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Al via la VII edizione di “Di là dal Fiume Arte e Lavoro fra incontri, readings, p... #alessandravanzi #ariannaninchi #corradociccarelli #dilàdalfiume #eliopagliarani https://agrpress.it/al-via-la-vii-edizione-di-di-la-dal-fiume/?feed_id=6571&_unique_id=66cfb9b7c2b5e
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Roma 1948-1959
Arte, cronaca e cultura dal neorealismo alla dolce vita
a cura di Maurizio Fagiolo dell’Arco, Claudia Terenzo
Skira, Milano 2002, 480 pagine, 17 x 25 cm., 300 ill. b/n e col, ISBN 978-8884913302
euro 40,00
email if you want to buy :[email protected]
Catalogo mostra Roma, Palazzo delle Esposizioni, 30 gennaio - 8 luglio 2002
La società : storia e cronaca Arti visive Architettura, design e decorazione Teatro e cinema Musica e letteratura RAI, sport e moda
Arte, cronaca e cultura a Roma negli anni 1948-1959, quel fervido decennio che va dalla ricostruzione degli anni del dopoguerra alla vigilia del boom economico. Il volume ripercorre un decennio che vede l'arte come innovazione, e Roma, in particolare, come vitalissimo luogo di incontri e di scontri culturali, a livello internazionale.
30/10/22
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#Roma 1948-1959#art exhibition catalogue#Palazzo Esposizioni Roma 2002#neorealismo#dolce vita#Renato Guttuso#teatro e cinema#arti visive#Architettura e design#Musica#RAI#sport e moda#fashionbooksmilano
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...difficile commentare un libro come questo che racconta una realtà così dura...va letto per conoscere un pezzo di Italia solitamente ignorato...Una vita violenta è il neorealismo in letteratura. Una lettura bellissima, coinvolgente, profondamente vera...L'amore di Pasolini per le classi più basse, per chi non ha nulla da perdere, per i ragazzi di strada che vivono di violenza e piccoli soprusi, dimenticati dall'alto. C'è tutto questo ma anche tanto altro. Una ricerca linguistica attentissima, una storia d'amore appassionata, una serie di personaggi strepitosi ma anche la normalità del quotidiano, gli scontri politici del dopoguerra...Potrebbe sembrare un banale romanzo di denuncia sociale, ma così non è...alla denuncia si affianca il romanzo...bello da leggere per la drammaticità presente in ogni riga e da assimilare come pezzo di una letteratura importante di un’Italia che, allora, in pieno boom economico sapeva riflettere, e denunciare, sui suoi mali e le sue debolezze...#instabook #igersravenna #ig_books #libri #instaravenna #consiglidilettura #bookstagram #booklovers #domenicaaperto #narrativa #booktubers #pierpaolopasolini (presso Libreria ScattiSparsi Ravenna) https://www.instagram.com/p/CfGFTsIoLb7/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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Milano indaga
Si è appena conclusa l’iniziativa Milano in giallo e noi vogliamo tracciare una sintetica panoramica degli autori più noti. “Milano come Chicago“: titolava così il 29 novembre 1976 la prima pagina de «La Notte», storico giornale milanese poi chiuso negli anni Novanta. Ecco spiegata la moltiplicazione di libri (e film) gialli e, di conseguenza, di ispettori, detective, commissari che hanno popolato e tuttora investigano nella nostra città.
In realtà la ‘predisposizione’ di Milano ad essere terreno fertile per indagini criminali risale più indietro nel tempo, a quello che è considerato il padre di questo genere letterario, Augusto de Angelis: noto antifascista e giallista in un’epoca in cui il Minculpop aveva disposto il sequestro “di tutti i romanzi gialli in qualunque tempo stampati e ovunque esistenti in vendita”, innamorato di una donna ebrea, incarcerato e poi picchiato da un fascista: morì in seguito alle ferite riportate a soli 56 anni. Il suo eroe, il commissario De Vincenzi, egregiamente interpretato da Paolo Stoppa in una serie di sceneggiati Rai, opera prevalentemente nella nostra città.
Forse anche l’atmosfera, soprattutto invernale, fatta di nebbia e cieli plumbei, ha favorito lo sviluppo di questo tipo di letteratura: un misterioso delitto nella caligine notturna di Palestro apre le pagine di Motivo d’allarme di Eric Ambler, ambientato durante gli anni del ventennio.
Al dopoguerra si ispira Dario Crapanzano: “Mario Arrigoni, capocomissario di Porta Venezia (che è come dire arcimilanese, meneghino al quadrato), si muove in una Milano impegnata a ricostruire ma non ancora toccata dalla febbre dal boom, dove insieme a fabbriche e uffici riaprono anche i teatri, come il Piccolo di Strehler; dove le auto sono poche e ci si sposta in tramvai, tutt’al più in Vespa; dove brunch e happy hour non sono stati ancora inventati e al massimo nelle fumose osterie si può mangiare un panino, anzi, un ‘sanguis’, traslitterazione milanese della parola sandwich”.
Dal dopoguerra la città si è ingrandita a dismisura, la periferia “ha fagocitato cascine, campi coltivati e borghi storici, e si è ritrovata, senza rendersene conto, una metropoli” (così scrive Michele Turazzi nell’utile volumetto Milano di carta). Sono gli anni del boom economico “di una società approdata al consumismo senza aver davvero capito di essere uscita dalla povertà”, e l’equazione ricchezza = criminalità dà i suoi risultati nella cronaca nera come nelle pagine dei romanzi gialli. Dalla vecchia ligera locale “malavita estrosa e un po’ scalcagnata” che quasi mai uccideva (quella cantata da Jannacci e Gaber, per intenderci) si passa alla delinquenza efferata con cui si trova a combattere l’investigatore Duca Lamberti (protagonista anche di alcuni film) creato dalla veloce penna di Giorgio Scerbanenco. Sono gli anni della famigerata ‘banda Cavallero’ (che ha ispirato il film di Lizzani Banditi a Milano, con Gian Maria Volonté), di Francis Turatello e di Vallanzasca.
La mala degli anni ’60-70 è descritta da Paolo Roversi in Milano criminale, prequel di Solo il tempo di morire, ambientato tra il 1972 e il 1984, ancora prima della cosiddetta ‘Milano da bere’.
Al 1978 risale il l’esordio di Renato Olivieri. Ecco come Andrea Camilleri (nella prefazione di Il romanzo poliziesco di Yves Reuter) descrive il suo eroe: “Il commissario Giulio Ambrosio, innamorato stendhalianamente della sua Milano, è un uomo colto, dalle abitudini borghesi, sostanzialmente malinconico”. Ricordiamo anche il bellissimo film I giorni del commissario Ambrosio con Ugo Tognazzi.
“Ma l’eredità maggiore di Scerbanenco si ritrova in tutti quei commissari, vicequestori e detective improvvisati che hanno invaso gli scaffali delle librerie nell’ultimo mezzo secolo, rendendo Milano la città d’elezione per le indagini letterarie nel nostro Paese. Questi investigatori agiscono ovunque, in qualsiasi quartiere di una città che, dal punto di vista del crimine, non conosce pace”.
È la Milano degli anni Ottanta quella di Piero Colaprico, il giornalista che ha coniato il termine ‘tangentopoli’ (la sua esperienza in tema di criminalità milanese gli ha dettato il saggio di recente pubblicazione Manager calibro 9), nonché padre, insieme a Pietro Valpreda, del maresciallo Binda “un investigatore che si inserisce perfettamente nella tradizione del giallo. Classico per la meticolosità dei suoi ragionamenti, moderno per la sua abilità nel districarsi nei vari strati sociali di una Milano colma di divergenze, Binda risulta un personaggio con il quale non si può non simpatizzare. Padre e marito modello, imperturbabile, ma con un profondo lato malinconico, quasi dark, che bilancia una certa dose di sana ironia. Un anziano ex carabiniere che vive una seconda giovinezza proprio grazie all’attività di investigatore privato”.
Si tratta di un vero proliferare (cui si può offrire solo un rapido cenno), che non sembra attenuarsi, forse perché la narrativa è più vera e accattivante se agganciata al territorio, e la Milano buia, nebbiosa, tentacolare, sovrappopolata ben si presta ad un immaginario di tipo poliziesco.
I più recenti: Il mistero di Chinatown di Mario Mazzanti, la prima indagine dell’anatomopatologo Tommy Davis e dell’amico Gualtiero Abisso; La disciplina di Penelope di Gianrico Carofiglio: “La protagonista, brillante magistrato dei tempi che furono, è impegnata in un’investigazione tra le vie di Milano, avvolta nei ricordi e in un intrico da svelare”; a proposito di nebbia, è appena uscito Una giornata di nebbia a Milano di Enrico Vanzina: “È una giornata di nebbia a Milano, una di quelle che sembravano non esistere più, come se fosse uscita da un romanzo di un altro tempo, da una ballata di giorni lontani. Luca Restelli sta andando al giornale per cui lavora, per le pagine di cultura, quelle che non considera nessuno. Non ha ancora quarant’anni, ma anche i suoi gusti sono ‘passati’, come la nebbia di quella mattina: vive di riferimenti letterari e cinematografici, tra insicurezze e un po’ di superbo disprezzo per il mondo indolente e arrivista che lo circonda. All’improvviso arriva una notizia, un omicidio in Corso Vercelli, un uomo è stato ucciso con un colpo di pistola, è stata arrestata una donna. Restelli si propone, la cronaca nera gli è sempre piaciuta. Dopo aver raccontato la città eterna, Vanzina racconta l’altra capitale italiana. Il risultato è un giallo straordinario, elegante, irriverente, geniale e inaspettato”; Nella luce di un’alba più fredda di Hans Tuzzi: nuove indagini per il commissario Norberto Melis; Un colpo al cuore di Piergiorgio Pulixi, ambientato tra la Sardegna e Milano è la storia di “un serial killer che ha deciso di riparare i torti del sistema giudiziario”; e poi le indagini del commissario Caronte di Alessandro Reali.
Ambientato sempre a Milano (ma questa volta in estate!) l’ultimo bestseller di Alessandro Robecchi, Flora, di cui abbiamo già parlato: “Storia di un Pigmalione ai tempi della televisione che cerca di convertire la sua pupilla e le masse al culto della poesia, tramite il toccante esempio del surrealista Robert Desnos. Storia di un rapimento sui generis in cui il lettore è dalla parte dei malviventi, e ben presto lo sarà anche la vittima. Scritto in piena pandemia, ne riporta qualche velata eco”.
Addirittura una magliaia è stata promossa all’invidiabile ruolo di investigatrice: si tratta di Delia, la protagonista dei gialli di Mauro Biagini.
Come dice Turazzi, “la lista è quasi inesauribile”. Per la fortuna di noi appassionati lettori, ci viene da aggiungere...
#milanoingiallo#augusto de angelis#paolo stoppa#Gian Maria Volonté#carlo lizzani#dario crapanzano#scerbanenco#michele turazzi#piero colaprico#pietro valpreda#mario mazzanti#Gianrico Carofiglio#enrico vanzina#hans tuzzi#piergiorgio pulixi#alessandro robecchi#mauro biagini
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Viaggio alle radici del folkhorror italiano in occasione dell’uscita di A Classic Horror Story
L’estate è, tradizionalmente, un periodo fatto di sole, bagni al mare (o escursioni in montagna), giochi all’aria aperta. Ma è anche una stagione particolarmente fertile per tutto ciò che ha a che fare con l’orrore, declinato in mille modi e maniere differenti, accomunati, chiaramente, dalla sensazione di una paura più opprimente della proverbiale canicola estiva.
Ed è proprio in piena estate che, su Netflix, arriva A Classic Horror Story, il “film di paura” di Roberto De Feo e Paolo Strippoli. Se avete visto il full trailer approdato online qualche settimana fa, avrete probabilmente notato che vengono citate in maniera diretta, esplicita, tre figure folkloriche collegate alla nascita della ‘ndrangheta e della malavita più in generale: Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Figure magari conosciute da chi ha una certa dimestichezza con certi luoghi, con certe “fole esoteriche di campagna”, per citare Pupi Avati, ma ignorate dai più. Quegli stessi “più” che, invece, potrebbero conoscere altre storie crepuscolari, notturne che non hanno nulla a che vedere con Osso, Mastrosso e Carcagnosso, e che, proprio come la storia dei fondatori delle società criminali italiane, hanno radici profonde, che scavano in un terreno, quello dello stivale, il cui humus è formato dalla putrescente decomposizione di popolazioni le cui tradizioni, dall’epoca pre-romana in poi, sono più o meno trasversalmente arrivate anche ai giorni nostri.
Nonostante l’Impero romano e la sua caduta. Nonostante il Vaticano. Nonostante il realismo marxista.
Ne abbiamo discusso a lungo insieme a Fabio Camiletti, marchigiano come il sottoscritto, professore associato di letteratura italiana presso l’Università di Warwick in Inghilterra. Camilletti, che ha già all’attivo svariate pubblicazioni sull’argomento, è da poco tornato nelle librerie – virtuali e non – con “Almanacco dell’orrore popolare. Folk Horror e immaginario italiano”, realizzato insieme a Fabrizio Foni. La prima parte di questa articolata chiacchierata è tutta dedicata al concetto stesso di folkhorror e al rapporto che, nello stivale, c’è con esso. Un qualcosa che sembra essere costantemente, ciclicamente rimosso e riscoperto in Italia, dove la relazione con questo vissuto che – volenti o nolenti – fa parte del nostro DNA, ha avuto una storia differente da quella riscontrabile nei paesi di lingua inglese, Inghilterra in primis. La seconda parte sarà invece un vero e proprio viaggio, da Nord a Sud, in quattro storie di folklore horror che potrebbero essere perfette per un film. Così come quella di Osso, Mastrosso e Carcagnosso si è rivelata particolarmente adatta per A Classic Horror Story per ragioni che non staremo qua a spoilerarvi.
