#Linda Terziroli
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myborderland · 1 year ago
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“Le mie creature sono tutte mostruose. La mia famiglia era davvero mostruosa. È quello che conosco. Io non sono molto comune. Sono una strana entità che vuole soltanto scrivere. Non sono socievole. L’unica volta che mi capita di stare in compagnia è il 24 dicembre”.
Linda Terziroli
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pangeanews · 4 years ago
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“Non so se questa è arte dissi a me stessa. Questa è vita”. Quando Marina Abramović attraversò la Grande Muraglia cinese per sposare Ulay (e scoprì il suo tradimento)
Nell’estate del 1988, la Grande Muraglia in Cina era un cumulo di macerie. Un mucchio di sassi pericolanti. Tra le performance che srotola in modo particolareggiato e intenso (senza tacere davvero nulla) la leggendaria Marina Abramović, dentro quel sorprendente romanzo fiume che è Attraversare i muri – un’autobiografia (edito da Bompiani), The Lovers senz’altro è la mia preferita. Dopo dodici anni d’amore e d’arte (e tradimenti), dopo aver intrecciato i loro corpi in molteplici performance in giro per il mondo e avere mescolato sapientemente quanto pericolosamente vita e opera, Marina e Ulay (pseudonimo di Frank Uwe Laysiepen, l’artista scomparso a marzo scorso) concepiscono un progetto clamoroso nel cuore del deserto australiano, in mezzo agli aborigeni: percorrere a piedi tutta la Grande Muraglia. Vedono una luna piena gigantesca mentre parlano del fatto che, secondo gli astronauti, le uniche costruzioni visibili dalla Luna sono le piramidi e la Grande Muraglia cinese. “Fu allora che concepimmo un nuovo, ambizioso progetto: percorrere a piedi la Grande Muraglia, partendo dalle estremità e incontrandoci in mezzo. Nessuno l’aveva mai fatto prima, ne eravamo più che sicuri. E non solo ci saremmo incontrati a metà, ma lì ci saremmo sposati. Un’idea incredibilmente romantica”.
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1988, “The Lovers”: Marina sulla Grande Muraglia cinese
Sotto la struttura della Muraglia vive un drago leggendario, di colore verde, che incarna l’unione di terra e aria, due elementi naturali. Ma l’opera non sarebbe così significativa se non celebrasse il fallimento, più che il coronamento, della storia d’amore dei due artisti. La realizzazione dell’opera è piena di ostacoli, nessuno effettivamente aveva mai percorso a piedi l’intera Muraglia. Poi, nel 1984, un cinese, Liu Yutian percorse da solo a piedi tutta la Muraglia. Quindi, i due artisti arriverebbero secondi. Per una ragazza vissuta sotto Tito, figlia di comunisti eroi di guerra, la Cina che attraversa è zeppa di qualcosa che ha già visto: “le locande più grandi erano deprimenti: nudi blocchi di cemento armato, con i gabinetti fuori. L’illuminazione era terribile; se le pareti erano dipinte, era in quel verde-ospedale che ricordavo fin troppo bene. I paesi, poi, erano un incubo. In tutti c’erano i tipici dormitori comunisti, che consistevano di tre locali: in mezzo c’era la cucina, da una parte lo stanzone per le donne e dall’altra quello per gli uomini”.
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Alla vigilia della partenza lo scopo della performance Abramović è già a pezzi, proprio come la Muraglia. “Non ero certo in uno stato d’animo ottimale. Mi sentivo a pezzi. Ulay aveva continuato a tradirmi, sia alle mie spalle sia davanti ai miei occhi. Quando arrivai a Bangkok, ero disperata. Ero pazza di gelosia, avrei fatto di tutto per sapere con chi avesse una relazione in quel momento, ma ero decisa a recitare la parte della donna felice cui non importa niente. Gli dissi che avevo una storia pazzesca con uno scrittore francese che faceva l’amore divinamente. Non era vero nulla”. Il progetto era di partire dalle due estremità della Muraglia, la testa a oriente – la coda a occidente, e accamparcisi sopra. Ma camminare da soli non era permesso. “Invece di camminare da soli, ciascuno sarebbe stato accompagnato da un drappello di guardie e da una guida-interprete. In teoria le guardie ci dovevano proteggere, ma i cinesi avevano la paranoia che andassimo nei posti sbagliati e vedessimo ciò che non dovevamo vedere. Alcune porzioni della Grande Muraglia erano all’interno di aree militari inaccessibili: in questi casi, anziché continuare il cammino, saremmo saliti su una jeep con un autista e avremmo fatto una deviazione. E accamparsi sulla Muraglia era fuori questione: in Cina, dopo la rivoluzione culturale, nessuno voleva patire scomodità, soprattutto i soldati che ci accompagnavano”. Insomma, avrebbero alloggiato nelle locande vicine alla Muraglia, che, in alcuni punti, era stata divorata dalle sabbie del deserto. In molti punti era “un mucchio di sassi pericolanti”.
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Per certi versi era una Cina ancora sconosciuta agli occidentali. “Erano gli anni di piazza Tienanmen e attraversavo una Cina che ben pochi occidentali conoscevano. Misi piede in dodici province che erano proibite agli stranieri. C’erano siti contaminati dalla radioattività. Vidi persone legate ad alberi e lasciate morire lì, come forma di punizione. Vidi lupi mangiare cadaveri. Era una Cina che nessuno voleva vedere”. Ulay le fa recapitare un biglietto, dalla Cina occidentale: “Camminare sulla Muraglia è la cosa più facile del mondo”. Le dissimmetrie erano parte dell’opera, del territorio e del principio maschile, il deserto, contro quello femminile, l’acqua. Ulay era partito dal deserto, Marina dal mare. Nonostante tutto, lei pensava di portare la loro storia d’amore in salvo. Si incontrarono il 27 giugno 1988, tre mesi dopo la partenza, a Erlang Shen, Shennu, nella provincia di Shaanxi. Ulay era lì ad aspettare Marina da tre giorni, tra un tempio confuciano e uno taoista. E aveva già messo incinta la sua interprete, Ding Xiao Song, che avrebbe sposato a Pechino, nel dicembre di quell’anno.
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2010: “The Artist is Present”, al MoMA di New York Marina ritrova Ulay
Attraversare i muri è dopo tutto un inno alla vita, agli incontri e agli amori, alla sua imprevedibilità, alle morti e al dolore che la percorre dall’inizio alla fine. Dolore che è parte integrante di tutte le opere della Abramović, comunque la si pensi su di lei e sulla sua arte (che per alcuni critici non è se non puro esercizio fisico, una sfida sensoriale e disinibita). Che è inscindibile dalla vita dell’artista. Ma che cosa è l’arte? “Se vediamo l’arte come qualcosa di isolato, di sacro e di separato da tutto, significa che non è vita. Mentre l’arte deve essere parte della vita, deve essere di tutti”.
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L’artista c’è, è presente. The Artist Is Present, forse la sua performance più celebre, durata tre mesi al Museum of Modern Art di New York la porta nuovamente a interrogarsi. E a interrogare il pubblico e la critica. “Non so se questa è arte dissi a me stessa. Non so cos’è quello che sto provando né so cosa sia l’arte. Avevo sempre pensato all’arte come a qualcosa espresso mediante determinati media: pittura, scultura, fotografia, scrittura, cinema, musica, architettura. E sì, anche performance. Ma questa performance andava oltre la performance. Questa era vita. Può essere l’arte isolata dalla vita? Deve esserlo? Cominciai a essere sempre più convinta che l’arte deve essere vita – deve appartenere a tutti. Sentivo, con un’intensità mai provata prima, che ciò che avevo creato aveva uno scopo”. L’artista, comunque, soffre sempre. Per antonomasia. Alla fine della prima giornata della performance, si siede, inaspettatamente, davanti a Marina, il suo vecchio amore, Ulay. “Fu uno shock. In un attimo mi passarono davanti dodici anni della mia vita. Per me non era certo un visitatore come gli altri. Così, solo per quella volta, infransi le regole. Misi le mie mani nelle sue, ci guardammo negli occhi e, prima di rendermi conto di quello che stava accadendo, ci ritrovammo in lacrime”. Poco tempo dopo, Ulay scoprì di avere un cancro. Lei gli è sopravvissuta, così come è sopravvissuta, dolorosamente e coraggiosamente, alla fine del suo successivo e tormentato amore, Paolo Canevari. Con una forza femminile che è davvero la sua arte migliore e certamente la sua arma più vincente.
N.B.: Dal suo decalogo, quasi alla fine del romanzo, La condotta di vita di un artista, mi annoto questa massima: “Un artista dovrebbe evitare di innamorarsi di un altro artista”.
Linda Terziroli
*In copertina: Marina e Ulay in “Rest Energy”, 1980
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pangeanews · 5 years ago
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“Santità è milizia, intrepida, fanatica milizia”: Guido Morselli (inedito) narra lo scontro tra Pio XII e Stalin. Un racconto da film
Vanno di moda le fiction sul papato – vedi Paolo Sorrentino – laccate, maliziose, tese a spiare le vergogne vaticane che fanno il tango sotto il gonnone di San Pietro. Insomma, si pensa – non ingiustamente – che il male alligni, allevi devote schiere di demoni in tonaca, proprio lì dove dovrebbe covare Iddio. Il problema – di ordine principalmente narrativo – è che, tutti tesi a denudare il re (pardon, il papa), nessuno si occupa dei rapporti tra la Chiesa e il potere, mondano e mondato, divino. La Chiesa, polmone esangue, respira perché anela al potere – e al potere, in un verso o nell’altro (la ‘profezia’ è verbo di un potere superiore scagliato, terra-terra, contro quello umano), tende.
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Per questo, di questo andrebbe fatto un film. Il soggetto, di per sé, ha robustezza di diamante. Lo sintetizzo così. Nel 1950, anno giubilare, papa Pio XII, nascosto sotto l’epiteto “il Personaggio in bianco”, e Iosif Stalin – inconfondibile pur dietro le spoglie del “Signor Maresciallo” –, “potenti fra i potentati, venerati fra le maestà della Terra, viventi emblemi per innumerevoli moltitudini”, si incontrano, segretamente, a Roma. Il gran khan sovietico propone al Santo Padre una alleanza demoniaca, dal nitore apocalittico, tra Russia e Vaticano. Un sosia dei Pio XII condotto da Mosca per concludere l’affare funge da sinistra icona dell’antipapa. Detto così, appunto, siamo in fiera ucronia: lo Stato della Chiesa che trova accordo con l’Unione Sovietica. Solo che lo scrittore, l’inafferrabile Guido Morselli, non è Philip K. Dick per cui il racconto ha il passo di un classico.
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Il racconto dell’incontro, ipotetico, tra il papa e Stalin s’intitola, va da sé, Il grande incontro, ed è l’ennesimo gioiello nella tesoreria di inediti morselliani. Stampato con furore estetico dall’editore De Piante – con coperta d’artista di Barbara Nahmad –, è curato da Linda Terziroli, studiosa e biografa eccezionale di Morselli (“Una biografia di Guido Morselli”, con il titolo Un pacchetto di Gauloises, è uscita quest’anno per Castelvecchi). Da lei ci facciamo spiegare il contesto: “Il racconto Il grande incontro – ambientato nell’anno giubilare 1950 – e probabilmente scritto negli anni 1955-1956, gli stessi della stesura di Fede e critica, mette in scena un incontro segreto fra Stalin e Papa Pio XII (personaggi mai nominati, ma ben riconoscibili): incontro che non ha mai ha avuto luogo, ma possibile. Un’udienza che Stalin desiderava, come sostiene il professor Matteo Luigi Napolitano, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università del Molise, sulla scorta di un verbale di 40 cartelle, fino a oggi inedito, in cui sono messi, nero su bianco, i resoconti dei colloqui che attestano l’offerta di Stalin. A fine febbraio 1953, in piena Guerra Fredda, il Maresciallo prima di morire (una settimana dopo, il 5 marzo 1953), avrebbe tentato un riavvicinamento tra la Santa Sede e l’Unione Sovietica. Morselli, dunque, poteva – secondo Napolitano, biografo di Pio XII – essere a conoscenza del tentativo diplomatico di incontro tra le due altissime personalità”. La Terziroli ci spiega – segno nel segno – che la scoperta editoriale di Morselli, del tutto postuma, come si sa, comincia con Roma senza papa, nel 1974, grazie ad Adelphi, straordinario romanzo ‘papale’ che inaugura il mito del “Gattopardo del Nord”, secondo l’intuizione di Giulio Nascimbeni.
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Per chi ama i ghirigori bibliografici, Il grande incontro cela anche il mistero della sua grande scoperta. Il racconto, infatti, spiega la Nota al testo, “è il primo scritto della raccolta narrativa dal titolo Racconti brevi, «offerti», nell’inverno 1972, da Guido Morselli all’amica fidata Maria Bruna Bassi”. I racconti, scritti tra 1947 e 1972, sono 18 e vengono “affidati nel 1983 da Maria Bruna Bassi all’allora sindaco di Gavirate, Romano Oldrini, in occasione del convegno dedicato a Guido Morselli a dieci anni dalla morte”. Oldrini si dimentica dei racconti salvo ritrovarli, nelle “profondità di un polveroso cassetto”, nel 1995: verranno poi editi, vent’anni fa, per la Nuova Editrice Magenta con una nota dello stesso Oldrini e un saggio di Valentina Fortichiari. Ma il volume di allora raduna soltanto 17 dei 18 racconti. Il primo, emerso oggi, Il grande incontro, non c’è, “per ragioni mai chiarite”. Il caso, a volte, ha le fattezze di un agente del Kgb. I racconti di Morselli stanno, in originale, al Fondo Morselli della Biblioteca “Abbiati” di Gavirate.
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Ora. C’è il papa, c’è Stalin, c’è l’antipapa che sgambetta tra i colonnati di San Pietro, pronto a balzare sul trono appena Pio XII decida di volare a Mosca. A me affascina il finale, il sale morale, quando il papa morselliano afferma la sua idea di cristianesimo cattolico: “Nel travaglio, nel dolore dei suoi membri la Chiesa si afferma e prospera. Le lacrime, il sangue incolpevole, la esaltano. Il desiderare la pace è proprio delle potenze terrene”. La Chiesa non nasce nella pace, ma si fonda sul sangue degli innocenti: la Chiesa è martire per vocazione, Dio è “Il Signore degli Eserciti… l’Invitto che nel sangue dei suoi figli aderge le sue insegne gloriose…”. Una visione della fede violenta, in guerra, mai paga, cannibale, di certo non prona al buon senso e al quieto vivere. Morselli stigmatizza, ancora una volta, la nostra viltà: capisco perché rimanga inascoltato, inaccettabile. (d.b.)
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Per gentile concessione pubblichiamo uno stralcio da “Il grande incontro” (De Piante Editore, 2019). Il dialogo tra Pio XII e Stalin è all’acme.
Senza volger la testa il primo Personaggio proferì, adagio: «Che ci può esser di comune, fra la Cattedra di Pietro ed un governo fondato sulla sopraffazione e l’iniquità, disposto alla violenza sacrilega…»
«Parecchio di comune, – asserì l’altro, temerariamente: – L ’ecumenicità. L ’intransigenza. E poi la patologia: le eresie, gli scismi. Notate le affinità fra il deviazionismo trotzkista e il giansenismo, fra Tito ed Enrico VIII, i due scismatici per prurigine d’autonomia. Il papato è sempre uscito vittorioso dalle sue crisi; lo so. Ed è per ciò che io sono qui, a proporre un patto di reciproco riconoscimento delle nostre sfere d’interessi, e a domandare la Vostra collaborazione amichevole. Mi sono servito dei tecnici americani e degli scienziati tedeschi; attingerò adesso all’esperienza, all’abilità delle Vostre gerarchie. V.S. non mancherà di apprezzare la mia schiettezza. Vorrei che mi prestasse, con tutte le cautele del caso, una missione di esperti, scelti, per intanto, fra i dirigenti della Propaganda Fide e della Segreteria di Stato. Sulla nostra discrezione, ermetica, V.S. faccia pieno assegnamento; in questo campo, nessuno ci eguaglia. Non posso negare che il mio governo stia lottando contro difficoltà interne di una considerevole gravità. Se riusciremo a vincerle, tanto meglio. Altrimenti, occorrerà un diversivo; a qualunque costo. Mi spiego? Con la sua adesione V.S. può scongiurare una catastrofe.»
«Non tenterete il Padre Vostro. È scritto.» Nel tono in cui la citazione venne pronunciata erano amarezza e collera, ma anche decisione irremovibile.
«Si apre fra di noi la via a una coesistenza pacifica, – ribattè l’altro tormentandosi i grossi baffi cespugliosi. – Un rifiuto, significherebbe la guerra, a breve scadenza. La terza guerra. Se è vero che preferite la pace, dimostratelo!»
La sinistra inanellata si levò in gesto di corrucciata protesta; era il gesto definitivo che fulminava in antico l’anatema, dannandolo sulla terra per l’eternità. Ma la mano ricadde subito e si posò sulla scrivania, ove col moto lieve delle dita sembrò accompagnare le parole che seguirono, placide, soavi persino, di una soavità che il loro significato rendeva inammissibile e assurda. «Avevamo sperato e invocato il prodigio di una resipiscenza, di un ritorno. E invece… invece, figliuolo, siete venuto per offendere, per minacciare un criminoso attentato alla libertà, alla vita medesima del Pastore. E per vieppiù sfidarCi, Ci ponete un dilemma che credete perentorio. Ma l’alternativa cui alludete esiste per il mondo, che vi si dibatte miseramente, nella sua vanità e infermità. Non esiste per la Chiesa di Cristo: per essa, la pace s’identifica col suo contrario. Santità è milizia, intrepida, fanatica milizia, al cui paragone impallidisce il dissennato zelo dei vostri adepti…»
«In Polonia – disse l’altro – in Polonia e in Ungheria, la mia campagna antireligiosa vi sta sradicando.»
