#la regione più al sud del Portogallo
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Il 29 settembre 1938 Hitler incontrò a Monaco il premier inglese Neville Chamberlain, il Primo ministro francese Édouard Daladier e Benito Mussolini. Il mattino seguente firmarono un accordo che permetteva all’esercito tedesco di completare l’occupazione della regione dei Sudeti. Gran Bretagna e Francia comunicarono al governo cecoslovacco che poteva resistere da solo all’invasione nazista o arrendersi e accettare l’accordo. Abbandonata dai suoi alleati, la Cecoslovacchia gettò la spugna rapidamente. Al loro ritorno in patria, Chamberlain e Daladier furono accolti da folle esultanti, convinte che era stato evitato un conflitto militare disastroso con il Terzo Reich e di avere placato le sue ambizioni egemoniche in Europa. Nel marzo del 1939 Hitler ruppe l’accordo annettendosi l’intera Boemia e la Moravia.
Con una palese allusione al “tradimento di Monaco”, il filosofo cattolico scrive: “Questo pacifismo, nel settembre del 1938 non aveva a cuore la giustizia dei Sudeti, né quella dei Cechi, né quella dei Trattati, né quella delle loro vittime, né l’ingiustizia della guerra, ma aveva una sola ossessione: che non si interrompessero i suoi sogni di pensionato. […] La pace è compromessa non solo dai guerrafondai ma anche dagli imbelli […]. E ’forse questo il comportamento che si addice ai fedeli di una religione la cui pietra angolare è costituita da un Dio fattosi uomo sulla terra?”. Sono parole nobili, espressione di un “realismo cristiano” sideralmente distante da quello esibito dai cattolici della “pace come bene assoluto” e della “guerra come male assoluto”.
Non per caso personalità di rilievo del mondo cattolico, penso a Rosy Bindi, Andrea Riccardi e, ovviamente, Marco Tarquinio, hanno espresso grande soddisfazione per il voto di tanti europarlamentari italiani contrario all’uso delle delle armi occidentali nel territorio russo. Pacifisti radicali, per loro il ricorso alle armi è sempre un crimine e non esistono guerre giuste. Beninteso, la maledizione della guerra e dei suoi orrori risale al paleolitico superiore. Viene cavalcata anche da due leader politici, entrambi devotissimi -oltre che a Putin- uno alla Vergine e l’altro a Padre Pio, per il consenso che riscuote tra gli elettori, poiché accantona il dilemma “burro o cannoni”.
Ha scritto Norberto Bobbio: “Pacifismo non è soltanto invocare la pace, pregare per la pace, dare testimonianza di volere la pace […]. Opporre la nonviolenza assoluta in ogni forma, anche la più piccola, di violenza. Offrire l’altra guancia. Meglio morire come Abele che vivere come Caino. Ma non è forse vero che l’impotenza dell’uomo mite finisce per favorire il prepotente?” (“Il problema della guerra e le vie della pace”, il Mulino, 1997). Certo, Bobbio è un filosofo laico, e non fa testo per chi ha fede. Una fede talmente smisurata da dimenticare sistematicamente che il principio “Vim vi repellere licet” (“È lecito respingere la violenza con la violenza”), già presente nel Digesto di Giustiniano (533) e accettato da ogni ordinamento giuridico e da ogni dottrina morale, con una sua interpretazione perfino estensiva è stato accolto nel Catechismo della Chiesa Cattolica: “La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere” (n.2265).
Purtroppo, quanto afferma il Catechismo viene incredibilmente ignorato da papa Francesco. Un pontefice che dal febbraio 2022 non ha trovato il tempo per visitare la “martoriata Ucraina”, pur essendo stato in Canada, Malta, Kazakistan, Bahrein, Congo, Sudan del Sud, Ungheria, Portogallo, Mongolia, Francia, Indonesia, Papua Nuova Guinea, Timor Est, Singapore e Belgio. Un pontefice il quale non si stanca di ripetere che “la pace non si costruisce con le armi, ma attraverso l’ascolto paziente, il dialogo e la cooperazione, che rimangono gli unici mezzi degni della persona umana per risolvere i conflitti”. Chissà, forse si rivolgeva anzitutto all’autocrate del Cremlino, ma non ne sono molto sicuro.