Come nasce il tuo interesse verso il folklore italiano a tinte horror? Quali sono le ispirazioni del tuo nuovo Almanacco?
Nel libro si parla esplicitamente del folk horror che, da qualche anno, è un’etichetta ricorrente con una certa frequenza, perlomeno da una decina d’anni da quando Mark Gatiss l’ha usato come termine. Anche se, in realtà, esisteva già e veniva usato negli anni ’80 e negli anni ’70 per indicare una corrente di produzione cinematografica come ad esempio The Wicker Man di Robin Hardy e tutto ciò che aveva a che fare con una produzione di storie esterne al contesto delle città. Da lì è nata la voglia di indagare questo fenomeno in Italia dove comunque esistevano definizioni come quella di gotico pagano impiegata da Pupi Avati o gotico rurale impiegata da Eraldo Bandini. Da qui, insieme all’altro curatore del libro, Fabrizio Foni, abbiamo deciso di optare per una forma, quella dell’Almanacco, che richiamasse anche quella classica degli Almanacchi Bonelli di primi anni novanta, fine anni ottanta, quella forma miscellanea molto libera nell’inserimento dei temi e degli autori. Dall’altro c’era la volontà di giocare con quell’ambiguità che il termine popolare consente in italiano al contrario di quello che avviene in inglese, dove i concetti di “pop” e “folk” sono distinti in maniera netta. In Inghilterra viene naturale accostare la parola “pop” a un contesto urbano – l’etimologia stessa è latina no? “populus” – una cultura calata dall’alto per un pubblico urbano, di cittadini, mentre invece “folk” è un termine d’origine germanica che richiama da subito gli spazi extra-urbani dove l’influenza di Roma – o della Chiesa – non arriva e permangono forme estranee alla città. In Italia è tutto un po’ diverso: basti pensare al rapporto fra città e contado, siamo entrambi marchigiani, pensa al modello della Mezzadria che ha stimolato una osmosi fra il dentro e il fuori. In italiano il rapporto fra il concetto di “pop” e di “folk” è più sfumato e abbiamo deciso di sfruttarlo come una ricchezza. Per quanto riguarda l’interesse personale c’è, chiaramente, quello accademico, però si tratta di un qualcosa che è arrivato dopo, negli anni dell’Università, ma era un territorio, quello del folklore horror, che avevo già iniziato a percorrere perché ho avuto la fortuna di appartenere a quella generazione che ha visto l’ultima fiammata dei fumetti italiani horror splatter, la generazione della Dylan Dog Horror Fest, forse l’ultima generazione che ha conosciuto un certo tipo di libertà creativa di un mondo editoriale che poi è un po’ esploso su sé stesso.
Anche io, nonostante una conoscenza di massima di quelle che potevano essere o non essere le storie del folklore marchigiano, ricordo di aver scoperto molta aneddotica collegata all’orrore popolare italiano grazie gli Almanacchi Bonelli. La prima volta che ho letto del Parco dei Mostri di Bomarzo, la prima volta che ho appreso della sua esistenza è stato proprio tramite un Almanacco di Dylan Dog in anni in cui nessuno lo conosceva e le statue stesse neanche erano posizionate come nel percorso attuale. Adesso se “sbagli il giorno” in cui andare a Bomarzo trovi più fila che a Gardaland. Comunque, rispetto ad esempio al mondo anglosassone – andando in luoghi del Regno Unito puoi quasi toccare con mano l’intima connessione fra la dimensione fantastica del folklore e la geografia stessa dei posti che visiti – quali sono le peculiarità del nostro folk?
Chiaramente in Gran Bretagna c’è stata una vera e propria industria culturale da questo punto di vista. Fin dal dal XIX secolo c’è stata una notevole insistenza su certi temi che sono stati sdoganati anche a livello culturale. C’è stata una riflessione a 360° da parte dei folkloristi, degli scrittori “del mondo della cultura” che ha lasciato tracce molto forti nell’iconografia. Inizialmente, se pensi anche al romanzo gotico non esisteva neanche un’equazione che accostava necessariamente le isole britanniche a quel genere di storie, tanto che, se ci rifletti, Ann Radcliffe e Horace Walpole hanno ambientato le loro opere in Italia o, in generale, nell’Europa del Sud. È stata un’operazione culturale sul lungo termine che ha poi creato questa identità fra certi temi e certi luoghi d’Inghilterra. In Italia è stato tutto un po’ diverso: gli stessi studi di folklore e sul folklore nel corso del XIX secolo, anche sulla base di quelli inglesi, hanno preso una piega molto più storicistica. Non dobbiamo dimenticare il problema dell’unità nazionale e quelle che sono delle componenti ideologiche diverse: autonomismo versus centralismo, il filofrancesismo che tendeva a sopprimere le identità locali in funzione del razionalismo costruito sostanzialmente da zero. Ci sono spesso stati dei problemi di carattere politico e, indirettamente, anche culturale che hanno fatto sì che questi lavori producessero degli influssi più che altro sotterranei e meno visibile rispetto ad altri contesti. L’effetto di ciò – che mi hai confermato anche tu citando Bomarzo – è che si è creata questa narrazione per cui comunque esiste questa che io chiamo “Italia lunare”, seguendo un’intuizione di Ornella Volta enunciata in un articolo del 1971, che è come una specie di mondo “diverso” che soggiace all’Italia ai suoi miti più visibili, quell’Italia che scopriamo sbagliando l’uscita del casello autostradale trovandoci in un angolo impensato, quell’Italia che scopriamo da guide un tempo meno diffuse di oggi e decisamente più eretiche, quell’Italia che scopriamo svoltando un angolo senza saperlo. L’Italia di Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci in cui la morte della Maciara di Florinda Bolkan avviene a pochi metri dall’autostrada attraversata dalle macchine dei vacanzieri, che vanno al Sud da cartolina propagandato dai media dell’Italia del boom economico ignorando che, a pochi metri, esiste un’altra realtà, periferica e lunare, che mette in crisi proprio quel modello.
È una mia impressione o c’era davvero un maggiore distacco quasi razionale da queste tematiche in Italia rispetto alla già citata Inghilterra?
Attenzione però. Non a caso di ho parlato di narrazione, una narrazione diversa. Una narrazione qualitativa, più che quantitativa. Sono sempre molto diffidente verso chi dice che in Italia di queste cose non si parla e non vengono considerate dall’establishment culturale però poi, andando a scavare, troviamo che già gli scapigliati parlavano di certi temi e che esistevano alcune tradizioni ben precise. Ecco, io ritengo che il problema risieda nell’avversativa: è solo un modo diverso di raccontarle, ma in realtà è sempre presente, solo che noi è come se avessimo la necessità ricorrente di dirci che la stiamo riscoprendo. Ed è una cosa che avviene ciclicamente. Pensa ai reportage alla ricerca dell’Italia Misteriosa che – anno dopo anno – continuano a comparire. Pitigrilli, alla fine degli anni cinquanta, pubblicava “Gusto per il mistero”, poi c’è Dino Buzzati che lo fa nel 1965 con I misteri d’Italia, poi nel 1966 tocca alla Guida all’Italia leggendaria misteriosa insolita fantastica, negli anni settanta tocca alle inchieste di Gente, a Leo Talamonti con Gente di Frontiera, negli anni ottanta arriva un ‘inchiesta dell’allora nota come Fininvest, poi gli Almanacchi… Insomma, non è che le cose non ci sono è che, ciclicamente, bisogna dire “sembrerebbe che non ci sono, però in realtà ci sono”. Sai, basta avere un’infarinatura di Freud per capire che anche questo discorso qui nasconde qualcosa: la gioia del riscoprire quello che si sa esserci già. Anche questo è un meccanismo che dà piacere e c’è un ciclico riscoprire che l’Italia non è solo il paese del realismo più o meno neo.
Vero, però sai, parlando del settore dell’intrattenimento, una certa ritrosia si avverte, tanto che quando qualcuno si dedica a storie del genere, in cui sicuramente rientra anche A Classic Horror Story, c’è sempre uno stupore di fondo. Questa ritrosia può essere collegata alla presenza forte dell’elemento cattolico, dello Stato Vaticano e – di converso – alla forte componente di razionalismo marxista, queste due forze opposte che sono finite per avere questo effetto comune?
Sicuramente queste forze hanno avuto un loro peso nel far sì che, ad esempio, un certo tipo d’industria dell’intrattenimento venisse marginalizzata. Ma non dimentichiamo che ci sono stati anni in cui Dylan Dog piazzava 600k copie al mese, o un decennio in cui il cinema italiano era al top per il thriller parapsicologico e l’horror puro. Al netto di tutto ciò, il ruolo della Chiesa cattolica da un lato e del marxismo dall’altro, senza dimenticare il ventennio fascista e il lungo lascito dell’idealismo crociano e gentiliano, sono stati tutti agenti che, in un certo senso, hanno contribuito a una marginalizzazione che, comunque, ha avuto come effetto quello di una corporativizzazione. E ci ritroviamo con un pensatore come Ernesto de Martino che, partendo da premesse strettamente crociane, le mescola con l’interesse per lo spiritismo maturato nella sua giovinezza e in due libri come Il Mondo Magico e Morte e pianto rituale nel mondo antico riesce a fare qualcosa con il folklore e la ricerca parapsicologica che non ha precedenti, neanche in altri contesti compreso quello angloamericano. Per quel che riguarda il comunismo c’è un bellissimo libro di Francesco Dimitri di circa una ventina di anni fa intitolato Il comunismo magico in cui parla sia dei paesi del comunismo reale che in quelli influenzati da esso, dalla sua onda lunga, di come anche il materialismo dialettico e storico sia infestato da fantasmi di vario genere e abbia prodotto i suoi frutti impuri, magari irriconoscibili secondo le categorie del gotico ottocentesco, ma comunque esistenti. Anche autori del “gotico italiano” come Dario Argento, Lucio Fulci, che si dichiarava esplicitamente comunista, Gianfranco Manfredi che militava nella sinistra extra parlamentare, gente che arriva all’horror non “nonostante” la militanza politica, ma attraverso di essa. Il discorso cattolico, specie poi in zone come le Marche che sono appartenute allo Stato Pontificio, ha contribuito a far sì che si sviluppasse una ritrosia per un certo tipo di realtà, quell’incredulità che aumenta quanto più ti avvicini al cuore stesso del potere Vaticano. Però, al tempo stesso, molto del folklore più autenticamente perturbante in Italia non è che lo si trova tanto nelle credenze relative a fantasmi e case infestate e compagnia bella, ma lo troviamo nelle narrazioni dei ritorni dal Purgatorio, che è una cosa su cui la Chiesa stessa non picchia più dopo il Concilio Vaticano II ma per le generazioni dei nostri nonni, e forse anche dei nostri genitori, i resoconti sulle anime del purgatorio facevano parte del pane quotidiano quando si andava al catechismo. O delle apparizioni del diavolo. Quelle sono le nostre storie di fantasmi. In Italia le cose come queste devi cercarle in contesti diversi. Nelle storie del catechismo, nei prontuari dei predicatori, ma anche nell’editoria maggiore senza che queste robe venissero in qualche modo segnalate in copertina con la scritta “romanzo gotico o di fantasmi”, ma in realtà quello erano. Penso a certe opere di Mario Soldati, o anche a un romanzo come Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani che si legge tranquillamente al ginnasio. Sembra una storia sulla guerra e le leggi razziali ma propone una delle descrizioni più efficaci di una seduta fatta con la tavoletta Ouija che ci siano nella letteratura italiana. Una seduta spiritica sta al centro del Fu Mattia Pascal di Pirandello. Nella Coscienza di Zeno. Nel Giornalino di Gianburrasca.
Però appunto, e parlo da amante di questi argomenti da sempre, nelle mie memorie di studente del classico, ricordo bene lo stupore provato nel leggere certe cose nelle opere di autori da cui non me le sarei mai e poi mai aspettate. Non ero mentalmente preparato come quando leggevo le opere di un Conan Doyle, che sapevo essere uno spiritista.
Sì, ed è più efficace, no?
Assolutamente sì.
Perché poi se pensi alle convenzioni del genere, anche alle stesse copertine, all’apparato editoriale che dovrebbe prepararti quando ti avvicini a un opera… E invece quando leggi Il fu Mattia Pascal niente ti prepara a quello. Soprattutto niente ti prepara alla presa di coscienza che, a un certo punto in quella seduta che viene comunque descritta con tutti i toni farseschi e ironici del caso, che quasi si fa beffa dello spiritismo, però a un certo punto qualcosa succede. E quel qualcosa resta senza spiegazione.
La sinossi ufficiale di A Classic Horror Story:
Cinque carpooler viaggiano a bordo di un camper per raggiungere una destinazione comune. Cala la notte e per evitare la carcassa di un animale si schiantano contro un albero. Quando riprendono i sensi si ritrovano in mezzo al nulla. La strada che stavano percorrendo è scomparsa; ora c’è solo un bosco fitto e impenetrabile e una casa di legno in mezzo ad una radura. Scopriranno presto che è la dimora di un culto innominabile. Come sono arrivati lì? Cosa è successo veramente dopo l’incidente? Chi sono le creature mascherate raffigurate sui dipinti nella casa? Potranno fidarsi l’uno dell’altro per cercare di uscire dall’incubo in cui sono rimasti intrappolati?
Girato in Puglia e a Roma e prodotto da Colorado film, A Classic Horror Story è “una classica storia dell’orrore”, come suggerisce il titolo: un omaggio alla tradizione di genere italiana che, partendo da riferimenti classici, arriva a creare qualcosa di completamente nuovo.
A Classic Horror Story è diretto da Roberto De Feo e Paolo Strippoli e uscirà su Netflix il 14 luglio.
