di Ottobre 2015 con la Spedizione Italiana “Extreme Malangur 2015” che ha raggiunto le sacre montagne dell’Himalaya alla ricerca dello Yeti.
Durante la spedizione “Extreme Malangur Expedition 2015” sono stati portati aiuti nei villaggi di Singati-Jagat-Simigaon e Beding-Na.
L’Associazione Explora Nunaat International opera da anni nel campo scientifico e della cooperazione umanitaria in aree del Pianeta Terra considerate “selvagge”.
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Official Twitter:
http://twitter.com/ExploraPress
Nelle foto:
1) Logo Spedizione;
2) Il Team Explora nela libreria Vajra Books a Kathmandu con le opere d’incisione ed il libro appena pubblicato “Oma Tsho”;
3) Davide Peluzzi (capo spedizione) con l’editore di Vajra Books;
4) Il device “MTX SENSOR TIP” per le misurazioni biometriche.
Jobo Garu 2017 Expedition. Una ferrata sul Tetto del Mondo E’ partito il 12 Ottobre da Roma, il Team italiano della spedizione “Jobo Garu 2017” che vede ancora una volta l’ Explora Nunaat International in prima linea nella Regione del Rolwaling, in continuità con i progetti “Earth Mater 2011” e “Nepal – Gaurishankar 2013”.
#Beding#Explora Nunaat International#Jobo Garu 2017#Josef Einwaller#Kathmandu#Nepal#Project Austria Hut#Vajra Books
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“Reclinò il capo e guardò il mare davanti a lui, nella penombra delle stelle”. La tragedia del dirigibile Italia in un grande romanzo dimenticato
Che cosa si prova a guardare in faccia il proprio destino? Che cosa si sente di fronte alla certezza di un disastro imminente? Nel film La Tenda rossa, del 1969, straordinaria pellicola del regista Mickail K. Kalatozov, dedicata al celebre disastro polare, si vedono gli sguardi sconvolti degli uomini a bordo del dirigibile che, dopo essersi spezzato, vola senza comando e si perde per sempre nei cieli dell’Artico.
Era la terribile mattina del 25 maggio, quando l’aeronave Italia si schiantò sulla banchisa dell’Oceano Artico a nord-est di Spitzbergen, nelle Svalbard, a circa 81°14’ di latitudine nord. Del dirigibile squarciato restava l’involucro argenteo che, come un palloncino ad elio sgusciato via dalle mani di un bambino, prendeva quota. A bordo sei uomini (che non sono mai stati ritrovati), tra cui Attilio Caratti, Calisto Ciocca, il giornalista Ugo Lago, Renato Alessandrini e Aldo Pontremoli gettavano il loro sguardo atterrito verso terra. Anche se la terra era il pack del Polo Nord. Il capo-motorista Ettore Arduino, eroicamente, da ciò che restava del dirigibile Italia, creatura mutilata in volo, lanciò a terra la salvezza per i superstiti: combustibile, provviste ed equipaggiamento. Tra questi, la tenda che fu poi dipinta di rosso e divenne il simbolo di questa funesta impresa. La spedizione con il dirigibile capeggiata dal generale Umberto Nobile aveva poco prima raggiunto il Polo Nord. Era stato lanciato il grande crocifisso fasciato dal tricolore, dono di Pio XI. Tra gli uomini che avevano celebrato lo storico momento, c’era il fisico Aldo Pontremoli, il suo incarico quello di eseguire ricerche fisiche con strumentazione all’avanguardia per l’epoca. Il fisico intendeva mettere a frutto la sua esperienza e la sua passione nel volo, coltivata durante la grande guerra, a bordo di palloni frenati per impiego militare. Pontremoli aveva progettato, insieme a Luigi Palazzo, le attività di ricerca, costruito e testato opportune camere frigorifere, che riproducevano le condizioni termiche dell’Artide. Ma il suo destino era segnato ed era lo stesso che conobbe, poche settimane più tardi, il grande esploratore norvegese Roald Amundsen. Scomparire per sempre nei ghiacci dell’Artico.
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Dalla misteriosa fine di Aldo Pontremoli prende le mosse il romanzo “scomparso” La terra di Avram (Arnoldo Mondadori editore, 1987, purtroppo oggi fuori catalogo) di Liaty Pisani, una scrittrice di lungo corso, considerata “maestra del thriller di spionaggio” in virtù delle sue spy story dal respiro internazionale. Questo suo primo libro (che potrebbe essere facilmente trasposto in film), partendo dalla pagina bianca dell’enigmatico destino del giovane fisico di talento, ricostruisce la vita privata del fondatore dell’Istituto di Fisica Complementare dell’Università di Milano. Immagina un amore altrettanto impossibile e intenso, ostacolato per la differenza religiosa, quello tra Ludovica e Aldo Avram, pseudonimo di Aldo Pontremoli. Pisani attraversa, con garbo e una prosa cristallina, le lunghe notti polari di Aldo, disegnate su un’isola sperduta dell’Artico, attraverso il fluire dei ricordi, dolorosi e amorosi, le frustrazioni dei mancati riconoscimenti al suo lavoro scientifico. “I primi giorni sull’isola furono senza notti. Era ancora estate, il sole non tramontava mai, la notte si intuiva dalla maggiore quiete che invadeva il campo, dal silenzio dei gabbiani, dal gelo che si faceva più intenso e dalle visite degli orsi che uscivano a caccia. Anche senza il sole, durante quelle notti la luce non diminuiva. Il sole girava nel cielo seguendo una traiettoria inclinata sull’orizzonte: a mezzanotte era alto come in Italia, d’estate, verso le dieci”.
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Il romanzo è uno struggente ricamo di più voci che si dirigono verso un unico punto di convergenza, quella spedizione tragica e senza scampo. Una bambina sensibile, all’inizio degli anni Sessanta, scopre per caso la storia dell’eroica impresa e ne rimane turbata e avvinta. Sfugge così ai miseri vincoli del tempo e dello spazio la vicenda trasfigurata di Aldo Pontremoli per diventare la storia di un amore impossibile, segreto e ideale che attraversa e collega le anime. Il pregio del romanzo, oltre a mettere in scena il fisico italiano Aldo Pontremoli protagonista dell’opera, sta in questa delicata levitazione dal dato storico verso una vicenda possibile e una storia ideale, dalla traiettoria metafisica. Che cosa attrae e avvince più di quello che non si può conoscere? Come non innamorarsi di chi mai, nell’esistenza terrena, potremo stringere tra le braccia? “Avram era certo che, negli anni a venire, l’Artide sarebbe stata meta di molte spedizioni, soprattutto scientifiche, sempre più numerose con il perfezionamento dei mezzi aerei e forse, prima o poi, qualcuno avrebbe raggiunto anche la loro isola, scoprendo i resti dell’accampamento. Questi pensieri non suscitavano in lui alcuna emozione. Che i posteri trovassero i suoi scritti, le sue osservazioni scientifiche, il romanzo della loro agonia, lo lasciava del tutto indifferente. Eppure provava una sorta di vago rimpianto al pensiero delle basi scientifiche che certo, da lì a qualche anno avrebbero popolato quei ghiacci. Sarebbero state installate basi meteorologiche, laboratori per la ricerca oceanografica, per la fisica dell’alta atmosfera, della glaciologia. Ma lui non avrebbe partecipato a quelle imprese: aveva compiuto la sua esperienza prematuramente, come un naufrago, non come uno scienziato”.
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Aldo Avram culla, nella solitudine della sua ultima notte polare, il suo perduto sogno d’amore. Desiderava e desiderava essere desiderato dalla sua donna amata. “L’unico dolore, ora che la rassegnazione coloriva il tempo che gli restava, era la mancanza di Ludovica, del suo viso, della sua voce, del suo corpo. Ed era tutto ciò che desiderava ritrovare, un giorno: lei nella sua completezza, e non soltanto un puro spirito nella beatitudine di un angelico aldilà. La desiderava al punto da udire quella sua voce liquida e bassa; desiderava toccare la sua pelle, sentire la consistenza del suo corpo, decifrare le sue parole e i suoi pensieri, comprendere, come non gli era mai riuscito in quella vita. Voleva desiderare ed essere desiderato come l’essere umano che era stato e che voleva ridiventare in un’altra vita, in un altro tempo e sempre con lei”.
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In più punti ritornano le immagini di quell’incredibile monstrum che storicamente è stato il dirigibile, in quella ormai lontana stagione delle imprese impossibili e assai celebrate dell’aeronautica italiana. Il dirigibile viene descritto “come un enorme cetaceo arenato. I tecnici venuti da Roma per ripararlo salivano e scendevano dal pallone come alpinisti in cordata, illuminati dalla luce del sole che si riversava dalla grande entrata, rendendo l’hangar simile ad uno sterminato acquario. «Il dirigibile aveva un aspetto penoso, all’arrivo» disse Lundquist indicando i danni visibili che l’aeronave aveva subìto durante il travagliatissimo viaggio da Milano a Stolp. «Era mezzo vuoto di gas, schiacciato come una sogliola, incrostato di ghiaccio, con le eliche smangiate dalla grandine e l’impennaggio orizzontale sinistro squarciato»”. Per gli appassionati di storie polari e dell’epopea storica della tenda rossa non può sfuggire la figura del meteorologo svedese Lundquist che ricalca Finn Malmgrem, il meteorologo di fiducia amico di Roald Amundsen e già al suo fianco nella spedizione del dirigibile Norge di due anni prima. Anche Malmgrem perse la vita durante la spedizione di Nobile perché si era allontanato con Zappi e Mariano dalla tenda rossa alla deriva nelle acque del polo. “Lo svedese era di ottimo umore e il suo inglese più scorrevole del solito. Il sole – Avram aveva avuto modo di notarlo spesso durante i suoi viaggi – rendeva i nordici di una gaiezza fanciullesca. Il collega, che era il meteorologo della spedizione, prese a parlare del tempo, entusiasta di quell’eccezionale giornata di sole, giunta dopo una settimana di pioggia ininterrotta. Anche la temperatura si era fatta quasi primaverile, e per lo svedese questo era motivo di grande gioia”.
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Pisani registra gli ultimi attimi di vita del fisico Aldo Pontremoli e ricostruisce il suo nostalgico reticolo di pensieri, “il suo senso di sconfitta”: “con fatica si rimise in marcia, ma subito ricadde. Le forze lo avevano abbandonato, questa volta per sempre. Un centinaio di metri lo separava dalla riva. Gli abiti, completamente induriti dal gelo, gli impedivano di muoversi. Cercò di accomodarsi meglio in quella posizione, ruotò un poco su se stesso abbandonandosi su un fianco, come un bambino rannicchiato in attesa del sonno; reclinò il capo e guardò il mare davanti a lui, nella penombra delle stelle”. Nel film La Tenda rossa, Kalatozov immagina Amundsen – l’affascinante Sean Connery – che ritrova, grazie a uno squarcio tra le nubi, il relitto perduto del dirigibile Italia e gli uomini sparsi tra i rottami, paralizzati dal gelo della morte, tra cui il fisico Aldo Pontremoli. E un libro, eterna consolazione rassegnata nello scenario di morte. In una desolazione artica, nella immacolata solitudine della morte, il destino si compiva, mentre una folata di vento si insinuava timida dentro l’involucro, disarmato e inservibile, del dirigibile Italia.
Linda Terziroli
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“Alcuni vi diranno che siete pazzi, e quasi tutti si chiederanno, a che serve?”. L’avventura di Apsley Cherry-Garrard, l’uomo che sopravvisse alla disastrosa spedizione di Scott in Antartide
Roald Amundsen, l’Aquila Bianca della Norvegia, li aveva battuti per un soffio. Era l’inverno del 1911-1912. Quando la spedizione “Terra Nova” di Robert Falcon Scott, nel gennaio 1912, raggiunge l’Antartide, una bandiera norvegese sta sventolando: il rivale Amundsen aveva raggiunto il Polo Sud qualche settimana prima di loro. Durante il lungo e faticosissimo viaggio di ritorno, il capitano Scott perde la vita, insieme a quasi tutti i membri della spedizione. Eccetto uno. Il giovane Apsley Cherry-Garrard, unico superstite di quella eroica impresa.
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Sulle tracce di questo storico personaggio si snoda la vicenda del romanzo storico L’indicibile inverno – Una storia bipolare, pubblicato da Oltre Edizioni, della scrittrice italo-svizzera Benedicta Froelich (pseudonimo di Benedicta Cagnone). Cherry-Garrard era stato scelto da Robert Falcon Scott, nel 1910, per il ruolo di assistente biologo. Il trauma di ritrovare Scott e i membri della spedizione morti fu talmente doloroso che Cherry-Garrard, già affetto da sindrome “bipolare”, fu poi afflitto da un disagio psichico per tutta la vita e da un grave attacco di catatonia nei suoi anni maturi. Sopravvivere a quell’avventura ha significato portare con sé l’ombra, lo spettro del senso di colpa, di non aver potuto salvare le vite di quegli uomini. Ma la tragica storia di Sir Robert Falcon Scott diventa il fulcro di una vicenda attualissima che Benedicta Froelich affida alla voce e allo sguardo di Frida, anche lei afflitta da disturbo bipolare, che scopre, leggendo il giornale, la storica avventura di un secolo prima.
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Da tempo l’autrice Benedicta Froelich – giornalista e traduttrice dall’inglese e in inglese, oltre che interprete consecutiva, ha curato l’edizione italiana di Like English Gentlemen di J.M. Barrie (La Finestra Editrice, 2017) e tradotto le poesie di Paul Vangelisti per Pinocchio (Edizioni Galleria Mazzoli, 2018) e Imperfect Music, sempre di Paul Vangelisti (Edizioni Galleria Mazzoli, 2019) – è sensibile al fascino di un particolare tipo di narrazione, fiction, storica come aveva già dimostrato attraverso le intriganti pagine di Nella sua quiete, opera vincitrice, nel 2013, del premio Guido Morselli e pubblicata, nel 2014, da Nuova Editrice Magenta. Quelle pagine restituivano al fascinoso Lawrence d’Arabia (già celebre film del 1962, diretto da David Lean, vincitore di ben sette premi Oscar), T.E. Lawrence, suggestive pagine sulla sua vita eccezionale e della sua morte altrettanto straordinaria. In questo romanzo, la narrazione scavalca un secolo e si trasforma in un gioco di specchi e simmetrie, di corrispondenze al di là dei confini angusti delle vite dei protagonisti.
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Il racconto storico si intreccia con la finzione narrativa perché Frida scoprendo la storia di Cherry inizia a scoprire se stessa e a esplorare il disagio psichico, quel disturbo popolare di cui soffre. Mettendo così a contatto e a confronto il suo malessere con quello di Cherry-Garrard, dando vita a una sorta di testimonianza, e di cammino di guarigione attraverso l’empatia e la solidarietà nei confronti di quell’uomo vissuto un secolo prima. Si crea così un legame straordinario attraverso la conoscenza di un doloroso cammino esistenziale, specchiandosi in lui e, a sua volta, introiettando il personaggio dentro di sé, così trovando la propria salvezza e liberazione. Il percorso è anzitutto attraverso una sofferenza fisica, prima ancora che psichica, ma la salvezza nasce da legami indissolubili come l’autentica amicizia, fatta di condivisione del dolore: “Quella sofferenza terribile era stata resa sacra dal fatto di averla condivisa con loro: perché era stato solo grazie a quei due uomini, per lui presto divenuti dei fratelli nell’angusto e gelido spazio di una piccola tenda antartica, che non si era arreso, che non si era lasciato cadere nella neve per attendere la morte”.