«Voi lo dite, imprudentemente. Nel travaglio, nel dolore dei suoi membri la Chiesa si afferma e prospera. Le lacrime, il sangue incolpevole, la esaltano. Il desiderare la pace è proprio delle potenze terrene: Voi stesso ne avete bisogno e Ce la chiedete. Predicate la lotta ma ne avete paura. Mentre la Chiesa, non la teme, la sollecita, la cerca, la vuole!»
«Ah, è così! – esclamò l’altro, genuinamente sorpreso. – La vostra è una dottrina bellicosa, voi cercate la lotta! Non lo immaginavo. Ed è in questo la spiegazione dei vostri successi?»
«I fasti della Chiesa sono opera di una sapienza onnipotente, – seguitò il Personaggio in bianco, con vivacità ora, e quasi con baldanza. – Ma la vostra supposizione, anche se maliziosamente ispirata, non erra del tutto, signor Maresciallo.»
Il visitatore si levò in piedi, mosse qualche passo, concitatamente. «Il mio paese è abbastanza forte da far arrivare le sue armate sin qui in pochi giorni. Questo vostro palazzo non sarebbe risparmiato. Non abbiamo scrupoli superstiziosi, noi. Non faremmo come i tedeschi. Sappiatelo.»
«Le porte dell’inferno non prevarranno. Se deprechiamo la nuova conflagrazione che preparate, è solo nei riguardi umani, e anche in questi…  La minaccia non ci turba, anzi c’incoraggia a sperare in non più udite grazie, e grandezze.»
Guido Morselli
*In copertina: 1927, quindicesimo congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, di cui Stalin è Segretario generale dal 1922
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pangeanews · 5 years ago
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Capri, mito infinito: dalle Sirene di Ulisse a Curzio Malaparte, da Pablo Neruda a Lenin, Churchill e Marinetti. Viaggio con scorta di libri (e molteplici occhi)
Quel genio futurista di Filippo Tommaso Marinetti voleva metterci un ascensore, sui faraglioni. E poi un bar lì, in cima. Il 14 luglio del 1914, su «Lacerba», aveva pubblicato il Manifesto dell’architettura futurista: “gli ascensori devono inerpicarsi, come serpenti di ferro e di vetro”. Forse non sarebbe stata una cattiva idea, mi suggerisce Luca, un mio amico architetto, in fuga anche lui, come me, sull’isola di Capri. Arrivare qui è già un miracolo, visto che persino il Frecciarossa fa ritardo, e l’ultimo aliscafo in partenza per l’isola è alle 20. Ma se c’è vento forte e il mare grosso, l’isola torna ad essere irraggiungibile. Un miraggio. Con i suoi faraglioni, privi di ascensore. Arrivarci resta un’avventura, come un tempo. E come racconta Jamie James nel libro, appena uscito in America, Pagan Light. Dreams of Freedom and Beauty in Capri (Farrar, Straus and Giroux, ancora inedito in Italia) che un amico mi suggerisce di leggere. Goethe tentò di visitarla nel 1787. “La promessa della libertà ha portato con sé la fantasia del piacere senza limiti” si legge. Ma certo, l’isola è ancora un simbolo di libertà, di amori sregolati (pure il marchese de Sade è passato di qui), ma anche di turismo di massa e lusso sfrenato. Basta allontanarsi dalla pazza folla e si aprono squarci di bellezza da togliere il fiato. Anzi, da uccidere.
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Nel libro di Jamie James, si parla di Norman Douglas e ancora prima, soprattutto, degli imperatori romani, da Giulio Cesare a Tiberio, passando per Ottaviano Augusto (l’ombra della sua morte che si allunga sui suoi ultimi giorni di villeggiatura sull’isola). Dalla residenza di Tiberio (che costruì diverse ville imperiali), Villa Jovis, costruita intorno al I secolo, si può gettare un ultimo sguardo al “salto di Tiberio”. Una bellezza che corteggia istinti da cupio dissolvi. Un salto di oltre duecentonovanta metri, a strapiombo sul mare: l’imperatore romano, secondo la leggenda, da qui gettava ospiti indesiderati e, forse, amanti non più graditi. Il vento sferza potente su questo punto roccioso che scorge il mare da tutte le parti, sembra difficile resistere al fascino dell’altezza. Guardare giù è già precipitare. Mentre osservi, da sopra, incerto, il volo dei gabbiani, il loro grido. Questa bellezza, così rischiosa da essere temeraria. Ma, primo in ordine cronologico, Omero parlò di Capri, quando scrisse delle sirene di Odisseo. Il canto di queste magnifiche assassine, donne-uccello dal verso che affascina, forse vivevano qui, sugli scogli di Marina Piccola, da dove puoi guardare quegli scogli da cartolina: Stella, Saetta e Scopolo. I nomi dei faraglioni. Quanti sguardi si saranno posati su di loro? “Vi sbarcai in inverno. La veste di zaffiro l’isola custodiva ai suoi piedi, e nuda sorgeva nel suo vapore di cattedrale marina”, scrive Pablo Neruda nella Chioma di Capri: era sbarcato anche lui qui, nell’inverno del 1952. Col basco in testa e in bocca la pipa, accanto a Matilde, la sua amante dai capelli rossi, sorridente e silenziosa (lui era sposato da sedici anni con Delia del Carril, la seconda moglie) e, insieme a loro, il cagnolino Nyon (Teresa Cirillo Sirri li descrive in Neruda a Capri. Sogno di un’isola, La Conchiglia). Mano nella mano, si vedevano i due amanti passeggiare per il mare o camminare verso il monte Solaro. Ospiti dell’ingegnere e naturalista Edwin Cerio, vivevano nella “Casa di Arturo”. Lei era cantante, Matilde Urrutia e lui, dal 1949, in esilio dal Cile, si vedevano bere il caffè in Piazzetta. Pare che un’anziana sarta dell’isola avesse cucito, con fili dorati, appositamente per Matilde, un abito a righe verdi e nere. Lei, la musa di Neruda, cucinava piatti cileni di pesce, con cipolle e olive e l’anatra all’arancia. Per lei, il poeta cileno scrisse Los versos del Capitán e Las uvas y el viento. Sembra che scrivesse con inchiostri diversi, a tutte le ore del giorno e della notte, su foglietti diversi che Matilde collezionava. La casa decorata con fiori di campo e rami di ginestre. Lui, nonostante fosse già impegnato, voleva sposarla. Aveva fatto incidere un anello con questa scritta: “Capri, 3 maggio 1952. El tuo Capitán”.
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In questo quadro idillico che ispirò Troisi per Il postino, c’era anche una domestica, da Neruda chiamata Olivito (perché assomigliava ad una piccola oliva) che si lamentava dei due ospiti disordinati e selvaggi. Imboccando la via Tragara, restano i suoi versi incisi sulla roccia: “Capri – reina de roca/en tu vestido/ de color amaranto y azucena/ vivi desarrollando/ la dicha y el dolor . la vin allena/ de radiantes racimos/ que conquisté en la tierra” (“Capri, regina di roccia/ nella tua veste/color giglio e amaranto/ vissi sviluppando/ la fortuna e il dolore, la vigna piena/ di grappoli radiosi/ che conquistai sulla terra”). Innamorato. Ma non solo Neruda. Gli scrittori sull’isola di Capri non si contano. E non solo scrittori. Alle spalle della Piazzetta, lungo il percorso che porta alla Villa Jovis, c’è una casa rossa, di un rosso pompeiano con un’epigrafe che ricorda: qui visse e lavorò dal marzo 1909 al febbraio 1911 lo scrittore russo Maksim Gor’kij e, nel 1910, “dimorò Vladimir Lenin fondatore dello Stato Sovietico”. Sull’isola del dolce far niente, “Apragopoli” come veniva chiamata, qualcuno riesce a lavorare. La figlia del duce, Edda Ciano, e suo marito erano venuti a Capri in luna di miele, nell’albergo più esclusivo dell’isola. Italo Balbo atterrava con l’idrovolante e passava di qui anche Bruno Bottai. Oltre a Moravia e alla moglie Elsa Morante (che a Procida, l’isola sorella di Capri, aveva ambientato appunto L’isola di Arturo), viveva appartato nella sua villa Alberto Albertini, il cofondatore del «Corriere della Sera». Giovanni Amendola e molti ebrei tedeschi e austriaci in fuga dalle leggi razziali trovarono riparo qui, gli scrittori Franz Werfel e Stefan Zweig. Ma l’isola piaceva anche ai gerarchi nazisti, come Goering e Rudolf Hess appassionato di un famoso cantante caprese, Scarola. Proseguendo per la via Tragara si arriva al Belvedere e all’hotel omonimo, secondo quanto riporta l’iscrizione incisa sulla facciata, progettato dall’architetto Le Corbusier, secondo le mie fonti capresi, progettato e costruito dall’imprenditore Vismara originario di Induno Olona, in provincia di Varese. In questo edificio color ruggine, sede del Comando Americano, durante la Seconda Guerra Mondiale soggiornò il generale Eisenhower, futuro presidente USA e Winston Churchill. Ma più poeticamente ne scrisse la grande poetessa Ada Negri, nel 1923: “Viandante, se vai fino a Punta Tragara,/ argentea d’ulivi,/ prendi a sinistra un viottolo a scaglioni nel sasso./ Aspro; ma verso il mare tutto oro di folli/ranuncoli./ Verso il monte tutto ombre di mirti, e pensoso amaranto di cardi./ Ti condurrà alla casa che risponde, marmoreo/ silenzio ai silenzi dell’aria”.
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Proseguendo lungo questo sentiero, la visione dei faraglioni è potente, immediata, sono così vicini da togliere il fiato. Il sentiero conduce quindi alla casa più affascinante dell’isola, Villa Malaparte, concepita e costruita da Curzio Malaparte, su Punta Massullo. Lo stesso Malaparte (pseudonimo di Kurt Erich Suckert) che aveva dato di Napoli, un potente affresco ai limiti della putrefazione, nel viaggio allucinato e infernale di La pelle, il romanzo scandalo, pubblicato nel 1949, aveva scelto l’isola più bella del golfo di Napoli. E la casa, progettata interamente da lui, non aperta ai visitatori, è un sogno di bellezza, costruita sul promontorio roccioso, come un enorme mattone, che ride delle tempeste e resiste negli occhi con quel suo sguardo che saluta i marinai. Il camino ha per fondo un vetro: quando era in casa, lo scrittore accendeva le fiamme, che si vedevano dal mare. Quando il mare è in tempesta, le onde lambiscono la casa, “La casa come me”. Quando parto dall’isola, l’isola torna ad essere un’isola: hanno cancellato gli aliscafi. Il mare è grosso. Non resta che prendere l’ultima corsa per Sorrento, costeggiando la terraferma. Villa Malaparte diventa un puntino rosso scuro in mezzo al mare, negli occhi lo sguardo dell’isola si allontana, come un miraggio, “una meringa”, qualcosa che non esiste più, se solo esce dagli occhi. Senti soltanto le onde. I faraglioni sono scomparsi. Ti chiedi se non sia solo un sogno. E ti torna alla mente l’ultima pagina dell’isola di Arturo, anche se l’isola che scompare è Capri: “Preferisco fingere che non sia esistita. Perciò, fino al momento che non se ne vede più niente, sarà meglio che non guardi là. Tu avvisami, a quel momento. (…) Intorno alla nostra nave, la marina era tutta uniforme, sconfinata come un oceano. L’isola non si vedeva più”.
Linda Terziroli
*In copertina: Pablo Neruda, tra gli illustri ospiti di Capri
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pangeanews · 6 years ago
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“La sirenetta” di Disney compie 30 anni. Ovvero: indagine dentro la natura della voce, “la carne dell’anima”
Trent’anni fa nasceva La sirenetta di Walt Disney: il 14 novembre 1989 la famosa pellicola d’animazione fece il suo ingresso trionfale nelle sale. Ma era già nata, concepita nel freddo regale di Copenaghen, Den lille Havfrue, l’amata fiaba dello scrittore danese Hans Christian Andersen, pubblicata per la prima volta nel 1837. Quando ho visto la sua celebre statua al porto della capitale baltica, sono rimasta un po’ delusa, l’assalto dei turisti la faceva sembrare così piccola, impacciata, timida, muta. Muta, proprio come un pesce. Nemmeno una parola, in tutto quel gran baccano di lingue straniere.
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Viviana Faschi, un’amica filosofica, mi introduce al volume Voce. Un incontro tra filosofia e psicoanalisi a cura di Matteo Bonazzi, Carlo Serra, Silvia Vizzardelli (da poco edito da Mimesis), ricordandomi la trama della Sirenetta, ma soprattutto catturando l’elemento fondamentale della voce, la voce della sirena Ariel. La sirenetta si era innamorata del principe Eric e lo salva, con il suo bel canto, che non è altro che una nenia. Poi Ariel stringe un patto con Ursula, la malefica strega del mare, che la trasforma in essere umano, in cambio della sua voce. Si può forse rubare la voce? La voce di Ariel viene così racchiusa dentro una conchiglia. Irretire il principe Eric per Ursula diventa quindi un gioco da ragazzi, visto che il principe non è innamorato della bellissima sirenetta, ma soltanto della sua voce. A questo punto del racconto, l’amica mi porge il volume blu fresco di stampa, e, quando le domando il significato di quello strano simbolo quasi evangelico OT, mi dice che si tratta di Borges e dell’acronimo di Orbis Tertius, il nome scelto dal gruppo Ricerche sull’immaginario contemporaneo nato da un’idea di Fulvio Carmagnola – che insegna Estetica in Bicocca –, che prende le mosse da un racconto di Finzioni. Un gruppo di studiosi d’Italia, insomma, provenienti da diversi studi e località, si interroga qui sulla voce, come fosse un oggetto, attraverso differenti prospettive teoriche. La voce nella psicoanalisi, nella filosofia, nell’estetica, nel teatro, nella musica.
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La voce si presenta con una sua “vividezza pulsionale senza pari”, ci spiegano subito i curatori: la voce “è lì, ci parla da molto vicino, dice del nostro modo di godere, mette in moto il nostro corpo portandoci al limite del pudore, di una vergogna ontologica, della vertigine dell’esposizione”. Vociare, vociferare, sentire le voci, riconoscere la voce, imitare le voci, e poi voci bianche, le voci di chi è castrato. Chi non si è mai vergognato della propria voce? La voce della madre e la voce del bambino sono già state studiate da Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’io, nel 1929: “la voce flebile dell’afonia isterica; o la voce della madre, che sta là dove doveva esserci il taglio del cordone ombelicale, e che funziona nello stesso tempo come nido e come gabbia per il bambino; o la voce nella forma di silenzio, la voce assente, la voce sorda. Da un lato c’è la voce affascinante e seduttiva, spesso eretta a feticcio vocale o a oggetto di culto, mentre dall’altro c’è quella intrattabile e imperscrutabile come un corpo estraneo”. La voce del bambino appena nato è solo un pianto, un singulto che nessuno riesce a interpretare, tranne la mamma. “Il suo grido è un appello. Si tratta di una voce? No, non ancora. È un suono, un singulto, un pianto, un appello, un grido: qualcosa ancora di inarticolato. Non è ancora entrato nel processo di umanizzazione. Cioè non sta ancora formulando una domanda, è un pianto enigmatico. Perché ci sia voce, sottolinea lo stesso Lacan nel rileggere Freud, ci deve essere interpretazione, ci deve essere traduzione. E come avviene questa traduzione? Attraverso il primo Altro, la “madre traduttrice”, la prima grande interprete del soggetto. Lei non risponde a quell’appello se non prima decodificandolo. Dice o pensa: “il bambino ha sete”, “il bambino ha fame”, “il bambino non vuole più dormire, vuole le coccole, oppure è agitato”, cioè dà significati a quel grido, lo traduce, lo interpreta, lo inscrive nel discorso della civiltà”. Il pianto è la sua unica arma per entrare e difendersi dal mondo, ci siamo passati (quasi) tutti. Dunque la madre traduce, ma chi traduce, tradisce. E il tradimento è l’unica strada che ci salva, mentre l’interpretazione sacrifica qualcosa che si perderà per sempre.
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Resto turbata dal capitolo delle Vociferazioni o del godimento della voce, di Matteo Bonazzi, e continuo ad interrogarmi sull’incipit: gli occhi mentono forse più della voce? “La voce è un oggetto esemplare, ancor più dello sguardo. Lo sguardo si confonde facilmente con l’occhio, dandoci l’impressione che ci sia qualcosa che gli offre un contenuto: la visione. La voce no. Per questo ben si presta a incarnare l’oggetto a di Lacan, che è sempre un “incavo”, un vuoto, un contorno e non un pieno. È con la voce, infatti, che possiamo arrivare a “modellare il nostro vuoto”, a farcene qualcosa, a definire uno stile, il nostro”. Chi non ha mai esclamato: “che voce impostata!”. Chi tenta di sedurre, penso, sceglie una voce carezzevole, la mamma che canta la ninnananna, non ha la stessa voce aspra del rimprovero, la voce degli amanti non è quella dei nemici. Ma la voce è un oggetto fuori da noi, chiarisce Bonazzi: “La mia voce è là fuori, per questo la sento. Certo, la sento e la riconosco come la mia voce, che dice di ciò che suppongo provenire al contrario da qui dentro. Però, se ci fermiamo a una prima constatazione semplicemente descrittiva, dobbiamo dire e convenire che la voce accade prima di tutto là fuori, quasi come un oggetto del mondo. Esattamente come la mia immagine allo specchio: io sono là fuori; la mia voce è là fuori. Siamo talmente ben educati a riconoscere la voce come la nostra voce che difficilmente abbiamo la sensibilità per notare che la voce è sempre incontrata là fuori, nel mondo. La voce risuona là fuori, anche la mia. Immediatamente siamo portati a pensare: sì, certo, risuona là fuori perché proviene da qui dentro. Ma, se riflettiamo un momento, noi l’abbiamo sentita risuonare prima di tutto là fuori, poi l’abbiamo riportata qui dentro”. Forse è vero che ci innamoriamo della voce, altroché sguardo d’amore. Mentre sospiro, mi scopro innamorata.