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Il dopovirus non sarà migliore di Enrico Fierro E ora, come se non bastassero virus e pandemia, ci tocca sorbirci anche la retorica del dopo. Che, ovviamente, sarà bello e lucente. Qualcuno azzarda paragoni col dopoguerra italiano. Cambieremo, tutto cambierà, giurano gli ottimisti. Non è così, perché cosa e come saremo dopo lo stiamo decidendo già oggi, nei giorni terribili della pandemia e del fermo quasi totale del Paese. In ogni guerra, e in ogni grande emergenza nazionale c’è chi muore e chi sopravvive, chi si arricchisce e chi vede precipitare la propria condizione sociale. Ci sono i generosi e i pavidi, gli altruisti e gli egoisti. Chi pensa che l’importante sia salvarsi da soli e chi invece lavora per la salvezza di tutti. E’ già così. Siamo già divisi. Le catastrofi non cambiano gli uomini. Li peggiorano. Lo state vedendo, scorrete i social, ascoltate la pessima tv di questi giorni (ovviamente ho ben presenti le poche eccezioni), seguite la politica: ognuno si sta mostrando per quello che è. Ognuno, dal cittadino comune proprietario solo del suo voto, a quei personaggi che per mestiere e funzione orientano la società. Politici e non solo, intellettuali dei clic, opinionisti, artisti. Insomma, l’insieme della classe dirigente del Paese. Il quadro è desolante, basta guardare la tv, leggere editoriali, analizzare atteggiamenti, assistere alla pochezza (anche qui con qualche rarissima eccezione) del pensiero proposto. Politici e starlette che recitano rosari in prima serata, gente che da comodi attici soffia sul fuoco del disagio sociale, virologi del sabato sera, antieuropeisti un tanto al chilo e europeisti a tutti i costi. Il risultato è sconfortante e ci porta a dire che il paragone con un altro dopo, gli anni che seguirono la tragedia della Seconda guerra mondiale, è totalmente fuori luogo. Prendiamo l’imprenditoria italiana, dopo la guerra avevamo Enrico Mattei e Adriano Olivetti, oggi Briatore, e Urbano Cairo, padrone de La7 e del Corriere, che balla sulle macerie pensando ai soldi che sta facendo e che farà. Il dopoguerra e il boom vengono descritti come l’età dell’oro. (...) Il Miracolo (italiano) fu anche repressione violenta. Ai braccianti di Melissa che chiedevano pane e lavoro, rispose la Celere di Scelba lasciando sul terreno Francesco Nigro, di 29 anni, Giovanni Zito, di 15 anni, e Angelina Mauro, di 23 anni, e 15 feriti colpiti alle spalle. La polizia uccise anche diversi animali, come forma di ritorsione nei confronti dei manifestanti. Il boom economico fu rosso di sangue popolare. Furono anni terribili ma anche anni di risveglio civile e culturale. Il cinema, la letteratura, la musica, anche quella leggera, accompagnarono e agevolarono i cambiamenti. E oggi vi sembra che all’orizzonte appaia qualcuno, un Vittorio De Sica, dei Pavese, Vittorini, Fenoglio, in grado di indicarci la strada, o, almeno, di raccontarci? Non c’è. Non se ne vede l’ombra. E allora il destino è nelle mani nostre. Dobbiamo cambiare noi. Imparare a distinguere. Ragionare e buttare nel cesso i cialtroni (in politica, nella cultura, nel mondo dell’informazione). Usare il telecomando come un bastone smettendola di arricchire con i nostri “mi piace” e anche con la nostra indignazione, chi vive di clic, di indici di ascolto, di consensi raccattati puntando sempre al ribasso.
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Pastorale americana – Philip Roth
Un rapido esame del mio scaffale “americano” rivelerà un’ampia gamma di titoli che vanno dalla narrativa popolare di Stephen King al post modernismo di Nabokov, eppure nessuno di questi romanzi mi sembra così americano quanto “Pastorale americana”. Dimenticatevi tutti quei grandi romanzi americani che piombano su qualche “grande problema americano” come la Grande Depressione, il razzismo, la schiavitù, l’uccisione brutale e spietata dei nativi tra gli USA e il Messico. Dimenticatevi certi nomi illustri come “Il buio oltre la siepe” (di cui trovate una mia recensione qui), il “Grande Gasby” (ancora qui) e le altre opere che pare costituiscano la base della letteratura americana “classica”. Anche se questi romanzi si concentrano su particolari punti di svolta della storia americana o su aspetti socioculturali rilevanti alla base della loro identità nazionale, non riescono a convogliare lo spirito americano come questa creazione di Philip Roth. Le mie analisi sull’americanità di qualsiasi romanzo sono a dir poco discutibili, sicuramente, visto che internet e i romanzi non possono soppiantare l’esperienza di respirare veramente l’aria americana. Ma lascerò che Roth parli per me:
Non c’era nulla d’inerte intorno a noi. Sacrifici e restrizioni erano finiti. La Crisi era passata. Tutto era in movimento. Avevano tolto il coperchio. Gli americani dovevano ricominciare, in massa, tutti insieme.
Se questo non era abbastanza stimolante (la miracolosa conclusione di questo straordinario avvenimento, l’orologio della storia regolato e le mire di un intero popolo non più limitate dal passato), c’era il quartiere, la volontà comune che noi, i figli, scampassimo alla miseria, all’ignoranza, alle malattie, all’oppressione e all’intimidazione sociale; che scampassimo, soprattutto, alla mediocrità
“Pastorale americana” si immerge negli abissi del cuore e nell’anima dell’America e analizza il suo multiculturalismo curioso, il suo amor proprio sfrenato e l’odio verso di sé male indirizzato. E parlando di “abissi”, tenete presente che va davvero molto in profondità, sondando territori ignoti come le complicazioni all’origine di ogni relazione umana che siano tra marito e moglie o tra un padre e una figlia che provano un amore l’uno per l’altro leggermente ossessivo, quasi incestuoso. Da una parte racconta una serie di avvenimenti tragici che portano alla lenta disgregazione del mondo interiore di un ricco imprenditore ebreo mentre dall’altra si muove rapidamente avanti e indietro tra le varie questioni americane, dal boom economico del dopoguerra alla rivolta di Newark del ’67 alle violente proteste contro la guerra del Vietnam che sfociano nell’attività terroristica, tessendo in tal modo una rete intricata che simbolizza la trama dei conflitti interni dell’America. È come se il protagonista si crogioli nel proprio essere americano e nel suo disprezzo impassibile di tutto ciò che viene considerato fuori dalla sfera d’influenza americana. Ma la cosa sorprendente è che, nonostante il tono egocentrico della voce narrante e la sua palese indifferenza per tutto ciò che non è americano, niente di tutto questo sembra offensiva. Al contrario, quando tutto viene messo insieme, appare come una derisione del narcisismo americano. Ogni frase, ogni flusso di coscienza, ogni conversazione che Roth ha faticosamente elaborato per realizzare questo capolavoro è pregno di implicazioni sottintese. A tal punto che per tirare fuori ogni goccia di significato da un passaggio o da una lunga conversazione, uno studente di letteratura che si troverebbe a leggerlo “per casa” potrebbe dover esaminare ogni pagina per ore. Questo, tuttavia, non significa che sia difficile da capire, non lo è per niente. È semplicemente un romanzo che richiede una tremenda quantità di pazienza e uno sforzo da parte del lettore di rimuovere tutti gli strati di confusione.
Ho letto di persone che criticavano Roth per aver descritto gli ebrei in maniera denigratoria ma non sono d’accordo. Semmai il romanzo puzza di anti eroismo e guarda dall’alto in basso l’idea degli americani bianchi e ricchi della felicità familiare, benessere materiale e il loro desiderio di una reputazione immacolata esente da ogni macchia incriminante. Roth calpesta l’idea del culto dell’eroe e ci salta sopra finché non è più riconoscibile. Mi permetto anche di dissentire sul tema dell’infamia diffusa di Roth come misogino. Uno scrittore così in grado di improvvisare personaggi femminili tanto elaborati come quelli descritti qui non può essere accusato di nutrire un forte odio verso le donne. Certo, c’è una spolverata di frasi sessiste che si notano appena ma sospetto siano scritte al fine di definire il punto di vista di un certo personaggio piuttosto che semplicemente per sprezzante indifferenza (o forse devo leggere altri romanzi di Roth prima di giudicare). Alcune scene sessuali sono inquietanti al punto da essere leggermente scandalosi, ma nessuna di loro sminuisce le donne in quanto tali. E sarà poco giusto accusare Roth di volgarità sessuale quando le scrittrici attuali di romanzi erotici possono essere accusate di cose ben peggiori (stupro, fantasie su stalker?).
Per concludere, è un romanzo difficile da recensire poiché resiste ostinatamente alla decostruzione. Ma è stato ben scritto con lunghe frasi interminabili che sono un piacere da assaporate se apprezzate le acrobazie linguistiche. Roth divaga un sacco e si lascia spesso fuorviare, come un vecchio ai primi segni di demenza, snervando il lettore con i suoi bruschi salti da un argomento all’altro quasi fosse un flusso di coscienza e il suo debole per dettagli incredibilmente noiosi come l’arte del realizzare guanti. Ma alla fine, quando esprime la sua posizione non puoi fare a meno di meravigliarti della sua capacità di dedurre accuratamente i secondi fini che si muovono dietro quest’azione apparentemente insignificante. Per quanto il suo stile possa sembrare schizzofrenico, nessuno può negare che è anche il lavoro di un vero maestro.
Voto: 8-
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Cose che vorrei fare al Lucca Comics 2018 VS Cose che in realtà farò.
Anche quest’anno andrò al Lucca Comics e come ogni anno, delle millemila cose che vorrei fare e vedere, ne farò dieci. se va bene Lo trovo davvero un peccato, ma con un solo giorno a disposizione dovrò accontentarmi.
Cose che vorrei fare e vedere:
1)INCONTRARE MIKIO IKEMOTO. Dopo aver lavorato a “Naruto” come assistente di Masashi Kishimoto, nel 2016 su Shonen Jump dà vita a “Boruto”, uno spin-off dell'opera di Kishimoto. Siccome ho letto visto e adorato Naruto, e mi sto immergendo adesso in Boruto, l’incontro con l’autore sarebbe una bella cosa.
2) COMPRARE IL FUMETTO di Li Kunwu Una vita Cinese:
Autobiografia a fumetti dell'artista Li Kunwu, disegnata da lui stesso e scritta a quattro mani con P. Òtié. Un'opera in tre volumi che racconta la Cina dall'interno, dalla presa di potere di Mao Zedong a oggi. "Il tempo del denaro" è dedicato ai travolgenti anni del boom economico, dagli anni ottanta fino ai giorni nostri. Quando la rivoluzione culturale finisce e parte una politica di apertura e riforma, in Cina si diffondono nuove aspirazioni e nuovi timori, come accade con ogni cambiamento epocale. Storie di contadini e robivecchi diventati grandi industriali, passando dai campi di riso alla firma di contratti con le più potenti multinazionali, si accompagnano alle opinioni dell'autore su ciò che sta accadendo attorno a lui. Dai fatti di piazza Tiananmen al turbocapitalismo della contemporaneità, Li Kunwu e il co-autore P. Ótié, anche lui personaggio in questo terzo volume, mettono a nudo, in una sequenza di dialoghi illuminanti, la complessità del confronto tra la visione del mondo occidentale e quella cinese. Una sfida per il lettore che sarà pronto a coglierla.
3) Andare ad ascoltare il seminario COSTRUTTORI DI MONDI: TOLKIEN E MARTIN A CONFRONTO
Dove Tolkien e Martin sono entrambi scrittori di grandissima popolarità, creatori di mondi “secondari”, indagatori della natura umana, eppure le loro opere hanno esiti assai diversi e, in un certo senso, difficilmente paragonabili.Di analogie e differenze tratteremo in questo seminario, confrontando i due autori alla luce di temi importanti nella letteratura fantastica, quali la magia, la cosmogonia e il rapporto con la morte e l’aldilà, senza dimenticare le differenze stilistiche che li contraddistinguono nella narrazione di episodi simili, come quello dell’Esercito dei Morti.E naturalmente non mancheranno le creature fantastiche per eccellenza: i draghi.
Questo seminario è una di quelli dove si partecipa con penna e blocchetto degli appunti.
4) Non sono una fissata di Star Wars, ma questo mondo mi affascina abbastanza da voler partecipare ad un SEMINARIO SULLA STORIA, SIMBOLI E SIGNIFICATI DI QUESTA SAGA.
il viaggio dell’eroe Luke, giovane e ingenuo, da un mondo perduto e desertico fin dentro il cuore tecnologico dell’onnipotente e malvagio Impero Galattico, evoca temi antichi ma sempre affascinanti. Star Wars è comunemente ritenuta una serie cinematografica di kolossal, un’opera di “Fantascienza multi-Genere”, ma in realtà è molto di più. È una sorta di Epica, l’ultima epica, in cui i confini da esplorare appaiono infiniti, oltre l’iperspazio, ma che in realtà sono anche i confini altrettanto vasti dell’abisso dell’animo umano. Da quattro decadi, dunque, la popolarità mondiale di quest’opera aumenta esponenzialmente: un’opera che più che rappresentare un nuovo tipo di Fantascienza, ha segnato una nuova tappa della storia della Letteratura dell’Immaginario, la forma più antica di narrazione umana che risale ai miti antichi per arrivare poi a “Il Signore degli Anelli” di Tolkien e a “Dune” di Frank Herbert.
5) Chi non vorrebbe ascoltare un SEMINARIO SULL’ISPIRAZIONE CHE LA STORIA HA DATO E DA PER I GIOCHI, RACCONTI E NARRAZIONE?
in effetti, la storia è piena di elementi di grande narrazione. Ci sono eroi e antagonisti in abbondanza; ci sono dramma, perfidia, tradimento e amore; ci sono epiche campagne e potenti imperi; e innumerevoli storie di codardia, come di coraggio intrepido e sopravvivenza duramente conquistata. Le poste storiche sono alte: non solo vite ma regni, imperi, persino interi ecosistemi possono essersi trovati in precario equilibrio.E la portata morale della storia è avvincente quanto il suo spettro drammatico. Chi é stato un eroe per qualcuno, può essere stato il cattivo per qualcun altro. Consideriamo Giulio Cesare come un esempio: un uomo dotato di un'enorme abilità e capace di raggiungere obiettivi stupefacenti che fu però anche tra i principali responsabili della distruzione di un'antica e florida repubblica.