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Napoli in testa: le città più amate per le vacanze
I viaggi rappresentano un'occasione per rilassarsi, esplorare nuovi luoghi e immergersi in culture e tradizioni diverse. Ma quali sono le destinazioni preferite dagli italiani? Un recente studio svela i luoghi più cercati per trascorrere le vacanze, rivelando tendenze interessanti e sorprendenti in Italia e all’estero. Sardegna al Nord, Puglia al Sud: le mete italiane più amate Tra le regioni italiane è da segnalare la popolarità crescente di Basilicata e Umbria, precedute da destinazioni classiche come Toscana e Trentino. In testa le due grandi isole e una regione marittima che ha guadagnato grande popolarità negli ultimi anni. Sorpende in questo caso l’assenza di Campania e Lazio. Interessante anche la distribuzione geografica che vede una netta divisione tra nord e sud del paese: al nord domina la Sardegna, mentre al sud si distingue l’interesse per la Puglia. Albania meglio degli Stati Uniti, avanza la Turchia Tra le mete estere per le vacanze, Tunisia e Marocco aprono la top 10 seguiti da Portogallo e Turchia, mentre fa notizia la posizione bassa della Spagna. In cima alle preferenze Croazia, Grecia e Albania, con quest’ultima che ha recentemente superato gli Stati Uniti grazie alla promozione delle sue bellezze naturali. Le preferenze variano significativamente a seconda delle regioni italiane, con un forte interesse per l'Albania al sud e per la Grecia al nord; in calo l’Egitto. Questi dati offrono uno sguardo interessante sulle scelte di viaggio degli italiani, lasciando spazio per ulteriori approfondimenti nella ricerca completa. Vacanze: Assente Roma, Napoli in testa Lo studio prosegue con l’analisi delle città italiane più cercate e con una sopresa: l’assenza di Roma. Siracusa, Mantova, Peschiera del Garda e Trieste occupano le ultime posizioni, mentre Bologna e Firenze si confermano mete intramontabili. Sul podio le soprendenti Matera e Ortigia, in testa Napoli con un ampio margine di vantaggio (con il capoluogo campano che ‘vendica’ così l’assenza della regione nella prima classifica). A livello regionale, Napoli prevale nella maggior parte delle regioni, su tutte Sardegna, Abruzzo e Liguria, mentre Firenze domina in Toscana e Valle d'Aosta. Quattro città spagnole in classifica, ma la vetta delle vacanze è portoghese La ricerca si conclude con il ranking delle città estere, aperto da Berlino, Barcellona e Madrid a pari numero di ricerche, con New York che rappresenta l’unica città non europea in settima posizione. Il primato spagnolo è confermato da Valencia e Siviglia (quinto e quarto posto), mentre le imperiali Vienna e Budapest occupano i gradini più bassi del podio. Lisbona emerge come la città più cercata con 900 ricerche. Le preferenze regionali variano notevolmente: Valencia in Emilia-Romagna, Vienna in diverse regioni del centro-sud (ma la percentuale più alta è nel vicino Friuli) e Budapest in Sardegna, Puglia, Veneto e Trentino. Lisbona riscuote il maggior successo nelle Marche. Foto di Lajos Móricz da Pixabay Read the full article
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Economia sostenibile, L'Emilia-Romagna guiderà il progetto europeo 'Blue Ecosystem'
Economia sostenibile, L'Emilia-Romagna guiderà il progetto europeo 'Blue Ecosystem'. La Regione Emilia-Romagna coordinerà il progetto europeo 'Blue Ecosystem' proposta che punta a realizzare laboratori di innovazione trasformativa e di co-creazione per l'economia sostenibile. Approvato nell'ambito del programma di cooperazione territoriale europea Interreg Euro-Med, il progetto Blue Ecosystem, avrà una durata complessiva di 33 mesi, quindi fino al 30 settembre 2026, e un budget di 2 milioni e 978mila euro. L'avvio ufficiale è fissato per il 30 maggio a Barcellona in concomitanza con l'Innovation Camp che si svolgerà proprio in quei giorni. I laboratori di innovazione e di co-creazione trasformativa saranno realizzati, in coerenza con i piani d'azione regionali sull'economia blu, in ciascuna realtà pilota del progetto: nelle Isole Baleari, in Emilia-Romagna, nel Sud Paca - Occitanie, nella regione di Zadar, nell'Attica, in Albania e nell'Alentejo. "Si tratta di progetti complessi, che richiedono tempo e attenzione per costruire un partenariato solido, affidabile e competente rispetto alle attività da mettere in campo- ha detto l'assessore regionale allo Sviluppo economico e green economy, Vincenzo Colla-. L'obiettivo è garantire un impatto istituzionale rilevante in termini di dialogo e di governance delle politiche di innovazione della blue economy. Solo così si rafforza assieme alle Università e ai centri di ricerca