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La voce, sottolinea ancora Bonazzi, è tra il mitologico e il tecnologico – penso al microfono e al registratore, al nostro frequente ti mando un vocale con whatsapp, che poi si traduce in una voce dal passato, già sepolta – “non c’è voce all’origine, semmai è la voce, come taglio, che fa accadere nel proprio rimbalzo, retroattivamente, l’origine perduta”. Così la voce ci spoglia, ci fa nudi agli occhi degli altri, e di noi stessi. Poi la voce che non mente, inganna. “Il corpo dietro la voce non è mai quello giusto”: ci chiarisce Silvia Vizzardelli: “ascoltiamo una voce registrata su disco o su CD e poi andiamo a vedere i volti-corpi dei cantanti riprodotti in copertina: bene, quei corpi non sono mai quelli giusti, non sono mai i corpi che associamo volentieri alle voci ascoltate. Ciò accade perché la voce non è l’emanazione di un corpo, ma la produzione di un “oggetto” capace di mettersi al posto del corpo bucato. In questo senso la voce in quanto maschera non è mai qualcosa di dato, ma di prodotto. Uno strano prodotto però”. La voce “congiunge corpo e linguaggio, ma nello stesso tempo li separa: proviene dal corpo ma da esso si stacca e sostiene il linguaggio senza appartenergli”. La voce senza corpo, un corpo ce l’ha, è il corpo della nostra anima. Secondo il filosofo anticonformista Mladen Dolar, un filosofo della scuola di Lubiana (quella di Slavoj Žižek, per intenderci), infatti, la voce è “il surplus del corpo, l’eccesso corporale, e, al tempo stesso, il non più corpo, la fine del corporale, la spiritualità del corpo, così da incarnare la coincidenza stessa della corporeità essenziale e dell’anima. La voce è la carne dell’anima, la sua materialità irriducibile, grazie alla quale l’anima non può mai sbarazzarsi del corpo”.
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Per imparare a parlare, scrive poi bene Federico Leoni, bisogna perdere la voce. “Sembra difficile sostenerlo, dato che chi impara a parlare impara a servirsi della propria voce, si abitua a modularla in una serie di modalità specifiche, dunque a disporne con sempre maggiore precisione ed efficacia. Ma per l’appunto bisogna che la voce diventi “la propria voce”, per fare tutto questo. E solo una cosa perduta diventa un oggetto che abbiamo, un oggetto di cui abbiamo qualcosa come la proprietà”. Il canto non ha bisogno di altro che della voce, senza “le dita di una mano e la corda di un violino, le labbra, l’imboccatura del flauto, la fuga lucente delle chiavi”. Il volume blu dedicato alla voce si conclude con un assaggio (vi si annuncia, in una noticina che non mi è sfuggita, la prossima pubblicazione dell’intero epistolario di Sigmund Freud e Yvette Guilbert, a cura di Silvia Vizzardelli e Massimo Privitera), del ritratto e della calda voce di Yvette Guilbert (1865-1944), una delle più care amiche di Sigmund Freud. La grande diseuse fin de siècle, stella del Moulin Rouge e musa di Toulouse-Lautrec. Seppure riluttante, “Freud va a sentire Yvette, e ne rimane conquistato. In seguito assisterà a tutti i suoi concerti viennesi, e nel 1926 comincia fra i due un’amicizia basata su reciproca stima, per il tramite della psicoanalista Eva Rosenfeld; la quale era nipote del marito di Yvette, Max Schiller, un ebreo rumeno cresciuto a Berlino e trasferitosi in età adulta negli Stati Uniti”. Che fine hanno fatto le loro voci? Si può ora soltanto sognare l’amabile intreccio di voci e pensieri tra Yvette e Freud, quando lei lo invitava a prendere il tè, all’Hotel Bristol di Vienna.
Linda Terziroli
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pangeanews · 6 years ago
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Chi chiederebbe, oggi, a gran voce, di cambiare il finale di “Casa di bambola”? Nel giorno della sua morto, visita a Oslo nella casa dello scandaloso, “femminista” Henrik Ibsen
“Si prega di non discutere di Casa di bambola”. Questa curiosa postilla corredava i cartoncini d’invito ai ricevimenti delle buone famiglie scandinave, ci ricorda il filosofo napoletano Benedetto Croce. Ma cosa c’era di così tanto sconveniente nel parlare di Casa di bambola? Per rispondere a questa domanda, qualche tempo fa, mi sono fatta un giro nella casa di Henrik Ibsen, a Oslo (ai tempi del drammaturgo chiamata Christiania), precisamente all’Ibsen Museet (ovviamente in Henrik Ibsensgate, al numero 26), vicino al Palazzo Reale, qualche centinaio di metri dal Teatro Nazionale della capitale norvegese.
Passeggiando per la città mi domando: oggi chi si scandalizzerebbe per Casa di bambola? Chi chiederebbe, a gran voce, di cambiarne il finale? Casa di bambola, Et dukkehjem, fece il suo sconvolgente e clamoroso ingresso nei teatri europei nel dicembre del 1879, Henrik Ibsen diventa Henrik Ibsen proprio a partire da Nora, la contestata protagonista di quest’opera, la giovane moglie di Torvald Helmer. Per salvare la vita e la salute del marito, la giovane moglie aveva contratto un prestito da uno strozzino, Krogstad, all’insaputa di Torvald. Il gesto d’amore della donna viene disprezzato, sacrificato sull’altare del conformismo borghese di cui il marito rappresenta la quintessenza. Nora, agli occhi di Torvald, se prima era una “allodola”, una “testolina vuota”, un “passerotto sventato”, ora è una moglie indegna. Quando poi il marito si decide a perdonare Nora, salvate le apparenze, è ormai troppo tardi: la moglie scopre, improvvisamente e irreparabilmente, di vivere nella finzione di una bambola che sta nella sua casa, come una marionetta. La ricerca d’identità la spinge ad allontanarsi dalla famiglia e dai suoi stessi figli, diventando agli occhi di tutti, una madre snaturata.
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Diremmo, forse, in parole povere, tradendo lo stesso Ibsen, una femminista. La trappola del perbenismo borghese non può essere svelata e messa in scena, la donna deve rimanere relegata alla tradizionale condizione di moglie e madre, angelo del focolare, nonostante un marito, Torvald, meschino e schiavo delle apparenze? La rappresentazione teatrale esce ben presto dal teatro per rivelarci una nordica società retrograda: Ibsen è costretto a cambiare il finale nella sua messa in scena tedesca, perché l’attrice che interpreta Nora si rifiuta di recitare la parte di una madre ritenuta snaturata. Ibsen dichiara, il 3 gennaio 1880: “Casa di bambola ha sollevato una fortissima reazione; le fazioni si fronteggiano bellicose; l’intera grossa tiratura del libro, 8.000 esemplari, è andata esaurita nel giro di due settimane e si sta già preparando una ristampa. Oggetto della contesa non è il valore estetico del dramma, ma il problema morale che pone. Che da molte parti sarebbe stato contestato lo sapevo in anticipo; se il pubblico nordico fosse stato tanto evoluto da non sollevare dissensi sul problema, sarebbe stato superfluo scrivere l’opera”.
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Ibsen, il fondatore del teatro moderno, nella sua casa di Oslo, scrive
Oslo è oggi una città estremamente accogliente, si vedono moltissimi giovani, tanti bambini e, girando a zonzo per lo spettacolare Parco Vigeland, non si può che riflettere sull’umanità, ammirando l’altissimo obelisco realizzato con un intreccio di corpi umani. Inoltre, non si può fare a meno di pensare che il dramma di Nora sia stato scritto ad Amalfi. In sella a una bicicletta, torno in centro e, non senza qualche esitazione, trovo l’Ibsen Museet, in un elegante palazzo bianco e rosso, l’appartamento di Ibsen al primo piano.
È novembre e l’appartamento è molto riscaldato. Henrik Ibsen era nato il 20 marzo 1828 a Skien ed è morto a Oslo (Christiania), il 23 maggio 1906. Pare che abbia vissuto qui gli ultimi undici anni della sua vita. Che cosa dicono di noi i nostri ultimi undici anni? Secondo me, sono un agile compendio della nostra vita e della nostra opera. Il modo di vivere si cristallizza in rituali, piccole manie, abitudini confortanti. Leggere e scrivere. Nonostante la paralisi degli ultimi anni. La storia del museo non è molto antica perché di fatto è nato nel 1990. Uno scrittore affermato deve curare sapientemente il proprio arredamento perché potrebbe diventare oggetto di culto postumo. Bisognerebbe astenersi dall’acquisto delle librerie Billy dell’Ikea? Oppure contattare un architetto per realizzare una casa che ci assomigli, alla Malaparte? Certamente se uno si chiama Heinrik Ibsen deve sapere che prima o poi la sua casa verrà fatta a pezzi e diventerà un museo ricomposto, un po’ ad Oslo, un po’ a Grimstad. “Dopo la morte di Suzannah Ibsen nel 1914, il figlio Sigurd Ibsen donò lo studio e la camera da letto del padre alla città di Kristiania, alla sala lettura del museo della contea di Skien e alla sala da pranzo di Grimstad, dove si trova la farmacia che Ibsen aveva lavorato era stato trasformato in un museo già nel 1909”. Tuttavia, visitare la casa museo è pur sempre visitare un sepolcro. Cercare il calco di un’esistenza. Dove vive solo la polvere e la notte c’è un silenzio sinistro.
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La giovane e graziosa guida, che parla in uno strano inglese, ci racconta che l’impianto di riscaldamento è l’unico intervento che è stato fatto alla casa del drammaturgo. Per forza: in ogni stanza, vedo una stupenda stufa di maiolica. Chissà che impegno costante alimentare tutte quelle stufe, giornalmente. E quanta legna! Per il freddo della Norvegia meridionale, occorreva di sicuro un’accensione continua. Ibsen non si dimentica di mettere un po’ di tepore persino nel celebre dramma. Atto primo: “stanza accogliente e di buon gusto, ma senza lusso. Nel fondo, la porta di destra dà sull’ingresso, quella di sinistra sullo studio di Helmer. Tra le due porte un piano. Altra porta al centro della parete di sinistra, e, più in avanti, una finestra. Accanto alla finestra un tavolo rotondo, poltrone e un piccolo sofà. Sulla parete di destra, un po’ indietro, una porta, e sulla stessa parete, più verso il proscenio, una stufa di maiolica con davanti poltrone e una sedia a dondolo. Tra la stufa e la porta un tavolinetto. Alle pareti acqueforti. Scaffale con porcellane e altri soprammobili artistici, piccola libreria con volumi finemente rilegati. Tappeto. La stufa è accesa: è una giornata d’inverno. Si sente suonare e, poco dopo, aprire la porta di ingresso”. Le stufe ora sono spente. Il gruppo di visitatori non è molto nutrito, eppure è domenica, i passi che possiamo compiere sono molto piccoli, non possiamo calpestare il pavimento con piastrelle molto pregiate, oppure i tappeti che sembrano bisognosi della robusta passata di aspirapolvere, il living è recintato da regali cordami. L’arredo è ricco, sontuoso direi, il mobilio di legno, morbide tende a sipario alle finestre, il salottino di velluto verde, alle pareti oli su tela e acqueforti. Ibsen amava scrivere al tavolino sotto la finestra. Dalla finestra si guarda la strada, naturalmente.
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Pare che Ibsen avesse un caratteraccio, pungente e aspro, e persino in punto di morte alla cameriera avesse detto: “al contrario”, per contestare il fatto di sentirsi poco bene. La graziosa giovane guida non fa che parlare di Peer Gynt, un’opera del 1867, scritta dopo un viaggio tra Ischia e Sorrento. A Casa di bambola solo pochi, brevi, cenni. La visita è finita, della vita di Ibsen mi ricordo soprattutto le alterne vicende, il lavoro in una farmacia, il fatto che avesse una virilità accentuata sin da giovane e che indossava sempre un bel cappotto, un cappello a cilindro e i guanti. Dentro il cappello teneva sempre uno specchietto. Persino seduto allo scrittoio del suo studio è ritratto con il cappotto. Forse non è che facesse così caldo nella sua casa di Oslo. Al pianterreno della casa c’è il classico negozio di souvenir, vendono riproduzioni della sua penna d’oca. Le cartoline in esposizione lo ritraggono, in bianco e nero, con uno sguardo fiero e uno di biasimo, un’occhiata in tralice, la barba socratica in due bande, gli occhialini con le lenti ovali, con una sottile montatura. Mi sono comprata una piccola calamita tutta nera che ritrae Ibsen di profilo, la sua ombra inequivocabile, formata da cappello, cilindro e bastone, la morbida curva del suo ventre. Del fondatore del teatro moderno, resta l’ombra goffa, l’uomo ridotto a personaggio senza volto, da calamita, che oggi forse non scandalizza più. Si è finito, forse, per non discutere più di Casa di bambola.
Linda Terziroli
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pangeanews · 6 years ago
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“Meglio un ottimo idraulico che un pessimo artista. E non abbiate paura di fare soldi…”: dialogo con Andrea Piacquadio, fotografo nomade, tra i più venduti al mondo
Quella fotografia scattata con una vecchia kodak trovata in casa. Che fine avrà fatto? Aveva ritratto il volto di una bambina. Ma chi era questa bambina? Non si sa. Chissà se oggi è una donna felice che pensa alla bambina che è stata. Magari è diventata madre, o è ancora single e sogna il grande amore, sfogliando riviste femminili. Il viso, con il tempo, ha perso i lineamenti e la fotografia affonda tra le nebbie dei ricordi di una vita fa. Quando chiedo al fotografo Andrea Piacquadio (le sue foto sono tra le più vendute al mondo) di dirmi quando è stata la prima volta che ha preso in mano una macchina fotografica, mi racconta che, con quella fotografia, aveva vinto il primo premio di un concorso scolastico. A dodici anni. Ma lui non dà molta importanza a questo episodio marginale nella sua vita – per me un avvenimento, una rivelazione – da qualche parte, promette, cercherà questo diploma. Sarà sepolto in qualche cassetto. Meglio non parlarne, nell’articolo. La verità, forse, è un’altra. Oggi che Andrea Piacquadio di anni ne ha quasi 40, un intero edificio scolastico – di quelli enormi, con tanti indirizzi – non potrebbe contenere le sue foto appese alle pareti. Quelle foto che, invece, si vedono ingrandite sui manifesti pubblicitari per le strade del mondo. E poi lui odia la scuola. Proprio non la può soffrire. Specialmente quella italiana. “Sono sempre stato pessimo a scuola, certo è stata un’esperienza importante dal punto di vista culturale, ma mi sento un autodidatta, tecnicamente ho imparato da solo. Ho iniziato nell’ambito della moda, per poi passare ai ritratti, intraprendendo così il mio percorso artistico. Credo sia un problema in generale della scuola di tutto il mondo, anche se in particolare di quella italiana. Tutto cambia ormai molto velocemente, mentre a scuola i professori hanno un approccio superato. Molti di loro non hanno nessun rapporto con il mondo del lavoro o sono semplicemente scadenti. La scuola per me è stata una esperienza negativa. La trovo antiquata, ideologica… Al liceo subivo il bullismo di compagni di classe vestiti da punk. Anni dopo li ho ritrovati adulti infelici. Eppure studiare è veramente fondamentale. Può fare la differenza in un mondo di povertà culturale. Ma non parlo affatto dello studio scolastico. È molto importante leggere, guardare film, ascoltare musica e studiare in continuazione. Prepararsi veramente in modo serio nell’ambito in cui si vuole operare. I giovani sono sempre più ignoranti!”.