6) Andare a curiosare nella MINIATURE ISLAND
Chiariamoci: di miniature e diorami non ci capisco nulla, ma è incredibile la cura e il dettaglio che vengono mostrate in queste mini-opere d’arte.
7) INCONTRARE il Rinoceronte e Furibionda.
8) FARMI AUTOGRAFARE un libro delle Cronache del Mondo Emerso dalla sua autrice Licia Troisi e vedere il cortometraggio tratto dalla serie Le Guerre del mondo emerso.
9) PRENDERE LA VISIERA di Pikachu per colorare di giallo l’edizione 2018 di Lucca Comics & Games. E PROVARE i nuovi giochi per Nintendo Switch “Pokémon Let’s Go Pikachu!” e “Pokémon Let’s Go Eevee!” in uscita il 16 novembre.
10) ANDARE AL FAMILY E COSTRUIRE “QUALCOSA” CON I LEGO. Ci sono a disposizione ben 150 kg di lego e lego duplo.
11) VEDERE LA MOSTRA DELL’ILLUSTRATORE Benjiamin Lacombe con in mostra le tavole originali di alcuni dei lavori più recenti dell'amatissimo illustratore.
12) COMPRARE UN LIBRO D’ILLUSTRAZIONI di Benjiamin Lacombe
13) FARE UNA FOTO CON il dinosauro T-Rex a grandezza naturale.
14) VEDERE DAL VIVO Lo Stato Sociale ed i Wind Rose. Quest’ultimi con i loro look inspirato ai nani di Tolkien, meritano.
15) ASSISTERE AD UNO SPETTACOLO DI ADRIAN FARTADE. Divulgatore scientifico e attore teatrale.
Ha creato la piattaforma di divulgazione a tema astronomico Link2universe e il canale youtube Link4Universe nel 2012. Oggi insieme hanno oltre 160.000 follower, di cui quasi 90.000 solo su youtube.Nel suo lavoro unisce teatro e storia della scienza, per raccontare la scoperta dell’universo e i protagonisti della ricerca in modo coinvolgente, sfruttando piattaforme digitali come Youtube ma anche eventi dal vivo, nei teatri, piazze, festival delle scienza e dei fumetti.
16) I MURUGA DRUM
Le esibizioni, oltre ad essere musicali, offrono uno spettacolo visivo, che unisce la musica a coinvolgenti coreografie. Il nostro punto dei Moruga Drum è suonare per strada, far muovere e ballare il pubblico, cercando di creare un unico grande spettacolo travolgente.
17) ASSISTERE AD ALCUNE PARATE: Principesse Disney, Hidetaka Miyazaki Cosplayers Italia e The winds of winter cosplay.
Sono piuttosto incuriosita dalla parata di Hidetaka Miyazaki dove i partecipanti sono più di 100 e l’obiettivo è quello di omaggiare con la propria creatività le opere del maestro Hidetaka Miyazaki, nello specifico i capitoli di “Dark Souls”, “Demon's Souls”, “Bloodborne” e il nuovissimo "Sekiro".
The Winds of Winter cosplay gioca in casa con me visto il mio amore per la saga di Martin:
Il gruppo si pone come obiettivo quello di riunire le persone che condividono questa passione, attraverso la riproduzione ad alto livello dei costumi della serie e la partecipazione ai principali eventi a tema, nei quali vengono proposte scenografie e attività organizzate.
18) ANDARE A VEDERE E COMPRARE ALMENO un Funko, nel padiglione dedicato a tutti i fan di videogames, serie TV, film, anime e non solo.
* Funko Princess
Magari dal nulla spunta il Pop di Sansa Stark. mi piace sognare
19) COMPRARE un action figure di One Piece nel padiglione della BANPRESTO e un gashapon di Dragon Ball Super nel padiglione BANDAI.
20) ANDARE AL PADIGLIONE Warner Bros, interamente dedicato al Wizarding World e DC Comics.
La novità assoluta dello spazio, realizzato in collaborazione con Infinity, sarà il temporary shop a tema Wizarding World, con la possibilità di acquistare prodotti imperdibili, la presenza di props ed allestimenti unici per un’esperienza immersiva nel magico mondo creato da J.K. Rowling. Nell’area dedicata al Wizarding World troveranno spazio anche i costumi di scena utilizzati in “Animali Fantastici: I Crimini di Grindelwald” – in uscita nelle sale italiane dal prossimo 15 novembre – da Newt Scamander, Gellert Grindelwald, Albus Silente e Queenie Goldstein, oltre ad uno speciale “Wand Master Training” dove i fan potranno sperimentare le proprie doti magiche.
E ANDARE NELL’AREA “The Big Bang Theory” dove ci sono 170 mila mattoncini Lego”, è popolata da 7 gigantesche installazioni dei protagonisti della celebre sitcom in versione Lego.
21) ASSISTERE A CIÒ:
accensione in piazza San Michele della riproduzione di oltre cinque metri della bacchetta magica di Newt Scamander, protagonista della saga. Quella a Lucca sarà una delle nove mega installazioni, raffiguranti altrettante bacchette del Wizarding World™ creato da J.K. Rowling, che si illumineranno contemporaneamente in altrettante città italiane.
22) GOT? .... GOT.
E non poteva mancare Westeros. “Il Trono di Spade” rivive in una grande installazione al Sotterraneo del baluardo San Colombano. In attesa dell’ultima stagione della serie HBO si potrà attraversare la Barriera, incontrare le septe della setta dei sette dèi, passeggiare per il cortile del Castello Nero magari giurando fedeltà ai Guardiani della Notte o mettendosi alla prova con il Maestro d’Armi Ser Alliser Thorne, e poi ancora accarezzare i draghi di Daenerys, sedersi sul Trono di Roccia del Drago o sul celeberrimo Trono di Spade. Oltre alle foto di rito si potrà sfidare il campione di Westeros, mettendosi nei panni di Oberyn Martell, prima di arrivare ad Alto giardino dove la “Regina di Spine” Olena Tyrell vi svelerà i segreti più torbidi della serie tra un bicchiere di vino e un ricamo. Una vera e propria esperienza immersiva, da integrare con un incontro live da non perdere.
23) INCONTRARE DIEGO LUNA. Non ho visto Narcos, ma Rogue One si.
Orologio alla mano, posso dire che è IMPOSSIBILE farle tutte. Ma ciò non significa che non mi posso illudere di farcela.
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Guareschi & Zavattini sono dei giganti, ma non li studiamo a scuola; Giuseppe Verdi ha composto una autobiografia incredibile; Vittorio Bottego è stato il nostro Conrad. Guido Conti scrive il romanzo di Parma e rifà i connotati al “canone”
La città d’oro, Parma la letteratura 1200-2020, edito da Libreria Ticinum Editore è un romanzo ambizioso, è una raccolta di saggi, un libro autobiografico, un tentativo, attraverso 780 pagine e 250 immagini, di definire che cosa è il genius loci di un territorio, e fotografa anche l’immagine di una città che quest’anno, e per il 2021, sarà capitale della cultura italiana. Un libro che rompe gli steccati rispetto ai generi, che propone un modello narrativo di sentieri che escono dalle secche ripetitive e obsolete di certi schemi di lettura del passato.
La città d’oro racconta la letteratura in un modo diverso, al di là della saggistica accademica, al di là delle storiografie e delle antologie scolastiche: dopo anni di studio l’idea di letteratura che mi sono costruito è completamente diversa da quella che mi restituiscono i manuali di storia della letteratura. Ho sempre pensato che per fare lo scrittore e soprattutto il ricercatore non ci fosse bisogno di essere inquadrato in qualche istituzione, e questo mi ha regalato una libertà di pensiero e di movimento che ha portato i suoi frutti nei libri dedicati a Cesare Zavattini, (l’ultimo è Cesare Zavattini a Milano, 1929-1939, Letteratura, Rotocalchi, radio, fotografia, editoria, cinema pittura, edito da Libreria Ticinum editore, 2019) alla biografia di Giovannino Guareschi per Rizzoli, Guareschi biografia di uno scrittore, 2008, ai tanti saggi sparsi dedicati all’umorismo e alla tradizione del giornalismo satirico che ripensano il passaggio tra Otto e Novecento. Guareschi, per esempio, porta nel Novecento la tradizione della favola moraleggiante, attingendo al racconto ciclico di origine religiosa (le forme aperte della raccolta dei miracoli e dei fioretti di san Francesco, per esempio), con quello epico della novellistica popolare italiana (da Boccaccio al Piovano Arlotto), con un effetto dirompente nella cultura nichilista della morte di Dio (lui fa parlare il Cristo), e di questo non si parla mai nelle antologie scolastiche dove Guareschi non è nemmeno citato. Guareschi pone il problema delle tradizioni e dei tempi lunghi della letteratura, per cui un periodo non si può leggere solo con le categorie di pensiero del proprio tempo. Il Novecento è molto più ricco e frastagliato di come ce l’hanno sempre raccontato e ha radici che affondano in un passato remoto. Le avanguardie non hanno tagliato completamente le radici.
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La città d’oro si compone di 54 capitoli dedicati a ritratti di scrittori e a opere diverse: ho riscritto biografie, ho commentato poesie e pezzi in prosa, per esempio di Francesco Petrarca che a Parma vive più di dieci anni, mettendo le basi per il passaggio dal Medioevo al Rinascimento: qui vive la peste del 1348 e scrive i primi sonetti in morte di Laura e la canzone politica Italia mia. Ho riscoperto la modernità di un poeta come Carlo Innocenzo Frugoni, declassato da decenni come poeta di corte, le cui poesie satiriche sono ancora oggi giudicate da studiosi come “sconvenienti”, “disdicevoli” e “inopportune” dimostrando in questo modo di non aver capito assolutamente niente delle contraddizioni e della modernità di questo religioso che aveva dato i voti solenni senza alcuna vocazione. Ribattezzato arcadico, Comante Eginetico, aveva come amico il poeta veneziano Giorgio Baffo col quale si scambiava sonetti licenziosi, e scriveva ai medici di calli, di emorroidi, di nasi lunghi e lettere d’amore alle giovani fanciulle di cui s’innamorava continuamente anche da vecchio. Scrivere versi era liberazione e sfogo, divertimento e lamento, prigione e fatica, specialmente per quelle centinaia di poesie d’occasione scritte per incensare il duca e famiglia. L’approccio storiografico spesso è miope e asettico rispetto all’anima di uno scrittore.
A Parma si ritrovano le origini della favola de La bella e la bestia, con la storia tragica e comica di questo signore tutto peloso che si ritroverà a vivere con una donna bellissima e la famiglia insieme a leoni e leopardi in quello che oggi a Parma è il Giardino Pubblico.
Ho riscritto la vita di Gianbattista Bodoni che nella sua stamperia ducale riceverà la visita di Napoleone I, di principi e papi. La sua Oratio Dominica (Il Padre Nostro) 1806, scritto in oltre 120 lingue diverse, ha più font del computer su cui state leggendo. Bodoni ha inventato i font e con il manuale tipografico ha rivoluzionato la grafica moderna.
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Ho ripensato a Giuseppe Verdi, che è stato, prima di tutto, un grande lettore, autore della più incredibile autobiografia dell’Ottocento scritta, quasi quotidianamente, attraverso le lettere: non ne troverete una nelle antologie scolastiche. E così per Arturo Toscanini. Sono grandi scrittori anche se non hanno mai scritto romanzi o racconti. La letteratura è tanto altro rispetto ai generi e alle loro gerarchie che ci vogliono inculcare nella testa.
Franco Maria Ricci chiama Jorge Luis Borges a Fontanellato. Per la “Biblioteca di Babele” lo scrittore argentino scrive le introduzioni dei libri della collana, tra critica e autobiografia, e dall’incontro nascerà quello che oggi è diventato il labirinto di bambù, un sogno settecentesco che potete visitare tra collezioni d’arte nella Masone di Fontanellato. I visionari sono i veri realisti.
Ho scritto di Cesare Zavattini che diventerà negli anni trenta “Il padrone di Milano”, che trasformerà l’editoria e i giornali, lavorando per Rizzoli, Bompiani e Mondadori. Un protagonista dell’avanguardia che negli anni della guerra si trasferirà a Roma per scrivere di cinema con tutte le sue utopie, diventando un modello e un punto di riferimento per il cinema mondiale. Parliamo tanto di me (1931), I poveri sono matti, (1937), Io sono il diavolo (1941) sono tre capolavori da considerare allo stesso livello di Svevo e Pirandello, e la cui opera rimette in discussione tutta l’idea di umorismo novecentesco che non è quella del saggio di Pirandello come ha voluto imporre la scuola. Zavattini scrive Totò il buono (1943) che diventerà Miracolo a Milano con la regia di Vittorio De Sica, (1950): questo film avrà un affetto dirompente su García Márquez che vedrà il film a Parigi e gli offrirà, come racconta lui stesso nella biografia autorizzata, Vita di García Márquez, di Gerald Martin, Mondadori 2011, i fondamenti del realismo magico sudamericano. Nelle storie della letteratura italiana, a tutti i livelli, se Zavattini viene citato, lo troverete in qualche nota o ridotto a sceneggiatore di cinema, a dimostrazione di come, non solo il Novecento, sia da riscrivere e ripensare completamente. Purtroppo gli studenti di oggi, e i futuri insegnanti di domani, si formano su questi manuali che sono vecchi e arrugginiti, con conseguenze disastrose.