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Cherry non è un eroe, ma una persona consapevole delle proprie fragilità: “Era rimasto un giovanotto apparentemente insignificante, e per di più goffo e imbranato in ogni circostanza ‘ufficiale’: in società era timido e impacciato, per non parlare dello scarso ascendente da lui esercitato sulle donne”. Un giovane che era riuscito a prendere parte a una spedizione, nonostante le sue debolezze. “Era diventato amico di Edward ‘Bill’ Wilson, e grazie a quest’amicizia era piombato nella vita di Cherry il Capitano Robert Falcon Scott, e con lui la Spedizione Antartica Britannica”. A lui era andato il privilegio, o la disgrazia, di prendere parte ad un’audace, eroica impresa. Ma c’era un rovescio nella medaglia. “Tutto era cambiato, dal nulla era giunto uno scopo, e un nobile obiettivo aveva occupato la mente di Cherry: un’avventura indicibile, apparentemente terrificante, nelle terre più inospitali del pianeta, quel continente antartico che a pochissime persone era concesso di vedere con i propri occhi. Cherry aveva puntato i piedi, aveva agito, aveva lottato, e infine, contro ogni probabilità, era riuscito ad essere accettato come membro di quella che sua madre definiva, sprezzante: ‘la nave dei folli’. Nello spazio di meno di tre anni, era felice come mai avrebbe pensato di poter essere. Finalmente era stato utile, e benvoluto; stava partecipando a qualcosa di grande, unito in una profonda comunione d’intenti”.
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Non è forse per questa sintonia, per questi attimi di assoluta perfezione che una vita è degna di essere vissuta? Ma Cherry era sopravvissuto. Oppure aveva semplicemente fallito. Com’è possibile sopravvivere alla scottante consapevolezza della propria incapacità? “Loro non avevano mai fatto ritorno dall’ultimo tratto del viaggio che, insieme al Capitano Scott (‘il Proprietario,’ come tutti lo chiamavano), a Lawrence ‘Titus’ Oates e al marinaio Edgar ‘Taff’ Evans, li aveva portati fino al Polo. Il loro ambitissimo traguardo era stato raggiunto dopo mesi di marcia, a costo di atroci fatiche e sofferenze, soltanto per scoprire che il rivale norvegese Amundsen li aveva battuti sul tempo di appena pochi giorni. Il massacrante viaggio di ritorno non li aveva risparmiati, e mentre i suoi amici arrancavano verso la base senza nessuna possibilità di sopravvivenza, Cherry era divenuto infine inutile e impotente, soltanto un elemento di poco peso all’interno dell’equazione – l’ingranaggio difettoso del meccanismo: benché inviato con una slitta trainata da cani a cercare di incrociare il gruppo di compagni sulla via del ritorno nella speranza di assisterli, aveva fallito. La sua inesperienza come navigatore, la sua invalidante miopia e gli ordini confusi lasciati dal Capitano Scott avevano fatto sì che, dopo qualche giorno di attesa, lui si arrendesse”.
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Inoltre, la sorte ha voluto che lui toccasse con mano l’evidenza della tragedia. Era stato, infatti, lo stesso Cherry a ritrovare i resti del suo capitano, dei membri, dei compagni della sua spedizione. “La primavera successiva, lui stesso aveva rinvenuto la ‘tenda della morte’, dove si era trovato davanti i corpi congelati del Proprietario e dei suoi due grandi amici Bill e Birdie. Giacevano in mezzo al nulla, ad appena dodici miglia e mezzo dal punto in cui, mesi prima, lui, Cherry, aveva fatto voltare la slitta per fare ritorno alla base. Condannando i suoi compagni di un tempo a una morte impietosa, e riservando a se stesso una punizione forse ancor peggiore – la solitudine e l’eterno, costante senso di colpa: la consapevolezza di aver scritto l’atto finale nella vita che i suoi amici si erano lasciati alle spalle”. La forza di una tragedia è ritratta nella consapevolezza della perfetta, felice sintonia, in cui si trovavano poco prima del momento più terribile. “Ma i giorni dell’inverno polare del 1911 costituivano forse per Cherry i ricordi più preziosi dell’avventura antartica, tanto che erano rimasti intoccati perfino dalla tragedia che era seguita. Ripensava spesso al giorno del Solstizio d’Inverno, quando, laggiù nell’hut, avevano goduto tutti insieme di una splendida cena di più portate (con tanto di menu disegnati e dipinti uno ad uno su cartoncini a forma di pinguino), scherzando e chiacchierando fino a notte fonda; o a quando Birdie aveva trascorso ore a fabbricare un perfetto albero di Natale artigianale, dal quale penzolavano regalini per tutti quanti e perfino decorazioni impeccabili, che gli erano addirittura valse i complimenti di Scott. Oppure, ancora, quando, allo scambio dei regali, Titus aveva sorriso come un bambino nel ricevere una pistola giocattolo, ed era corso in lungo e in largo per tutta la casupola, pregando i suoi compagni di accontentarlo e cadere a terra, come fatalmente colpiti, ogni volta che lui ‘sparava’, facendo affiorare alle labbra un forte bang ad effetto”.
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Sopravvivere significa anche lottare con i denti per rimanere in vita. “Cherry era arrivato a un livello di patimento fisico tale da essere disposto ad accettare di buon grado la morte a patto di poter cessare di soffrire, era altrettanto vero che fino all’ultimo lui e i suoi compagni avevano combattuto per rimanere in vita. Perfino quando, nel momento peggiore, la loro tenda (unico riparo dal gelo dell’inverno polare) era volata via a causa del forte vento, e loro si erano visti perduti e condannati a morte sicura, avevano rifiutato di darsi per vinti: nonostante la disperazione e la terrificante prostrazione fisica, si erano messi in cerca di quel quadrato di tela perduto, vagando a tentoni nel buio nero come pece e nel gelo atroce; e incredibilmente, contro ogni logica o previsione, l’avevano ritrovato, molto più vicino di quel che pensassero. Ma questo miracolo non avrebbe mai avuto luogo, se loro non avessero avuto la forza e la costanza di persistere – di rinunciare ad arrendersi, come chiunque altro sarebbe stato ben felice di fare”.
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Nel libro della Froelich si esplorano i sentieri del resoconto dell’avventura di Apsley Cherry-Garrard, il libro Il peggior viaggio del mondo, pagine che aiutano Frida ad esplorare e attraversare il suo modernissimo disagio psichico, in un’autentica passione per una persona che ha incontrato in vita, pur non conoscendola mai, ma trovando in quella persona una sorta di alter ego, un amico e un maestro di vita. Non è il coraggio, ma la paura essenziale per compiere grandi imprese. Come è scritto nel Peggior viaggio del mondo: “L’esplorazione è l’espressione fisica della Passione Intellettuale. E vi dico, se avete desiderio di conoscenza e il potere di dargli espressione fisica, andate là fuori ed esplorate. Se siete uomini coraggiosi non farete nulla; se siete paurosi, potreste fare molto, poiché soltanto i codardi hanno bisogno di dimostrare il loro coraggio. Alcuni vi diranno che siete pazzi, e quasi tutti si chiederanno, ‘a che serve?’. Perché la nostra è una nazione di bottegai, e nessun bottegaio prenderà mai in considerazione una ricerca che non gli permetta un riscontro finanziario entro lo spazio di un anno. E così trainerete la vostra slitta quasi da soli, ma coloro con cui la trainerete non saranno bottegai; e questo vale già molto. Se compite i vostri Viaggi d’Inverno otterrete la vostra ricompensa, a patto che ciò che desiderate sia soltanto un uovo di pinguino”.
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Il dolore più forte resta l’unica strada per la conoscenza, sfiorare e avvicinarsi all’anima di chi ha sofferto davvero è possibile solo per chi ha esplorato una altrettanto vasta sofferenza. Come recitano i versi immortali di Emily Dickinson, in un’epigrafe nel libro: “A un cuore in pezzi/ Nessuno s’avvicini/ Senza l’alto privilegio/ Di aver sofferto altrettanto”.
Linda Terziroli
*In copertina: la piramide di ghiaccio che ha conservato i corpi di Robert Falcon Scott, Edward Adrian Wilson e Henry Robertson Bowers
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Viaggio con la volpe artica che corre sui ghiacci: ha percorso 3500 chilometri in 76 giorni, record! L’ho inseguita insieme a Kafka cavalcando Gengis Khan per capire come si trotta sull’inaccessibile
Trottare sull’inaccessibile. L’arido documento del ‘Norwegian Polar Institute’, Arctic fox dispersal from Svalbard to Canada: one female’s long run across sea ice, firmato da Eva Fuglei e Arnaud Tarroux, s’inaugura sulla domanda di un esploratore che potrebbe innescare il giogo di un romanzo, di una storia. “Giunto all’85° parallelo, durante la spedizione al Polo Nord, l’esploratore Fridtjof Nansen annota: ‘Sono rimasto piuttosto sorpreso ieri mattina, quando ho visto, improvvisamente, alcune tracce sulla neve. Si tratta di una volpe artica. Le tracce sono fresche. Cosa ci fa una volpe su questo mare selvaggio?’”. La bestia trotta sui ghiacci. Si arpiona all’inaccessibile.
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La volpe artica viene chiamata, in anglofono, blue fox. Il nome turba la mia metrica letteraria: Borges era ossessionato dalle tigri blu; secondo la leggenda Gengis Khan è l’incarnazione del lupo blu, l’animale sacro. Il bellissimo romanzo sulla vita di Gengis Khan scritto dal supremo Inoue Yasushi è tradotto in inglese come The Blue Wolf. Il blu giottesco rende la fiera un oggetto di ceramica, una icona da adorare.
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Di ghiaccio in ghiaccio, dalle Svalbard al Canada: il viaggio della volpe artica in due mesi e mezzo
La scienza è prona ai record, in base ai quali fonda la sua ideologia. Quelli del ‘Norwegian Polar Institute’ sono galvanizzati perché hanno trovato una volpe eccezionale. Il dato è questo. I ricercatori hanno imposto un collare “con dispositivo di localizzazione” a una volpe artica. Lei parte dalle Svalbard il 26 marzo 2018. In 21 giorni percorre 1512 chilometri e arriva in Groenlandia. A Ellesmere Island, Canada, arriva il primo luglio. Esito: 3.506 chilometri in 76 giorni. “Spostandosi tra i ghiacci la volpe ha percorso una media di 46,3 chilometri al giorno, con un picco, quando si è trovata su una calotta glaciale in Groenlandia, di 155 chilometri percorsi in un giorno”. Gli scienziati esultano perché non hanno mai registrato un percorso così lungo, compiuto da una volpe, a questa velocità. Le volpi vivono poco, specie di falene di cristallo, pesano pochissimo (“in media da tre ai sei anni, pesano fino a 7,5 chili), sembrano il sospiro di un dio dei ghiacci. Sanno trovare cibo in quel deserto bianco – non le spaventa l’agghiacciante solitudine – forse sono loro a frequentare il dio.
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Forse bisogna leggere questo episodio paragonandolo a un racconto di Kafka, Sciacalli e arabi. Rileggendolo, trovo lì la descrizione della volpe blu – fatemela chiamare così – che è lunga quanto il mio avambraccio. “Occhi d’oro che brillavano e si spegnevano, corpi snelli, che si muovevano con agilità”. Certo, tra deserto e ghiaccio c’è una affinità. Il ghiaccio si scioglie, come la sabbia sotto i piedi: ma il desiderio di acqua, nel deserto, porta al putiferio di monaci. In Artico non puoi erigere celle-igloo, perché la parola ti abbacina, il silenzio ti silenzia la lingua, ti ghiaccia. Il deserto è luogo di preghiera, l’Artico non permette neppure il pregare: chi contempla muore (lo sciamano, in effetti, è puro moto).
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Nel Libro degli esseri immaginari Borges ricorda Un animale sognato da Kafka. Ci si muove su ghiacciaio onirico perché Borges traduce un frammento di Kafka: “È un animale con una gran coda, lunga parecchi metri e somigliante a quella della volpe… la sua testa piccola e ovale ha qualcosa di umano”. L’aggettivo umano è decisivo.
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Secondo gli scienziati, “il ghiaccio marino funge da ponte per il colloquio e il collegamento di diverse popolazioni, per questo sono pochissime le popolazioni isolate di volpe artica”. Ragion per cui, lo scioglimento dei ghiacci – “nelle acque intorno alle Svalbard il declino generale dell’estensione dei ghiacci marini ha già influito sull’ecologia spaziale di diverse specie di mammiferi marini” – influirebbe sulla vita della volpe blu. Ciò non è di per sé una catastrofe, i ricercatori cingono un fatto: “Se le Svalbard restassero senza ghiaccio tutto l’anno, una popolazione di volpi artiche resterebbe isolata, tagliata fuori da altri gruppi di volpi artiche, tuttavia potrebbe essere altamente vitale, come accade in Islanda o sulle isole dello stretto di Bering, dove popolazioni isolate di volpi sopravvivono in un clima sostanzialmente più caldo”.
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Alla questione climatica, direi, si associa quella ‘mitica’. Quella poetica. La volpe che salta di ghiaccio in ghiaccio e fa carne dell’instabile, si aggiusta a ciò che non ha forma, agguanta lo sfuggente albino. Il ghiaccio muta interpretazione come se fosse letto in modo anomalo un versetto biblico – e la volpe è lì, salta, con paziente esegesi del bianco, senza dare espressione al dolore, come un pellegrino che non attende altro, sa che tutto è crudele, che tutto è gloria. (d.b.)
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“L’ultimo volo”. La tragedia del dirigibile Italia, gli errori di Nobile, la fine di Amundsen. Un racconto di Gianluca Barbera
Gianluca Barbera è l’infaticabile avventuriero della letteratura italiana contemporanea. Con energia ferina, ha risvegliato un genere – quello del racconto di imprese straordinarie – in cui siamo stati eccellenti (si pensi a Salgari ma anche a Vittorio G. Rossi). Mentre il suo “Magellano” (Castelvecchi, 2018) continua a mietere successi (lo spettacolo teatrale desunto dal romanzo, con Cochi Ponzoni protagonista, ha esordito il 22 maggio a Milano e ha fatto battere mani e cuori), è in uscita il secondo romanzo ‘magellanico’, dedicato a “Marco Polo”. Il libro sarà pubblico il 30 maggio, nel frattempo Barbera ha scritto, a sgranchire l’istinto, un racconto in cui narra l’impresa mutata in tragedia di Umberto Nobile. Era il 1928. A tentare di salvare l’amico-nemico, come si sa, si mise Roald Amundsen, la star delle esplorazioni polari – e lì morì. La letteratura, come sempre, arriva dove la cronaca arretra.
***
Dopo aver diretto le operazioni di carico della enorme croce di quercia benedetta dal papa, il comandante Nobile consegnò il megafono di ottone al fratello, si abbracciarono e finalmente salì il gradino che immetteva alla gondola, subito accolto dalle grida di benvenuto dell’equipaggio: “Viva l’Italia! Viva Nobile!”.
Sorrise imbarazzato, prese in braccio la sua cagnetta Titina, l’accarezzò come per farle coraggio, poi si affacciò dal portellone e fece segno al personale di terra di mollare gli ormeggi. Il primo motorista accese il motore di poppa. Un attimo dopo anche i due motori centrali presero a rombare. Quando l’ultima fune di traino fu liberata, il dirigibile, che fino a quel momento era rimasto sospeso a pochi metri dal suolo innevato, iniziò a sollevarsi.