Pubblichiamo per gentile concessione alcune immagini del fotografo Andrea Piacquadio
Dopo il diploma, l’Accademia di Brera che il fotografo presto ha abbandonato per la Francia e gli studi all’Universitè de Paris 8, allora l’unica università di fotografia in Europa. La passione precoce per il disegno e le arti visive si sono trasformate nel sogno della fotografia, i soggetti preferiti gli stessi: donne e ritratti. “Fotografare modelle è sempre stato il mio sogno e continuo a farlo. La bellezza è uno dei settori più trainanti nella pubblicità. A parte questo, le donne sono sempre state il mio soggetto preferito, insieme agli anziani, che hanno il viso solcato dal tempo. Il modo in cui dovevo lavorare era però monotono. Bisognava sottostare agli standard imposti dalle agenzie fotografiche. Così ho iniziato a caricare foto sui siti di microstock. Fotolia, iStock”. Piacquadio è uno dei principali e dei primi, in ordine di tempo, contributors per le società americane di Microstock. Si tratta di un fenomeno web  dell’ultimo decennio che ha permesso alla fotografia digitale di diffondersi in maniera esponenziale, cambiando, alla radice e per sempre, le regole del mercato. Una rivoluzione assoluta, che ha permesso ai clienti, dai più grandi ai più piccoli, di comprare gli scatti a prezzi accessibili. Al sistema, meritocratico – mi spiega Andrea Piacquadio – si accede liberamente sia come contributors, sia come clienti. Naturalmente per diventare autori “scaricati”, occorre una buona dose di talento. “Sono stato uno dei primi ad investire, sette-otto anni fa, il mio tempo, prima degli altri, e contro il parere di tutti i miei amici” racconta Piacquadio che spiega come si è costruito il suo successo: “forse ho uno stile più creativo dei miei concorrenti, creo immagini più complesse, come costruzioni, lavoro tanto sulla postproduzione, fondendo più tecniche come il disegno o il 3D. I montaggi poi li creo in tutto il mondo, Europa, Cina, America, Sudafrica. Lunedì vedrò un team di programmatori australiani che vivono a Budapest. Anni fa non sarebbe stato possibile. Erano gli ungheresi ad andare in America o in Australia”. Poi, passeggiando, qualche anno fa, per le strade di Budapest dove, ormai da qualche tempo, vive parte della sua vita (“vivo in luoghi diversi, sfruttando al meglio le zone climatiche”), mi indica la foto di un manifesto pubblicitario: “guarda, c’è la mia mano!”. Stupefatta, osservo attentamente: era la stessa. Si riconoscono le sue fotografie e, ogni tanto, i suoi soggetti.
Qualche giorno fa, invece, mi ha mostrato sulla vetrina di una farmacia il petto, anzi la “tartaruga” scolpita, di un suo amico macho, fasciato dalla bandiera. “Ma pensa – mi dice – lo hanno avvolto nel tricolore”. Ma non ci sono solo forme perfette nelle sue foto. Tutt’altro. Ci sono uomini d’affari con telefonino e pc, obesi che affondano felici i loro denti nei panini imbottiti. “Mi interessano tante tematiche, dall’infanzia all’obesità, i soggetti variano molto, dal business alla moda, ai problemi sociali. Il fatto di viaggiare mi dà la possibilità di incontrare molte persone. Mi piacciono molto di più gli attori che i modelli e, in fondo, il mio lavoro è pittorico, lavoro molto al computer, sfrutto gli strumenti che ci sono oggi. Mi sento un nomade digitale. Il lavoro on line ti permette di vivere ovunque, lavorare in maniera estremamente flessibile. Ricevo il denaro e non ho mai visto in faccia chi mi paga. In questo senso c’è più meritocrazia: vieni pagato per il tuo effettivo contributo. Per questo nomadismo digitale, anche la densità delle città del mondo cambierà… si opererà da nuovi luoghi. Sarà un profondo cambiamento, che è solo all’inizio. Sorgeranno nuove capitali. Budapest è un esempio. Mentre il lavoro fisso tenderà a sparire, insieme alla pensione”.
Cosa suggerisci a un giovane fotografo che vuole emergere? “È scontato, e si sente dire anche troppo spesso, che l’Italia non è il paese giusto per emergere, purtroppo è vero. In altri paesi, anche in Europa, la situazione per un emergente può essere, talvolta, più favorevole, ma trovare l’America in questo periodo storico non è così semplice. Internet per me è senz’altro una finestra sul mondo che mi ha fatto crescere come non avrei fatto, restando nel mio paese. Ma soprattutto occorre non avere paura di fare soldi: i soldi spaventano. Sembra quasi un delitto parlarne, invece sono importanti, come veicolo per costruire qualcosa di importante. E possono essere la benzina per far muovere grandi o piccoli progetti. Non deve essere un argomento tabù. I soldi come fine a se stessi sono inutili, anzi deleteri. Lavorare tanto e con il cuore è fondamentale: cercare di trovare la propria strada seguendo le proprie inclinazioni. Quello che conta è il contributo che si riesce, che si può, dare. Meglio un ottimo idraulico che un pessimo artista. Perché il pessimo artista è inutile, insegue passioni fasulle”. Ritrovo, in una sua foto, il vecchio divano verde acido che gli avevo regalato tanti anni fa, con sopra una bellissima fanciulla che guarda l’orizzonte, pensierosa. Non l’avevo mai trovato così bello quel vecchio divano verde.
Linda Terziroli
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pangeanews · 5 years ago
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“Tutte le mamme di Milano ieri hanno pianto”. Luglio 1947: 44 bambini muoiono in mare, ad Albenga. Gianni Rodari scrive il suo primo, straziante articolo per “l’Unità”. Eccolo
Tutte le mamme di Milano hanno pianto. È una tragedia feroce quella che abbraccia in una morsa il giovane Gianni Rodari, all’epoca ventisettenne, agli esordi della sua carriera giornalistica. La tragica morte di oltre quaranta bambini fu infatti la prima collaborazione di Gianni Rodari con l’edizione milanese dell’Unità; in quelle stesse concitate ore anche Dino Buzzati inaugurava la sua collaborazione con il Corriere della Sera (il 17 luglio 1947 usciva il suo pezzo: Tutto il dolore del mondo in quarantaquattro cuori di mamme).  Doveva seguire il fatto terribile di cronaca nera: erano annegati quarantaquattro bambini milanesi della colonia marina di Loano. La motonave su cui viaggiavano colata a picco, dopo l’urto contro un palo, ad appena cento metri dalla spiaggia di Albenga, il maledetto 16 luglio. È quasi impressionante che lo scrittore più amato dai bambini, premio Andersen nel 1970, abbia scritto, per «L’Unità» quel 18 luglio 1947, a due giorni dalla disgrazia, un articolo così profondamente tragico e di una tale bellezza angosciosa. La delicatezza e la profondità della descrizione dell’animo umano con cui Rodari riporta alla luce il dolore disumano della madre orfana del piccolo Enzo e del papà che ricordava di aver riempito d’acqua una bottiglietta sono straordinarie. La vitalità dei bambini riflessa nel ricordo delle bucce d’arance disseminate sul marciapiede, le cartacce delle caramelle, la carta stagnola di qualche cioccolatino. Il chiacchiericcio dei bambini paragonato a uccellini svegliati dal sole fra i rami, le madri che vestono i bimbi, che sistemano i capelli con il pettine bagnato, allacciano i sandali. Solo uno scrittore di razza come Rodari può far piangere disperatamente con queste poche, familiari, nitide descrizioni. Leggendo questo pezzo sembra di comprendere, in un lampo, la sua vocazione di narratore di storie per bambini. Quei morticini bianchi, il dolore senza pace di genitori impotenti di fronte al destino crudele, quelle piccole mani che non saranno più sporche di vita e di fango pesano come una pietra sul cuore del sensibile Rodari, che ne rimane impressionato. Sgomento. Ferito di fronte alla vergogna di sapersi vivo. Infatti si piange per la “vergogna di sé, per l’oscuro agitarsi di antiche memorie, per aver amato troppo poco la propria madre”, ma soprattutto “per essere lì vivo e goffo mentre la morte si era posata sui visi dolci, sui visi troppo belli che ormai non avevano più nome”. E i nomi che Rodari inventerà nelle sue storie saranno moltissimi, lieti e leggeri: Alice Cascherina, Giovannino Perdigiorno, il signor Fallaninna… Penso, con mestizia, al bambino bianco di questo articolo contrapposto al suo famoso “bambino di gesso”. Ma soltanto nella sciagura più profonda nasce la letteratura più grande. La vocazione autentica è una cura contro il dolore, è il bel vestito che copre la ferita, la sua cicatrice. Era l’estate 1947, la guerra iniziava ad essere un ricordo, pochi mesi prima, Rodari aveva lasciato (l’8 marzo 1947) “L’Ordine Nuovo” ed era approdato all’edizione milanese dell’“Unità”. Il caporedattore di cronaca era allora Fidia Gambetti che ne tracciava il ritratto. «“Ultimamente sono arrivati in redazione colleghi giovani e meno giovani. Dalle province della Lombardia, dell’Emilia, del Veneto; da altri giornali; dall’attività politica”. Con Crosti, Panozzo, Montesi, Pancaldi, Signori, “un altro ‘personaggio’, fra i nuovi è Gianni Rodari. Lavora in cronaca, allegro, pronto alla battuta, con quel suo viso da ragazzo, un ciuffo di capelli renitenti al pettine, sempre sugli occhi pungenti e arguti. Quando lui è presente, in cronaca è spettacolo: fa discorsi o recita in vari dialetti, imita o fa il verso a questo o a quello; improvvisa originali e divertenti filastrocche che talvolta si ritrovano scritte qua e là sui tavoli e sui muri”». Quel pettine bagnato dalla mamma, forse lui cercava di sfuggire.  Ma il giovane Gianni Rodari per dipingere così umanamente il dolore altrui, conosceva bene il proprio, vissuto precocemente, anzitempo.
Linda Terziroli
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Tutte le mamme di Milano hanno pianto
Fin dal mattino grigio la notizia ha pesato sul cuore di Milano, quasi incredibile, quasi assurda. Le voci degli strilloni erano quelle di tutti i giorni: gridavano alle fermate dei tram le cifre spaventose della tragedia con accento stanco, professionale. Dal balcone del Municipio penzolava inerte la bandiera listata a lutto. A quell’ora i milanesi si recavano al loro lavoro. La prima inesprimibile sensazione di sgomento, ognuno se la teneva in petto, la sentiva ingigantire d’ora in ora, mentre la cifra non si fermava e ognuno ripeteva meccanicamente i gesti di ogni giorno.
Ma in tutte le case di Milano, ieri, si è pianto. Le madri hanno vestito i loro bimbi, come ogni mattina hanno ravviato i cari capelli col pettine bagnato, hanno ascoltato il loro chiacchiericcio di uccellini che il sole sveglia tra i rami, hanno piegato il ginocchio ad allacciare le fibbiette ai sandali: i bimbi sono scesi nei cortili, le madri li hanno uditi giocare, si sono affacciate alle improvvise risse subito dimenticate, si sono sentite stringere indicibilmente il cuore.
Tutte le mamme di Milano ieri hanno pianto. Come non è vero che si può piangere solo per egoismo, per la gioia distorta di saper salvi i propri cari da una sciagura che è piombata invece terribile su altri! Le mamme di Milano hanno pianto per i quarantaquattro morticini di Albenga: ogni mamma si è sentita ieri madre di quarantaquattro piccoli annegati, ha sentito le invocazioni strozzate dalle onde, ha pianto le sue lacrime sui teneri petti dove il cuore ha taciuto per sempre.
E le altre mamme, quelle che nel cuore della notte furono destate dal colpo battuto alla porta da un vigile, o piuttosto da un crudo destino, le mamme che sono accorse al Castello coi visi stravolti, anche queste mamme non hanno pianto solo per il proprio piccolo, per quello che le ha chiamate morendo, senza che lo potessero udire. Nell’atrio della Torre del Filarete, senza conoscersi, si gettavano una nelle braccia dell’altra, mescolando le grida disperate e le lacrime, fatte sorelle dalla sventura, trasformate l’una nell’altra nello stordimento della sofferenza.
«Il mio Enzo» chiamava una donna con voce disumana. Nessuno conosceva il suo Enzo. Ognuna di quelle madri aveva un «suo» Enzo, o Pierluigi, o Carlo, che aveva portato nel grembo, sorridendogli ancora prima che egli ne uscisse per vivere. Un suo bimbo, di cui aveva sognato il nome molti mesi prima di poterglielo sussurrare.
Un brivido correva freddo nel sangue dei presenti. E forse invece ognuno ha pianto per vergogna: per vergogna di sé, per l’oscuro agitarsi di antiche memorie, per aver amato troppo poco la propria madre, per essere lì vivo e goffo mentre la morte si era posata sui visi dolci, sui visi troppo belli che ormai non avevano più nome. Dal finestrino d’uno degli autobus pronti a partire per Loano un uomo tese le braccia piangendo a qualcuno che giungeva sorretto dai parenti. «Signora», gridò: «eravamo alla stazione, assieme, si ricorda? Sono andato a prendere l’acqua per tutt’e due, si ricorda? Erano insieme, il suo bambino e il mio!».
Era andato a riempire d’acqua una bottiglietta, l’aveva porta ai ragazzi dal finestrino. Ed essi l’avevano posata sul sedile, erano tornati subito ad affacciarsi. I ragazzi sono imprevidenti. Dopo dieci minuti d’attesa in treno, ecco che essi avevano esaurito la piccola scorta di arance: vedevi le bucce disseminate lungo il marciapiede, e le carte delle caramelle, e la stagnola d’un cioccolatino. Poterle ridire adesso quelle affettuose parole di rimprovero e di raccomandazione: «Tieni da conto per il viaggio, e non stare in piedi sul sedile, non sporgere le mani!».
E quelle manine, adesso, doverle pensare bianche, rigide, dure. Che cosa non hanno toccato quelle mani, ottantasei mani di bimbi: la palla di gomma, le palline, i quaderni, e pezzetti di vetro, e chiodi, e giocattoli. Poterle baciare, adesso, sporche d’inchiostro, di fango, sporche di vita, d’allegria, di salute. Uno dopo l’altro gli autobus si sono allontanati col loro tragico carico umano. Mamme e papà non hanno visto sfilare al loro fianco le strade di Milano, le case, le piazze della loro città: essi non vedevano più ormai che un piccolo morto bianco, immobile e chiuso nel suo breve spazio, due labbra pallide su cui pesa il bacio silenzioso della morte.
Gianni Rodari
***
Era nato a Omegna, sul lago d’Orta, il 23 ottobre 1920 (nel 2020 ricorrerà il centenario) e vissuto a Gavirate, nella provincia di Varese, all’età di 9 anni, era, infatti, rimasto orfano di padre. Parla di sé, in una preziosa “Autobiografia”, all’interno del volume biografico Storia del giovane Rodari a cura di Pietro Macchione, scritto in collaborazione con Chiara Zangarini e Ambrogio Vaghi (edito da Macchione). “A 11 anni entrai in Seminario e ne uscii a 13: non saprei ricostruire per quale processo vi sia entrato, ne sono uscito perché trovavo umiliante la disciplina”. Leggere era già la sua passione, una passione ben alimentata: “Dall’età di quattordici anni leggevo di tutto, soprattutto filosofia, letteratura, storia dell’arte e delle religioni”. La poesia fu il primo – e forse il suo più congeniale – strumento, della precoce vocazione letteraria: “Facevo la terza elementare a Omegna, quando scrissi su una carta assorbente i miei primi versi. Quell’anno scrissi moltissime poesie su un quadernetto da disegno, e un mio compagno di scuola le illustrava. La maestra le mostrò al direttore. Ne venne pubblicata una sul giornale dei commercianti”. Ad una fervida fantasia si aggiungeva la passione per la musica, ascoltata e riascoltata, come l’inno di Garibaldi e la Marsigliese, che il giovane poeta ascoltava dalla sveglia di zia Marietta, che contribuì alla sua “educazione musicale e civile”. Un estro che si declinava in giocose invenzioni, non solo in versi: “il primo strumento musicale, me lo feci di mia mano, a nove o dieci anni, servendomi di vecchie scatolette odorose del lucido da scarpe”. Oltre alla musica, la curiosa esperienza di burattinaio che si intravede nei simpatici personaggi delle sue filastrocche: “tre volte in vita mia sono stato burattinaio: da bambino, agendo in un sottoscala che aveva una finestrella fatta apposta per assumere il ruolo di boccascena; da maestro di scuola, per i miei scolari di un paesetto in riva al lago Maggiore, da uomo fatto per qualche settimana, con un pubblico di contadini che mi regalavano uova e salsicce. Burattinaio, il più bel mestiere del mondo”. La scrittura per ragazzi, favole, fiabe e filastrocche è senz’altro parte più rilevante e più famosa della sua produzione, di cui le Favole al telefono, un best seller ancora oggi e Filastrocche in cielo e in terra (Einaudi) sono due titoli estremamente conosciuti tra il pubblico più tenero. “Debbo aver già raccontato o confessato da qualche parte, non ricordo dove, che spesso, per esercizio, vado in cerca di personaggi, situazioni, storie da raccontare, negli orari ferroviari, nell’elenco telefonico, introducendo nelle aride colonne di nomi di persona, di città la semplice provocazione di una rima. Ottengo in pochi istanti la notizia, assolutamente inedita, che “una mucca di Vipiteno/aveva mangiato l’arcobaleno”. Lo scrittore di Omegna (e di Gavirate) ha affrancato il genere della letteratura per l’infanzia, grazie alla profonda ironia, a volte stravolgente e un po’ dissacrante, ma non troppo, con un gioco mai banale e sempre volto all’uscita dagli schemi e dal conformismo della realtà, da quei luoghi comuni che ci imprigionano, ieri come oggi. Per volgere lo sguardo alla libertà, con un sorriso giocoso e una lieta malinconia, per giocare con il nostro quotidiano, ripensando alle tradizioni che un po’ ci assomigliano. Quanto quei morticini della tragedia di Albenga sono all’origine dei suoi scritti più riusciti? I bambini che hanno letto le sue filastrocche sono ormai diventati grandi adulti, in corpi e anime ormai segnati dal tempo. I piccoli bambini di Loano saranno bambini per sempre. “Si può parlare degli uomini anche parlando di gatti e si può parlare di cose serie e importanti anche raccontando fiabe allegre” dichiarò quando ricevette il premio “Hans Christian Andersen per la fiaba inedita”, nell’ormai lontano 1970, quasi cinquant’anni fa. (L.T.)
L'articolo “Tutte le mamme di Milano ieri hanno pianto”. Luglio 1947: 44 bambini muoiono in mare, ad Albenga. Gianni Rodari scrive il suo primo, straziante articolo per “l’Unità”. Eccolo proviene da Pangea.