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Ho parlato di caffè letterari, come il caffè Marchesi, al centro di eventi straordinari: nel 1911 il gruppo di Marinetti, Palazzeschi, Carrà e altri si ritroverà qui per la prima volta fuori dai teatri, con il movimento futurista a fronteggiare folle che vogliono fare a cazzotti. Il futurismo a Parma scende in piazza. Qualche anno dopo, un grande scrittore francese, Valery Larbaud, sempre al caffè Marchesi scriverà uno dei suoi racconti più belli davanti ad uno dei suoi famosi specchi. La Parma di Stendhal, tra reinvenzione e immaginazione romanzesca, ne ha creato il mito a livello mondiale: come scrive Pietro Bianchi, a Parma lo scrittore francese ridisegna una “geografia dello spirito”.
Ho scritto di epistolari come quello tra Attilio Bertolucci e Vittorio Sereni, uno dei più belli e importanti del Novecento, che s’incontrano giovanissimi in piazza Garibaldi. Ho letto libri che giacevano nelle biblioteche da decenni mai presi in prestito e ho trovato libri mirabili come Taccuino 1962-1962 di Pietro Bianchi, uno dei maestri di critica del cinema italiano (cugino di Guareschi, e allievo di Zavattini), che racconta il passaggio e la crisi di una cultura che viaggia verso il boom economico: una meravigliosa riscoperta.
Ho recuperato scrittori come Vittorio Bottego, il Conrad parmigiano che entra nel cuore dell’Africa nera mai esplorata prima: il suo diario, tra cannibali, diserzioni, fame e malaria, diventerà il mito di grandi giornalisti come Bruno Rossi e Bernardo Valli. Il confine tra giornalismo e letteratura è continuamente sfumato in autori come Egisto Corradi, capace di descrizioni straordinarie in libri come Africa a cronometro (1952).
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Ho scritto dell’editore Guanda e del suo rapporto con Antonio Delfini, la nascita con Attilio Bertolucci della collana La fenice, che farà conoscere la poesia mondiale in Italia. Purtroppo si studia la letteratura a compartimenti stagni, come se gli scrittori venissero uno dopo l’altro, bollati o incasellati sotto categorie generiche che impediscono una corretta lettura, secondo una idea di tempo lineare ormai obsoleta, e che ritrovo spesso alla base di certe letture di giovani critici “sgomitanti” (volevo scrivere “militanti”). La storia è intreccio, e compresenza di tempi e di temi, con influenze e modelli che superano e vanno al di là del proprio tempo. La Cronica di Salimbene, la più bella in lingua latina, per me è un modello romanzesco, molto più importante di tanti romanzi di autori americani di oggi: sa intrecciare l’autobiografia, la grande storia, la cronaca, la visionarietà e l’immaginario come pochi, e per me resta un modello di narrazione moderna.
La città d’oro è un libro che mi ha posto alcune problematiche fondamentali: che cosa è una tradizione letteraria? Come attraversa i secoli? Come si legge uno scrittore? Da dove partire? Come si descrive una città? Come artisti e scrittori guardano una città? La cultura evolve o non piuttosto sta? Il tempo lineare in letteratura è solo uno specchio deformante? E’ un’illusione? L’arte ha forse un movimento che assomiglia piuttosto alla risacca?
Dickens viene a Parma, la racconta e non capisce nulla di quello che vede, ma la sua critica illumina il mio scrivere, perché quando vede i fantasmi sbucare dal teatro Farnese in decadenza, tra legni e muffe, invita ad un nuovo rapporto con il passato e i grandi maestri. La città d’oro pone allora il problema di cosa voglia dire leggere, come bisogna leggere, dove partire, come fare critica, come affrontare voci diverse in uno stesso territorio. Dopo Il grande fiume Po, che uscirà da Giunti a settembre in una nuova edizione arricchita e aggiornata, La città d’oro è la seconda tappa del mio viaggio, alla ricerca di geografie letterarie che possono aiutare a muoversi in un paesaggio tanto problematico e frastagliato come quello di oggi. Allora la lista degli autori che ho raccolto in questo libro è lunga, da Vittorio Sereni ad Attilio Bertolucci, da Pier Paolo Pasolini a Luigi Malerba, (insieme a Zavattini) maestro del “manierismo emiliano padano” di Cavazzoni e dei suoi nipotini. Alberto Bevilacqua, autore di alcuni importantissimi romanzi del secondo Novecento e di opere poetiche che segnano l’inizio di questo secolo. E poi Pier Luigi Bacchini, la cui straordinaria poesia oggi conta molti epigoni. Alla fine La città di Parma è forse solo una scusa, un materiale da cui attingere per raccontare tanto altro.
*
Questo, dunque, è un viaggio letterario che disegna una geografia letteraria verso il cuore e l’immaginario non solo di una città ma anche di un territorio, e getta uno sguardo molto particolare sul Novecento. Parma è una capitale della letteratura che ha saputo dialogare con l’Europa e il mondo, diventando talvolta centro propulsore di poetiche e di idee, anche nel cinema e nella fotografia. La poesia, la narrativa, ma anche il teatro, la pietra scolpita, i dipinti dei nostri maggiori artisti che hanno fatto la storia dell’arte, sono i protagonisti del nostro presente. Tutte queste forme d’arte narrano storie. Il senso del nostro vivere quotidiano ce lo giochiamo nel rapporto con le storie di questi nostri «contemporanei del futuro». Così Giuseppe Pontiggia parlava dei classici, racchiudendo in un ossimoro tutta la complessità e la bellezza del leggere e del fare esperienza con voci, libri e opere d’arte che arrivano da un altro tempo. Gli scrittori che leggiamo, le pietre su cui camminiamo tra le architetture, lo sguardo di Madame de Stäel o di Goya sotto la cupola del Correggio in Duomo, rappresentano l’esperienza del nostro vivere qui, oggi. Un quotidiano non banale, dove la città diventa teatro di un vivere in cui ci ritroviamo protagonisti e spettatori insieme.
Per questo La città d’oro è un romanzo, è un libro di saggi, è un libro di biografie, è un libro di critica, di fotografie, di riletture e di racconti… ovvero tutte queste cose insieme, in un’idea di opera mondo, se vogliamo, che getta uno sguardo dalla provincia verso l’Europa e nuovi confini narrativi che sono lì, verso un tempo futuro sempre vicino, desiderabile, mete immaginate e impossibili da raggiungere come nel paradosso di Achille e la tartaruga di Zenone.
Guido Conti
L'articolo Guareschi & Zavattini sono dei giganti, ma non li studiamo a scuola; Giuseppe Verdi ha composto una autobiografia incredibile; Vittorio Bottego è stato il nostro Conrad. Guido Conti scrive il romanzo di Parma e rifà i connotati al “canone” proviene da Pangea.
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“ L'operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte, quello che finisce alle sei. Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione, in tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè alle volte un po' prima alle volte un po' dopo che suonasse la sveglia della moglie, Elide. Spesso i due rumori: il suono della sveglia e il passo di lui che entrava si sovrapponevano nella mente di Elide, raggiungendola in fondo al sonno, il sonno compatto della mattina presto che lei cercava di spremere ancora per qualche secondo col viso affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto di strappo e già infilava le braccia alla cieca nella vestaglia, coi capelli sugli occhi. Gli appariva così, in cucina, dove Arturo stava tirando fuori i recipienti vuoti dalla borsa che si portava con sé sul lavoro: il portavivande, il termos, e li posava sull'acquaio. Aveva già acceso il fornello e aveva messo su il caffè. Appena lui la guardava, a Elide veniva da passarsi una mano sui capelli, da spalancare a forza gli occhi, come se ogni volta si vergognasse un po' di questa prima immagine che il marito aveva di lei entrando in casa, sempre così in disordine, con la faccia mezz'addormentata. Quando due hanno dormito insieme è un'altra cosa, ci si ritrova al mattino a riaffiorare entrambi dallo stesso sonno, si è pari. Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina del caffè, un minuto prima che la sveglia suonasse; allora tutto era più naturale, la smorfia per uscire dal sonno prendeva una specie di dolcezza pigra, le braccia che s'alzavano per stirarsi, nude, finivano per cingere il collo di lui. S'abbracciavano. Arturo aveva indosso il giaccone impermeabile; a sentirselo vicino lei capiva il tempo che faceva: se pioveva o faceva nebbia o c'era neve, a secondo di com'era umido e freddo. Ma gli diceva lo stesso: - Che tempo fa? - e lui attaccava il suo solito brontolamento mezzo ironico, passando in rassegna gli inconvenienti che gli erano occorsi, cominciando dalla fine: il percorso in bici, il tempo trovato uscendo di fabbrica, diverso da quello di quando c'era entrato la sera prima, e le grane sul lavoro, le voci che correvano nel reparto, e così via. A quell'ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s'era tutta spogliata, un po' rabbrividendo, e si lavava, nello stanzino da bagno. Dietro veniva lui, più con calma, si spogliava e si lavava anche lui, lentamente, si toglieva di dosso la polvere e l'unto dell'officina. Così stando tutti e due intorno allo stesso lavabo, mezzo nudi, un po' intirizziti, ogni tanto dandosi delle spinte, togliendosi di mano il sapone, il dentifricio, e continuando a dire le cose che avevano da dirsi, veniva il momento della confidenza, e alle volte, magari aiutandosi a vicenda a strofinarsi la schiena, s'insinuava una carezza, e si trovavano abbracciati. Ma tutt'a un tratto Elide: - Dio! Che ora è già! - e correva ad infilarsi il reggicalze, la gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già andava su e giù per i capelli, e sporgeva il viso allo specchio del comò, con le mollette strette tra le labbra. Arturo le veniva dietro, aveva acceso una sigaretta, e la guardava stando in piedi, fumando, e ogni volta pareva un po' impacciato, di dover stare lì senza poter fare nulla. Elide era pronta, infilava il cappotto nel corridoio, si davano un bacio, apriva la porta e già la si sentiva correre giù per le scale. Arturo restava solo. Seguiva il rumore dei tacchi di Elide giù per i gradini, e quando non la sentiva più continuava a seguirla col pensiero, quel trotterellare veloce per il cortile, il portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. Il tram lo sentiva bene, invece: stridere, fermarsi, e lo sbattere della pedana ad ogni persona che saliva. «Ecco, l'ha preso», pensava, e vedeva sua moglie aggrappata in mezzo alla folla d'operai e operaie sull' "undici", che la portava in fabbrica come tutti i giorni. Spegneva la cicca, chiudeva gli sportelli alla finestra, faceva buio, entrava in letto. Il letto era come l'aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di Arturo, era quasi intatto, come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla propria parte, per bene, ma dopo allungava una gamba in là, dov'era rimasto il calore di sua moglie, poi ci allungava anche l'altra gamba, e così a poco a poco si spostava tutto dalla parte di Elide, in quella nicchia di tepore che conservava ancora la forma del corpo di lei, e affondava il viso nel suo guanciale, nel suo profumo, e s'addormentava. “
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Tratto dal racconto L'avventura di due sposi (1958), raccolto in:
Italo Calvino, I Racconti; prima edizione: Einaudi, novembre 1958.