Da terra una piccola folla – per lo più composta da cronisti, cineoperatori, tecnici e minatori – osservava immobile la sagoma a forma di sigaro del dirigibile Italia allontanarsi nella nebbia che stazionava sopra la Baia del Re.
Quando scomparve alla vista qualcuno si fece il segno della croce e poi tutti tornarono alle proprie occupazioni.
Erano le cinque del mattino di mercoledì 23 maggio 1928 e il sole era già sorto da parecchio sopra l’accampamento minerario di Ny-Ålesund, presso la Baia del Re, alle isole Svalbard, che da poco appartenevano alla Norvegia.
*
Il 30 maggio prossimo uscirà per Castelvecchi l’ultimo romanzo di Gianluca Barbera, “Marco Polo”
La sera prima, nella sua elegante casa di Svartskog, a pochi chilometri da Oslo, Roald Amundsen, il più grande esploratore polare di tutti i tempi, aveva avuto in casa ospiti. Si erano riuniti per festeggiare due nuovi eroi dell’aria, Hubert Wilkins e Carl Eielson, reduci dalla transvolata di venti ore del mare artico, da Point Barrow, in Alaska, alle isole Svalbard, a bordo di un prototipo Lockheed Vega.
Amundsen era una leggenda vivente, autore di imprese che avevano infiammato l’immaginario collettivo da un capo all’altro del mondo. Aveva giocato un ruolo decisivo nella scoperta del passaggio a nordovest e in quella del passaggio a nordest. Era stato il primo a conquistare il Polo Sud, e appena due anni prima il Polo Nord, sorvolato il 12 maggio del 1926 insieme al comandante Umberto Nobile, a bordo del Norge, un dirigibile semirigido di fabbricazione italiana progettato e pilotato dallo stesso Nobile. Ma ormai, sulla soglia dei cinquantasei anni, molti si aspettavano da lui che si ritirasse in buon ordine e che, come tutte le vecchie glorie, accettasse di passare il testimone alle nuove star del cielo. Proprio ciò che stava avvenendo quella sera.
Dalla prima trasvolata atlantica di Charles Lindbergh a bordo dello Spirit of Saint Louis, datata 1912, era esplosa la passione per le trasvolate, e tutti i migliori piloti del mondo si lanciavano in imprese sempre più scriteriate, nel tentativo di superarsi l’un l’altro, dando vita a una competizione nei cieli dalla quale sarebbe fiorita una mitologia fatta di velocità, resistenza e temerarietà.
Durante la cena fu inevitabile che il discorso scivolasse sulla spedizione del dirigibile Italia. Se l’impresa di Nobile fosse andata a buon fine Amundsen sarebbe stato costretto a inghiottire il boccone brindando al successo di un uomo che detestava. Dopo la conquista del Polo Nord, Nobile e Amundsen non avevano fatto che insultarsi sui giornali e perfino in un paio di occasioni pubbliche, davanti a una folla sconcertata.
Entrambi rivendicavano i meriti della conquista del Polo Nord.
Amundsen, per primo, non era stato tenero con Nobile parlando di lui alla stampa come di una specie di autista, niente di più; e definendolo un esploratore privo di esperienza e dell’umiltà necessaria per acquisirla. Nobile, dal canto suo, aveva replicato rimarcando il ruolo marginale avuto da Amundsen durante il sorvolo del Polo Nord, dal momento che se ne era rimasto tutto il tempo seduto in fondo alla gondola come un semplice passeggero, imbarcato per di più a viaggio iniziato e occupato unicamente a brontolare in una lingua incomprensibile, con una faccia perennemente imbronciata. “Io ho progettato il dirigibile, preparato la spedizione, tracciato la rotta” continuava a ripetere Nobile. “Fosse andata male, la colpa sarebbe stato mia non di Amundsen. A lui spettava il compito più semplice, è stato lui stesso ad ammetterlo, prima che montassero le polemiche: doveva semplicemente restarsene affacciato al finestrino per scoprire tracce di un possibile continente artico. Nient’altro. Se lo avesse trovato, se avesse avvistato delle montagne, delle terre, delle isole, qualsiasi cosa, allora sarebbe giunto per lui il momento di entrare in azione: sarebbe sceso sul pack per intraprendere una esplorazione di quelle nuove terre. Lui era un esploratore, si muoveva in slitta con i cani, questa era la sua professione… Invece non trovammo nulla. Solo uno sterminato mare ghiacciato, questo fu il guaio. Il fatto che abbia dovuto restarsene con le mani in mano per tutto il tempo”.
Ma la lite peggiore tra i due era scoppiata dopo il disastroso atterraggio in Alaska, in una baia ghiacciata, che aveva seriamente danneggiato il dirigibile, di proprietà norvegese. Amundsen aveva sostenuto che l’atterraggio non era finito in tragedia solo grazie all’intervento energico del comandante in seconda, il pilota Hjalmar Riiser-Larsen, suo amico personale, che si era imposto, anche in virtù della sua prestanza fisica, per correggere le manovre improvvide di Nobile. Naturalmente quest’ultimo aveva sostenuto l’esatto contrario: ossia che era stato solo grazie alla sua padronanza del dirigibile se si era evitato il disastro in condizioni di tempo così proibitive. Chi avesse ragione non sarebbe mai stato possibile appurarlo.
A tutto questo si aggiungeva il fatto che, mentre al suo arrivo in Alaska a bordo di una slitta trainata da cani, prima a Teller e poi a Nome, Amundsen non aveva ricevuto le accoglienze principesche che si attendeva, al contrario Nobile, al momento del suo sbarco a Seattle a bordo del piroscafo Vittoria, era stato accolto come un eroe.
Questo Amundsen non glielo aveva perdonato, non perdendo occasione per accusarlo di aver saputo montare una campagna stampa tutta a suo favore, grazie anche al supporto del suo governo. E così lui e Nobile avevano trascorso gli anni successivi a litigare: Amundsen attaccandolo dalle pagine del New York Times e Nobile rispondendogli da quelle del National Geographic. Non solo. Il ciclo di incontri del duo Amundsen-Ellsworth (il miliardario americano che aveva contribuito a finanziare la spedizione del Norge) non aveva ricevuto negli Stati Uniti un’accoglienza particolarmente calorosa; mentre Nobile, ovunque si recasse, veniva festeggiato come una star del cinema. E una volta rientrato in Italia era stato promosso dal duce in persona a generale dell’Aeronautica Militare.
“Caro Roald” aveva scherzato quella sera uno degli ospiti, “tu stai pregando perché non ce la faccia, ammettilo”.
Amundsen aveva fissato l’amico con rimprovero, ma non se l’era sentita di rispondergli.
Dopo un po’, però, visto che quello insisteva tanto, era sbottato: “Parli così perché non sei mai stato al polo, con il culo al freddo e tonnellate di ghiaccio che ti assediano da ogni parte, come se fossi stato rinchiuso in una cella frigorifera! Perché, se ti ci fossi trovato, in quelle condizioni, non ti sogneresti di fare una simile affermazione: nessuno che abbia patito gli stenti di un viaggio polare potrà mai augurare il peggio a chi affronta i ghiacci!”.
E per quella sera il discorso era stato chiuso.
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Mentre il dirigibile Italia raggiungeva la quota prestabilita, al di sopra delle nubi, al timone c’era un ufficiale biondo con due baffetti all’ingiù e occhi chiari e sereni. Elegante e inappuntabile come sempre, Adalberto Mariano era il timoniere più esperto a bordo. Anche gli altri timonieri erano ai loro posti. Nobile, in piedi davanti al quadro di comando, impartiva ordini sulla rotta con voce pacata. I tre potenti motori Maybach rombavano facendo vibrare la gondola, una rudimentale struttura in metallo e legno che poteva contenere una dozzina di persone al massimo. Al centro della gondola Pontremoli, rampante fisico dell’Università di Milano, era già al lavoro sulle sue apparecchiature, intento a misurare il magnetismo atmosferico. Poco più in là, František Běhounek, ricercatore dell’Università di Praga, lavorava alla mappatura della carica elettrica dell’atmosfera. Alle loro spalle, vicino a un oblò, Finn Malmgren, climatologo svedese dell’Università di Uppsala, era occupato in complesse rilevazioni meteo, utili a guidare il dirigibile tenendolo al riparo dalle perturbazioni.
In uno stanzino in fondo alla gondola aveva trovato posto il radiotelegrafista, Giuseppe Biagi, impegnato a tenere i contatti con la nave appoggio Città di Milano, ancorata nella rada del villaggio minerario di Ny-Ålesund, da giorni assediato da giornalisti e curiosi provenienti da tutto il mondo, venuti ad assistere all’impresa. All’esterno della gondola i motoristi si muovevano tra tubi, funi metalliche, montanti, corde e scalette lungo la base dell’involucro, e tutt’attorno, per raggiungere le cabine motore, agganciate alla chiglia, e i vari punti del pallone nei quali si fossero rese necessarie riparazioni in volo. I grossi timoni erano sistemati dentro la gondola. Il timone di quota era al centro dell’abitacolo, mentre quello di direzione era sistemato sul lato anteriore.
Il dirigibile, nelle prime ore, aveva sorvolato la costa puntando verso nord; poi, all’altezza di Amsterdamøya, una piccola isola disabitata delle Svalbard nordoccidentali, aveva sterzato verso la Groenlandia, anche per sottrarsi a un tambureggiante vento da nordest. Banchi di nebbia venivano loro incontro a folate.
Nobile si era sistemato in fondo, tra mappe e appunti di viaggio. Sotto di loro scorrevano immense distese di ghiaccio: la banchisa polare artica. Giunti a 84° di latitudine egli registrò sul diario di bordo: “Da questo momento è cessata ogni traccia di vita. Fin qui, di tanto in tanto, era possibile scorgere orsi polari, avvistare qualche uccello in volo; e nei tratti di mare sgombri dal ghiaccio vedere guizzare dei pesci. Poi, più niente”.
All’altezza del 20° meridiano l’Italia virò di nuovo puntando verso nord. Fino a quel momento la velocità di crociera si era aggirata intorno ai 60 chilometri orari. Ma dopo il viraggio un forte vento di poppa li stava sospingendo fino a 140.
L’acqua nei termos si era ghiacciata. Nessuno aveva chiuso occhio nelle ultime venti ore, da che erano partiti. Tutti erano in attesa di raggiungere la meta, a 90° N, lo zero geografico assoluto. A mezzanotte e dodici minuti scattò un applauso. Il polo era esattamente sotto di loro, stando al sestante e alle altre strumentazioni. Si abbracciarono, stapparono due bottiglie di champagne. Come concordato, Biagi inviò un telegramma al duce, uno al papa e un terzo al re. Nobile spedì un saluto alla moglie. Si intonò l’inno nazionale. Il comandante aprì il portello, si sporse e lasciò precipitare di sotto la bandiera italiana annodata alla croce benedetta. Da un grammofono partirono le note di Giovinezza e de La campana di San Giusto.
Nobile guardò giù. Il programma prevedeva che tre di loro venissero calati sul ghiaccio tramite uno speciale ascensore di sua progettazione. Nessuno conosceva la profondità del mare sotto il polo. Una volta sulla banchisa l’avrebbero misurata attraverso un ecometro Graz, capace di calcolare il tempo di ritorno di un impulso sonoro inviato negli abissi. Che successo sarebbe stato per l’Italia fascista!
Eppure il comandante Nobile non era fascista. Anzi, aveva molti nemici tra le più alte gerarchie; primo fra tutti il potente sottosegretario di Stato per la Regia Aeronautica Italo Balbo, che detestava i dirigibili e per nessuna ragione al mondo avrebbe messo piede su uno di essi.
Mentre contemplava quelle distese di ghiaccio senza fine, all’improvviso si era alzato un forte vento. Consultatosi coi suoi ufficiali Nobile aveva deciso di annullare la discesa sul pack. Peccato!
Era già il momento di fare ritorno. Alla Baia del Re tutti erano già stati informati e festeggiavano. L’arrivo alla base del dirigibile era previsto per il giorno dopo. Ma quando si trattò di stabilire la rotta sorsero i primi contrasti. Alcuni propendevano per la via scelta dal Norge due anni prima, ossia per la rotta che conduceva in l’Alaska: era certo la più distante, ma perlomeno era già stata testata. Ma proprio per quello Nobile ne aveva conservato un pessimo ricordo. L’atterraggio vicino a Teller, sul mare ghiacciato, in mezzo a una tormenta di neve, era stato un incubo. Avevano rischiato di schiantarsi. Non voleva ripetere quell’esperienza. Per questo si lasciò convincere da Malmgren a fare ritorno per la via appena percorsa, volando controvento fino a Ny-Ålesund. Lo svedese si disse sicuro, in base alle rilevazioni ricevute durante tutto il giorno dalla Baia del Re, che avrebbero incontrato condizioni atmosferiche migliori di quelle cui sarebbero andati incontro se avessero volato verso l’Alaska.
Alle 2:20 pertanto il dirigibile raggiunse quota mille metri e si mise alle spalle il Polo Nord procedendo lungo il 24° meridiano.
Tutti a bordo del dirigibile avevano bisogno di dormire e si stabilirono dei turni. Lo spazio era così angusto che a volte per muoversi era necessario scavalcare quelli che dormivano nei sacchi a pelo.
Verso la sei del mattino il dirigibile fu circondato da una fitta coltre di nebbia. Soffiava un forte vento contrario.
Malmgren assicurò che presto le condizioni sarebbero migliorate. Ma non andò così. Il tempo continuò a peggiorare. Il dirigibile era scosso da violente turbolenze. Tutt’attorno al pallone si era formata una crosta di ghiaccio. Si viaggiava a velocità ridotta anche perché Nobile, per risparmiare carburante, aveva dato ordine di procedere solo con due motori. Eppure oramai le Svalbard erano in vista. La meta sembrava a portata di mano.
A un certo punto il timone di quota si bloccò. L’aeronave si inclinò. La prua, rivolta all’ingiù, puntava verso la distesa di giaccio sotto di loro. Nobile ordinò di spegnere i motori per ritardare l’eventuale impatto. A poco a poco il dirigibile riprese quota e tutti poterono rifiatare.
Ma poco dopo si ritrovarono daccapo, con la prua inclinata di otto gradi verso il basso. Erano in volo da due giorni, molti di loro senza mai riposare: le coste delle Svalbard erano vicine, si potevano scorgere a occhio nudo. Mancava poco. Nobile ordinò di portare al massimo tutti i motori in un ultimo sforzo per risalire la corrente e riguadagnare una posizione che li ponesse al riparo dai pericoli, al di sopra delle nubi. Fuori nevicava a più non posso e soffiava un vento immane. Dopo qualche minuto si trovarono avvolti da una nebbia così fitta da impedire la vista.
“Siamo pesanti!” gridò dal suo abitacolo Natale Cecioni, primo motorista.
Si tentò di sbarazzarsi di duecento chili di catena-zavorra ma nemmeno quello bastò. Nobile ordinò nuovamente di spegnere i motori. In caso di impatto perlomeno si sarebbe evitato il rischio che il dirigibile andasse a fuoco. Ormai dalle finestre della gondola si vedeva il pack a pochi metri, in tutti i suoi terrificanti dettagli.