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pangeanews · 4 years ago
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“Reclinò il capo e guardò il mare davanti a lui, nella penombra delle stelle”. La tragedia del dirigibile Italia in un grande romanzo dimenticato
Che cosa si prova a guardare in faccia il proprio destino? Che cosa si sente di fronte alla certezza di un disastro imminente? Nel film La Tenda rossa, del 1969, straordinaria pellicola del regista Mickail K. Kalatozov, dedicata al celebre disastro polare, si vedono gli sguardi sconvolti degli uomini a bordo del dirigibile che, dopo essersi spezzato, vola senza comando e si perde per sempre nei cieli dell’Artico.
Era la terribile mattina del 25 maggio, quando l’aeronave Italia si schiantò sulla banchisa dell’Oceano Artico a nord-est di Spitzbergen, nelle Svalbard, a circa 81°14’ di latitudine nord. Del dirigibile squarciato restava l’involucro argenteo che, come un palloncino ad elio sgusciato via dalle mani di un bambino, prendeva quota. A bordo sei uomini (che non sono mai stati ritrovati), tra cui Attilio Caratti, Calisto Ciocca, il giornalista Ugo Lago, Renato Alessandrini e Aldo Pontremoli gettavano il loro sguardo atterrito verso terra. Anche se la terra era il pack del Polo Nord. Il capo-motorista Ettore Arduino, eroicamente, da ciò che restava del dirigibile Italia, creatura mutilata in volo, lanciò a terra la salvezza per i superstiti: combustibile, provviste ed equipaggiamento. Tra questi, la tenda che fu poi dipinta di rosso e divenne il simbolo di questa funesta impresa. La spedizione con il dirigibile capeggiata dal generale Umberto Nobile aveva poco prima raggiunto il Polo Nord. Era stato lanciato il grande crocifisso fasciato dal tricolore, dono di Pio XI. Tra gli uomini che avevano celebrato lo storico momento, c’era il fisico Aldo Pontremoli, il suo incarico quello di eseguire ricerche fisiche con strumentazione all’avanguardia per l’epoca. Il fisico intendeva mettere a frutto la sua esperienza e la sua passione nel volo, coltivata durante la grande guerra, a bordo di palloni frenati per impiego militare. Pontremoli aveva progettato, insieme a Luigi Palazzo, le attività di ricerca, costruito e testato opportune camere frigorifere, che riproducevano le condizioni termiche dell’Artide. Ma il suo destino era segnato ed era lo stesso che conobbe, poche settimane più tardi, il grande esploratore norvegese Roald Amundsen. Scomparire per sempre nei ghiacci dell’Artico.
*
Dalla misteriosa fine di Aldo Pontremoli prende le mosse il romanzo “scomparso” La terra di Avram (Arnoldo Mondadori editore, 1987, purtroppo oggi fuori catalogo) di Liaty Pisani, una scrittrice di lungo corso, considerata “maestra del thriller di spionaggio” in virtù delle sue spy story dal respiro internazionale. Questo suo primo libro (che potrebbe essere facilmente trasposto in film), partendo dalla pagina bianca dell’enigmatico destino del giovane fisico di talento, ricostruisce la vita privata del fondatore dell’Istituto di Fisica Complementare dell’Università di Milano. Immagina un amore altrettanto impossibile e intenso, ostacolato per la differenza religiosa, quello tra Ludovica e Aldo Avram, pseudonimo di Aldo Pontremoli. Pisani attraversa, con garbo e una prosa cristallina, le lunghe notti polari di Aldo, disegnate su un’isola sperduta dell’Artico, attraverso il fluire dei ricordi, dolorosi e amorosi, le frustrazioni dei mancati riconoscimenti al suo lavoro scientifico. “I primi giorni sull’isola furono senza notti. Era ancora estate, il sole non tramontava mai, la notte si intuiva dalla maggiore quiete che invadeva il campo, dal silenzio dei gabbiani, dal gelo che si faceva più intenso e dalle visite degli orsi che uscivano a caccia. Anche senza il sole, durante quelle notti la luce non diminuiva. Il sole girava nel cielo seguendo una traiettoria inclinata sull’orizzonte: a mezzanotte era alto come in Italia, d’estate, verso le dieci”.
*
Il romanzo è uno struggente ricamo di più voci che si dirigono verso un unico punto di convergenza, quella spedizione tragica e senza scampo. Una bambina sensibile, all’inizio degli anni Sessanta, scopre per caso la storia dell’eroica impresa e ne rimane turbata e avvinta. Sfugge così ai miseri vincoli del tempo e dello spazio la vicenda trasfigurata di Aldo Pontremoli per diventare la storia di un amore impossibile, segreto e ideale che attraversa e collega le anime. Il pregio del romanzo, oltre a mettere in scena il fisico italiano Aldo Pontremoli protagonista dell’opera, sta in questa delicata levitazione dal dato storico verso una vicenda possibile e una storia ideale, dalla traiettoria metafisica. Che cosa attrae e avvince più di quello che non si può conoscere? Come non innamorarsi di chi mai, nell’esistenza terrena, potremo stringere tra le braccia? “Avram era certo che, negli anni a venire, l’Artide sarebbe stata meta di molte spedizioni, soprattutto scientifiche, sempre più numerose con il perfezionamento dei mezzi aerei e forse, prima o poi, qualcuno avrebbe raggiunto anche la loro isola, scoprendo i resti dell’accampamento. Questi pensieri non suscitavano in lui alcuna emozione. Che i posteri trovassero i suoi scritti, le sue osservazioni scientifiche, il romanzo della loro agonia, lo lasciava del tutto indifferente. Eppure provava una sorta di vago rimpianto al pensiero delle basi scientifiche che certo, da lì a qualche anno avrebbero popolato quei ghiacci. Sarebbero state installate basi meteorologiche, laboratori per la ricerca oceanografica, per la fisica dell’alta atmosfera, della glaciologia. Ma lui non avrebbe partecipato a quelle imprese: aveva compiuto la sua esperienza prematuramente, come un naufrago, non come uno scienziato”.
*
Aldo Avram culla, nella solitudine della sua ultima notte polare, il suo perduto sogno d’amore. Desiderava e desiderava essere desiderato dalla sua donna amata. “L’unico dolore, ora che la rassegnazione coloriva il tempo che gli restava, era la mancanza di Ludovica, del suo viso, della sua voce, del suo corpo. Ed era tutto ciò che desiderava ritrovare, un giorno: lei nella sua completezza, e non soltanto un puro spirito nella beatitudine di un angelico aldilà. La desiderava al punto da udire quella sua voce liquida e bassa; desiderava toccare la sua pelle, sentire la consistenza del suo corpo, decifrare le sue parole e i suoi pensieri, comprendere, come non gli era mai riuscito in quella vita. Voleva desiderare ed essere desiderato come l’essere umano che era stato e che voleva ridiventare in un’altra vita, in un altro tempo e sempre con lei”.
*
In più punti ritornano le immagini di quell’incredibile monstrum che storicamente è stato il dirigibile, in quella ormai lontana stagione delle imprese impossibili e assai celebrate dell’aeronautica italiana. Il dirigibile viene descritto “come un enorme cetaceo arenato. I tecnici venuti da Roma per ripararlo salivano e scendevano dal pallone come alpinisti in cordata, illuminati dalla luce del sole che si riversava dalla grande entrata, rendendo l’hangar simile ad uno sterminato acquario. «Il dirigibile aveva un aspetto penoso, all’arrivo» disse Lundquist indicando i danni visibili che l’aeronave aveva subìto durante il travagliatissimo viaggio da Milano a Stolp. «Era mezzo vuoto di gas, schiacciato come una sogliola, incrostato di ghiaccio, con le eliche smangiate dalla grandine e l’impennaggio orizzontale sinistro squarciato»”. Per gli appassionati di storie polari e dell’epopea storica della tenda rossa non può sfuggire la figura del meteorologo svedese Lundquist che ricalca Finn Malmgrem, il meteorologo di fiducia amico di Roald Amundsen e già al suo fianco nella spedizione del dirigibile Norge di due anni prima. Anche Malmgrem perse la vita durante la spedizione di Nobile perché si era allontanato con Zappi e Mariano dalla tenda rossa alla deriva nelle acque del polo. “Lo svedese era di ottimo umore e il suo inglese più scorrevole del solito. Il sole – Avram aveva avuto modo di notarlo spesso durante i suoi viaggi – rendeva i nordici di una gaiezza fanciullesca. Il collega, che era il meteorologo della spedizione, prese a parlare del tempo, entusiasta di quell’eccezionale giornata di sole, giunta dopo una settimana di pioggia ininterrotta. Anche la temperatura si era fatta quasi primaverile, e per lo svedese questo era motivo di grande gioia”.
*
Pisani registra gli ultimi attimi di vita del fisico Aldo Pontremoli e ricostruisce il suo nostalgico reticolo di pensieri, “il suo senso di sconfitta”: “con fatica si rimise in marcia, ma subito ricadde. Le forze lo avevano abbandonato, questa volta per sempre. Un centinaio di metri lo separava dalla riva. Gli abiti, completamente induriti dal gelo, gli impedivano di muoversi. Cercò di accomodarsi meglio in quella posizione, ruotò un poco su se stesso abbandonandosi su un fianco, come un bambino rannicchiato in attesa del sonno; reclinò il capo e guardò il mare davanti a lui, nella penombra delle stelle”. Nel film La Tenda rossa, Kalatozov immagina Amundsen – l’affascinante Sean Connery – che ritrova, grazie a uno squarcio tra le nubi, il relitto perduto del dirigibile Italia e gli uomini sparsi tra i rottami, paralizzati dal gelo della morte, tra cui il fisico Aldo Pontremoli. E un libro, eterna consolazione rassegnata nello scenario di morte. In una desolazione artica, nella immacolata solitudine della morte, il destino si compiva, mentre una folata di vento si insinuava timida dentro l’involucro, disarmato e inservibile, del dirigibile Italia.
Linda Terziroli
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pangeanews · 4 years ago
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“La scuola ha bisogno di maggiore considerazione e di essere liberata da una burocrazia asfissiante. Invece la scuola viene sempre dopo…”. Dialogo con Andrea Franzoso
Una donna in preda alle doglie, mentre torna a casa, viene uccisa da una pattuglia di nazisti. Si contorce dal dolore, chiama a sé il figlio Franco, poi muore. La potente e tragica immagine con cui si apre Viva la Costituzione di Andrea Franzoso (appena uscito per De Agostini, con prefazione di Gian Antonio Stella e postfazione di Salvatore Settis) lascia spiazzati. Perché non ti immagini che ci sia una brutalità più feroce e spietata di uccidere una donna che sta per mettere al mondo un bambino. Eppure è successo.
Franco Leoni Lautizi che, all’epoca, aveva cinque anni e mezzo, è uno dei pochi sopravvissuti all’eccidio di Monte Sole, conosciuto come la strage di Marzabotto. Fra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 furono massacrati 216 bambini, in tutto 770 persone. Che cosa ci insegna questa pagina di storia? Andrea Franzoso, dopo #disobbediente! Essere onesti è la vera rivoluzione (sempre edito da De Agostini), si immerge in una ricerca a tappe a partire dalle ferite più tremende della nostra storia. Ne esce un libro per ragazzi, a più voci, tra riflessioni di esperti e testimoni, che esplora le parole-chiave della nostra Carta Costituzionale, ovvero Memoria, Democrazia, Repubblica, Costituzione, Lavoro, Diritti, Solidarietà, Uguaglianza, Minoranze, Confessioni religiose, Cultura, Paesaggio, Straniero, Pace, Tricolore, Libertà, Famiglia, Scuola, Salute e Resistenza. Detto così potrebbe sembrare un film già visto. Ma il pregio del libro sono proprio le testimonianze messe a contrappunto con la spiegazione dei temi caldi della Costituzione, storie decisamente forti, illuminanti, a volte poco conosciute e certamente da conoscere.
Lo scopo dell’opera è senz’altro dare dignità all’Educazione Civica, da sempre materia ancillare, dimenticata (non da tutti) nel suo polveroso angolino. Allora lo chiedo direttamente all’autore: perché ci siamo dimenticati per strada l’Educazione Civica?
“Ricordo ancora il libro di Educazione Civica, che avevo alle medie, sul finire degli anni Ottanta: copertina beige, foto in bianco e nero, nient’altro che un bigino di diritto costituzionale. Una noia mortale, non solo per noi ragazzi, ma persino per la povera professoressa che doveva ritagliare qua e là qualche ora. L’obiettivo che mi sono posto con questo libro è spiegare la Costituzione attraverso la narrazione: personaggi, storie vere, testimonianze. L’educazione civica non può essere intesa come una mera trasmissione di nozioni, da mente a mente, ma deve coinvolgere i sentimenti, le emozioni. Si deve lavorare di empatia, più che di teoria. In un’ipotetica riforma della scuola, metterei ai primi posti il teatro, dalla primaria alle superiori. Così l’educazione civica la potremmo non solo insegnare, ma inscenare. Pensi al valore di far recitare ai ragazzi l’Antigone di Sofocle”.
Ma l’Educazione Civica è così importante (della serie predicare bene e razzolare male)?
“Che sia importante lo sappiamo tutti. Lo dicono persino coloro che, nei fatti, razzolano male. È importante come si insegna l’Educazione Civica. E anche chi la insegna, per il valore che ha l’esempio. I ragazzi ci mettono un istante a “pesare” un insegnante, ad accorgersi dell’ipocrisia e dell’incoerenza, quando ci sono”.
Non sono troppo forti alcune delle immagini che presenti nel libro per un pubblico così giovane?
“Ai ragazzi si può raccontare una storia forte con delicatezza. Sapranno coglierne il messaggio più profondo”.
È ciò che avviene, per esempio, con la storia che apre il capitolo Pace. Il protagonista, Vito Alfieri Fontana, era un fabbricante di armi proprietario della Tecnovar di Bari, azienda specializzata nella costruzione di mine antiuomo. A inizio anni Novanta, una semplice domanda posta a bruciapelo dal figlio Ludovico di otto anni lo mette in crisi e lui decide di cambiare vita: chiude la fabbrica e indossa i panni dello sminatore per conto della ong Intersos. E, per i successivi vent’anni, si occupa di sminare campi di morte in Bosnia. Un altro esempio di un personaggio che cerca di disinnescare le mine antiuomo è don Gino Rigoldi, dal 1971 cappellano del carcere minorile Cesare Beccaria, una delle voci che danno corpo al volume. “I miei ragazzi hanno bisogno di un adulto che li ascolti senza giudicarli. Si conoscono così poco, non hanno stima di sé, e non riescono a immaginarsi il futuro. Per un adolescente è importante avere dei riscontri positivi, sapere di valere agli occhi di un altro, di essere amato… Il più delle volte, invece, trovano adulti – compresi i familiari – che li insultano: “Fai schifo”. E si convincono che è così”. Nel capitolo sulla “Scuola” c’è una testimonianza importante, quella dei Maestri di strada che, a Ponticelli, periferia orientale di Napoli, quotidianamente sfidano il destino di giovani senza scampo. Come già aveva fatto con #disobbediente, Andrea Franzoso, con la semplicità di un discorso rivolto ai ragazzi, interroga la nostra coscienza. Nel libro Il disobbediente, nato come libro per adulti ma trasformato in un libro per ragazzi dai 9 ai 14 anni, Andrea Franzoso metteva nudo la sua vita, da ragazzino esile e preso di mira dai bulli a uomo che ha deciso di denunciare un capo che rubava, subendo tutte le conseguenze del caso: l’isolamento da parte dei colleghi, la perdita di un posto di lavoro… Insomma: la domanda resta sempre la stessa. A che cosa sono disposta a rinunciare per l’onestà? E, poi, a che cosa mi serve avere un’educazione civica?
“A imparare a stare al mondo, a convivere con gli altri. E a passare dall’essere “sudditi” a “sovrani”, come insegnava don Lorenzo Milani. Non serve avere dei diritti se poi non sappiamo farli valere. O, peggio, se non sappiamo neppure di averli. E dobbiamo conoscere anche i nostri doveri, per costruire relazioni sane con gli altri. I doveri rappresentano la nostra responsabilità nei confronti del prossimo, della collettività, di chi verrà dopo di noi, dell’ambiente, e anche di noi stessi. Il senso civico è il sentimento di appartenenza a una comunità, che ci permette di passare dall’egoismo e dal tornaconto personale alla solidarietà, al Bene Comune”.
A parte i famigerati banchi con (e senza) rotelle, che cosa servirebbe davvero alla scuola italiana?
“Maggiore considerazione. Invece la scuola viene sempre “dopo”: persino dopo le discoteche aperte a Ferragosto. La scuola ha bisogno di essere liberata da una burocrazia asfissiante. Ha bisogno di risorse, di investimenti: sia nelle infrastrutture – gli edifici scolastici, spesso indecorosi, dovrebbero essere trasformati in luoghi belli, luminosi, circondati dal verde – sia nel personale. A fare gli insegnanti, dovrebbero essere scelti i migliori. Purtroppo, sindacati e governi, negli anni, si sono preoccupati più dei posti di lavoro nella scuola che del bene dei ragazzi che vanno a scuola. Sarebbe bello se i laureati più capaci scegliessero di fare gli insegnanti invece che i manager in una multinazionale. Ma bisogna creare le condizioni perché ciò avvenga. A maestri e professori dovrebbe essere riconosciuto il loro valore, anche dal punto di vista economico: non possono guadagnare meno di un impiegato o di un operaio specializzato. E chi non merita, chi non sa insegnare, va allontanato. Tuttavia, nonostante le scarse risorse e i mille problemi che conosciamo, durante i miei incontri nelle scuole, mi stupisco di trovare sempre così tanti insegnanti bravi e appassionati, che hanno a cuore il futuro dei nostri ragazzi”.