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Se al futuro non ci crede nessuno
Se al futuro non ci crede nessuno Da leggere e ritagliare il pezzo di Riccardo Manzotti per Doppiozero: L’immaginazione nazional-popolare del bel paese è malata di passato e carente di futuro. Ladri di futuro lo hanno sottratto. Volete un esempio? Nella tarda primavera, al salone del libro di Torino, – e già mi sembra di andare troppo indietro – Giorgio Agamben si esprime in questi termini: “Il futuro, che non esiste, può essere inventato di sana pianta da qualsiasi ciarlatano. Diffidate, tanto nella vita privata quanto nella sfera pubblica, di chi vi offre un futuro”. L’autore prende spunto da un aforisma ancor più drastico di Flaiano, “Ho una tale sfiducia nel futuro, che faccio progetti solo per il passato”. Sono sentenze che esprimono la convinzione, assai diffusa nello stivale, secondo cui l’unica chiave che permette di comprendere la realtà sia il passato, “mentre uno sguardo rivolto unicamente al futuro ci espropria, col nostro passato, anche del presente”. Ma è un giudizio corretto? O piuttosto questa sfiducia verso il futuro è una malattia cronica che affligge il nostro sentimento nazional-popolare? Veramente il futuro è solo un inganno ordito per ingannare i molti? Un fuoco fatuo? Una sirena che porta i naviganti ad affondare scontrandosi contro le rocce della (dura e immutabile) realtà? O non è forse il contrario? Non sono piuttosto coloro che, disprezzando il futuro, impediscono alla fantasia di immaginare il futuro e quindi scoprire nuove vie? Intendiamoci, non sto parlando del futuro reale dell’Italia che studenti, imprenditori, studiosi, creano ogni giorno! Voglio piuttosto riferirmi a una strana cecità, da parte dell’immaginario di formulare scenari futuri. Mi interrogo sui motivi che determinano, nella produzione letteraria e mediatica tricolore, una assenza così cospicua. Non mi interrogo sul valore estetico di un’opera in base alla sua collocazione temporale. Non equivocatemi. Il punto è un altro: come mai un’intera nazione non considera, se non in casi rarissimi, scenari futuri? Come mai l’immaginario italiano è prigioniero del passato remoto, prossimo, storico, individuale o esistenziale? Intanto verifichiamo questa impressione. Cerchiamo qualche dato oggettivo pur senza la pretesa di un’analisi statistica. Prendiamo come punto di partenza un premio letterario famoso: il premio Strega. Su 44 opere premiate dalla sua fondazione, quante di esse erano ambientate in uno scenario futuro? La risposta è inequivocabile: nessuna. Ogni volume uscito dallo Strega è rivolto al passato. Analoghe statistiche “bulgare” emergono dall’analisi di altri premi letterari o, più semplicemente, dalle classifiche dei testi italiani di maggior successo. Quasi tutti gli autori si muovono in un passato prossimo esistenziale dove il confine del presente rimane invalicabile. Da Fabio Volo a Federico Moccia, da Giorgio Faletti a Giancarlo De Cataldo, lo sfondo temporale coincide con il passato più o meno prossimo, più o meno esistenziale, più o meno soggettivo. Significativamente, Sebastiano Vassalli ha intitolato la sua opera di maggior successo Archeologia del presente, e di archeologia si tratta. Se, poi, allarghiamo lo sguardo e consideriamo gli ultimi cinquant’anni di letteratura italiana, il panorama non cambia. In fondo, questo amore per il passato, sentito come l’unico scenario accettabile per un’opera narrativa, non è una caratteristica recente; è qualcosa che ha radici antiche e diffuse. Umberto Eco ha fatto della ricostruzione erudita del passato un labirinto dal quale è impossibile uscire. Tomasi di Lampedusa ha elevato il passato della sua terra a dimensione esistenziale. Certo, ci sono state eccezioni, Italo Calvino per esempio. Ed esiste un filone molto interessante di scrittori di fantascienza italiana, Valerio Evangelisti o Tommaso Pincio. Ma questi casi, peraltro non popolarissimi, non sono altro che l’eccezione che conferma una zeitgeist passatista. Non ci hanno forse insegnato che la letteratura italiana nasce con il romanzo storico dei Promessi Sposi? Nasce guardando indietro. Il futuro non è nemmeno accennato. Lo strumento dell’immaginazione è uno specchio retrovisore. Lo stesso vale per gli altri settori della produzione dell’immaginario. Consideriamo il cinema: i nostri registi hanno l’obiettivo rivolto a un passato che non esiste più o, al massimo, a un presente già concluso. I registi “classici” hanno spremuto miele e suggestioni dal passato più o meno remoto dello stivale: Risorgimento, guerre mondiali, ricostruzione, boom economico, anni di piombo. Fellini ci riporta alla riviera romagnola della sua infanzia, Bertolucci descrive la bassa padana dei primi del novecento, Magni racconta la Roma risorgimentale, Leone rispolvera il passato della Grande Mela, Gabriele Salvatores torna all’Italia della guerra. Il capolavoro di Ettore Scola, “C’eravamo tanto amati”, ha nell’imperfetto la cifra della condizione esistenziale. E così fino ai giorni nostri. Paolo Sorrentino affoga nel buco nero di una capitale soffocata dal passato, dove i rifiuti urbani e i detriti esistenziali si mescolano per diventare un’unica sostanza. I racconti che gli italiani inventano, su pellicola o carta, guardano indietro a un passato storico o esistenziale: l’infanzia, i genitori, i progenitori, l’Italia che fu. Le produzioni televisive non sono diverse, popolate da oleografiche figure rassicuranti – vie del centro, vetrine, i Cesaroni, medici, preti e carabinieri. Ricostruiamo tutto, ma non passiamo il Rubicone del momento presente. (continua qui)
Da leggere e ritagliare il pezzo di Riccardo Manzotti per Doppiozero: L’immaginazione nazional-popolare del bel paese è malata di passato e carente di futuro. Ladri di futuro lo hanno sottratto. Volete un esempio? Nella tarda primavera, al salone del libro di Torino, – e già mi sembra di andare troppo indietro – Giorgio Agamben si esprime in questi termini: “Il futuro, che non esiste, può essere…
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Gli anni sessanta si presentano alla nostra terra e in molte parti del mondo con un grande boom economico. A quindici anni dalla fine della seconda guerra mondiale, il tenore di vita va nettamente migliorando e strade e piazze iniziano a riempirsi di automezzi, considerando che quasi ogni persona possiede possiede un’auto per famiglia.
Parlando di auto e Mugello, non possiamo che citare l’automobilismo da corsa. Il gran prix in quegli anni vede le prime gare di formula 1 su pista e a Monza viene ospitato il gran premio d’Italia, le spettacolari 1000 miglia invece vengono meno..
Perché ormai si corre a velocità decisamente elevate, e in pista ci sono maggiori sicurezze.Già si comincia ad essere lontani dagli anni ’10, quelli che avevano visto sulle nostre strade correre addirittura i primissimi prototipi di auto da corsa.
Cambiando argomento sempre nel 1960 al cinema viene proiettato il successo Felliniano ‘la dolce vita’, famosa la scena in cui la bionda attrice Anita Ekberg si immerge nella fontana di Trevi seguita da poi da Mastroianni.
Un anno prima (nel ’59) veniva attribuito il premio Nobel della letteratura a Salvatore Quasimodo, il famoso poeta italiano, certamente tra i migliori del ventesimo secolo, assieme ad Ungaretti; Campana Pavese e Montale.
Per finire nel mondo della musica il beat viene consolidato dai quattro baronetti di Liverpool (i Beatles) che ogni anno non fanno mancare un proprio hit, mentre il rock roll diventa acrobatico lo shake è sicuramente il genere più ascoltato e sopratutto più ballato.
Il Mugello e il mondo, negli anni Sessanta Gli anni sessanta si presentano alla nostra terra e in molte parti del mondo con un grande boom economico.
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Hipster, Beat Generation, Hippie per ricordare il Festival di Woodstock
Oggi, iniziava The Woodstock Music & Art Fair , alle 5pm del ’69 (a mezzanotte, in Italia), il più celebre festival del Rock. Durò più di tre giorni, i partecipanti erano gli Hippie (i figli dei fiori) che con il loro stile regnano, a fasi alterne o con dettagli, sullo scenario della moda e sull’immaginario del mondo. Ma dietro la musica, i colori, i fiori ( e si, anche il sesso libero, l’alcol e le droghe), c’è molto molto di più: cultura, ricerca, dolore, coraggio e AMORE.
Per comprenderlo davvero, bisogna fare un passo indietro…gli Hipster, la Beat Generation, gli Hippie , ed eventi storici indelebili.
Riassumere il periodo che va dagli anni ’40 a Woodstock, non è semplice e richiederebbe mille approfondimenti, e alcuni li farò in questi giorni, intanto proviamo a capirne i caratteri generali in maniera sintetica.
Cosa troverete in questo post?
- Elenco di eventi storici, importanti per comprendere i vari movimenti
- Hipster, Beat Generation, Hippie
- Niente immagini (per renderlo più fruibile dai vari dispositivi senza noiose attese di caricamento)
UN QUADRO STORICO
Lo so, le date sono ‘noiose’ ma per capire questo periodo sono anche fondamentali. Vi consiglio, anche, di aprire l’immagine che vi lascio qui (http://giuliround.tumblr.com/post/164220857301/per-capire-gli-hippie-e-woodstock-%C3%A8-importante ) in un’altra scheda e tenerla presente per tutto l’articolo. E sarà utile anche per gli approfondimenti che troverete domani e dopodomani.
Ecco cosa troverete nel link e quali sono gli eventi particolarmente rilevanti:
- Dal ‘14 al ‘18 - la 1° Guerra Mondiale
- Dal ‘24 al ‘29 - il Boom di Wall Street
- Dal ‘29 al ‘32 - la Grande Depressione americana
- Dal ‘33 al ‘37 – viene attuato del New Deal da parte del presidente F. D. Roosevelt, supportato dall’attivista First Lady of the World E. Roosevelt
- Dal ‘39 al ‘45(il 2 settembre) - la seconda Guerra Mondiale
- Nel ‘45 - gli statunitensi lanciano 2 bombe atomiche in Giappone: il 6 agosto la “Little Boy” su Hiroshima e il 9, 3 giorni dopo, la “Fat Man” su Nakasaki.
- Dal ‘47 al ‘91 - la Guerra Fredda
- Nel ‘48 – avviene la firma della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, presentata da Eleanor Roosevelt
- Nel ‘48 - viene pubblicato “1984” di G. Orwel (invertendo gli ultimi due numeri si ottiene l’anno in questione)
- Nel ‘48 - l’apartheid in Sudafrica diventa ufficiale
- Nel ‘49 - nasce la Repubblica Popolare Cinese, di Mao Tse Tung
- Dal ‘50 al ‘55 - in America, vi è il maccartismo sfrenato e anticomunista del senatore repubblicano J. McCarthy (la morte dei coniugi Rosemberg scosse il mondo nel ‘53).
- Nel ‘53 - E. Hemingway riceve il premio Pulizer per Il vecchio e Il mare. Un anno dopo vincerà il Premio nobel per la letteratura.
- Dal ‘53 al ‘59 - la rivoluzione cubana di Fidel Castro e di Ernesto Che Guevara e la nascita della Beat Generation
- Dal ‘55 al ‘75 - la Guerra del Vietnam
- Nel ‘55 - Rosa L. Parks si rifiuta di cedere il posto su un autobus, ad un bianco. La nota attivista statunitense (figura simbolo per i diritti civili) da origine al boicottaggio degli autobus a Montgomery
- Nel ‘55 - il poeta americano A. Ginsberg (uno dei massimi esponenti della Beat Generation, insieme a J. Kerouac e a N. Cassady) lesse pubblicamente “l’Urlo” (che ispirò anche ‘Dio è morto’ di Guccini e molti altri)
- Nel ‘57 - viene pubblicato il romanzo “On the road”, romanzo di J. Kerouac
- Nel ‘63 - il 28 agosto, Martin Luther King Jr pronuncia il suo più celebre discorso (“I have a dream”) durante una delle proteste più imponenti d’America (250mila persone):la "Marcia su Washington per il Lavoro e la Libertà",
- Nel ‘63 - (a novembre) viene assassinato il 35° presidente degli USA: John Fitzgeral Kennedy
- Nel ‘63 - la scrittrice Betty Friedan pubblica il libro “The Feminine Mystique”, considerato il manifesto del movimento femminista americano. In esso fu spietatamente descritta l'incongruenza tra lo stereotipo sociale della donna casalinga felice e l'esistenza di molte professioniste insoddisfatte e depresse
- Dal ‘65 - Haight-Ashbury (quartiere di San Francisco) diventa il centro degli hippy e della Summer of Love. La città viene ‘invasa’ da migliaia di giovani e si riconferma ( già era stata culla della Beat Generation nel quartiere di North Beach) come epicentro di una rivoluzione sociale e culturale che trova le basi in una ricerca di pace, amore e libertà.
- Nel ‘65 – l’America inizia a mandare regolarmente truppe in Vietnam
- Nel ‘65 - viene assassinato Malcom X, figura complessa e di spicco che comunque era a favore dei diritti umani e ne era stato aggressivo sostenitore
- Nel ‘65 – avviene a Washington la prima grande manifestazione (300mila persone) contro la guerra in Vietnam
- Nel ‘66 - B. Friedan fonda la National Organization for Woman(NOW, acronimo che letteralmente significa ORA) con la quale le rivendicazioni femminili assunsero ufficialmente una portata autonoma
- Nel ‘66 - nascono il “Black Power” (termine coniato da S. Carmichael, presidente dello Student Non Violent Coordinating Committee, SNCC) e le “Pantere Nere”
- Nel ‘66 - Mao Tse Tung, per conservare il potere, lancia la “rivoluzione culturale”. Almeno per un decennio, decine di migliaia di giovani in tutto il mondo mostreranno nelle manifestazioni di piazza il “libretto rosso” delle guardie rosse cinesi.
- Nel ‘67 - muore Ernesto “Che” Guevara, eroe rivoluzionario, amato da tutta la gioventù internazionale impegnata nelle lotte civili e politiche.
- Nel ‘67 - esce nelle sale “Il Laureato”, tratto dall’omonimo libro (del ‘63) di Charles Webb. Un anno dopo viene pubblicato “The Graduate”, l’album di Simon & Garfunkel, che contiene la colonna sonora del film ( es. The Sound of Silence’, ‘Mrs. Robinson’)
- Nel ’67 - vi è la prima rappresentazione del musical “Hair”, e nel ‘79 ne fu tratto il film
- Nel ‘68 - Martin Luther King Jr viene assassinato, e il mondo è sconvolto da tale perdita.
- Nel ‘69 - esce il film Easy Rider
- Nel ‘69 - il festival “ The Woodstock Music & Art Fair”, a Bethel, inizia alle 17,00 del 15 agosto e si concluderà oltre le ore 9,00 del 17 Agosto (orario di New York)
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Gli HIPSTER
In origine vi furono gli Hipster. Tale nome venne usato per la prima volta, negli anni ‘40, dal jazzista Harry Gibson. Ma bisogna aspettare una 15ina d’anni, e uno degli esponenti della Beat Generation, per averne una definizione: Norman Miller. Lui (nel ‘57) ci spiega: <<chi è e che cosa vuole l’esistenzialista americano, l’hipster, l’uomo che vive nella presenza continua della catastrofe atomica, il bianco che s’identifica con la condizione perpetua di pericolo e di violenza in cui finora sono vissuti i negri, con il jazz come musica dell’orgasmo, il poeta che s’identifica con lo psicopatico, con il delinquente minorile, con il torero, con il santo e il mistico che vive per la morte…” e che decidevano di «divorziare dalla società, vivere senza radici e intraprendere un misterioso viaggio negli eversivi imperativi dell'io>>.
Si trattava di un movimento alternativo si ma anche aristocratico, passivo, decadente, attento alla moda e al benessere individuale.
A loro però si devono le basi dell’attenzione al cibo biologico, all’ambiente e alla ricerca spirituale.
Dopo la 2° Guerra Mondiale, gli Stati Uniti, più di tutti, beneficiarono dell’economia mondiale in crescita. Ci fu fortissimo incremento delle nascite e una maggiore istruzione secondaria da parte della media borghesia. Gli studenti universitari, tra i 18 e i 22 anni, passarono dal 15% del ‘40 al 44% del 1965. Ma le disparità sociali risultavano sempre più evidenti.
Iniziò il periodo di maggiori proteste giovanili (più sociali che politiche) che la storia americana ricordi.