Biagi lanciò subito un SOS alla Città di Milano. Erano le 10:27 di venerdì 25 maggio.
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Proprio quel giorno, poche ore dopo, Amundsen si trovava in un ristorante di Oslo in compagnia di amici e di giornalisti. Erano stati serviti i caffè. Uno degli ospiti, Frøis Frøisland, direttore dell’Aftenposten, ricevette una telefonata. Al suo ritorno aveva una faccia buia. Si chinò e sussurrò all’orecchio di Amundsen poche parole.
Il vecchio esploratore si alzò e disse: “Signori, il dirigibile Italia è scomparso. Il console italiano ha chiesto al governo norvegese un aiuto per le ricerche”.
Nella sala calò il silenzio. Poco dopo il telefono tornò a squillare: era il ministro della Difesa che chiedeva di parlare con Amundsen; il quale, tornato al tavolo, pronunciò queste poche parole: “Sono stato convocato al ministero per organizzare i soccorsi. Perdonate, ma vi devo lasciare”.
E con passo solenne, accompagnato dagli sguardi dei presenti, lasciò la sala. Si sentiva come sollevato da terra, pieno di euforia in petto. Avevano di nuovo bisogno di lui. E per di più era chiamato a salvare il suo rivale. Quale rivincita!
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Nobile e altri otto superstiti si trovarono distesi tra i rottami della gondola sparsi da ogni parte. Al primo impatto ne erano stati sbalzati fuori attraverso lo squarcio che si era prodotto sul lato destro.
Dopo essersi riavuto Nobile aveva alzato gli occhi e aveva visto il pallone aerostatico allontanarsi senza più controllo, trascinato dal vento in direzione nordest, verso l’area più desolata del mare artico. Ritto sulla passerella di metallo che conduceva alla cabina del motore di sinistra, il capo motorista Ettore Arduino lo fissava con occhi pieni di disperazione tenendosi a una fune. Altri cinque uomini erano con lui sul pallone e sarebbero stati portati via, chissà dove.
Nobile e gli altri sopravvissuti si trovarono di colpo in mezzo a una tormenta, su una banchisa deserta, tra giganteschi ammassi di neve ghiacciata, canali e pozze di ghiaccio sciolto, a non meno di dodici gradi sotto zero. Il comandante aveva una gamba e un polso fratturati, una spalla slogata e un paio di costole rotte. A Cecioni non era andata meglio: entrambe le gambe fratturate sotto il ginocchio.
Nobile sentì abbaiare e alzò lo sguardo. Vide corrergli incontro Titina, che prese a leccarlo. Il fox terrier era illeso, senza una sola ferita. Gli altri si stavano avvicinando alla spicciolata. Sembravano sconvolti ma in buone condizioni, a parte qualche ammaccatura. Vincenzo Pomella, uno dei motoristi, invece fu ritrovato con il cranio fracassato qualche minuto dopo. Aveva sbattuto violentemente contro un lastrone di ghiaccio appuntito. Il suo corpo giaceva accanto ai pezzi della cabina motore di destra.
Se i più sembravano calmi, benché afflitti, Malmgren era in preda alla disperazione e minacciava di gettarsi in acqua e annegarsi.
“È tutta colpa mia” gridava strappandosi i capelli.
Nobile, nonostante il dolore che avvertiva in tutto il corpo, provò a consolarlo.
“Io sono il capo della spedizione” disse. “La responsabilità è tutta mia”.
Un attimo dopo, sul lontano orizzonte videro alzarsi una colonna di fumo nero.
“Potrei scommetterci. Quello è il pallone che è precipitato sul ghiaccio e ha preso fuoco” fu il suo commento.
Alcuni annuirono. Altri chiusero gli occhi e pregarono.
La maggior parte delle attrezzature e delle scorte era stipata nella chiglia lignea posta sotto il pallone perciò se ne era andata con lui. Ma qualcosa si era salvato. L’attrezzatura e le provviste allocate nella gondola per l’esperimento previsto sul pack erano state scaraventate qua e là. Bastava mettersi a cercare. Le prime ore furono dunque spese in questa attività. Tra i rottami furono recuperati, tra le altre cose, un cannocchiale, un revolver, alcune bussole, un sestante e scatole di cibo contenenti pemmican, tavolette di latte e di cioccolato, burro e zollette di zucchero. E poco dopo una coperta, un borsone, un sacco a pelo, una tenda e altra strumentazione utile per la sopravvivenza. E anche qualche capo di abbigliamento pesante. Ma soprattutto un trasmettitore e un ricevitore a onde corte, con tanto di accumulatore di energia. E un’antenna quasi intatta e forse in grado di ricevere, se opportunamente accomodata. Oltre ad alcuni recipienti per cuocere i cibi. Mentre un grosso bidone della benzina, una volta vuotato e ripulito, sarebbe servito da marmitta per cuocere i cibi.
Alcune ore dopo furono rinvenute, a un centinaio di metri di distanza, tre taniche piene di carburante e diverse scatole di fiammiferi. La legna di cui avrebbero avuto bisogno la ricavarono dai numerosi frammenti delle eliche andate in pezzi, che si misero a raccogliere con pazienza. Ovviamente i viveri sarebbero stati razionati. Stimata la quantità di cibo disponibile, Nobile stabilì che a ciascuno ne sarebbero spettati non più di trecento grammi al giorno.
Poi si dedicarono al montaggio della tenda. Siccome il suo colore chiaro la rendeva poco visibile decisero di tingerla di rosso con l’anilina usata per le rilevazioni altimetriche.
Subito dopo lavorarono all’impianto radio, per rimetterlo in funzione. Biagi indossò le cuffie e lo mise alla prova, lanciando continui SOS, purtroppo invano. Fare in fretta era essenziale.
Dopo qualche giorno il cadavere di Pomella prese a puzzare così tanto che rischiava di attirare gli orsi, perciò furono costretti a legargli tutt’attorno dei pesi e a calarlo in acqua.
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Nell’ufficio del ministro c’era anche Riiser-Larsen, pilota in seconda durante la spedizione del Norge e suo amico personale.
Amundsen ci mise poco a comprendere che sarebbe stato Riiser-Larsen, ora alto ufficiale della Marina, a dirigere la missione di soccorso. Riiser-Larsen aveva già predisposto un piano che consisteva nell’inviare nella Baia del Re la nave polare Hobby con a bordo un Hansa-Brandenburg F36 in funzione di ricognitore. A pilotare l’idrovolante sarebbero stati Riiser-Larsen stesso e il primo tenente Finn Lϋtzov-Holm, uno dei migliori piloti di cui la Marina norvegese disponesse.
Secondo Riiser-Larsen, che parlando fumava placidamente una grossa pipa, il dirigibile Italia doveva essere disperso da qualche parte sul mare ghiacciato a nord delle isole Svalbard.
Amundsen approvò il piano ma si domandò che cosa ci stesse a fare lì. Non vedeva nessun ruolo per lui, se non quello di semplice consulente da terra. Troppo poco per uno come lui.
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Si può resistere senza mangiare per settimane ma senza bere non più di quattro o cinque giorni. Perciò procurarsi acqua potabile divenne la preoccupazione principale dei sopravvissuti. Erano circondati da neve e ghiaccio ma era tutta acqua salata. Bevendola la sete sarebbe aumentata. Inoltre, alla lunga avrebbe finito per farli ammalare e per provocare allucinazioni. Malmgren spiegò loro che avrebbero potuto ricavare acqua potabile sciogliendo la neve raccolta dalla sommità dei cumuli ghiacciati, perché era la più dolce. Dovevano scegliere tra i blocchi di ghiaccio più duri e grigiastri, nascosti sotto strati e strati di neve. Lì il sale era stato sicuramente drenato. Perciò tutti si misero a individuare i blocchi giusti e a scioglierli dentro barattoli opportunamente preparati.
Zappi, l’unico a possedere nozioni di primo soccorso, si prese cura degli infermi steccando gli arti fratturati e medicando le ferite. Da un pezzo di stoffa lacerata Nobile ricavò un sostegno da portare al collo per il braccio lussato di Malmgren.
Dormire in nove in una tenda concepita per quattro persone non era facile. Si stava così stretti da calpestarsi. Biagi trascorreva le ore del giorno al ricetrasmettitore. Ben presto, non appena la nebbia si diradò, Mariano e Zappi riuscirono a calcolare dalla posizione del sole le loro esatte coordinate. Scoprirono così di trovarsi molto più a est di quanto avessero immaginato. Esattamente a 81° 14’ N 25° 25’ E.
Ben presto si resero conto di non essere precipitati sulla terraferma ma su una enorme lastra di ghiaccio alla deriva, che viaggiava alla velocità di una quindicina di chilometri al giorno. Le coordinate cambiavano difatti ogni giorno. Scoprirono però di trovarsi abbastanza vicini alla terraferma. In lontananza si scorgevano le montagne e i ghiacciai del Nordaustlandet, l’isola più orientale delle Svalbard. Forse camminando sul mare ghiacciato per alcune giornate avrebbero potuto mettersi in salvo.
La notte del 28 maggio ricevettero la visita di un orso bianco di enormi dimensioni. Rovistava tra rottami e rifiuti. Sulle prime non sembrò badare a loro ma poi si fece minaccioso. Malmgren prese la Colt e lo centrò con tre colpi. L’orso cadde a terra e non si rialzò. Venne scuoiato e quella sera banchettarono con la sua carne bollita a dovere.
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Amundsen se ne restò per giorni chiuso nella costosa camera al Victoria Hotel di Oslo in attesa di essere nuovamente contattato dal ministero o da Riiser-Larsen. Ma nessuna chiamata giunse. Era furioso. Lo avevano messo da parte, come un inutile orpello. Non avevano più bisogno di lui. Si sentiva vecchio, stanco e svuotato.
Non poteva sapere che nel frattempo le cose erano cambiate e che gli italiani, attraverso il cavalier Senni, capo delegazione, avevano fatto sapere che avrebbero accettato l’aiuto norvegese a patto che la missione di soccorso non fosse diretta da Amundsen. Mussolini era stato categorico. In passato Amundsen aveva parlato male dell’Italia e del regime e lo stesso duce aveva avuto con lui un incontro di cui conservava un ricordo spiacevole. Inoltre il governo italiano pretendeva che a coordinare le ricerche fosse la nave appoggio Città di Milano, comandata dal capitano di fregata Giuseppe Romagna Manoja, che già si trovava ancorata nella Baia del Re. A questa si sarebbe affiancata ben presto la nave da caccia Braganza, con a bordo una squadra di alpini comandata dal capitano Gennaro Sora.
Stanco di attendere, una settimana dopo Amundsen scagliò a terra il suo cappello e prese una decisione nel suo stile. Indisse una conferenza stampa e annunciò al mondo che sarebbe partito lui stesso alla ricerca dei dispersi.
“Sarò io a trovare Nobile per primo” assicurò, con gli occhi che brillavano.
Subito dopo mentì spudoratamente sostenendo che sarebbe stato in grado di partire entro una settimana. In realtà aveva a malapena il denaro per pagare la stanza d’albergo. Figurarsi se era in condizioni di attrezzare una spedizione artica. Ma un’idea ce l’aveva. Qualche giorno prima, dagli Stati Uniti, il suo vecchio amico Lincoln Ellsworth aveva dichiarato alla stampa che se c’era una persona al mondo in grado di ritrovare Nobile quella era Amundsen. Sembrava un invito. Perciò fu a lui che si rivolse.
Sulle prime Ellsworth si disse pronto a finanziare la missione. Ma poi si tirò indietro. Aveva altro per la testa.
Amundsen allora riuscì a convincere Leif Dietrichson, uno dei più abili piloti dell’aviazione norvegese, a partecipare alla spedizione di soccorso. Si trattava solo di trovare un mezzo e di attrezzarlo. Per questo lo spedì il Germania in cerca di finanziatori, dove riteneva di avere ancora molti estimatori. Ma questi tornò a mani vuote.
Amundsen era sul punto di rinunciare quando dalla Francia giunse un’offerta che non si poteva rifiutare.
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All’esterno della tenda avevano piantato, a vegliare su di loro, una immagine lignea della madonna con Gesù bambino, scampata al disastro.
Una sera Běhounek si imbatté in Zappi e Mariano che parlottavano in gran segreto. Non visto, si avvicinò e sentì che discutevano dell’idea di abbandonare il gruppo per tentare la sorte. Il loro piano era quello di raggiungere la terraferma e poi guidare i soccorsi fino alla tenda rossa.
Ben presto i due riuscirono a coinvolgere nel progetto anche Malmgren, che si presentò da Nobile in qualità di portavoce.
Il comandante lo ascoltò con calma. Non se la sentiva di opporsi. Tutti a parte lui erano sicuri che quella fosse l’unica possibilità che avevano di salvarsi.
“Di questo passo” fece presente Malmgren “verremo trascinati sempre più a est e il lastrone di ghiaccio su cui ci troviamo finirà per sciogliersi in mare aperto”.
Nobile riconobbe che era una possibilità.
“Sono giorni che proviamo a mandare segnali radio” aggiunse Mariano “ma nessuno ci sente. Forse il ricevitore non funziona. Se invece ci mettiamo in cammino avremo la possibilità di raggiungere le coste, che secondo i nostri calcoli distano poche decine di chilometri, e di condurre fin qui i soccorsi.
Dopo quelle parole Nobile acconsentì. Lui e Cecioni non erano in grado di camminare. Il timoniere Felice Trojani nemmeno: da giorni era preda di una febbre altissima. Biagi era l’unico telegrafista e doveva rimanere. Běhounek era troppo grasso e fuori forma per affrontare una simile viaggio. Il giovane tenente Alfredo Viglieri, il navigatore del gruppo, decise di rimanere per lealtà a Nobile.
Coloro che sarebbero rimasti scrissero delle lettere per i parenti e le consegnarono al terzetto che si accingeva a partire. Ormai erano tutti convinti che i tre avessero le maggiori possibilità di salvarsi. Suddivisero equamente viveri e attrezzatura. La Colt rimase con quelli della tenda. Al terzetto toccarono un coltello e un’ascia.
La mattina, dopo essersi scambiati abbracci e parole di incoraggiamento, Malmgren e i due ufficiali italiani si misero in cammino, carichi di zavorra.
Dalla tenda ci si rese conto subito che il loro viaggio sarebbe stato tutt’altro che agevole. Procedevano così lentamente che dopo due giorni erano ancora visibili sul lontano orizzonte.
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Ormai le operazioni di soccorso si erano estese in ogni direzioni. La Baia del Re sembrava divenuta il centro del mondo, affollata com’era di mezzi, giornalisti internazionali, militari e curiosi. Molte nazioni avevano spedito in quello sperduto angolo del pianeta i gioielli della propria Marina e Aeronautica. Oltre a Italia e Norvegia, altre nazioni erano scese in campo. Leggendarie navi polari, imponenti rompighiaccio, idrovolanti di ultima generazioni stavano affluendo da ogni parte verso le Svalbard in una gara a chi sarebbe arrivato per primo al traguardo. E inoltre squadre di guide esperte del territorio, cacciatori polari, alpini, esploratori. Riiser-Larsen aveva preso contatto con Svezia, Finlandia, Francia e, all’insaputa dell’Italia, coi sovietici. Il duce mai avrebbe acconsentito a ricevere aiuto dall’Unione Sovietica, la quale segretamente – almeno al principio – mise a disposizione i due rompighiaccio più grandi e potenti del mondo: il Krassin e il Malygin, che subito salparono da Leningrado.