Linda Terziroli
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pangeanews · 4 years ago
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“Diritto di voto. Divorzio facile. Svalutazione della verginità. Ridicolizzazione sistematica della gelosia. Libero amore”. Filippo Tommaso Marinetti femminista (e seduttore totale)
Nel Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti, la Caffeina d’Europa, uscito in prima pagina su Le Figaro di Parigi (e su svariati altri giornali) il 20 febbraio 1909, tra i dardi più celebri e fiammeggianti, oltre alla glorificazione della guerra – sola igiene del mondo – alla distruzione di musei e biblioteche, senz’altro in molti ricorderanno “le belle idee per cui si muore” ma, soprattutto, “il disprezzo della donna”. Marinetti torna su questo punto dolente nello scritto Contro l’amore e il parlamentarismo del 1915 ripubblicato da GOG, lo scorso aprile, in volume dal titolo Come si seducono le donne e altri scritti sull’amore con l’introduzione di Andrea Chinappi e la prefazione di Bruno Corra e Emilio Settimelli. Una lettura ideale e divertente, in primis, per ogni donna. “Quest’odio, appunto, contro la tirannia dell’amore, noi esprimemmo con una frase laconica: “il disprezzo della donna”. Noi disprezziamo la donna, concepita come unico ideale, divino serbatoio d’amore, la donna veleno, la donna ninnolo tragico, la donna fragile, ossessionante e fatale, la cui voce, greve di destino, e la cui chioma sognante si prolungano e continuano nei fogliami delle foreste bagnate di chiaro di luna”.
*
Il libro sulla seduzione futurista nasce attraverso una ferita di guerra. “È il 1916 e il funambolico Marinetti si trova costretto a letto, in convalescenza, per una ferita da granata. Ed è proprio alla granata austriaca – che gli adornò «faccia, cosce e gambe dei soli tatuaggi degni di un futurista» – che questo libro è dedicato. Perché guerra e seduzione per Marinetti sono speculari. Così dal letto dell’Ospedale Militare di Udine F.T.M. detta forsennatamente agli amici Corra e Settimelli, sigaretta dopo sigaretta, il primo manuale futurista di ars amatoria, un decalogo ilare e acuto, ma non per questo inefficace, delle qualità che deve possedere il seduttore”.
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Effettì contro l’amore, dunque? Non proprio. Marinetti parla delle donne soltanto “dopo averne goduto e sofferto”. E il libro è un agile quanto spassoso compendio, nonché Baedeker di donne dalle diverse nazionalità e credo religioso, “dalle romane alle parigine”. Come le tedesche, le tre amanti tedesche, che lasciano un’impronta indimenticata nel cuore del giovane futurista. “Una amburghese giovane e fresca ma pedante e cretina come un saggio critico di Benedetto Croce. La moglie di un editore di Lipsia, assolutamente insipida”. Ma soprattutto è una berlinese conosciuta in un hotel di Palermo a fare breccia in Marinetti, “giunonica, imperiale”. La tedesca, infatti, indossa una speciale camicia da notte fatta confezionare all’uopo per il futurista antiteutonico, con bandiera germanica e due aquile imperiali destinate a battere le ali nei momenti più riposti di una festa palermitana.
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Le descrizioni femminili che Marinetti regala sono senza tempo e vivissime: “Mi sarei innamorato pazzamente di una giovane attrice ebrea, d’origine algerina, bruna, selvaggia, furba e scivolante, ambiziosissima, calcolatrice, grandi occhi enormi di liquorizia, bella bocca da negra, un’araba insomma frenetizzata da Parigi”. Cosa bisogna avere per sedurre tante donne? “Forti attitudini oratorie. Ingegno novatore. Saper dare uno schiaffo decisivo a tempo e soprattutto coraggio, coraggio, coraggio: ecco l’afrodisiaco supremo della donna!”. Ma le donne hanno le loro fissazioni – come quella del seno, tanto per fornire un esempio tratto dal libro – la gelosia e, spesso e volentieri, un marito da tradire. Prendiamo l’esemplare signora inglese molto bella “e già quasi matura”, appassionata dei versi del poeta Marinetti. Voleva concedersi al futurista in casa, sotto agli occhi (semichiusi) del coniuge John, sul divano. “(…) E tuo marito? – Non preoccuparti, ha la sua bottiglia!… Conoscevo suo marito ma ne ignoravo le meravigliose abitudini di alcolizzato”.
*
In conclusione al funambolico pamphet Come si seducono le donne, al capitolo XI, Saluto di un bombardiere alla donna italiana, si ritagliano alcune immaginette donnesche ispirate ai romanzi più in voga in quel momento storico (chissà a quali romanzi si ispirano oggi le donne) da evitare, secondo Effettì, nel decalogo a undici punti (come il Manifesto del Futurismo) dal titolo “PERO’!… Sia tutto come non detto”. Rileggere i punti 9 e 10. “9° Se rimani la donna dei romanzi di Fogazzaro: vile, indecisa, ipocrita, piena di rimorsi, neutrale, conservatrice, reazionario, voglio-non-voglio, sarò-non-sarò-tua, forse-domani-un-poco-fino-al-petto-ma-non-più-giù. 10° Se rimani la donna dei romanzi di D’Annunzio: snob, vana, vuota, superficiale, culturale, annoiata, disillusa, ossessionata da Parigi; la donna che per amare ha bisogno di orchidee Coty Paquin Mallarmé Oscar Wilde Wagner Verlaine Baudelaire passeggiate – archeologiche rovine – illustri sadismo e incesto”.
*
Filippo Tommaso Marinetti, femminista ante litteram, snocciola “le belle libertà” che i Futuristi vorrebbero offrire alla donna (oltre un secolo fa): “Diritto di voto. Abolizione della autorizzazione maritale. Divorzio facile. Svalutazione e abolizione graduale del matrimonio. Svalutazione della verginità. Ridicolizzazione sistematica e accanita della gelosia. Libero amore”. La biografia di Filippo Tommaso Marinetti, ironia della sorte?, registra un matrimonio religioso nel 1923: a Villasanza di Monza capitola. Si sposa con Benedetta Cappa, conosciuta nel dicembre 1918, nel salotto romano di Giacomo Balla. Spiega l’incoerenza apparente il biografo di Marinetti Giordano Bruno Guerri: “Quanto a Marinetti, dopo avere teorizzato la distruzione della famiglia, se ne costruì una in cui fu padre e marito esemplare: i rivoluzionari raramente si sentono vincolati, nella vita provata, alle proprie teorie. Ma ci fu coerenza in quella scelta: Benedetta Cappa, la donna che sposò, benché molto femminile non aveva niente da invidiare ai futuristi maschi per intraprendenza, spirito creativo, autonomia, originalità”.
Linda Terziroli
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pangeanews · 4 years ago
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“Vivere la catastrofe dell’essere umano completo è terribile, ma raccontarla?”. Discorso su “Fine”, l’ultimo libro di Karl Ove Knausgård
“La tua vita sembra un romanzo: dovresti scriverla”. A molti sarà capitato di pronunciare questa frase, o sentirsela dire. Se la frase in questione viene affibbiata alla vostra, di vita, ci pensate su un attimo. Poi ribattete: “ma no, non potrei mai”. Perché? Un po’ perché bisogna fare i conti con se stessi, la propria capacità di scandaglio interiore e con la propria attitudine alla scrittura. E, non da ultimo, i personaggi. Amici, nemici e parenti che si potrebbero ritrovare, riconoscere in ruoli o situazioni non sempre felici. Tutti vogliono fare bella figura, insomma, persino in letteratura. Ci vuole una certa dose di coraggio e di incoscienza, dunque, per scrivere un’autobiografia. Le stesse virtù da riconoscere all’affascinante (e un po’ matto) scrittore norvegese Karl Ove Knausgård che è giunto, finalmente e dolorosamente, alla conclusione della sua battaglia, dopo i volumi La morte del padre, Un uomo innamorato, L’isola dell’infanzia, Ballando al buio, La pioggia deve cadere, tutti pubblicati da Feltrinelli e con la traduzione di Margherita Podestà Heir.
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Il romanzo fiume Fine, pubblicato da poche settimane in Italia, arriva a milleduecentosettanta pagine, raddoppiando il volume dei precedenti (mediamente di cinquecento pagine). Per intenderci: se lo collezionate, nella vostra biblioteca, come me, vi conviene dedicare una mensola soltanto allo scrittore norvegese. Ufficialmente di lui, nella quarta di copertina si sa questo: “Karl Ove Knausgård è nato a Oslo nel 1968. Ha studiato letteratura all’Università di Bergen e vive a Malmö, in Svezia, con la moglie Linda e i loro figli. Per il suo primo romanzo, Ute av verden (1998), è stato insignito del Norwegian Critics Prize for Literature, primo caso di assegnazione del premio a un debuttante. Il secondo romanzo, En tid for alt, ha vinto molti premi ed è stato giudicato tra i migliori 25 romanzi norvegesi di tutti i tempi”. Ma se ci si avventura dentro il folto della foresta dei suoi romanzi si finisce per precipitare nella sua vita, tra le sue frustrazione di scrittore e di padre di bambini che pretendono un tempo per sé e di marito di Linda. Nella Nota della traduttrice, in appendice a Fine, Margherita Podestà Heir paragona il suo lavoro di traduzione dell’ultimo tomo di Knausgård alla scalata di una montagna. “Mi sono serviti pazienza, dedizione, coraggio, umiltà. Poi, mentre procedevo, mi sono resa conto che un quinto elemento era altrettanto necessario: la libertà. Libertà di seguire l’Autore nei suoi ragionamenti e, al contempo, dialogare con lui, come se fossimo seduti da qualche parte davanti a un caffè. Libertà, soprattutto, di partire dalle sue parole, quelle norvegesi, sulle quali ha costruito una piramide infinita di riflessioni e significati che permeano l’intero libro. È questo il motivo per cui spesso ho preferito partire dalla versione norvegese di poesie e citazioni per ricostruirne il flusso pressoché perfetto, composto da singole parole che meritavano fedeltà e, appunto, libertà”.
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Dentro e dietro a tutte queste infinite pagine c’è la sua sterminata sofferenza, il suo ottimismo depresso. Narrando la sua vita senza alcun filtro, non selezionando le scene in una sceneggiatura pulita, ma gettando ogni singolo particolare, come passeggini & pannolini, wurstel e pulizie dell’asilo, le bottiglie vuote sparse per casa del padre alcolizzato, in pasto ad ogni singola pagina, Knausgård ha sfidato se stesso. “Quando ci pensavo, era come se dentro di me qualcosa iniziasse a bruciare. A bruciare erano la disperazione, la colpa e la paura e l’unico modo con cui riuscivo a tenere in scacco quelle sensazioni era immaginando che loro ancora non sapevano, che non era ancora successo nulla, ma anche questo mi aiutava sempre meno perché presto sarebbe arrivato il giorno in cui avrei dovuto consegnare il manoscritto a Linda e lei avrebbe cominciato a leggere ciò che avevo scritto sulla nostra vita. L’unica cosa che sapeva era che io avevo scritto di noi. Non aveva idea di cosa né come”. Chi sarebbe disposto a fare la stessa cosa in tutte quelle pagine? Ammettere a se stesso e a migliaia di lettori di preferire il lavoro al gioco con i propri bambini e tantissimo altro.
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“Perché le avevo scritte? Mi ero sentito così disperato. Era come se fossi rinchiuso dentro me stesso, solo con la frustrazione, la scimmia nera, che a un certo punto era enorme, e come se non esistesse nessuna via d’uscita. Dunque: cerchi sempre più piccoli. Il buio sempre più grande. Non quello esistenziale, non quello che riguardava la vita e la morte, la felicità deflagrante o il dolore deflagrante, ma l’oscurità minuta, l’ombra sull’anima, il piccolo inferno personale del piccolo maschio, un inferno così piccolo da essere in realtà inesprimibile, ma capace allo stesso tempo di colmare tutto”. Knausgård, prima di rendere pubblica la sua opera, la manda via mail all’indirizzo di posta elettronica dei personaggi, che sono amici, conoscenti, parenti che nell’opera hanno un ruolo, un copione, ma soprattutto indossano il nome autentico. Non tutti reagiscono bene. Non tutti sono d’accordo. D’altronde come reagiremmo noi a leggerci nella vita scritta da un altro? Non è possibile lavar via i refusi dalle nostre esistenze, né da quelle di altri. Anche noi vorremmo fare bella figura. O no?
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Nei fatti narrati, Gunnar, il fratello del padre alcolizzato di Knausgård, risponde alla mail con parole inequivocabili. Oggetto della mail: “Stupro verbale”. Secondo lo zio, è stata la madre di Karl Ove a plagiarlo, a tal punto da spingerlo a scrivere “quella porcheria umiliante, amorale ed egocentrica per vendicarmi della famiglia e per riempirmi il portafoglio. Compiere un gesto simile era molto peggio di ciò che a mio dire mio padre mi aveva fatto durante l’infanzia”. Lo zio minaccia di portarlo in tribunale. Alcuni particolari descritti prima della morte del padre dello scrittore non sono veri, secondo Gunnar. In sostanza, Knausgård dichiara di aver scritto di se stesso e lo spiega in più punti del colossale romanzo: “Quello che ho cercato di fare è istituire nuovamente una presenza, sforzarmi affinché il testo penetrasse attraverso tutta la schiera di rappresentazioni, idee e immagini che giacciono come una sorta di cielo sopra la realtà, o come una pellicola sull’occhio, giungere alla realtà del corpo e alla caducità della carne, ma non in modo generale perché il generale è imparentato all’ideale, in realtà non esiste, lo fa solo il particolare, e dal momento che il particolare in questo caso sono io stesso, è di questo che ho scritto”.
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Questa ragione non basta a tutti. “Secondo alcuni non ne avevo il diritto perché non mi sono servito soltanto di me stesso. Ed è vero. La mia domanda è perché teniamo segreto ciò che teniamo segreto. Dove risiede il vergognoso nella caduta? La catastrofe dell’essere umano a tutto tondo? Vivere la catastrofe dell’essere umano completo è terribile, ma raccontarla? Perché la vergogna e l’occultamento quando nel loro aspetto più profondo sono forse la componente più umana di tutte? Cosa c’è di così pericoloso da non poterlo dire ad alta voce?” La sfida di Knausgård ingloba anche qualcos’altro di scandaloso: Hitler da giovane. Fine è l’ultimo volume dell’immenso corpo della Mia battaglia, titolo preso in prestito dal Mein Kampf appunto. E, ancora una volta, Knausgård getta sulla pagina cose che forse non tutti siamo disposti a leggere: “Ma Mein Kampf è così: Hitler descrive la propria povertà con un linguaggio che si distacca molto dalle conseguenze reali di questa miseria, non la nega, ma la trasforma in qualcosa di incredibilmente energico e gratificante e al contempo vi intesse una visione politica che trae molta della sua forza e trova quasi fondamento in questa distorsione della sua vita”. Il libro di Hitler, in edizione norvegese, Karl Ove Knausgård l’aveva trovato a casa dopo la morte del nonno, sei mesi dopo la morte del padre. Era un’opera proibita, che cosa ci faceva lì? Non solo. Quando muore il padre, Karl Ove e suo fratello scovano, tra i suoi oggetti, una spilla nazista, quella con l’aquila tedesca, da appuntare sul bavero della giacca.
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Fare i conti con la propria vita significa risalire pericolosamente la montagna delle nostre origini, attraversare, senza limiti e senza salvezza, i nostri sentimenti più contrastanti, le delusioni più cocenti, le gioie più grandi. Significa fare i conti con la vita stessa, la sua fugacità e certamente con la morte. Come scrive alla fine di uno dei più spietati e teneri volumi della sua battaglia: La morte del padre. “Adesso quello che vedevo era l’assenza di vita: non esisteva più nessuna differenza tra ciò che un tempo era stato mio padre e il tavolo su cui giaceva, o il pavimento su cui si trovava il feretro, o la presa incassata nella parete sotto la finestra, o il filo che proseguiva fino alla lampada da muro affissa a lato. Perché l’essere umano è soltanto una forma tra le altre che il mondo manifesta ed esprime di continuo, non soltanto in tutto ciò che è vivo, ma anche nelle cose inanimate, disegnate nella sabbia, nella pietra e nell’acqua. E la morte, che io avevo sempre considerato la dimensione più importante della vita, oscura, allettante, non era altro che un tubo che perde, un ramo che si spezza al vento, una giacca che scivola da una gruccia e cade per terra”.
Linda Terziroli
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pangeanews · 4 years ago
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“Dobbiamo ascoltare la nostra paura, trattarla con compassione e abbracciarla come faremmo con un bambino ferito”. Dialogo con Elisa Castiglioni: ha scritto una favola per vincere la quarantena
“Siamo fiori dello stesso giardino”. Era scritta questa frase sul primo rifornimento di materiali sanitari spediti dalla Cina, nel cuore della pandemia. Me lo ricorda, per telefono, la scrittrice Elisa Castiglioni. Si occupa di narrativa per ragazzi, il suo romanzo La Ragazza che legge le nuvole (Castoro, 2012) ha vinto il premio Cento nel 2013 e, qualche anno fa è stato pubblicato in Cina e, sempre con il Castoro, sono usciti Le Stelle Brillano su Roma e Desideria, In Punta di Piedi sull’Orizzonte. Proprio durante la quarantena, è nato il suo ultimo racconto Giallo primula, pubblicato gratuitamente in ebook nei giorni più bui della quarantena.