Questo a causa di alcuni fattori:
- eccessivo permessivismo familiare (anche a causa delle teorie pedagogiche del dottor Spock, tanto di moda in quegli anni)
- una smisurata repressione istituzionale su un duplice fronte: da un lato le Università che si preoccupavano più della moralità dei propri iscritti che della loro preparazione culturale; dall’altro il maccartismo
- la televisione permise una maggiore (e più realistica) conoscenza delle situazioni nazionali e internazionali
- la rivoluzione cubana e quelle idee comuniste di pace uguaglianza e solidarietà, vietate ma amate
- un certo benessere economico e una maggiore attenzione all’arte e alla conoscenza
Il mondo si muoveva e, forse per la prima volta, il popolo americano sentiva di star rimanendo fermo. I giovani non riconoscevano se stessi, né culturalmente né socialmente.
Intorno al ’53 nasce la Beat Generation.
La BEAT GENERATION
Beat come:
- Beatitudine, in senso Zen
- Battuto/ sconfitto: da una società sempre più opprimente, dagli schemi incontrovertibili
- Battito: istante, libertà vera ma anche ritmo (del jazz bebop, delle poesie)
Beat è valori umani, uguaglianza, ricerca della parità, rispetto, libertà di essere e vivere come si vuole: l’istante, il sesso, la società, la musica. Non è politica pur derivando da essa, non è religione pur avendone una forte connotazione.
Il movimento nasce all'interno di un gruppo di amici, amanti della letteratura e completamente saturi della società.
Ne diventarono simbolo la triade di Neal Cassady, Jack Kerouac e Allen Ginsberg, che trovano luogo di periodico stallo a North Beach (quartiere di San Francisco). Inizialmente, il movimento beat, anche grazie al successo del libro di Kerouac, Sulla strada, raccoglie un grande consenso
Ma chi sono ? Si tratta di giovani sofferenti (spesso dediti all’alcol e alla maijuana, e a sperimentazione di droghe anche più pesanti), artisti che vorrebbero condividere con l'umanità il loro amore per il tutto e invece si sentono incompresi. Loro desiderano trovare un nuovo sistema di regole, sedare il dolore, riunire l’Io al Tutto, e scappare e viaggiare. Ma non fuggire dalle responsabilità ma ricercare quel sé che non trovano più.
I giovani beat studiano il neoplatonismo di Plotino, le teorie cosmogoniche contenute nel libro Eureka di Edgar Allan Poe, le poesie mistiche, i trattati ascetici di San Giovanni della Croce, la telepatia e la cabala. Si avvicinano alla spiritualità Zen, al cattolicesimo, al taoismo, che tanto viene approfondito successivamente. Ascoltano il Jazz. Impossibile non citare Charlie Parker che fu un personaggio eroico con il suo jazz bebop, frenetico e catartico. Sono scritto che scrivono di viaggi mentali - anche mediante la sperimentazione psichedelica di droghe quali l'LSD - e fisici, in lungo e in largo attraverso le strade degli USA (in autostop, in macchina o su un furgone )
Per il loro stile di vita vengono anche definiti la "Lost Generation"
Ma, ad un certo punto, essere beat diventa scomodo. Da un lato gli attacchi della società e dall’altro l’eccessiva pressione di fans e giornalisti. Questi ultimi si aspettavano (desideravano) una rivoluzione che i Beat non avevano il coraggio di iniziare. Probabilmente mancava il tipo di coraggio che solo la disperazione, o l’amore. può dare.
La Beat Generation darà vita a due movimenti: i Beatniks e alla controcultura degli Hippie (o Hippy). Entrambi i gruppi saranno motivo di grave malcontento della società contro gli scrittori beat che, per il loro modo di vivere, non sembravano differenziarsi da queste due categorie, ma solo apparentemente.
I BEATNIKS
La parola beatnik è stata inventata da un giornalista del San Francisco Chronicle, nel ’58, in senso denigratorio. Si tratta dell’unione di parole di Beat con il satellite sovietico Sputnik. Sottolineava, così, la vicinanza alle idee comuniste, in un'epoca in cui gli Stati Uniti vivevano un profondo sentimento di anticomunismo e una paranoica paura rossa durante il periodo maccartista della guerra fredda.
I Beatnik erano la ‘fazione’ ribelle (o più intensa) della Beat Generation. La rispettabilità era sempre più messa in discussione, il conformismo sempre minore, le droghe sempre più ricercate e sperimentate, il sesso sempre più libero e usato come mezzo catartico di liberazione.
Dai Beatniks agli Hippie il passo è breve, specialmente considerando il contesto storico-politico.
Gli HIPPIES
Con l’invio regolare di truppe in Vietnam, nel ’65, i movimenti studenteschi, che avevano prevalentemente solo carattere sociale, diventano politici.
Gli Hippie sentono di aver perduto non solo se stessi e la società (come i Beats) ma anche la Patria, tanto importante per gli americani. Fino ad allora tutti i conflitti armati erano stati considerati ‘giusti’, erano ‘lotte per la libertà’. Andare in guerra per l’America non era un dovere ma un diritto e un privilegio. La guerra in Vietnam, invece, si sentiva troppo distante, era considerata ingiusta e fatta da un’America imperialista e distruttiva. Nell’era della televisione c’era poco spazio alle menzogne e alla retorica patriottica.
Nell’agosto del ’65, la NBC (rete nazionale), trasmise un servizio giornalistico in cui si vedeva un plotone di soldati statunitensi che, dopo aver rastrellato un villaggio vietnamita in cerca di Vietcong, incendiava SENZA ragione le capanne e le coltivazioni.
L’indignazione maggiore apparteneva a quei giovani che avrebbero dovuto partecipare alla guerra come reclute. Fu altrettanto ovvio che i reduci di quella guerra non vennero trattati da eroi.
Inizialmente la protesta fu pacifica: sit-in e cortei. Nonostante tutto, infatti, gli studenti credevano ancora in una democrazia vera e in un ascolto da parte di chi governava la loro Patria. Fu un’illusione, anzi. Gli USA iniziarono ad usare ogni mezzo, anche i più meschini (napalm, defoglianti chimici, etc). La guerra non andava bene e di certo proseguiva, lo si intuiva anche dall’aumento delle cartoline precetto per il richiamo alle armi.
A quel punto, le vie possibili erano 4:
1. andare a combattere una guerra ingiusta
2. diventare clandestini
3. fuggire all’estero
4. avere un esonero per cause mediche ( soluzione molto diffusa fra i ceti medio-alti, che fece sospettare una certa connivenza fra medici e soldi)
Le ultime due soluzioni erano fattibili solo per coloro che avevano possibilità economiche consistenti.
Si inasprirono le differenze sociali, specie fra bianchi (maggiormente più ricchi) e neri con conseguenze anche fra quegli studenti che fino a poco prima lottavano insieme.
[Diamo un’occhiata all’elenco degli eventi che trovate in cima all’articolo, dal ’60 in poi.]
Sfiniti, sviliti dagli eventi storici, e clandestini erano ormai disperati. E’ da questa disperazione che gli Hippie traggono coraggio (ok, forse anche dalle droghe) e scelgono la via della Pace, del viaggio (teorico e pratico), della TOTALE libertà insieme e dell’Amore che vince su TUTTO: sulla guerra, sugli stereotipi, sulle restrizione, sulla politica)
Ecco, dunque: Politica e slogan, Viaggio, Moda, Rock psichedelico e StreetArt, Sesso e Droga.
POLITICA e Slogan
Non erano politicizzati ma non si astennero dai cortei non-violenti: marce per i diritti civili, le dimostrazioni contro la Guerra del Vietnam (compreso il dar fuoco alle cartoline di chiamata alla leva, o le lezioni informative nelle università). Memorabili i loro slogan: "Mettete dei fiori nei vostri cannoni" e "Fate l'amore, non la guerra"). Non mancò un sottogruppo minoritario, gli Yippie, politicamente più attivo
Il VIAGGIO
Mentale e non.
Si trattava di un movimento complesso nella sua semplicità che oltre a derivare dalla Beat Generation e, prima ancora, dagli hipster, affondava le sue radici ( prendendone linfa vitale) anche negli antichi greci (es. Diogene di Sinope, i Cinici) e da Gesù Cristo, e da Hillel il Vecchio (rabbino ebreo), e da Buddha, e da Francesco d’Assisi, e H. D. Thoreau, e H. Hesse, e Gandhi, senza escludere Casanova, il Marchese de Sade, Byron, C. Baudelaire, P. Verlaine, A. Rimbaud.
Da qui anche una voglia di conoscere ed esplorare non solo se stessi ma anche il mondo, le altre culture e crearsi nuove amicizie. Gli Hippie avevano una mentalità ampiamente comunitaria e i viaggi avvenivano in gruppo. Scuolabus simili al Ken Kesey's Furthur, o all'iconico VW, divennero popolari perché più persone potevano viaggiare insieme economicamente.
Il VW bus divenne proprio uno dei simbolo tipici, ridipinto con grafica psichedelica e/o personalizzato, e con un simbolo di pace che, spesso, sostituiva il marchio Volkswagen.
Comunque, molti preferivano l'autostop: più economico, ecologico, e sicuro per incontrare nuove persone. L'apice fu raggiunto al Festival di Woodstock, ma la più memorabile esperienza intrapresa da centinaia di migliaia di giovani fu il viaggio via terra verso l'India (alla fine degli anni’60): il cosiddetto hippie trail. Portandosi dietro poco o niente nel bagaglio e con pochissimi soldi in tasca, seguivano la stessa strada, attraversando l'Europa
MODA dai colori vividi
Addio allo stile beatniks dai colori colori sobri, lenti scure e barbette a punta.
Benvenuti vestiti coloratissimi e con fantasie psichedeliche (t-shirt tie dyed, indonesiano, batik, dashiki o camicette per le donne), accessori e dettagli degli indiani d’America, copricapi, bandane, collane extralarge, capelli lunghi, petti nudi e barbe lunghe (per gli uomini), make up minimo o assente e no ai reggiseni (per le donne), pantaloni blu jeans a zampa di elefante, sandali o nulla. Gran parte di questi indumenti era autoprodotta per contrastare la cultura delle aziende, e spesso acquistavano i propri abiti nei mercatini delle pulci o dell'usato.
La loro moda mostrava un basso status sociale, coerentemente con ideali di povertà e semplicità, con un vestiario che rifletteva uno stile di vita disordinato e spesso vagabondo e tanta voglia di vita e una riduzione massima alle differenze di genere
ROCK psichedelico e STREET Art
L’arte diventa espressione forte di sentimenti forti: via al Rock Psichedelico (che approfondiremo nell’articolo di domani dedicato alla musica e al Festival di Woodstock), e alla StreetArt in tutte le sue forme
SESSO e DROGA
I due talloni d’Achille, per cui vennero molto criticati.
Il sesso divenne sempre più libero, in senso spirituale, di catarsi, e di libertà. Nonostante ciò, non vi fu un altro boom delle nascite grazie alla Food and Drug Administration che, nel ’60, approvò l'utilizzo della pillola anticoncezionale come contraccettivo. Immediatamente le donne avevano scoperto quali benefici il suo uso fornisse. Il vantaggio fu accolto anche alle borghesi che potevano perseguire un successo lavorativo senza temere di essere interrotte da un figlio indesiderato .
L'amore omosessuale non fu più considerato un tabù assoluto e le prime organizzazioni gay fecero la loro comparsa soprattutto nella zona di New York.
La Droga assume una connotazione spirituale, tanto che Timothy Leary, ex insegnante di Harvard (causa spaccio di LSD), fondò la Lega per la Ricerca Spirituale. Famosi scrittori quali Ginsburg e Kesey, oltre a cantanti di livello internazionale come Bob Dylan, i Beatles e i Rolling Stones, si avvicinarono al culto per periodi più o meno lunghi.
La rivoluzione, tanto attesa, era arrivata e fu di risonanza mondiale.
Registi, artisti, scrittori, musicisti, stilisti allora come ora non fanno che prendere spunto e ispirazione da questo movimento.
Nel ‘67 la rivista TIME presentò una copertina intitolata "Gli Hippy: La filosofia di una subcultura". Nell’articolo ne descriveva le linee guida: «Fai le tue cose, ovunque devi farle e ogni volta che vuoi. Ritirati. Lascia la società esattamente come l'hai conosciuta. Lascia tutto. Fai sballare qualsiasi persona normale con cui vieni in contatto. Fagli scoprire, se non la droga, almeno la bellezza, l'amore, l'onestà, il divertimento».
OGGI
L'eredità Hippie può essere osservata nella cultura contemporanea in una miriade di forme:
- salute alimentare e ambientale (erano spesso vegetariani e ambientalisti, esperti nell’omeopatia)
- riciclo creativo
- fantasia
- festival di musica
- attenzione alle filosofie orientali o, comunque, alla diversità religiosa
- costumi sessuali contemporanei
- anti-autoritario (specie contro il controllo delle multinazionali e dei governi)
- moda (ultima ma non ultima): dal rifiuto delle divise, alla mescolanza di capi eterogenei. E ciclicamente ritornano modelli che richiamano la stagione degli hippy (colori acidi, pantaloni svasati, frange, grandi occhiali ecc.)