Dall’Italia un pool di finanziatori privati, coordinati dal presidente dell’Automobile Club di Milano Artuto Mercanti, mise a disposizioni i fondi per far decollare un Savoia-Marchetti S55, pilotato dal maggiore Umberto Maddalena, e un Dornier Wal, condotto dal pluridecorato pilota Pier Luigi Penzo. E per il momento fu tutto.
Ma ben presto cominciò ad accadere una cosa strana: tutti i soccorritori finivano per cacciarsi nei guai e dovevano a loro volta essere salvati. Non pochi ci lasciarono le penne. Una scia di sangue che sconvolse l’opinione pubblica. Al punto che il conducente di slitta Rolf Tandberg, coinvolto nelle ricerche, aveva dichiarato ai giornali: “Quante altre vite andranno perse in questa missione di salvataggio?”.
*
L’avanzata del terzetto procedeva tra mille difficoltà. Camminare sul ghiaccio era quanto mai arduo, tra cumuli di neve indurita, pozze di acqua salata, pendi da superare, tratti particolarmente scivolosi. E poi c’erano canali da scavalcare e talvolta da attraversare finendo spesso a mollo. A sera erano già zuppi di sudore e letteralmente fradici. E soprattutto infreddoliti. Le scarpe finnesko, di morbida pelle di renna, erano inadatte a una marcia sul pack e si sfondarono già al termine del primo giorno. Dormire all’aperto su lastre di ghiaccio dure e bagnate era quasi impossibile. Il sole di mezzanotte non dava tregua. Dopo un solo giorno Malmgren era stato colpito da cecità da neve e avanzava aggrappato a uno dei compagni. Il giorno seguente anche a Mariano toccò la stessa sorte. L’unico che pareva possedere ancora le energie per proseguire era Zappi, un uomo alto e vigoroso che non pareva conoscere la stanchezza.
Decisero di muoversi di notte e riposare di giorno, per affaticare meno gli occhi. Avendo finito le scorte d’acqua erano stati costretti a succhiare il ghiaccio salato, ben sapendo a quali conseguenze sarebbero andati incontro.
Ma la cosa peggiore era questa: ben presto si accorsero che procedevano più lentamente di quanto la lastra si allontanasse dalla terraferma. Era tutto inutile.
Il quarto giorno a Malmgren si congelarono i piedi e non fu più in grado di camminare. Oramai una nebbia ghiacciata sembrava avvolgerli in modo permanente. Lo svedese, esausto, si lasciò cadere a terra e chiese di essere abbandonato. I due italiani non volevano saperne di lasciarlo lì ma egli si mostrò irremovibile. Si fece aiutare a scavare una buca, poi si spogliò di quasi tutti i vestiti, che consegnò ai compagni, e vi si sdraiò dentro in attesa della morte, dopo aver insistito perché gli altri due si rimettessero in viaggio. Col cuore in pena Mariano e Zappi ripresero la marcia. Dopo una ventina di minuti si girarono. Scorsero Malmgren seduto nella buca che faceva loro cenno di proseguire. Fu l’ultima volta che lo videro.
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Davanti a una tale accelerazione degli eventi Amundsen si rese conto che per riuscire a raggiungere per primo Nobile avrebbe dovuto affrettare i tempi.
La Francia gli aveva messo a disposizione un idrovolante Latham 47, un apparecchio di nuova concezione ideale per gli atterraggi sull’acqua ma poco adatto per quelli sul ghiaccio a causa del fondo dello scafo arrotondato.
“Non avremo alcun bisogno di atterrare sul ghiaccio. Ci basterà un solo volo per trovare Nobile” assicurò Amundsen ai giornalisti che lo assediavano non appena metteva piede fuori di casa (dove nel frattempo era rientrato), sorridendo sotto i suoi baffoni oramai ingrigiti.
Inutile dire che in Italia la notizia della sua discesa in campo non era andata giù nelle più alte sfere. Il duce aveva indetto una riunione segreta e aveva preso contatto con il cavalier Senni, che a Oslo guidava la delegazione italiana, impartendogli precise istruzioni.
Certo, Amundsen non era uomo da conservare a lungo le amicizie né da suscitare simpatia. Però aveva un suo codice d’onore, in base al quale gli avversari andavano rispettati e soccorsi, nel bisogno.
“Quell’uomo ti ha screditato in tutti i modi. Perché vuoi salvarlo?” domandò Dietrichson una sera, un po’ su di giri per l’alcol che aveva in corpo e dunque propenso alle confidenze.
Amundsen lo fissò senza rispondere. Giocherellava con l’accendino.
“Se si accende per cinque volte di seguito saremo noi a ritrovarlo, altrimenti no” disse per tutta risposta.
Dietrichson sorrise.
Il primo tentativo andò bene. Anche il secondo e il terzo.
Amundsen guardò l’amico con un risolino. Poi fece scattare il pollice.
Anche il quarto tentativo fu coronato dal successo. Restava l’ultimo.
Amundsen posò l’accendino e disse: “No. Ho deciso che non lo voglio sapere”.
E tutti e due scoppiarono a ridere.
Quello stesso giorno, sul tardi, Amundsen ricevette una telefonata allarmata dal ministro della Difesa norvegese che, saputo della sua imminente partenza per le Svalbard, gli chiese – e quasi ordinò – di prendere contatto con Riiser-Larsen (che già si trovava nella Baia del Re) e di collaborare con lui.
Amundsen non disse né sì né no, godendosi la sua rivincita.
Certo, il Latham 47 era un’incognita, trattandosi di un prototipo, con un esiguo numero di ore di collaudo e di volo.
Ecco perché quando partì dalla stazione ferroviaria di Oslo est furono in molti a notare sul suo volto un’espressione oltremodo preoccupata. Una ragazza si avvicinò e gli porse un mazzo di fiori, abbracciandolo e baciandolo.
Giunti a Bergen una folla oceanica lo attendeva, quasi fosse un messia. Qui era ad attenderlo l’equipaggio del Latham, composto da due piloti, un motorista e un radiotelegrafista. L’apparecchio era all’ancora, giù al porto.
Il giorno dopo finalmente l’idrovolante scivolò fuori dal Puddefjord e si alzò in volo in direzione di Tromsø, sulla costa settentrionale della Norvegia. Da lì, con un volo di una decina di ore avrebbero sorvolato il tratto di mare artico che li separava dalle Svalbard e dalla Baia del Re.
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Nobile in fondo era lieto di essersi liberato degli elementi più irrequieti del gruppo ben sapendo che sul pack la salvezza spesso dipende dalla calma che si riesce a mantenere e dalla pazienza di cui si dà prova. Inoltre, ora che erano rimasti in sei, nella tenda si stava più comodi. Senza contare che disponevano di una stazione radio funzionante. Già, la radio! Proprio da quella giunse il primo dei miracoli attesi. Da giorni Biagi era riuscito a sintonizzarsi con Radio San Paolo, una emittente che trasmetteva notiziari da Roma. E fu da lì che apprese che i loro SOS erano stati captati già il 3 giugno da un giovane radioamatore russo, nella piccola cittadina di Vochma, in Siberia. Quello che però li demoralizzò fu sentire che il giovane aveva riferito alla stampa e ai soccorritori delle coordinate completamente errate.
L’8 giugno però accadde ciò non osavano più sperare. La nave appoggio Città di Milano, ancorata da settimane nel piccolo porto di Ny-Ålesund, incapace di prendere il largo a causa del ghiaccio che circondava la baia, captò finalmente forte e chiaro il loro messaggio grazie anche all’efficienza delle apparecchiature donate da Guglielmo Marconi in persona, il quale seguiva la vicenda coi suoi tecnici da Roma tenendosi informato di tutto.
E così Nobile poté trasmettere il primo lungo telegramma con il quale informava le autorità italiane della loro condizione, della posizione attuale, fornendo un dettagliato resoconto di quanto era loro accaduto. In risposta ebbe la sorpresa di ricevere un messaggio dello stesso Mussolini, che lo invitava a farsi coraggio e lo rassicurava sul fatto che sarebbero stati gli italiani a salvarli.
Per poco Nobile non scoppiò a ridere. Davvero era così importante chi sarebbe stato a salvarli? Ma ovviamente tenne quel pensiero per sé.
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Una volta giunti a Tromsø, Amundsen e Dietrichson, che nel frattempo avevano avuto notizia del ritrovamento di Nobile, furono ospitati nella villa a tre piani del farmacista Fritz Gottlieb Zapffe, vecchio amico del primo nonché corrispondente del Morgenbladet. I quattro francesi invece alloggiarono in un vicino albergo.
Da quel momento si attendeva solo il via libera dell’Istituto di geofisica, che a intervalli regolari forniva i bollettini meteorologici.
Ma quel via libera tardava a venire. Ogni ora erano annunciate perturbazioni tali da impedire il decollo.
Amundsen fece colazione, poi riposò un poco. L’amico farmacista non smetteva di fissarlo con ansia crescente: non lo aveva mai visto così preoccupato. Qualcosa lo tormentava, ne era certo. Ma non osava chiedere.
Sapeva che a Bergen, in fase di decollo, il Latham aveva riportato dei danni a un galleggiante, prontamente riparati una volta atterrati a Tromsø. Ma non poteva essere quel banale incidente a occupare i suoi pensieri.
“Che cosa porterai con te sull’idrovolante?” domandò.
“Tutto quello che ha chiesto Nobile” si limitò a rispondere Amundsen.
Egli sapeva che bisognava fare in fretta, si attendeva un’ondata di maltempo da ovest che avrebbe impedito per giorni di decollare.
Finalmente alle due ebbero il permesso di farlo.
Salutati amici e conoscenti, scesero al molo, sul lato orientale del canale, dove il Latham e i quattro francesi lì attendevano. Era già stato fatto il pieno di carburante e di olio. A bordo era stato caricato tutto l’equipaggiamento necessario.
Salendo sul Latham Amundsen incrociò un’ultima volta lo sguardo di Zapffe, che lesse nei suoi occhi un lampo sinistro.
“Strano” disse un attimo prima di accendere i motori il primo pilota “Arrivando abbiamo trovato il portellone accostato. Qualcuno di voi deve averlo lasciato aperto”.
Si scambiarono l’un l’altro occhiate interrogative.
“Non sarà entrato qualcuno” disse Dietrichson.
“C’era un custode a bordo. Ci avrebbe avvisati” rispose il secondo pilota.
“Forza” tagliò corto Amundsen. “Mettete in moto prima ci raggiunga l’ondata di bassa pressione annunciata per il pomeriggio. O, invece dei primi, saremo gli ultimi a stringere la mano a Nobile”.
La competizione tra le varie nazione per poter esibire Nobile davanti alla stampa come un trofeo era scattata. E Amundsen non era certo in prima fila. Egli si rendeva conto che la concorrenza era agguerrita e che nessuno sarebbe stato disposto a condividere con gli altri le poche informazioni di cui sarebbe entrato in possesso.
Un’ora dopo erano in volo sul mare di Barents. Ma alla Baia del Re, dove tutti li attendevano, non sarebbero mai giunti. Inghiottiti per sempre da quello sterminato mare di ghiaccio. Come se non fossero mai esistiti.
*
Coi norvegesi ormai completamente dediti alle ricerche di Amundsen e del Latham, coi finlandesi che stentavano a far decollare i loro pesanti idrovolanti da Tromsø, i francesi che nemmeno si vedevano all’orizzonte e i sovietici in grave ritardo (i loro rompighiaccio avevano incontrato una resistenza furiosa alla loro avanzata), non restavano che gli svedesi a far concorrenza agli italiani. Da un paio di giorni, infatti, il maggiore Umberto Maddalena sul suo Savoia-Marchetti era giunto nella Baia del Re, prima di ogni altro, e aveva già compiuto un volo di ricognizione a nord delle Svalbard, senza peraltro ottenere risultati. Durante il secondo volo, però, per l’esattezza il 20 giugno, egli individuò i superstiti grazie al luccichio di un pezzo di stagnola usato a mo’ di specchio da Cecioni. Sorvolando l’accampamento fece con la mano un gesto di saluto, ma non fu veduto. Si abbassò a sufficienza affinché dalla tenda rossa potessero scorgerlo e, quando fu esattamente sopra di loro, il fotografo a bordo filmò con la macchina da presa i sopravvissuti che accorsi in massa non finivano più di sbracciarsi. Quelle immagini avrebbero fatto il giro del mondo mostrando a tutti le condizioni penose in cui erano stati costretti a vivere per quasi un mese, le loro facce smagrite e disfatte, le barbe lunghe, l’aspetto da naufraghi. Nobile si sentì umiliato e rientrò più in fretta che poteva nella tenda, facendosi aiutare da Viglieri.
Maddalena, roteando sopra il campo, sganciò provviste e attrezzature, ma i pacchi sostenuti da piccoli paracaduti finirono per la gran parte nelle acque dei canali di scioglimento o si fracassarono al suolo: troppa la velocità a cui volava l’idrovolante. Qualcosa però poté essere salvato: una carabina, due sacchi a pelo, cibo fresco e specialmente agrumi, stivali di cuoio e infine cartucce per eseguire segnali di fumo in modo da facilitare il loro avvistamento al prossimo volo.
La notizia del loro ritrovamento si diffuse in un lampo. Il merito spettava agli italiani, non c’era dubbio. Seppure non avesse fatto quasi nulla per ottenere quel risultato, il duce gongolava. La stampa celebrava l’impresa. Ora però servivano aerei con caratteristiche diverse per recuperarli. Aerei come quelli in dotazione alla Marina svedese. Nei voli successivi il Savoia-Marchetti fu supportato dal Dornier Wal di Penzo e da alcuni Junkers svedesi. Riuscirono a sganciare, questa volta con pieno successo, altri rifornimenti e medicinali. E perfino un paio di bottiglie di whisky, una delle quali però si fracassò.
E finalmente la sera del 23 giugno gli uomini della tenda rossa udirono un rombo sopra le loro teste. Erano un Hansa 257 e un Fokker svedesi che sorvolavano il campo. Il Fokker riuscì ad atterrare. Ne scese un uomo mingherlino in una tuta marrone da aviatore. Era il capitano Einar Lundborg. Scese con tutta la calma possibile dal velivolo e andò incontro al gruppetto che avanzava verso di lui. Fece il saluto militare e si presentò. Disse che aveva il compito di condurre con sé per primo il comandante Nobile e che subito dopo avrebbe fatto ritorno, volando anche tutta la notte se necessario, per condurre in salvo gli altri.
Nobile protestò e per tutta risposta presentò la lista da loro predisposta nella quale era riportato l’ordine con coi avrebbero dovuti essere condotti in salvo. Primo Cecioni, poi Běhouneck, quindi Trojani e infine tutti gli altri. Per ultimo il radiotelegrafista. Nobile si era messo per penultimo.
Ma il pilota svedese fu irremovibile, non avrebbe preso a bordo nessun altro a parte Nobile. Aveva ordini precisi. Anche perché una volta al sicuro questi avrebbe potuto rendersi utile coordinando i soccorsi dal Città di Milano. Nobile avrebbe potuto portare con sé il suo fox terrier, nient’altro. In quel momento sul Fokker non c’era posto che per un passeggero, ma al prossimo giro – promise lo svedese – sarebbe tornato più leggero e avrebbe potuto caricare anche due o tre passeggeri alla volta.