Quando mi parla di come è nato questo progetto, si commuove. E anch’io, devo ammetterlo, leggendo. “Le storie vanno scritte quando le parole non bastano” mi dice mentre mi spiega che, quest’anno, sarebbe andata proprio in Val Seriana. Gli incontri erano stati fissati per marzo. Avrebbe dovuto presentare In punta di piedi sull’orizzonte. E invece no. E invece è nata una cosa più grande, dall’amicizia con il Festival La Vallata dei Libri Bambini. Elisa Castiglioni sarebbe andata in quei luoghi, avrebbe partecipato al festival. Ma in quei giorni e, soprattutto, in quei luoghi, la situazione era più che drammatica. Elisa e l’organizzatore del festival hanno iniziano a sentirsi spesso. Lei gli chiedeva: “come stai?”. Quando, un giorno, lui le dice: “Non so più cosa dire ai miei figli”, nel cuore, Elisa sente un macigno. Anche lui ha due figli, gemelli, della stessa età – 13 anni – di Isabella, la figlia di Elisa. Affrontare questo tema con i ragazzi è difficile, già è stato difficile per noi elaborarlo, figuriamoci per loro, mi dice al telefono. Ma, poi, ad un tratto, Elisa si domanda: “Non sono un medico, un infermiere, un cassiere al supermercato, un fattorino. Insomma, un lavoratore essenziale. Tutti vorremmo fare qualcosa, grandi e piccoli. Ci siamo sentiti tutti schiacciati da una profonda solitudine. Che cosa posso fare io? Così ho deciso di scrivere una storia. Il potere delle storie è come quello delle favole; serve a rielaborare il vissuto. Così, ho parlato con la mia casa editrice, il Castoro, e loro hanno deciso di pubblicarlo gratuitamente in digitale”.
Allora il digitale serve? Forse l’autrice, come la mamma di Nico, la prof del suo racconto, si è ricreduta. “Ho scoperto che puoi arrivare ai lettori immediatamente. Abbiamo lavorato, intensamente e poi, per Pasqua, il racconto è stato diffuso”. Insieme al disegno di sua figlia, i fiori di Isabella Giudici. “È stato un regalo anche per me e per mia figlia. Lei ha disegnato questi fiori, li ho fotografati e ho mandato la foto alla casa editrice. L’idea che, nel racconto scritto dal punto di vista di una ragazza, ci fosse un disegno di una ragazza della stessa età è piaciuta subito”.
Che cosa è successo, dopo la pubblicazione?
“Sono stata chiamata da diverse scuole di Italia, per cercare di capire, attraverso il racconto e collegamenti on line, quello che stavamo vivendo. Mi sono arrivate molte fotografie di fiori, di primule, da tutta Italia. Un messaggio di speranza”.
Hai mai avuto paura?
“Sì. Pratico da tempo yoga e meditazione e lo yoga ti insegna che a stare con quello che c’è e che devi trovare una posizione confortevole. Ci ho provato”.
Com’è la situazione attuale dei ragazzi nella cosiddetta fase due?
“È vero che non c’è una rete strutturata che può dare aiuto, ma ci sono molte persone che, anche in forma anonima, danno il proprio sostegno. È vero, questa situazione ha accentuato le fragilità, soprattutto di natura economica, ma è stato fatto del bene”.
Che cosa pensi della riapertura delle scuole a settembre?
“Le scuole devono riaprire. Sono il fulcro della vita delle nostre bambine e dei nostri bambini, delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Questa emergenza sanitaria può essere l’opportunità per rivedere gli spazi e le metodologie di insegnamento, lo si è detto tante volte. Sicuramente la pandemia ci ha aiutato a distinguere quello che è essenziale da quello che non lo è. E la scuola è essenziale. Mettere al centro dell’insegnamento i ragazzi è essenziale. Il corpo accusa il colpo, i ragazzi sono curvi, soffrono fisicamente e devono curarsi l’anima”.
Che cosa dovrebbero fare secondo te gli insegnanti a settembre, quali strumenti per elaborare la sofferenza?
“Non possiamo aspettare settembre. La loro sofferenza va riconosciuta e ascoltata subito. Noi adulti dobbiamo aprirci alle loro emozioni, ai loro pensieri, alle loro paure. Forse non avremo sempre la risposta perfetta, ma il nostro ascolto profondo è già una prima risposta. Per quanto riguarda le attività scolastiche, scrivere è un ottimo strumento per elaborare quello che proviamo. È una forma di auto-terapia. Ma per essere davvero efficace la scrittura deve essere libera da vincoli e in questo caso anche da voti. Non ci deve essere un’ansia da prestazione, ma uno sguardo che accoglie e comprende. La lettura condivisa in classe è un altro modo per aprire il confronto e stimolare il dialogo, scegliendo testi adatti all’argomento. Infine credo che sia importante ritornare a usare le mani per creare attraverso laboratori artistici espressivi. Dopo tanta, troppa ma necessaria tecnologia, c’è la necessità di tornare alle cose reali, semplici, concrete. Questo aiuterà la mente ad alleggerirsi. Ma anche il corpo va curato. Questi corpi che sono stati a lungo fermi, curvi, contratti. Credo che potrebbe essere una buona idea ripensare alle lezioni di educazioni fisica, inserendo, perché no, anche momenti di partica dello yoga e della meditazione. Molte scuole già lo fanno e testimoniano grandi benefici”.
E i genitori, invece, quali consigli ti senti di dar loro?
“Penso che resti fondamentale riconoscere la sofferenza dei nostri figli e aprirci ad essa senza sminuirla, senza giudicarla, senza fretta di dare consigli ma ascoltando in profondità. Oltre le parole che dicono. Credo che sia essenziale trovare il tempo per stare con loro (e esserci davvero nel qui e ora e non sono in apparenza mentre si è distratti dalle nostre preoccupazioni), stare il più possibile nella natura, e aiutarli a rivedere gli amici, a fare sport. Credo che la chiave per affrontare questo momento di enorme difficoltà sia la compassione. E per compassione intendo non l’avere pena per gli altri e se stessi, ma il com-patire nel senso di sentire con l’altro (Karuna in sanscrito) perché davvero siamo fiori di uno stesso giardino. Il mio bene inizia dove inizia il tuo. E viceversa”.
Nico nella tua storia si costruisce una tana dove leggere e, soprattutto, disegnare. Come si può vincere la paura di uscire dal nido?
“Nella storia, Nico prende rifugio nell’arte. Nella tradizione buddista prendere rifugio è una pratica importante per proteggersi e prendersi cura di sé. Ma è una situazione temporanea. Poi si deve uscire fuori e affrontare la realtà, nutriti e rinforzati si dovrebbe essere nella condizione di migliorarla. Di alleggerire la sofferenza propria e degli altri. Credo che il primo passo per vincere la paura sia ascoltarla, accettarla con compassione e non rifiutandola come qualcosa di negativo e scomodo. Quella paura fa parte di noi. Se la rifiutiamo, rifiutiamo noi stessi. Quando abbiamo paura, noi siamo la nostra paura (e questo vale anche per la rabbia, il dolore e le emozioni che proviamo). Dobbiamo ascoltare la nostra paura, trattarla con compassione e abbracciarla come faremmo con un bambino ferito. Una volta che l’abbiamo accettata, si indebolirà. Viviamo in una società che ci ha inculcato il valore d’essere forti. Essere forti per me non significa non aver paura, ma accettare le proprie paure e vederle per quelle che sono. Una volta che lo si fa il fantasma che tanto ci spaventava diventa l’ombra dell’abatjour che teniamo sul comodino. Credo anche che se siamo consapevoli che la vita è un dono e che ogni istante è regalato, riusciamo a vivere davvero nel presente e la paura di quello che sarà passa. Vivere nel presente non significa non prepararsi per il futuro. Tutt’altro. Perché solo se viviamo bene, con consapevolezza, il nostro presente potremo avere un buon futuro. Un antico proverbio zen dice che non si deve avere paura della morte, sennò si ha paura della vita”.
Linda Terziroli
*In copertina: Elisa Castiglioni (la fotografia è tratta da qui)
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pangeanews · 4 years ago
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“Gli scrittori hanno esistenze così squallide! E noi critici sempre a rovistare vanamente in quella loro prosaica oscurità”. Su “Quella sera dorata”, di Peter Cameron
Si può scrivere la biografia di uno scrittore suicida? Uno che già non ha accettato la sua di vita, difficilmente accetterebbe la biografia scritta da un altro. Sconosciuto, peraltro. L’autorizzazione degli eredi diventa indispensabile. È il 13 settembre 1995 e Omar Razaghi scrive agli eredi dell’opera di Jules Gund perché, dopo la tesi di laurea sullo scrittore, ha ricevuto una borsa di studio che prevede la pubblicazione di una biografia autorizzata nell’interesse del suo patrimonio letterario. Inizia così, proprio con una lettera agli eredi, il romanzo Quella sera dorata di Peter Cameron edito da Adelphi, nel 2002 (traduzione di Alberto Rossatti). Jules Gund, in verità, non entra nel romanzo se non attraverso la ragnatela dei legami familiare che ha tessuto in vita. Ha scritto un grande romanzo di successo e ha poi passato la vita cercando di farne un altro. Dal libro è stato tratto un film, nel 2009, The City of Your Final Destination, diretto da James Ivory, con Laura Linney e Anthony Hopkins. Il titolo del film è uguale al titolo originale del libro pubblicato da Cameron.
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Omar, come molti aspiranti biografi, si trova alle prese con i parenti che cercano di ostacolare l’iniziativa, nel terrore di trovarsi di fronte, in un futuro minacciosamente vicino, alla solita compilazione di biografia intessuta di svarioni, congetture e voli di fantasia non autorizzati. Così, né la moglie, né il fratello, né l’amante del defunto scrittore, autore di un solo e venerato libro, La gondola, desiderano che il giovane Omar Razaghi si rechi nella tenuta di famiglia in Uruguay e si impicci di faccende, leggermente scabrosette, che non lo riguardano. Quando un autore diventa di culto, la sua vita si fa altrettanto interessante. “Cioè, alle biografie degli artisti. O degli scrittori. La loro opera dovrebbe parlare da sola. La loro vita è la loro opera, almeno per quanto riguarda il pubblico. E una biografia può solo interferire con l’opera… inquinarla, in qualche modo”.
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Omar ha una fidanzata, Deirdre, che ripone in lui notevoli aspettative e lo mette, di fatto, sul primo aereo per il Sudamerica, decidendo di non accompagnarlo. Sceglie di rimanere a casa, a leggersi le tesine sul ruolo del destino in Tess dei d’Urbervilles. Per riuscire a scrivere una biografia, oltre all’autorizzazione, sembra necessario conoscere familiari, parenti, amici del defunto. Attraverso il loro sguardo, si può riuscire a mettere forse gli occhi nel buco della serratura della stanza dello scrittore. Ma è davvero così? Quella sera dorata ci permette di capire cosa si muove dietro le quinte di un’opera biografica. Che semplicemente non è possibile comporre. Quali sono le domande giuste e quelle sbagliate? Dove è lecito arrivare nella ricerca del materiale e nella collazione delle fonti? Ci vuole un metodo? E poi gli oggetti, i quadri e i gioielli del defunto, a chi appartengono ora? E cosa ci dicono dello scrittore?
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“Che domande interessanti e metodiche mi fa. Sarai un ottimo biografo. Per rispondere alla sua domanda: ritengo che appartengano a me. Erano di mia madre. In un certo modo appartenevano anche a Jules, naturalmente, ma Jules è morto. E in qualche modo apparterrebbero anche a Caroline, e a Arden. Ma io ritengo che appartengano soprattutto a me. Né Caroline, né Arden sanno della loro esistenza”. Ma cosa è giusto metterci, in una biografia? “Sai, spesso penso, spesso mi dico: devo cambiare vita radicalmente. Subito, prima che sia troppo tardi. Ora, ora, ora. Negli ultimi capitoli succedono spesso cose straordinarie, non è vero? Tu non pensi mai alla tua vita come a un romanzo? Io sì. Ho cominciato dentro di me molto presto. Forse quando sono andato via da qui, per la prima volta… Ho pensato: devo vivere come se fossi l’eroe di un romanzo. Devo fare sempre qualcosa di speciale, guadagnarmi sempre lo spazio sulla pagina. È molto difficile vivere così. I romanzi sono talmente ingannevoli in questo senso: lasciano fuori tante cose. Gli anni di tedio, magari felici, ma di felicità tediosa. O di tediosa infelicità”.
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Ma le persone che si conoscono, che hanno avuto il privilegio della famigliarità con lo scrittore, tra di loro condividono anche i sottintesi. Come può riuscire a coglierli un biografo che non ha mai conosciuto di persona la persona che dovrebbe descrivere? “Avevano uno strano modo di parlare tra loro, ma poi forse non era così strano, forse le persone che sono vissute quasi esclusivamente insieme, condividendo certe esperienze, parlano in quel modo ellittico, come sassi che rimbalzano sull’acqua”. E il suicidio, poi. Come è realmente andata? “Jules si è ucciso da solo”. Eppure. Le versioni non combaciano. “Non capisco cosa stai dicendo. Veramente, non lo so. Quale falsa versione? Io non ho mai mentito a proposito di Jules. Non sono implicato nella sua morte, e mi offende che tu insinui il contrario. Jules è sempre stato malinconico. Sempre, sin dalla nascita. Aveva già tentato di uccidersi una volta a diciassette anni, lo sapevi?”.
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Omar, per scrivere la biografia di un altro, mette a repentaglio la sua, di vita. Ed ecco la domanda fondamentale che pone Omar e che precede l’incidente che lo travolge: “Crede che scrivere una biografia sia sbagliato? Cioè, intrinsecamente sbagliato?” In effetti. “Eh sì, è spesso così con gli scrittori: hanno esistenze così squallide! E noi critici sempre a rovistare vanamente in quella loro prosaica oscurità. Per questo è meraviglioso lavorare sulla Woolf… non si tocca mai il fondo. Ma qualcuno come Gund… Meno male che ne sei fuori”. Già perché, nonostante tutto, Omar rinuncia alla biografia, e alla borsa di studio. Forse perché, a differenza dei libri, come scrisse Sergej Dovlatov: “Purtroppo la nostra vita viene scritta senza brutta copia. Non è possibile ritoccarla, eliminare le righe. Correggere i refusi non sarà possibile”.
Linda Terziroli
*In copertina: Lucian Freud, “Self-Portrait”, 1956 ca., photo The Lucian Freud Archive
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pangeanews · 4 years ago
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“Neppure un saluto ai morti. Le tombe sono gelide lastre di marmo, loculi inarrivabili”. La pandemia, il pipistrello, Henry de Montherlant e una donna bellissima, a Cartagena, che leggeva Nicolás Gómez Dávila. Un libro di Gennaro Malgieri
“Se la natura avesse destinato l’essere umano al pensare, non gli avrebbe dato gli orecchi, o almeno li avrebbe muniti di chiusure ermetiche, come ha fatto con i pipistrelli”. Prende le mosse (e il titolo) da una citazione di Arthur Schopenhauer il volume Sotto il segno del pipistrello. Dentro la pandemia. Un diario (edito da fergen) del giornalista e saggista di lungo corso Gennaro Malgieri. Un diario che nasce, giorno dopo giorno, prima e durante la quarantena, attraversa il cuore della pandemia da gennaio a maggio 2020. Un libro necessario come una carezza e spietato come un pugno perché ci fa tornare, con gli occhi e con il cuore ferito, alle settimane appena fuggite. Srotolando, con scrupolosità e delicatezza, tutti i dati e le vicende che abbiamo vissuto e che, sotto sotto, un po’ ci siamo dimenticati. Da quel 31 dicembre 2019, quando le autorità cinesi comunicano all’OMS che “una sconosciuta tipologia di Sars, simile alla polmonite, si è diffusa nella metropoli di Wuhan, polo logistico e industriale, dove si sperimentano innovazioni tecnologiche e scientifiche di alto livello, compreso un laboratorio dove si studiano i virus più pericolosi per l’umanità”.
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Malgieri non è nuovo alla scrittura diaristica dato che uno zibaldone lo scrive da quasi tutta la vita. “Dall’età di 16 anni, quindi mezzo secolo – mi spiega per telefono – tengo un diario (con qualche salto) unito a taccuini di incontri, viaggi e curiosità letterarie e artistiche (oltre ad aver scritto dal 1969 migliaia di articoli per cinquantasette testate)”. Così, dal diario che per tre mesi ha dedicato alla pandemia del Covid, è venuto fuori questo libro, mentre stanno per essere pubblicati altri suoi cahier, frutto di colloqui-interviste con Freund, Bardèche, Gregor, Jünger, Siniavskij, de Benoist, de Tejada, Horia, Paratore, corredati da un saggio sulla cultura e la libertà. La libertà, appunto. Il libro di Malgieri ci fa ripiombare, giorno dopo giorno, nell’inconsapevolezza dei primi tempi, fin dentro alla percezione della cecità insensata di certi politici e governanti, fino al sacrificio della vita stessa di migliaia di italiani che sono stati uccisi dal coronavirus nell’esplosione della primavera di quest’anno e alla privazione della libertà che ha coinvolto e sconvolto tutto il paese, per questioni sanitarie. A causa dell’alieno invisibile, come Malgieri definisce questa pestilenza moderna. Facciamo così i conti con la brevità della vita umana, con un destino spietato, con le nostre stesse fragilità e abbiamo il privilegio, o la sfortuna, di rivedere le nostre esistenze.