- ricerca, forse utopistica, di utilizzare l’Amore, il Colore, l’Arte, la Musica come ‘arma’ di massa contro ogni tipo di sopruso
Spero che questo articolo vi sia piaciuto. Domani tanti approfondimenti, da Woodstock, ai film icona, e molto di più
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Esperimenti di scrittura 6/7 AL SUPERMERCATO Si scriverà (mi viene spesso da scrivere “si parlerà”, ma...) di supermercati, ipermercati, mercatoni e affini. I nomi già sono una violenza, obbligano lo scrittore a scriverlo, che sono, cioè vogliono essere: super-, iper-, -oni. Devi chiamarli così, altrimenti come lo dici. Esisterà un nome tecnico non usato nella parlata volgare? Un nome di cosa non dovrebbe contenere simili superlativi, addirittura assoluti. Si lasci libero lo scrittore (ma chiunque, in fondo) di poterli definire con un vocabolo di grado zero, e poi ac-crescerlo oppure de-crescerlo secondo l’esperienza che ne fa; invece (chi controlla il linguaggio controlla il mondo) il nome, prima ancora dell’esserci dentro, di scriverne, trascina lo scrittore (ma chiunque, vedi sopra) in un’intrinseca valutazione semantica, non voluta, circon-voluta su un significato aggregato. Sentite come suonerebbe diverso se si chiamassero: mercati-a-carrello. Invece super-iper-one è un nome che dichiara già nel suo segno di battesimo un piano di battaglia, una volta si chiamava il Sindaco e/o il Parroco all’inaugurazione di una nuova azienda, dunque davvero battesimo; un piano di battaglia, come se uno stato si chiamasse Antifrancia (esistono stati con nomi simili?), che non nasconde il suo voler essere diverso/contro/meglio del suo antagonista, eppure... esiste solo in funzione dell’accrescitivo: non è qualcosa di diverso, di alternativo, bensì solo il suo avversario, quella è la sua ragione d’essere, una cosa con un accrescitivo davanti o dietro. Meglio di che? Lo scrittore si chiede: meglio forse del mercato-piazza, che sia un paragone di dimensioni. Poi gli vengono in mente mille esempi di mercati-piazza molto più grandi, più assortiti di quelli che si vogliono far chiamare super-iper-oni. Forse per il fatto che sono al coperto? Nemmeno, ci sono mercati-piazza anche coperti. Forse perché al posto di tanti proprietari di banchi diversi tra di loro c’è un solo possidente di tutta la baracca? Questo li rende super-iper-oni? Prima di sottoporsi all’esperimento di scrittura al supermercato, allo scrittore viene un dubbio: tra le tante fiction e serie televisive non ne esiste nessuna ambientata in un supermercato? Forse sì, gli sembra di ricordare, era una cosa che trasmettevano alla tv catodica degli anni ottanta, poteva definirsi pieno boom economico? Con il senno di poi. Ah, e poi c’era quell’altra cosa ambientata in un c’entro commerciale. Lo scrittore si rifiuta di scriverne qui il titolo. Tuttavia, lo scrittore vuole principiare pulito il suo esperimento di scrittura al supermercato, sa che ne sono già state scritte migliaia, di analisi socio-filo- economiche sul fenomeno dei supermercati (e dei c’entri commerciali); e altrettante analisi a seguirne l’evoluzione, dei super-iper-mercat-oni, che hanno cambiato faccia, sono diventati friendly, alcuni addirittura sono riserve dove marchi di qualità (parole chiave: territorio, gusto, salute) fanno sfoggio delle loro piume di pavone, per essere comprati, per giustificare un costo. Un amico diceva: perché la qualità deve essere solo per i ricchi? Perché i poveri devono mangiare schifezze? Comunque, per scrivere al supermercato lo scrittore deve: accettare il fatto che sedersi da qualche parte (non ci sono posti a sedere) significa essere guardato male oppure interrogato continuamente dai commessi se ha bisogno di qualcosa oppure si sente bene; oppure impratichirsi nell’arte del carrello come punto d’appoggio. A questo scopo si presta bene il seggiolino per bambini integrato al carrello: ecco perché mia madre, quando – me presente – parlava con qualcuno di una parente oppure di una conoscente che aveva partorito, diceva “ha comprato un bambino”. La cicogna ha messo in piedi una start-up di successo. Il seggiolino per bambini, con un po’ di pratica, può diventare un buon piano di scrittura per lo scrittore. La sua opera è come un figlio, per lui: dunque il diario/quaderno/foglio sul seggiolino per bambini è nella posizione ideale. Lo scrittore nota: guardare il diario/quaderno/foglio appoggiato sul seggiolino per bambini integrato al carrello comporta anche avere la visione del contenuto del carrello, vuoto, semivuoto, semipieno o pieno che sia. Lo scrittore è qui per scrivere oppure fa di necessità virtù e, già che c’è, provvede a fare la spesa? Si possono scegliere le parole per scrivere mentre si scelgono i prodotti per vivere? Con un po’ di fortuna, se lo scrittore si impratichisce con lo scrivere deambulando con il carrello della spesa, il suo diario/quaderno/foglio verrà scambiato per una lista della spesa, e nessuno lo importunerà. La lista ha una sua giustificazione sociale, il periodare no. Tuttavia, il fantasma del grande ma-in-realtà non tarderà a tormentare lo scrittore. Il seggiolino per bambini integrato al carrello è comodo e permette alla madre/padre di controllare il figlio, e che così non si allontana, ma-in-realtà serve a prolungare il tempo di permanenza della madre/padre presso il super-iper-mercat-one (e magari comprare, altro, e altro ancora); madre/padre che non dovranno sentire le lamentele del figlio sono stanco di camminare e dunque non saranno indotti a tornare a casa. Oppure: i prodotti sugli scaffali sono tanti, e molti anche scontati, ma-in-realtà a casa non resterà nulla della sensazione di abbondanza che la pienezza degli scaffali trasmetteva, i prodotti spesso sembrano in concorrenza tra di loro, ma-in-realtà sono prodotti dalla stessa multinazionale alimentare, e se molti sono scontati significa che da qualche parte (prima, a prezzo pieno) c’era un margine di risparmio per me che invece è diventato guadagno per qualcunaltro. Oppure: le casse automatiche sono pratiche e veloci ma-in-realtà sono posti di lavoro persi per qualcunaltro (non quello della frase precedente, ovvio). E’ chiaro, è evidente che le cose stanno così, nessuno lo negherebbe mai; eppure il potere del super-iper-mercat-one è quello di ricevere dal suo pubblico un’assoluzione: il Grande Perdono per il suo ma-in-realtà. Il risparmio val bene una messa (in carrello). Allo scrittore che scrive al super-iper-mercat-one farà invece comodo (ma con un retrogusto di inquietudine) il fatto che: mentre al mercato-piazza capita di fermarsi e chiacchierare, perché si incontrano persone (cosa che lo interromperebbe nella scrittura), al super-iper-mercat-one nessuno parla con nessuno, nemmeno per chiedere di spostare un po’ il carrello quando non riesce a passare con il suo. D’altro canto, in chiesa non si parla; al cospetto della perfezione geometrica di forme e colori e disposizioni e dell’abbondanza di beni delle corsie un certo religioso silenzio si impone al passante- spingente-il-proprio-carrello; silenzio religioso sottolineato (come canti gregoriani in una cattedrale) dalla musica onnipresente, ossessiva, vuota di significato, che pervade l’aria, lo spazio, la mente; musica ambientale che serve a rilassare ma-in-realtà ha il preciso scopo di impedire il pensiero profondo, l’introspezione, è una cortina fumogena tutt’intorno al campo da gioco del super-iper-mercato-one. Lo scrittore cerca di immaginare: un supermercato senza musica ambientale? Provate a vedere che cosa vi succede, a farvi un giro in un super-iper-mercat-one con i tappi nelle orecchie. Tutti al super-iper-mercat-one sbirciamo dentro ai carrelli la spesa altrui; lo scrittore che scrive al super-iper-mercat-one sbircia dentro ai carrelli altrui, e prova ad immaginare quale potrebbe essere la spesa di alcuni personaggi della letteratura. Possiamo immaginarci Kafka, Cortazar, Majakovskij, Verlaine al super-iper-mercat-one? Avrebbero potuto essere assunti come commessi? Come avrebbero reagito ad una rapina a mano armata alle casse mentre che aspettavano in coda? Anche loro, come lo scrittore che scrive al super-iper-mercat-one, avrebbero avuto quella strana sensazione, nel dover cercare l’uscita senza acquisti, oppure passare alla cassa giustificandosi con la cassiera per non aver comprato nulla? Lo scrittore che scrive al super-iper-mercat-one sospetta anche che, a seconda delle corsie e dei prodotti esposti, possa cambiare la sua prosa. La zona prodotti per la casa avrà un impatto diverso sulla sua scrittura rispetto a quella frutta e verdura. Quanto tempo è lecito stare al super-iper-mercat-one gironzolando con un carrello (magari vuoto) prima che l’uomo che sta dietro alle telecamere si insospettisca, e si prepari per controllare le sue tasche da scrittore all’uscita? E i cartellini dei prezzi: una volta erano scritti e sostituiti a mano, oggi sempre più spesso si trovano piccoli display con il prezzo trasmesso a distanza, un click e il costo di tutti i pacchi di pasta sale oppure scende di un’euro. Mi chiedo come mai un hacker non abbia ancora provato ad intrufolarsi nella Rete di un super-iper-mercat-one per regalare uno sconto a centinaia di pensionati cassaintegrati interinali tempo-determinati che contano le monete prima di allungare la mano verso una scatola di biscotti. Sarebbe una buona trama per una storia. Se il parallelo con altri luoghi di trascendenza e di estasi (come le chiese, i bagni turchi oppure le piramidi maya e via dicendo) solletica lo scrittore, non potrà fare a meno di considerare che la meditazione proposta dagli officianti sacri degli iper-super- mercat-oni è da svolgersi in piedi ed in movimento: sei di passaggio, il tuo tempo è denaro (tuo ma anche nostro, pensano gli officianti sacri), la precisione razionale con cui i prodotti sono esposti e messi in sequenza uno dopo l’altro serve a guidarti verso la cassa e dunque all’uscita e al ritorno alla tua casa (non c’è avventura nel percorrere il bosco del supermercato, tutto è rassicurante, è un non-viaggio). Non devi fermarti: devi prendere e passare oltre. Accetta il transeunte su ruote di carrello ben oliate e, per cortesia, non intralciare gli altri che meglio di te scorrono lungo le corsie e attraverso la barriera delle casse. Un super-iper-mercat-one che lo scrittore ha visitato tempo fa esponeva un enorme cartello rosso con una scritta bianca: FRESH, FAST, FRIENDLY. Fresco, veloce, amichevole. Sarà fresca, veloce ed amichevole la scrittura dello scrittore che scrive al super-iper-mercat-one? Anche quando gli capiterà di passare davanti agli scaffali di libri? C’è un filo sottile che lega i roghi dei libri di neanche tanto tempo fa, ai libri esposti davanti al reparto surgelati.
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Era l'epoca cruda delle tasse. Due fortissime ne erano scoppiate tra capo e collo e quasi insieme, dopo la morte del padre, al cui cupo brontolamento e alle cui fin troppo scrupolose sollecitudini erano sempre state affidate queste pratiche. Una era la «patrimoniale straordinaria», una sgarbata, vendicativa tassa decretata dai governi del primo dopoguerra, più severi coi borghesi, e finora procrastinata dalle lente burocrazie per deflagrare adesso, quando meno ce la si aspettava. L'altra era la tassa di successione sull'eredità paterna, un'imposta che pare ragionevole finché è vista dal di fuori ma che quando ce la si sente giungere addosso ha la virtù d'apparire inconcepibile. A Quinto la preoccupazione di non aver al mondo neanche la decima parte dei quattrini necessari per pagarle, e l'avito rancore contro il fisco degli agricoltori liguri parsimoniosi e antistatali, e poi l'ineliminabile rovello degli onesti d'essere loro soli massacrati dalle imposte «mentre i grossi, si sa, riescono sempre a scapolarsela», e ancora il sospetto che vi sia in quel labirinto di cifre un trabocchetto evitabile ma solo a noi sconosciuto, tutte queste turbe di sentimenti che le pallide bollette delle esattorie suscitano nei cuori dei più verginali contribuenti, si mischiavano con la coscienza d'essere un cattivo proprietario, che non sa far fruttare i propri averi e che in un'epoca di continui avventurosi movimenti di capitali, millantati crediti e giri di cambiali se ne sta mani in mano lasciando svalutare i suoi terreni. Così egli riconosceva che in tanta sproporzionata cattiveria della nazione contro una famiglia priva di redditi agiva con logica luminosa quello che in linguaggio curiale suole chiamarsi «l'intendimento del legislatore»: colpire i capitali improduttivi, e chi non riesce o non ha voglia di farli fruttare ben gli sta.
Italo Calvino, La speculazione edilizia, Einaudi (collana I coralli, n° 189), 1963¹; pp. 14-15.
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Era una folta Italia in tailleur, in doppiopetto, l'Italia ben vestita e ben carrozzata, la meglio vestita popolazione d'Europa, quale contrasto per le vie di *** con le comitive goffe e antiestetiche dei tedeschi inglesi svizzeri olandesi o belgi in vacanza collettiva, donne e uomini di variegata bruttezza, con certe brache al ginocchio, coi calzini nei sandali o con le scarpe sui piedi nudi, certe vesti stampate a fiori, certa biancheria che sporge, certa carne bianca e rossa, sorda al buon gusto e all'armonia anche nel cambiar colore. Queste falangi straniere che, avide di bagni fuori stagione, prenotavano alberghi interi succedendosi in turni serrati da aprile a ottobre (ma meno in luglio e agosto, quando gli albergatori non concedono sconti alle comitive) erano viste dagli indigeni con una sfumatura di compatimento, al contrario di come una volta si guardava il forestiere, messaggero di mondi più ricchi e civilmente provveduti. Eppure, a incrinare la facile alterigia dell'italiano ben messo, disinvolto, lustro, esteriormente aggiornato sull'America, affiorava il senso severo delle democrazie del Nord, il sospetto che in quelle ineleganti vacanze si muovesse qualcosa di più solido, di meno provvisorio, civiltà abituate a concludere di più, il sospetto che ogni nostra ostentazione di prosperità non fosse che una facile vernice sull'Italia dei tuguri montani e suburbani, dei treni d'emigranti, delle pullulanti piazze di paesi nerovestiti: sospetti fugacissimi, che conviene scacciare in meno d'un secondo.
Italo Calvino, La speculazione edilizia, Einaudi (collana I coralli, n° 189), 1963¹; pp. 85-86.
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