Il comandante si consultò con i compagni e alla fine si arrese. Questo sbaglio lo avrebbe pagato per tutta la vita. In Italia per anni nessuno gli avrebbe perdonate di essere stato il primo a mettersi in salvo abbandonando i suoi uomini. La foto che lo ritrae alla base svedese di Søre Russøya mentre accarezza e nutre amorevolmente Titina a molti parve un gesto irriguardoso verso chi era rimasto sul pack. Una macchia indelebile nella sua fin lì gloriosa carriera.
Del resto nessuno poteva immaginare che, una volta a bordo del Città di Milano, Nobile sarebbe stato privato del comando delle operazioni e che sarebbe stato trattato da Romagna Manoja quasi alla stregua di un ospite sgradito se non addirittura di un prigioniero in attesa di giudizio.
Chi potrà mai dimenticare il suo incontro con Mussolini, qualche settimana dopo. Il duce non lo aveva in simpatia, anche se ufficialmente non perdeva occasione per elogiarlo. Ma Nobile aveva il difetto di non essere un fascista e di essere detestato dal potente Italo Balbo. I due si incontrarono a palazzo Venezia, ebbero un acceso scambio di opinioni, finché Nobile non fu quasi messo alla porta.
Tempo dopo egli sarebbe stato sottoposto a un’inchiesta che gli sarebbe costata i gradi militari (restituitigli negli anni a venire, dopo una completa riabilitazione) e non solo.
Tornando a noi, quando il pilota svedese fece ritorno al campo sbagliò l’atterraggio e finì cappottato. Lundborg ne uscì illeso ma ormai anch’egli prigionieri del pack. Per molti giorni i velivoli svedesi non poterono decollare a causa del maltempo e quando poterono farlo uno di essi atterrò a un centinaio di metri dalla tenda rossa; ma solo per recuperare il loro pilota. Dopodiché gli svedesi non si fecero più vedere, abbandonando i sopravvissuti al loro destino.
A salvarli – raccontano le cronache – sarebbe stato il rompighiaccio sovietico Krassin, da giorni in avvicinamento, malgrado l’inclemenza del tempo, le continue avarie e l’assottigliarsi delle scorte di carbone. Era il 12 luglio, ed era trascorso oltre un mese e mezzo dal disastro del dirigibile Italia, quando il Krassin aveva fatto capolino tra le montagne di ghiaccio svettanti sulla banchisa polare, tra le urla festanti dei sopravvissuti. I cinque della tenda rossa trovarono ad attenderli a bordo del rompighiaccio nientemeno che Mariano e Zappi, recuperati qualche ora prima, ormai allo stremo delle forze. Il terzo del gruppo, lo svedese Malmgren, era morto assiderato e forse – come disse qualcuno – era servito da pasto agli altri due.
Gianluca Barbera
L'articolo “L’ultimo volo”. La tragedia del dirigibile Italia, gli errori di Nobile, la fine di Amundsen. Un racconto di Gianluca Barbera proviene da Pangea.
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Charles Dickens al Polo Sud. In una mostra, la copia del “David Copperfield” che Sir Robert Falcon Scott leggeva tra i ghiacci antartici. Ovvero: sui libri come strumento di salvezza
Il romanzo David Copperfield di Charles Dickens era uscito a puntate in Inghilterra, nel maggio 1849. E, a puntate, come una medicina, il capolavoro, edizione 1910, venne letto ad alta voce, ogni sera, un capitolo a notte – due capitoli, la prescrizione medica, in caso di tristezza profonda – dal gruppo di uomini della spedizione Terra Nova di sir Robert Falcon Scott, intrappolati dentro una grotta di ghiaccio nell’Antartide. Il libro, correlativo oggettivo della rovinosa e fatale conquista del Polo Sud di Scott, sarà protagonista della mostra “Global Dickens: For Every Nation Upon Earth” che aprirà il 14 maggio al Charles Dickens Museum (48-49 Doughty Street) di Londra, per celebrare la gloriosa vitalità di David Copperfield, a centosettant’anni dalla nascita.
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La lettura fervida illuminava la notte polare, sul libro ancora oggi si leggono le nere impronte digitali, le mani macchiate dalle lampade a olio di foca, il vago odore di fumo, la puzza di pesce. Del gruppo faceva parte anche un geologo Raymond E. Priestley, che si rammaricava di doversi separare dal romanzo, quando la storia volse quindi al termine. Il singolare gruppo di lettori polari dell’ottavo e celebre romanzo di Dickens, diversamente da Scott, non raggiunse mai il Polo Sud, ma ebbe in cambio il dono della vita. La salvezza. Erano stati costretti a nutrirsi di pinguini e di foche, il tempo era assolutamente spietato, quei lunghi giorni dell’inverno 1911. Eppure. Gli uomini che avevano letto, appassionatamente, la storia di David Copperfield riuscirono a tornare indietro. Se Sir Scott avesse avuto con sé il romanzo di Dickens, sarebbe sopravvissuto?
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Il “David Copperfield” maneggiato da Robert Falcon Scott, per portare la luce della letteratura tra i ghiacci
Uno studioso francese di storia polare, Edouard Peisson, scrisse di un rimpianto di Scott: il fatale errore di non aver portato con sé i cani. La conquista dei Poli era diventata di colpo una sfida fra il norvegese Roald Amundsen e Sir Robert Scott. La spedizione britannica a bordo della nave Terra Nova, composta dal comandante della Royal Navy Scott, Edward Wilson, Edgar Evans, Lawrence Oates e dal tenente Henry Bowers, era partita il 1° giugno 1910. Scott raggiunse il Polo Sud tra il 17 e il 18 gennaio del 1912. Ma l’Aquila bianca della Norvegia li aveva preceduti, il temibile Amundsen; sul ghiaccio sventolava la bandiera norvegese, legata ad un pattino della slitta. Che cosa avrà pensato, in cuor suo, Scott, allo stremo delle forze, nel vedere le foto scattate che regalavano per sempre la conquista del Polo Sud al suo rivale? Scavando nella neve, nel punto in cui Amundsen aveva piantato le tende, gli inglesi avevano rinvenuto delle pellicole, si poteva scorgerne il volto. La prova della conquista norvegese dell’Antartico. Accecati dalla bruma, feriti dalla sconfitta, scossi dalle tempeste, gli inglesi che aveva raggiunto il Polo Sud erano tutt’altro che in stato di grazia. La disperazione era tangibile, le riserve al lumicino. Evans accarezzava il baratro della follia. Lo stesso Evans cadde nella neve, il suo cadavere venne sepolto poi nel ghiaccio.
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Dopo un mese, le mani e i piedi di Oates furono prigioniere del ghiaccio. Il 16 maggio dichiarò: “Preferirei non svegliarmi più”. Uscì dalla tenda nel mezzo di una tempesta di neve. Generosamente suicida. Scott ne scrisse sul suo diario: “è un atto da uomo di coraggio, da gentiluomo da inglese”. Fierezza regale, britannica. I sopravvissuti erano ora i marinai Scott, il dottor Wilson e il tenente Henry Bowers. Forse, in questo preciso momento, gli inglesi rimpiansero le gioie salvifiche di una slitta trainata dai cani. A diciotto chilometri da un grande deposito di viveri, una violenta tempesta di neve trasformò la tenda inglese in un sepolcro, una bara di cristallo. Se solo avessero avuto qualche goccia di petrolio in più da ardere, per sciogliere e bere la neve. Il piano aveva previsto il ritorno della Terra Nova a McMurdo Sound ai primi di gennaio. In allarme, il capitano della nave, ormai schiava di una trappola di neve, aveva mandato due uomini in ricognizione con i cani. Avevano sfiorato, senza saperlo, un punto a una giornata di cammino dai compagni agonizzanti. Solo sette mesi e mezzo dopo, furono ritrovati i corpi di Scott e degli altri.
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Il diario di sir Scott, le foto. “Robert Falcon Scott è morto di fame, quasi un anno fa, a duecentosessanta chilometri dalla sua base di McMurdo Sound, dopo aver raggiunto anch’egli il Polo Sud. Sono stati trovati il suo corpo ed il suo taccuino di appunti. Tutti i suoi compagni sono morti”. Robert Scott era seduto al centro della tenda, appoggiato al sostegno, la testa irrigidita dalla morte, accanto ai suoi compagni, immobili fantasmi nella posa di una tragica conversazione postuma. A leggere pagine e pagine del corredo di Amundsen per la spedizione al Polo Sud, si scorge un certo pragmatismo norvegese. Al contrario, accarezziamo un ideale romanticismo nell’equipaggiamento britannico, nel loro animo squisitamente (eroicamente) letterario. Portare con sé i libri come strumento di salvezza. La letteratura come balsamo contro lo scorbuto, contro i mali dell’anima. Un anelito. Leggere per sopravvivere alla morsa del ghiaccio. Resistere alle tempeste di neve.
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Dopo le dieci slitte scelte a Oslo simili a quelle usate da Nansen, Amundsen, nei suoi scritti (La conquista del Polo Sud, edizioni Whitestar) si dilunga a parlare degli sci, sottili ma molto lunghi (due metri e mezzo), di legno americano, bastoni da sci in ebanite, con dischi speciali, parla delle tende. “Le sei tende da tre persone forniteci dall’arsenale, di tela resistentissima e cucite con cura, erano perfette sotto tutti i punti di vista. Spesso nei resoconti di spedizioni polari si legge di gravi difficoltà incontrate nel piantare una tenda durante una bufera e come, dopo ore di lavoro faticoso, si debba temere continuamente di vederla rovesciata e strappata dal vento. A noi non capitò mai”. Abiti in pelli di renna, sottovesti di lana, la camicia e i vestiti di burberry e di tela grezza impermeabile. E ancora: “I congelamenti possono far fallire miseramente una spedizione e perciò è necessario far bene attenzione alle calzature prima di adottarle”. Dopo aver raccontato la partenza del Fram per il Polo Sud, Amundsen ritorna nuovamente all’importanza degli sci nell’equipaggiamento polare, in un inconsapevole affondo: “Di speciale attenzione furono oggetto gli sci, la nostra arma migliore nella lotta che ci accingevamo ad affrontare. Dopo aver letto le relazioni di Scott e di Shackleton non si capisce davvero come questi due autori possano sostenere l’inutilità degli sci sul continente antartico. Noi invece, convinti che quel terreno come lo conoscevamo attraverso le descrizioni, fosse il più adatto per questo genere di marcia, ci munimmo di un equipaggiamento completo di sci affidandolo alle cure di Olaf Bjaaland, uno specialista ben noto per la sua abilità”.
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Certo, anche a bordo del Fram non mancavano i libri, i classici del genere: “una biblioteca completa su questo tema, da James Cook e James Clark Ross, fino al capitano Scott e a sir Ernst Shackleton”. Mancavano, forse, i classici della letteratura. Non un cenno alle opere di Charles Dickens. I libri più letti erano, secondo Amundsen, proprio i libri di Scott e Shackleton. Il primo tentativo di raggiungere il Polo Sud era stato, appunto, il loro. Il 1º novembre 1902, Scott, accompagnato da Edward Wilson e da Shackleton, con 5 slitte e 19 cani, aveva lasciato Hut Point per dirigersi a sud. Nonostante lo spettro dello scorbuto e delle rivalità, la spedizione britannica, pur non raggiungendo il Polo Sud, aveva esplorato tutto il massiccio montagnoso e vulcanico della “South Victoria Land” e della “King Edward VII Land”. A centonovantasette chilometri dal Polo. Dal suo sguardo feroce, mortale.
Linda Terziroli
*In copertina: Robert Falcon Scott, mentre legge
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“Vorrei una morte cavalleresca, che mi cogliesse nel corso di una grande impresa”: in un libro avvincente, l’ultima, enigmatica avventura di Roald Amundsen, alla ricerca dell’amico-nemico Umberto Nobile
L’idrovolante francese su cui è sparito per sempre Roald Amundsen, quel maledetto 18 giugno 1928, tra i ghiacci dell’Artico, forse non era nato sotto una buona stella. Nel volo di prova, alla vigilia del viaggio polare, Albert de Cuvertille, il pilota, nel voltarsi per fare segno al motorista, aveva infilato, per sbaglio, una mano negli ingranaggi del Latham 47-II e aveva perso tre dita. A rivelare questo sinistro presagio e a gettare, finalmente, un fascio di luce tra le fitte tenebre di uno dei misteri più enigmatici del Novecento è L’ultimo viaggio di Amundsen, scritto dall’esploratrice norvegese Monica Kristensen nel 2017 e uscito, in questi giorni, in Italia per Iperborea (traduzione a cura di Sara Culeddu). Il libro documentario, più avvincente di un romanzo d’avventura, affonda le sue radici in una scrupolosa ricerca e in un attento vaglio delle fonti storiche sulle vicende dell’ultimo viaggio del più grande esploratore di sempre. Ma che cosa ci faceva l’Aquila bianca della Norvegia, Roald Amundsen, a bordo di un idrovolante francese? Perché un uomo avvezzo alle spedizioni polari e alle privazioni dei deserti di ghiaccio non è sopravvissuto? I punti oscuri dell’ultimo viaggio di Amundsen si legano indissolubilmente ad un altro mistero che, dopo quasi un secolo, continua ad affascinare e a dividere gli animi. Quello del dirigibile Italia.
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Roald Amundsen era salito sul Latham proprio per salvare il suo rivale e nemico, quell’Umberto Nobile che aveva costruito e che guidava il dirigibile, con cui aveva già intrapreso, due anni prima, la trasvolata polare, a bordo di un’altra aeronave, di fabbricazione italiana, il Norge. I litigi su quel pallone italo-norvegese si erano infiammati poi a terra con polemiche ferocissime, alimentate dalla stampa internazionale. Amundsen e Nobile si erano contesi il merito di quella spedizione polare. Ma, stavolta, era il dirigibile Italia a essere naufragato sul pack, e Umberto Nobile con i suoi era in pericolo. Mentre lui, il grande Amundsen, era sotto la fresca ombra dei suoi meli in fiore, a preparare il pan di spagna per i suoi ricevimenti privati. Alcuni tra i superstiti del dirigibile riuscirono, per cinquanta giorni, a sopravvivere al riparo di una piccola tenda di seta che colorarono di rosso. La tenda rossa. Ma degli altri si persero le tracce. Impossibile non ripensare ai giorni della trasvolata sul Norge. Erano le 2.20 del 12 maggio 1926 quando il dirigibile italo-norvegese Norge su cui viaggiavano Nobile e Amundsen aveva toccato il Polo Nord. La spedizione fascista e italiana, invece, aveva voluto osare, doppiare l’impresa, ma si trasformò in una delle più grandi epopee tragiche dell’Artico e diede vita ad una delle più imponenti operazioni di salvataggio al Polo.