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“Il Destino ha scelto questo tempo per piazzare un colpo micidiale nel cuore dell’umanità. L’umanità si è scoperta fragile, impotente, impaurita. È come se le avessero tolto la certezza dell’immortalità. Un tragico e grottesco gioco. Anche a me è stato tolto qualcosa. Non tanto la libertà di movimento, bensì il coraggio di affrontare la vita che mi resta. È come se mi sentissi precario al punto di vedere la fine più vicina. Mi è sembrato di sentire attorno a me una sgradevole nenia che in ogni ora del giorno mi dice che il cerchio si sta stringendo”. Non è forse quello che nei mesi scorsi abbiamo provato? Malgieri ha il coraggio di pubblicare quella scomoda verità che, nei giorni più bui di quest’anno, faticavamo ad ammettere: i bollettini di guerra, le immagini sempre più impietose, i fiumi di parole da cui disperatamente aspettavamo un timido conforto costituivano una grandinata di proiettili sulle nostre fragili esistenze.
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E ancora: “Consulto quotidianamente le cifre dei contagiati, dei morti e dei guariti. La partita la sta vincendo l’alieno invisibile. E quando mi rendo conto che non posso più stringere la mano a nessuno, non posso abbracciare e baciare chi voglio bene, non posso concedermi affettuosità di alcun tipo perché invisibili microbi potrebbero infettarmi o potrei essere io ad infettare gli altri, il vuoto mi attanaglia imprigionandomi in una corazza che mi soffoca, ma non mi uccide”.
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Cosa abbiamo fatto chiusi in casa? Prendi, ad esempio, il 16 aprile: “Domenica in compagnia del coronavirus. Fuori la primavera sembra esplodere. Dentro il freddo avvolge perfino i pensieri. Mi aggiro tra i libri. Leggo, mi annoio, appunto qualcosa. Viaggio come Xavier de Maistre intorno al mio salotto”. È, forse, l’occasione perduta per tuffarsi nella biblioteca. “Rileggo Port-Royal di Henry de Montherlant. Un libro di rara bellezza che esalta il genio estetico e narrativo del grande scrittore francese, suicida nel 1972, le cui ceneri vennero sparse dalle mani amorevoli di Gabriel Matzneff, a Roma, nei dintorni del Tempio della Fortuna Virile”. Il lontano ricordo del cimitero dei vialetti ombrosi e le umide foglie di Père-Lachaise, dove Malgieri ama passeggiare, mentre guarda il parco sotto casa, insolitamente deserto. “L’effimero è qui, incrostato alla pelle alle pareti ai libri ai ricordi alle lacrime alle nostalgie. Solo l’oblio è eterno. Ascolto la Sonata numero due in Si bemolle maggiore di Sergei Rachmaninov, eseguita dall’incantevole ‘amica dei lupi’ Hélène Grimaud”.
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E lo sguardo corre ai nostri di cimiteri, inaccessibili. I morti senza una benedizione, orfani di un funerale. Ricordare è necessario. “Neppure un saluto ai morti. Le tombe sono gelide lastre di marmo, loculi inarrivabili. Estraniazione mortuaria. La civiltà finisce dove comincia la decadenza dei luoghi nei quali si preservava l’eterno. Oggi non possiamo dire addio più a nessuno. Né pregare”. Il pensiero, inevitabilmente, corre al passato, agli amori sbocciati e a quelli che non hanno vissuto che un momento, alle emozioni perdute che saranno ricordate per sempre. Nella lontana e sensuale Colombia. “A Cartagena de Indias mi sarei potuto innamorare. E mi resta nel cuore il sorriso di una ragazza al Camino Real. Le sue mani lunghe leggere ambrate. I suoi occhi luminosi, verdi, appena allungati. I capelli neri e lunghi che facevano da cornice ad un volto regolare dagli zigomi pronunciati. Mi accompagnò in una piccola libreria, quasi uno scantinato, dove trovai faticosamente tutti i libri di Nicolás Gómez Dávila. E mi chiese perché amassi quel colombiano che nessuno conosceva. Era bellissima, inarrivabile, intoccabile come un dipinto che non sfiori neppure se lo ami, Blanca”. E l’amore perduto diventa metafora di una vita in cui, come annota Ernst Jünger, “la felicità ci viene concessa solo fugacemente” e “viviamo in un mondo senza pace”. La bella Blanca dagli occhi ridenti leggeva, allora, ad un giovane studioso italiano, una pagina di Dàvila: “L’adolescenza ottiene senza desiderare; la giovinezza desidera e ottiene; la vecchiaia comincia desiderando senza ottenere e finisce desiderando desiderare”.
Linda Terziroli
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pangeanews · 4 years ago
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“Arrivo a una specie di estasi, di rapimento che mi porta lontano dal reale”. La conquista del K2, l’eroismo di Walter Bonatti
“Lino! Achille! Dove siete? Dove avete piantato la tenda?”. La voce forte, angosciata, di Walter Bonatti raggiunge Lacedelli e Compagnoni che non sembrano poi così lontani da lui, sono a portata di voce. “Seguite le piste!” è la loro risposta calma e rassicurante. Il campo è allestito molto in quota. Come fa Bonatti a raggiungere i due alpinisti prima che faccia buio? È il 31 luglio 1954, gli alpinisti italiani Compagnoni e Lacedelli conquistano il K2, la seconda montagna più alta del mondo, nella spedizione sostenuta dal CAI, Club Alpino Italiano e da CNR, Consiglio Nazionale delle Ricerche, guidata da Ardito Desio. Walter Bonatti ha 24 anni (era nato a Bergamo, il 22 giugno 1930) e consegna ai posteri una bruciante sconfitta, viene accusato di tentato tradimento e persino di sabotaggio. La sua versione dei fatti cancellata con un tratto di gomma, occultata, sepolta sotto la neve di quella ufficiale. Fu accusato di aver usato per sé l’ossigeno destinato ai due alpinisti. Ma che cosa si cela dietro quella contrastata vittoria della celebre coppia di alpinisti?
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Per ritrovare, in questi giorni, l’eroismo perduto, riprendo tra le mani K2 la verità storia di un caso (nell’edizione BUR) di Walter Bonatti insieme a La conquista del K2 seconda cima del mondo, di Ardito Desio (nella versione di Garzanti, edita nel 1954, una vecchia copia rilegata in cartone blu cobalto che ho sottratto alla libreria di mio padre). Il raffronto tra le due voci, fra i due mostri dell’alpinismo è interessante. La prosa ariosa e appassionata di Bonatti non teme confronti: Ardito Desio è geografico, controllato, gelido. Come il suo volto, il naso aquilino, lo sguardo fiero. Una noia per chi non scala montagne, come me. Forse si potrebbe spiare già dalla grana della prosa il temperamento dei due. Ma che cosa è successo davvero in vetta?
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Ecco la premessa alla spedizione (scrive Bonatti): “Dopo le vittorie himalayane dell’alpinismo francese, inglese, svizzero, tedesco e austriaco anche l’Italia finalmente si lanciava verso la conquista di un colosso della Terra: il K2, la seconda montagna del mondo con i suoi 8611 metri di altezza (da poco rettificati a 8616). Era l’estate 1954. L’assedio alla grande montagna del Karakorum durò due mesi, vissuti per la maggior parte in un clima di tensione, che se raggiunse il suo apice di drammaticità con la morte di uno di noi, Mario Puchoz, non si allentò neanche dopo, quando cominciò l’implacabile maltempo monsonico. Per me giunse poi, quale conclusione, il duro bivacco del 31 luglio a oltre 8100 metri di quota”.
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L’assalto alla vetta è invece l’ottavo capitolo del libro di Ardito Desio, una relazione scritta a quattro mani da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli che corrisponde, per molto tempo, alla versione ufficiale della spedizione. Una versione ferocemente confutata da Bonatti. Leggiamo. “Il giorno 30 luglio, partiti dal campo numero otto, a circa 7740 m, noi due salimmo a piantare il cosiddetto 9° campo: in realtà una leggerissima tendina. Fu un osso duro per un muro di ghiaccio che ci costò vari tentativi e poi una traversata su di una serie di placche insidiosissime. (…) Si cercò di portarci più in alto possibile, fin sotto la barriera di rocce che taglia l’ultimo tratto della parete est e rappresentava la più grave incognita”. Ma la vexata quaestio sta anche qui: si era stabilito che Abram, Bonatti e uno degli hunza avrebbero raggiunto i due alpinisti con le bombole d’ossigeno per l’attacco decisivo alla vetta. Ma dove si trova la tendina? Bonatti stranamente non la trova, segue faticosamente la fila di orme interrotte qua e là sopra il pendio. Sulle spalle Bonatti e il suo compagno sherpa portano sulle spalle diciannove chili di bombole piene di ossigeno, indispensabili per conquistare la vetta. Ma sull’episodio cala una fitta coltre di nebbia, di incomprensione. Ormai è calato il sole e inizia a fare freddo. “Mai come in questo momento avverto la forza del K2 e di tutto l’Himalaya che mi circonda. Da una ventina di giorni vivo nella zona della morte, ma soltanto adesso sento che l’incantesimo degli ottomila metri sta impadronendosi di me. Credo di aver paura – scrive Bonatti –, di sensazione in sensazione arrivo a una specie di estasi, di rapimento che mi porta lontano dal reale e da tutto ciò che è puramente fisico. Uno stato di coscienza mai provato prima d’ora”.
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Bonatti continua a chiamarli, il gelo si fa più intenso, pungente: “Lino! Achille! Dove siete? Rispondete!”. È distrutto sotto quel maledetto peso delle bombole d’ossigeno che potrebbe al contempo essere, in quel preciso momento, il miglior conforto. A quel preziosissimo elemento, così leggero eppure così pesante, all’ossigeno che schiaccia sulla schiena sta idealmente sospesa la spedizione, il suo eventuale esito felice. Mahdi, il compagno di Bonatti, grida ora come un ossesso. Le parole gli escono di bocca convulse. Si fa buio e, con la notte, il freddo diventa feroce, crudele. Poi, nella disperazione, improvvisamente il segno. Una voce. Una luce, nella notte del profondo silenzio. “Ed ecco, incredibile, nel profondo silenzio, sulla dorsale che finisce sotto la fascia rocciosa e poco più in quota rispetto a noi, si accende una luce. «Lino! Achille! Siamo qui! Perché soltanto ora vi fate vivi?» Con voce ben distinta e cruda Lacedelli si giustifica, con queste precise parole: «Non vorrai che stiamo fuori tutta la notte a gelare per te!». Non voglio prendere sul serio questa sua grezza uscita, uno dei primi effetti che produce la rarefazione dell’aria è lo stordimento e l’irascibilità. In fondo, penso, anch’io poco fa mi sono scagliato contro di loro insultandoli, maledicendoli e anche minacciandoli. «Avete l’ossigeno?» riprende la voce. «Sì!» rispondo. «Bene, lasciatelo lì e scendete subito!» «Non posso» obietto, «Mahdi non ce la fa!»”. Infatti lo sherpa iniziava a uscire di senno e, a tentoni, tentava di incamminarsi verso la luce della esile tenda.
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Invano Bonatti attende ancora la voce dei compagni. Nessuna risposta. “Come un marchio di fuoco sento che qualcosa di grave si sta imprimendo nel mio animo”. La sensazione nel cuore di Bonatti è quella di abbandono. Si trova tre caramelle in tasca. Ma i due, stremati, sono costretti a sputarle, non hanno più un filo di saliva in bocca. Sono costretti a un bivacco di fortuna, nel mezzo, nel cuore dell’ampio canalone, imprigionati, inghiottiti nella morsa del ghiaccio. Costeggiano le piaghe glaciali della morte. “Nelle valli si addensano sempre più compatte le nebbie, che inghiottono la montagna sino a un’altezza di oltre 7500 metri. È uno spettacolo grandioso. Tutte le cime più alte del Karakorum, che l’occhio riesce ad abbracciare, sembrano uscire d’incanto da un mare di latte. Proprio qui di fronte c’è la vetta dello Skyang-Kangri, a destra la mole del Broad Peak, e più lontano le cime dei Gasherbrum. Il K2 domina questi colossi, e io… sono proprio quassù”. Davanti a tanta bellezza, l’ombra della miseria umana, e dell’infamia si imprime nell’animo di Bonatti. Perché Lacedelli e Compagnoni non li aiutano? Non offrono loro riparo per la notte? Lo schiaffo di non ricevere l’aiuto si aggiunge alla terribile bufera di neve che si abbatte in quella tremenda notte, sul K2. Sopravvivere alla notte sugli ottomila significa lottare ognuno con le proprie forze. Con il proprio animo. Eppure riescono miracolosamente a vivere, a sopravvivere.
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Si fa giorno. Lo sherpa, ormai brancolante e allucinato, nonostante i diversi tentativi di Bonatti di dissuaderlo, decide di scendere verso l’ottavo campo. Le bombole dell’ossigeno rimangono lì, correlativo oggettivo della salvezza e della vittoria, abbandonate, lasciate lassù con un gesto estremo di fiducia e generosità. Per permettere al destino di un altro di compiersi. E quello stesso ossigeno sarà indispensabile per Lacedelli e Compagnoni per portare a termine l’impresa, per cingersi il capo dell’alloro ghiacciato della conquista italiana del K2. Ma qual è la loro verità? Leggo dal libro di Desio: “Ci raggiungeranno prima che venga buio? Purtroppo no. Il sole scende dietro la cresta del K2 e i tre compagni sono ancora parecchio indietro. Tra poco Abram scenderà da solo al campo 8°, Bonatti e Mahdi invece dovrebbero raggiungerci e passare la notte con noi. Ma quando calano le ombre, Bonatti e l’hunza Mahdi non sono ancora arrivati all’inizio della pericolosa traversata delle placche. E col buio avventurarsi per quelle rocce infami sarebbe una specie di suicidio. All’imbrunire sentiamo delle grida. Subito usciamo dalla tenda. Bonatti e Mahdi non si vedono perché l’aria si è già fatta scura. Ma ci arrivano le voci. Purtroppo il nostro è un dialogo estremamente incerto perché il vento disperde le parole. Lacedelli finalmente crede di aver capito: ha l’impressione che a chiamare sia Bonatti il quale dice di potersi arrangiare da solo; Mahdi invece vuole scendere. «Torna indietro,» gli gridiamo allora. «Torna indietro! Lascia i respiratori. Non venire più avanti.» Non ci passa neppure per la mente che i due possano pensare di passare la notte a quell’altezza senza una tenda né sacco da bivacco. Ma la voce di Bonatti adesso tace: evidentemente, noi pensiamo, se ne è già sceso a basso. Guai se al buio tentasse di raggiungerci. Sulle placche succederebbe di sicuro una disgrazia”. Di fronte alle accuse di Bonatti, addirittura Compagnoni sostiene: “forse stava meglio lui in una buca che noi in una tendina leggerissima”. Persino Buzzati aveva speso parole sulla conquista italiana del K2: “Da parecchi anni gli italiani non avevano avuto una notizia così bella. Perfino chi aveva dimenticato che cosa sia l’amor di patria, tutti noi al lieto annuncio, abbiamo sentito qualcosa a cui si era persa l’abitudine, una commozione, un palpito, una contentezza disinteressata e pura”.
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Finalmente una gloria italiana. Ma a quale prezzo? E con quale eroismo? La vetta del K2 viene espugnata alle 18 del 31 luglio 1954 e a lei sono legati per sempre i nomi di Lacedelli e Compagnoni che affermano di aver raggiunto 8617 metri, dagli 8400 in poi senza ossigeno. Eppure senza sbarazzarsi dell’ossigeno. Ma perché mentire? Perché Compagnoni e Lacedelli hanno celato, per tanti anni, la verità su quella terribile notte? La loro conquista sarebbe stata offuscata, meno autentica? Forse, semplicemente, più umana. Solo 54 anni dopo, il Cai ha riconosciuto la “scomoda verità” di Walter Bonatti. La tendina sottilissima era stata spostata “arbitrariamente” e la conquista del K2 è stata possibile solo grazie all’ossigeno portato da Bonatti, costretto a rischiare la vita dentro un gelido bivacco di fortuna. Ma quanto vale il risarcimento successivo a sanare la piaga di una schiacciante ingiustizia? Le montagne sono maestri muti che fanno discepoli silenziosi, diceva Goethe. Ma il silenzio che cela la menzogna si sgretola, si scioglie come neve al sole. Mentre il discepolo soccombe, nella sua miseria umana, di fronte alla grandezza del maestro.
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Le immagini di Compagnoni con la maschera dell’ossigeno è stata misteriosamente esclusa dalla documentazione ufficiale della spedizione di Ardito Desio. Ma si trova stampata, in bianco e nero, nel mezzo del libro di Bonatti. Cerco di guardarla con distacco, ma è impossibile non arrendersi all’evidenza. Perché hanno mentito? Ora che tutti gli alpinisti protagonisti della eroica spedizione non ci sono più, sono scomparsi per sempre (Lacedelli e Compagnoni curiosamente nello stesso anno, il 2009, Bonatti sopravvive fino al 2011) testimoni oculari, nelle loro contrastate (e confutate) versioni, resta l’avventura umana da decifrare. Forse è solo colpa dell’altezza. O è soltanto il destino di sopravvivere. E quello di rischiare di morire, in un bivacco sotto la tempesta di neve senza ossigeno. Con pesantissime bombole d’ossigeno da custodire, proteggere per donarle ad altri. Per permettere a un altro di sopravvivere, vincere la vetta, cingersi il capo d’alloro. Chi sarebbe disposto a questo eroismo, oggi?
Linda Terziroli
*In copertina: Walter Bonatti nel 1954, sul K2, ha 24 anni, il più giovane della spedizione italiana
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