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Roald Amundsen non era più giovanissimo. Erano ormai passati venticinque anni da quando, in piena notte, era partita, dal molo di Oslo, la sua prima spedizione, con la Gjøa. Monica Kristensen ci regala, oltre ai preziosi dettagli inediti delle due imprese con dirigibile e del Latham, uno spaccato biografico del grande esploratore solitario: era “un uomo di mezza età, alto e magro, con i capelli grigi, il viso rugoso e un’ombra di stanchezza negli occhi grigiazzurri”. Ma perché era stanco? Avrebbe dovuto celebrare l’uomo da cui si era sentito deluso e tradito, l’italiano Umberto Nobile, per la sua grande impresa e poi doveva presiedere i festeggiamenti per il norvegese-americano Carl Eielson l’inglese Hubert Wilkins, i due nuovi eroi che erano riusciti a volare da Point Barrow, in Alaska, fino a Green Harbour, alle Svalbard. Ormai a questo si riduceva la sua vita di eroe dei Poli. Coronare d’alloro la testa di altri, nuovi eroi. E poi era sempre squattrinato, si era indebitato fortemente per le sue spedizioni, per pagare le attrezzature e i suoi compagni d’avventura. Per non parlare poi dell’amore. Roald Amundsen si innamorava di donne giovani, ma già impegnate, sposate. “Ultimamente ripensava spesso a Bess Magids, la donna che aveva incontrato a Nome durante la spedizione della Maud. L’aveva conosciuta un sabato, il 22 giugno 1922, a bordo della Victoria, una nave passeggeri che viaggiava da Seattle a Nome, in Alaska. Aveva solo ventiquattro anni, ma era sposata già da otto con Sam Magids, un commerciante molto più vecchio di lei”. E poi c’era Bess, Elisabeth Magids, che stava per atterrare di nuovo nella sua vita. Bess sarebbe arrivata a giorni, pronta a lasciare il marito, per lui. Stava arrivando, a bordo della Stavangerfjord. Era forse un eroe in pensione? “E, quel che è peggio, la spedizione della Maud gli aveva causato danni fisici fastidiosi e cronici: un’intossicazione da monossido di carbonio nel rifugio di Point Barrow, l’aggressione di un orso bianco, una ferita alla schiena che si era procurato scendendo distrattamente e al buio la scala di bordo per uscire sul mare ghiacciato”. Per non parlare del cancro all’intestino che aveva cominciato ad aggredirlo e che lui aveva combattuto con cure sperimentali. Ma, a volte, quel che ci vuole è una catastrofe per fare rinascere un eroe. E la tragedia era lì, preparata sotto i suoi occhi, al sontuoso ricevimento presso il ristorante Dronningen.
*
Il direttore dell’Aftenposten per primo fu informato del naufragio dell’Italia. Alla richiesta di andare in soccorso di Nobile e i suoi, Amundsen rispose nel suo inglese: “Right away”. Eppure quello che successe poi fu una catena deprimente di umiliazioni, da cui l’eroe polare seppe comunque rialzarsi, con coraggio e lealtà. Hjalmar Riiser-Larsen non era uno sconosciuto per Roald, con lui e con il fedelissimo pilota, Leif Dietrichson che lo seguì poi nel suo ultimo viaggio fatale, Amundsen aveva già affrontato una spedizione polare, tra il maggio e il giugno del 1925, solo tre anni prima dei fatti di cui parliamo. Curioso come questi stessi personaggi ritornino in scena nei giorni concitati della primavera del 1928. Già nel libro Il mio volo polare (Oscar Mondadori, 2002, oggi introvabile), Amundsen così descriveva Riiser-Larsen, il suo vice: “Egli è talmente conosciuto in patria come aviatore che ogni elogio a questo riguardo mi sembra superfluo, ma possiede inoltre tali e tante altre straordinarie qualità, che non voglio ora fermarmi a elencare, che lo hanno fatto perfettamente adatto al posto che egli ebbe”. L’impresa epica a cui si fa cenno è il tentativo, fallito per un soffio, di trasvolata sul Polo Nord a bordo di due idrovolanti, due Dornier – Wal, l’N24 e l’N25. Già in quella occasione, di Amundsen e dei suoi si erano perse le tracce, erano stati dati per dispersi. “Allora ci raccontarono quanto avessero aspettato e aspettato ogni giorno, certamente nessuno aveva mai detto di crederci morti, ma nel segreto dei loro cuori ciascuno l’aveva pensato; e improvvisamente stavamo là in mezzo a loro: morti resuscitati”. Stavolta, però, Riiser-Larsen non aveva pensato di coinvolgere il suo superiore, ormai in là con gli anni, nei suoi piani di salvataggio di Nobile. Su un punto, però, i piloti norvegesi concordavano: ci volevano gli idrovolanti Dornier-Wal. Nella spedizione del dirigibile Italia, Nobile aveva chiesto di avere con sé Alessandrini, Caratti, Cecioni e Pomella, i cinque meccanici che avevano già volato su Norge. Pomella fu il primo a morire, sul colpo, nella rovinosa caduta del dirigibile sui ghiacci. E alla spedizione italiana aveva preso parte anche l’importante fisico Aldo Pontremoli. Pontremoli, insieme al giovane giornalista del Popolo d’Italia, Ugo Lago, che scrisse una lettera straziante prima di partire, Attilio Caratti, Calisto Ciocca, Renato Alessandrini ed Ettore Arduino, capo-motorista scomparvero con ciò che restava del dirigibile squarciato ormai ridotto ad un involucro, un pallone in balia dei venti, privo di gondola, con la scritta “ITALIA” che scompariva nel bianco accecante del cielo artico. Il metereologo svedese, amico di Amundsen, Finn Malmgren, era stato, invece, preso a bordo da Nobile e fu suo il consiglio fatale che il comandante italiano scelse di ascoltare. Tornare indietro. Kristensen, in modo imparziale e senza la giustizia sommaria che salutò Nobile al ritorno in patria – un Mussolini inferocito lo giudicò colpevole del disastro polare, della catastrofe, di un’onta per la patria, una sconfitta politica per l’Italia – dipinge un ritratto del comandante italiano, così profondamente diverso dal rivale norvegese.
*
Mussolini aveva declinato anche l’offerta d’aiuto norvegese. C’erano vecchie ruggini. Nella spedizione polare del 1925 avrebbe potuto far parte anche l’Italia con un N26, ma, sotto sotto, Amundsen allora non aveva voluto una spedizione italo-norvegese. Nel progetto della trasvolata polare, il dirigibile Italia sarebbe stato seguito da un piroscafo, poco adatto alla navigazione polare, Città di Milano, con il ferreo comandante Romagna Manoja. Riiser-Larsen, il secondo di Amundsen che l’aveva tagliato fuori dai progetti di salvataggio di Nobile, aveva preso contatto, di nascosto, con l’Unione Sovietica, sondando la disponibilità di due delle navi rompighiaccio più grandi del mondo, il Krassin e il Malygin. Il Krassin, nella ricostruzione dell’epopea tragica, rappresentò la salvezza per gli italiani superstiti, ma non per tutti i componenti dell’Italia. E, purtroppo, non per Amundsen e i suoi. Ma andiamo con ordine. Amundsen era sul punto di intervenire nelle operazioni di salvataggio, grazie al suo vecchio amico americano, Lincoln Ellsworth, colui che, grazie alle fortune del padre, aveva reso possibile la spedizione N24/N25 e che aveva poi finanziato e partecipato alla missione nell’Artico con il Norge. Ma le sue sostanze si erano ormai assottigliate e non permettevano l’acquisto di un velivolo adatto alla missione. Inoltre l’americano aveva in serbo altri progetti di gloria: avrebbe partecipato come navigatore alla spedizione di Amelia Earhart, che voleva essere la prima donna ad attraversare l’Atlantico. Così Amundsen trovò altrove i suoi finanziatori, in Francia. “Il direttore della Camera di commercio franconorvegese a Parigi, il grossista Fredrik Peterson, aveva seguito sui giornali francesi la vicenda della missione di soccorso privata di Roald Amundsen. Era un grande ammiratore dell’esploratore e reagì con indignazione quando il 13 giugno la stampa riferì che la Lufthansa non avrebbe messo a disposizione nemmeno un Dornier. Il grossista voleva fare qualcosa, ma non era sicuro di come poter contribuire”.
Nel film “La tenda rossa”, del 1969, Roald Amundsen è interpretato da Sean Connery
A questo punto, la narrazione della Kristensen si fa magnetica. C’è da un lato il salvataggio di Nobile e parte dei suoi, resa possibile grazie ad un eroico Biagi che, indefessamente e al limite delle possibilità umane, era stato in grado di riparare una radio e trasmetteva costantemente messaggi. L’apparecchiatura radiotelegrafica, che era stata donata dall’azienda Marconi, funzionava, nonostante il disastro, in modo eccellente. Ma prima che i naufraghi capissero che i messaggi erano stati captati, Zappi, Mariano e Finn Malmgren avevano già deciso di abbandonare la tenda rossa e allontanarsi tra i ghiacci polari. Il comandante Nobile, già provato fisicamente dal disastro, non seppe opporsi all’insubordinazione. Divise equamente le provviste: cioccolato, tavolette di latte e zucchero, un po’ di pemmican. La colt, con cui Malmgren aveva ucciso un orso polare, rimase nella tenda. Kristensen ci porta quindi a bordo dell’impavido rompighiaccio Krassin che raccolse per primo proprio questo gruppo che si era allontanato dal campo della tenda rossa. Ormai Finn Malmgren era morto. Ma il racconto si fa agghiacciante. I tre avevano marciato verso terra per diciannove giorni, poi, dopo una bufera di neve, il metereologo svedese si accasciò a terra e chiese agli altri due di prendere le sue provviste e di lasciarlo lì e di portare la sua bussola alla madre. Gli altri due scavarono per lui una buca nella neve e lo deposero lì, mezzo nudo. Nella notte tra il 18 e il 19 giugno, Zappi udì il rombo di un aereo. Era l’idrovolante su cui viaggiava Amundsen? Sì, secondo l’affascinante versione di Kristensen. Il 12 luglio 1928, il rompighiaccio Krassin raccolse i due naufraghi, dal loro singolare accampamento. I russi avevano trovato Zappi in preda ad un’agitazione febbrile, una “psicosi polare” e il capitano Mariano seminudo, deperito, in una buca d’acqua gelata scavata nella neve, deperito e con le caviglie nude appoggiate sulla neve. Pare che avesse dato il permesso a Zappi di mangiarlo, ma solo dopo la sua morte. Dai molti particolari che Zappi, sovreccitato e in preda ad un’ossessione polare, raccontò ai molti giornalisti a bordo del rompighiaccio sovietico, si diffusero atroci leggende sul cannibalismo della spedizione fascista. Il comandante Nobile (su cui gravava una taglia, il premio assicurativo per chi l’avrebbe trovato ben cospicuo) intanto era stato salvato e raccolto per primo e unico, dallo svedese Einar Lundborg, con il suo Fokker 31, il 23 giugno del 1928. Ma il primo velivolo a raggiungere gli italiani, era stato un italiano, era Maddalena con il suo Savoia-Marchetti che aveva lanciato provviste, armi e munizioni, lanciandole sul ghiaccio a tutta velocità, come proiettili. Ma che fine avevano fatto i sei italiani che erano rimasti a bordo del dirigibile Italia che si era alzato in volo dopo il naufragio?
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Prima di partire col Latham, Amundsen aveva detto ad un giornalista dell’Aftenposten: “Il gruppo rimasto sul pallone è quello che ha più bisogno d’aiuto”. Amundsen, poi, li conosceva personalmente. “Il 18 giugno, al momento della partenza del Latham da Tromsø, si conosceva la posizione dell’accampamento di Nobile – anche se in seguito si sarebbe rivelata sbagliata – e i sopravvissuti avevano fornito alcune indicazioni sul pallone: la colonna di fumo avvistata da Nobile e dai suoi subito dopo il disastro poteva solo far pensare ad Amundsen che il relitto non si trovasse lontano dall’accampamento”. Alla partenza da Tromsø, quella bellissima mattina di lunedì 18 giugno, Roald Amundsen si comportava in modo strano, sembrava guardare con aria assente quello che gli capitava intorno. Si era stretto la cintura della tuta e si era seduto in coda all’aereo. “Poi chinò la testa, si voltò e rivolse a Zapffe uno sguardo difficile da decifrare”. La scomparsa di Amundsen non scosse solo la giovane Norvegia ma fu un caso che sconvolse tutta Europa. Il suo rivale e nemico, Umberto Nobile, venne additato come colpevole della morte dell’eroe polare. Ad Amundsen si tributarono discorsi e onori, nonostante non si sapesse ancora nulla di certo dell’idrovolante francese su cui viaggiava. Dei dispersi nel pallone del dirigibile Italia, molto presto gli stessi italiani di Città di Milano non vollero occuparsi e l’aliscafo fece rotta verso sud. Con la grande indignazione dell’equipaggio del Krassin disposto a proseguire le ricerche, ma con l’aiuto necessario. Kristensen passa quindi in rassegna tutti i ritrovamenti veri e presunti dei “pezzi” del Latham nei mari intorno alla Norvegia. Sembra quindi improbabile che l’idrovolante francese sia precipitato in mare. Nel 1936, un ritrovamento solleva nuove e affascinanti ipotesi sul destino degli scomparsi, da Amundsen ai naufraghi del pallone Italia. “Nel 1935, l’Università di Oxford organizzò una spedizione di studenti che vide la collaborazione dei professori Binney e Ahlmann. Guidata da Alexander Glen, era formata da giovani con la sua stessa formazione in illustri college di Oxford e Cambridge”. Cosa ritrovarono? Il 10 aprile due studenti, Mackenzie e Wright, in slitta dal Rijpfjord fino all’interno del Zorgdragerfjord e tutt’intorno alla penisola di Platen, trovarono un rudimentale accampamento, con un mucchio di sassi piramidale, alcune scatole e vecchie lattine. “In una delle scatole c’erano documenti italiani, carte di cioccolato e un grosso pezzo di tela plastificata, di quella che si usava per i palloni dei dirigibili. I due studenti fecero uno schizzo dell’accampamento e annotarono i punti in cui avevano trovato i diversi oggetti che furono poi portati alla base centrale e mostrati al capo della spedizione e agli altri partecipanti”. Nell’accampamento, pare ci fossero anche uno sci spezzato, un osso di foca, un pezzo di giornale norvegese, biscotti secchi o crostini di pane. Ma la posizione non venne mai chiarita. Probabilmente era un accampamento dei naufraghi del dirigibile Italia. Oppure era l’equipaggio del Latham? “Quando dopo l’impatto la gondola si era staccata, il pallone si era sollevato ed era scomparso. Dopo una ventina di minuti molti dei sopravvissuti avevano notato una colonna di fumo a circa 20 chilometri di distanza. Presumibilmente la direzione era la stessa del vento, ovvero nordest”.
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Il mistero, con il ritrovamento, si infittisce. “Non tutti i ritrovamenti nell’accampamento misterioso hanno una facile spiegazione. Perché qualcuno aveva portato un pezzo di giornale norvegese in quella landa deserta? Era stato usato per impacchettare? Conteneva un articolo particolarmente significativo? Ma il più inspiegabile di tutti era il ritrovamento dei crostini di pane secco: non era tra le provviste dell’Italia”. Si fa così strada la più affascinante delle ipotesi. Roald Amundsen, a bordo del suo idrovolante francese, inadatto ai ghiacci dell’Artico, aveva ritrovato il gruppo dei naufraghi del pallone Italia che non erano mai stati localizzati. Ed erano stati dati per morti. Solo l’equipaggio del Latham, di sicuro, poteva avere con sé un pacco di kavringer e un giornale norvegese. Nel film La Tenda rossa, del 1969, straordinaria pellicola del regista Mickail K. Kalatozov, dedicata al disastro polare del dirigibile Italia, Amundsen, un fascinoso Sean Connery, attraverso uno squarcio tra le nubi, trova il relitto del dirigibile Italia e gli uomini sparsi tra i rottami, paralizzati dal gelo della morte. In una desolazione artica, nella immacolata solitudine della morte, il destino si compiva, mentre il vento si insinuava dentro l’involucro, disarmato e inservibile, dell’aeronave. L’ipotesi fantastica e suggestiva della produzione cinematografica italo-russa poteva non essere poi così lontana dalla verità storica. Ma, a questo punto, Amundsen e i suoi avrebbero trovato in vita i sei del dirigibile. E poi c’era un dato inconfutabile: il ritrovamento di un serbatoio del Latham che portava segni di un intervento umano e che minava alla radice l’ipotesi di un’avaria al motore e della distruzione dell’idrovolante. Monica Kristensen, grazie alla sua immane ricerca, riesce nell’ardua missione di testimoniare come il grande eroe polare Roald Amundsen sia riuscito anche in questa sua ultima missione, ritrovare i sei uomini del dirigibile Italia e a salvarsi. Era ormai senza benzina e con un idrovolante ormai irrecuperabile. Bastava solo che si decidessero a salvarlo. Ma il 3 settembre – prima di successivi eloquenti ritrovamenti dei resti del velivolo – Roald Amundsen, Leif Dietrichson e i francesi del Latham venivano dichiarati presumibilmente morti. La pagina funebre dell’Aftenposten, la croce e il volto di Amundsen con i solenni necrologi è appesa, incorniciata ancor oggi al primo piano del Polar Museet di Tromsø. Forse, mentre il giornale andava in stampa, l’Aquila della Norvegia era ancora in vita. In una delle sue ultime interviste, il grande esploratore artico e antartico si era abbandonato alla confessione del suo desiderio più inconfessabile ed estremo: “Ah, sapeste com’è bello il paesaggio lassù! È lì che vorrei morire, vorrei una morte cavalleresca, che mi cogliesse nel corso di una grande impresa, una morte rapida e indolore”. Forse, anche stavolta, quest’ultima volta, aveva realizzato i suoi sogni.
Linda Terziroli
*In copertina: Roald Amundsen nel 1925, alle Svalbard
L'articolo “Vorrei una morte cavalleresca, che mi cogliesse nel corso di una grande impresa”: in un libro avvincente, l’ultima, enigmatica avventura di Roald Amundsen, alla ricerca dell’amico-nemico Umberto Nobile proviene da Pangea.
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Roald Amundsen, l’uomo dei ghiacci che morì per salvare il suo nemico, Umberto Nobile: 90 anni dopo, una storia di straziante eroismo
Quella decisione gli era costata la vita. Lui, l’esploratore Roald Amundsen, il primo ad attraversare il Passaggio a Nord–Ovest e il primo uomo a conquistare il Polo Sud, aveva deciso di andare a salvare il suo amico-nemico Umberto Nobile, volando sopra i cieli dell’Artico, dissolvendosi per sempre nel biancore polare, che acceca. Due occhi di ghiaccio, azzurrissimi, un naso importante, sopracciglia folte, arcuate. Una bocca dalle labbra sottili, volitiva. Confronto i due volti di Amundsen, il suo busto e un olio su tela che lo ritrae, accanto. Nel volto scolpito nel marmo scuro, gli occhi sono aperti, ma non ci sono le pupille, quei suoi occhi che avranno visto, in una vita, qualcosa che nessun’altra vita aveva mai visto, fino a quel momento.
Al primo piano del Polarmuseet di Tromsø, nella Norvegia del Nord, ben oltre il Circolo Polare Artico, incollo i miei occhi ai vetri di un’esposizione dedicata a lui. Ci sono i suoi maglioni pesanti e marroni, i suoi indumenti di lana, i giacconi, i cappelli di pelo. Sul legno sopra la vetrina sono illuminate le lettere d’oro che formano il suo nome, la sua data di nascita e l’anno di morte. Roald Amundsen 16 Juli 1872 – 1928 liv og ekspedisjoner. Vita e spedizioni, in norvegese. Questo museo di storia polare è stato aperto il 18 giugno 1978, esattamente cinquant’anni dopo la partenza di Amundsen, a bordo del Latham 47, per salvare Umberto Nobile e ciò che restava del dirigibile Italia, fracassato nei cieli delle Svalbard, sul pack, a pochi sguardi dal 90° parallelo Nord. Non c’è data di morte, il contatto radio con l’Aquila bianca della Norvegia si perse quasi subito e la vita di uno dei più grandi esploratori del mondo venne inghiottita dai ghiacci, per sempre. Umberto Nobile e otto dei suoi uomini, dopo aver raggiunto il Polo Nord il 24 maggio 1928, e aver fatto un tragico naufragio l’indomani, furono salvati. Sono passati novant’anni dalla scomparsa di Amundsen, la polvere si raccoglie anche sopra i suoi indumenti e questo piccolo museo, dentro un capannone di legno scricchiolante, mi sembra un piccolo santuario laico. Finestrelle quadrate di legno si affacciano sulla lingua d’acqua che porta all’oceano. Ma che cosa era successo nei cieli artici?
Cielo plumbeo, nubi basse. Un gabbiano si posa sulla testa di Amundsen, fa il nido sul cappuccio di pelo scolpito, la statua a qualche centinaio di metri dal museo, lo sguardo ostinato e impavido, rivolto al mare. È in piedi, imponente dentro il suo giaccone, vestito per sempre dell’anourak, la blusa di pelle di foca che portava durante i voli. Lui, del resto, è l’eroe dei luoghi freddi, glaciali. L’avventuroso esploratore dei poli. Dicono che indossasse mutandoni di lana e speciali stivali foderati d’erba creati da lui, per ripararsi dai geli artici. La sua morte porta ancora oggi con sé un alone di mistero e di fascino. Il volo, l’ultimo ed estremo, per salvare Umberto Nobile. Nobile che aveva dedicato una vita allo studio della struttura non rigida dei dirigibili – scriveva Wilbur Cross in Disastro al polo, Corbaccio – “Secondo la sua teoria, un’aeronave semirigida di lunghezza compresa tra i cento e i centotrenta metri era sufficientemente flessibile da piegarsi senza danno se sottoposta a vento forte”. E il pericolo poteva provenire dal gas d’idrogeno che gonfiava i dirigibili. Ma con il Norge era filato quasi tutto liscio. L’esploratore di Oslo, con l’americano Lincoln Ellsworth e quattro membri dell’equipaggio, aveva già tentato di raggiungere il Polo Nord in aereo, ma, nella primavera del 1925, era rimasto senza carburante e, per un mese, sul pack gli esploratori furono tagliati fuori, senza alcun contatto radio. E già allora Amundsen, l’aquila norvegese, venne dato per disperso. Ma miracolosamente i sei uomini erano riusciti a decollare e a fare ritorno alle Svalbard. Quell’esperienza, secondo Cross, avrebbe convinto il norvegese ad entrare in contatto con Umberto Nobile e acquistare una delle sue aeromobili. Il dirigibile N 1, battezzato Norge, Norvegia appunto, con cui fu effettuato il primo sorvolo del Polo Nord, nel maggio 1926.
Umberto Nobile con la fedele ‘Titina’: sul Norge, che raggiunse il Polo nel 1926, diversi dissapori minarono la convivenza tra lo spartano Amundsen e Nobile
Il Norge era un dirigibile semirigido, da 18.500 metri cubi, finanziato per la maggior parte dal club Aeronautico Norvegese, raggiunse il polo il 12 maggio 1926, dopo aver coperto 13400 kilometri in 161 ore di volo. Tre giorni per volare sulla cima del mondo, 71 ore dalle Svalbard all’Alaska. A bordo, sopra tutti, un norvegese e un italiano, un esploratore e un esperto di aerostatica, Roald Amundsen e Umberto Nobile. Molte le difficoltà a raggiungere l’Alaska e, soprattutto, una ancora più delicata convivenza, a bordo. Litigi, discordie, riportate anche dalla stampa dell’epoca. Due nazioni che si contendono gli onori dell’impresa, il fascismo. Amundsen che si lamentava delle inutili belle uniformi degli aviatori italiani. Nobile, poi, si era pure tirato dietro Titina (come avrebbe fatto poi sul dirigibile Italia), la sua fedele cagnolina, un piccolo fox-terrier, un peso inutile. Se con Amundsen c’era un po’ di ruggine, Nobile aveva tenuto un buon rapporto con il meteorologo della spedizione, Finn Malmgren, che volle con sé nel nuovo progetto di trasvolata artica.
È l’estate del 1927 quando Umberto Nobile organizza la seconda spedizione polare, con il dirigibile Italia. Nella primavera del 1928, si addensano le nubi minacciose del destino, mentre prende corpo anche la sua idea rivoluzionaria: non semplicemente una trasvolata. “La prima fu una trasvolata, questa volta ci fermeremo – aveva affermato Nobile – Ho sperimentato un sistema di ancoraggio e una speciale piattaforma che permetterà la discesa ai tre scienziati che fanno parte della spedizione”. Il progetto era quello di esplorare la costa siberiana, la terra di Nicola II, la Groenlandia e di allestire un campo base di studio e di misurazione delle temperature. Ma il sogno si rivelò troppo temerario e la discesa si trasformò in una caduta rovinosa. Edouard Peisson in Poli (Baldini&Castoldi, libro del 1953, traduzione di Bruna del Bianco) ripercorre i giorni di Amundsen prima della partenza senza ritorno e ce lo restituisce ritirato nella sua casa di Bunnefjord, nel fiordo di Oslo, intento a scrivere le sue memorie, che non finirà. Quando sente dire che, a causa di una tempesta e della neve, il dirigibile Italia si è abbassato, appesantito, a tavolino traccia la rotta mediana tra la Terra di Nord-est e la Terra di Alessandro. “Ma per quante ore il dirigibile ha potuto navigare a velocità normale? Quando si è trovato in pericolo, la sua posizione era più vicina allo Spitzberg o alla Terra di Alessandro? Ha dovuto far rotta verso l’uno o verso l’altra. E come saperlo?” si legge in Poli.
Finalmente un prodigioso segnale da Nobile viene captato nella città di Arcangelo. Amundsen si decide a partire in soccorso di Nobile. Un gesto di eroismo, da celebrare, all’età di 56 anni. Aveva già oltrepassato, da un pezzo, la freschezza dei suoi vent’anni. Ma aveva l’esperienza dalla sua, le numerose spedizioni avventurose, pericolose e storiche. Al diavolo quell’assurda polemica e le vecchie rivalità. Si trattava di tendere la mano e trarre in salvo Nobile e i suoi, sul suo velivolo. Perché lo svedese Lundborg – che porterà in salvo Umberto Nobile, solo lui – e i rompighiaccio Krassine e Malygine erano già partiti. Così è la Francia a fornire ad Amundsen il Latham, con due motori da 500 cavalli. “Ha un raggio d’azione di cinquemila chilometri, è pilotato e condotto da due marinai, i tenenti di vascello Guilbaud e De Cuverville, assistiti dal capo meccanico Brazy e dal radiotelegrafista Valette”, scrive ancora Peisson. A bordo, Amundsen e Dietrichson, alla partenza da Tromsø, il 18 giugno ricevono tanti fiori. Rileggo, con un brivido, questo particolare, i fiori: narcisi, gigli di campo, pervinche.
“Verso le 18 l’idrovolante decollò, si alzò obliquamente e… scomparve. Per due ore e quarantacinque minuti la stazione radio di Tromsø restò in comunicazione con il Latham, che aveva puntato verso la Baia del Re. Poi Tromsø, non potendo più trasmettere per mancanza di corrente, non fu in grado di rispondere ai messaggi di Guilbaud. Quando la corrente tornò fu l’idrovolante a restare muto”. Non seguì la notte a quel giorno. La luce notturna era diventata angosciosamente spettrale. L’attesa, inutile. “Alcuni naviganti asserirono di aver visto un idrovolante calare al largo della costa norvegese poi riprendere l’aria e dirigersi verso lo Spitzberg. Pescatori di fiocina, che rientravano al porto, raccontarono di essere stati sorvolati da un biplano mentre si trovavano a venti quattro miglia a Nord-ovest dell’Isola degli Orsi”. Non si scorge il profilo del Latham nei cieli norvegesi e, per giorni interminabili, tutti vorrebbero sentirne il ronzio.
‘La tenda rossa’ è un film del 1969, prodotto da Franco Cristaldi, con Sean Connery nelle vesti di Amundsen e Peter Finch in quelle di Umberto Nobile
Il 31 agosto di quel 1928, leggo in The White Eagle – Roald Amundsen, Sailor of the Skies, di Olav Gynnild, pubblicato nel 2002 dalla casa editrice norvegese Odds Interbok, “il peschereccio “Brodd” trovò a Torsvag, a nord di Tromsø, un galleggiante del Latham. Poi, in autunno, una delle taniche di benzina del velivolo fu ritrovata ad Haltenbanken. Nessuno poteva credere che Roald Amundsen fosse davvero morto”. Nel libro leggo che l’opinione generale era che Amundsen avesse sacrificato la sua vita per il suo nemico. L’italiano Nobile. Ma Fridtjof Nansen, un altro esploratore dei ghiacci, dava ai fatti una diversa versione. Infine, verso il 1930, tutti pensarono che Amundsen e i suoi fossero stati sepolti in una tomba d’acqua. Nobile fu salvato pochi giorni dopo la scomparsa del norvegese. Ma non tutti i membri dell’Italia fecero ritorno.
Ripenso alla statua di Amundsen, agli occhi senza pupille. Dove avrà posato il suo ultimo sguardo, poco prima di lasciare la vita? Nel celebre film La Tenda rossa, del 1969, straordinaria pellicola del regista Mickail K. Kalatozov, dedicata al disastro polare del dirigibile di Nobile, Amundsen, interpretato dal fascinoso Sean Connery, grazie a uno squarcio tra le nubi, trova il relitto del dirigibile Italia e gli uomini sparsi tra i rottami, paralizzati dal gelo della morte. In una desolazione artica, nella immacolata solitudine della morte, il destino si compiva, mentre il vento si insinuava dentro l’involucro, disarmato e inservibile, dell’aeronave. Amundsen trova un libro e lo legge. Si ricostruisce, nel film, un processo postumo a Nobile, presenti tutti i protagonisti delle operazioni di salvataggio, compreso Lundborg. Perché Nobile ha accettato di essere salvato per primo?
Chissà se era questo il destino che Roald Amundsen aveva accarezzato da bambino, una morte da eroe, lui, nipote e pronipote di pescatori, figlio di un armatore di velieri costieri. Sua madre voleva che diventasse un medico, lui che a diciassette anni sognava di diventare un esploratore, come Nansen. E sognava di trovare il passaggio a Nord-ovest. “Ma Roald Amundsen, Dietrichson, Guilbaud, De Cuverville, Brazy e Vallette?” Leggo le ultime parole di Edouard Peisson, Capitano della Marina Mercantile e scrittore francese, anche lui ormai scomparso da tempo, a settembre 1963. Era nato nel 1896, a Marsiglia: “Era da tanto tempo che gli occhi non si volgevano più verso il cielo. Gli uomini sulla passerella guardavano le ondate trasparenti che lavavano le murate dei loro bastimenti, con la speranza di scoprirvi un corpo, un viso. Tutti quei marinai avrebbero voluto afferrare Amundsen, avrebbero voluto prenderlo tra le braccia per portarlo a terra, come in altri tempi i loro fratelli avevano preso e portato la Gjöa, la sola nave che, allora, condotta dal grande norvegese, avesse superato il passaggio a Nord-ovest ed il cui viaggio era terminato”.
Linda Terziroli
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