il sistema di ricerca consentendo di realizzare innovazione, condizione necessaria per qualificare le filiere produttive dei paesi coinvolti". L'iniziativa poggia su una esperienza di cooperazione internazionale consolidata della Regione Emilia-Romagna che, nel settennio 2014-2021, ha guidato la realizzazione del progetto europeo 'Mistral' che ha avuto l'obiettivo di sostenere i cluster e le imprese che operano nei vari settori dell'economia blu, per migliorarne l'innovazione, la competitività e realizzare un'area di cooperazione mediterranea coesa. Il progetto, tenendo conto dei risultati raggiunti con Mistral, avrà l'obiettivo di sperimentare metodologie innovative che terranno conto delle peculiarità territoriali delle aree coinvolte nel partenariato, delle esperienze delle organizzazioni presenti per garantire risultati efficaci, concreti e contribuire a creare un'economia blu più sostenibile e resiliente nell'area del Mediterraneo. I partner del progetto Il partenariato che la Regione Emilia-Romagna guiderà vedrà coinvolti il Pôle Mer Méditerranée - Toulon Var Technologies (Provence-Alpes-Côte d'Azur - Francia), l'Hellenic Centre for Marine Research (Attiki - Grecia), Alentejo regional development agency (Alentejo - Portogallo), Croatian Chamber of Economy (Croazia), Maritime Cluster of Balearic Islands (Illes Balears – Spagna), University Aleksander Moisiu (Durres – Albania), Chrysalys Leap (Kýpros – Cipro), Conference of Peripheral Maritime Regions (Bretagne – Francia) e Art-ER (Italia). Inoltre saranno coinvolti in qualità di partner associati il Cluster tecnologico nazionale blue italian growth (Italia), la Regione Lazio, il Cluster Maritimo-Marino de Andalucia (Spagna), il Fórum Oceano – Associação da Economia do Mar (Portogallo), il Clúster Marítimo Español (Spagna), il Ministero de Agricultura, Pesca Y Alimentación (Spagna), Cyprus Energy Agency (Cipro), University of Zadar (Croazia), il Dipartimento della scienze del sistema terra e tecnologie per l'ambiente del Cnr, l'agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile, Comissão de Coordenação e Desenvolvimento Regional do Alentejo (Portogallo) e l'Agenzia strategica per lo sviluppo ecosostenibile del territorio (Italia).... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Cristoforo Colombo: Breve dissertazione sull’uomo, il suo tempo ed il mito
Chi è stato Cristoforo Colombo? Qual è stato il suo ruolo nella scoperta europea e nella successiva invasione del continente che oggi chiamiamo Americhe?
Queste alcune delle domande che hanno spinto la realizzazione della seguente breve relazione, che si propone di ripercorrere i tratti salienti della vicenda del navigatore genovese, senza mai perdere di vista l’ambito più generale in cui questa prese le mosse, nonché tenendo sempre da conto che nella persona di Colombo “Storia” e “storie” dimostrano la loro inscindibilità, e che spirito critico e metodo rigoroso sono essenziali nell’indagine storica.
Il contesto
Cristoforo Colombo nacque a Genova nell’autunno del 1451. La città ligure era all’epoca uno dei principali poli commerciali del Mediterraneo e dopo la pace di Lodi del 1454 poté godere della relativa stabilità nella Penisola per dedicarsi più proficuamente ai suoi traffici marittimi. A questi partecipò lo stesso Colombo, viaggiando prima con suo padre e poi con altre grandi compagnie mercantili genovesi, cominciando così ad acquisire le prime competenze in materia di navigazione.
Se però l’Italia stava conoscendo un quarantennio di sostanziale pace, lo stesso non poteva dirsi per l’area del Mediterraneo orientale. Nella prima metà del XV secolo l’Impero Ottomano era penetrato nei Balcani e due soli anni dopo la nascita di Colombo, nel 1453, aveva conquistato Costantinopoli, decretando la fine dell’Impero Romano d’Oriente. Per Genova ciò significò la perdita definitiva di un accesso più agevole alle sue tratte d’elezione, cioè quelle che dall’Asia transitavano per il Mar Nero, mentre per l’Europa cristiana in generale costituì un ulteriore sprono a un fenomeno che già aveva preso avvio all’inizio del secolo: la ricerca di una nuova via per i mercati asiatici.
Sotto Enrico il Navigatore, infatti, il regno del Portogallo aveva intrapreso una campagna di esplorazione e costruzione di basi lungo le coste dell’Africa atlantica conquistando Ceuta nel 1415, occupando Madera, le Azzorre e Capo Verde fra il 1420 e il 1456 e arrivando nel 1487 a raggiungere l’estremità meridionale del continente con la spedizione di Bartolomeu Dias. L’idea di evitare di trattare con il mondo islamico per ottenere le merci asiatiche si accompagnava peraltro ad un’attiva lotta contro quest’ultimo che proprio nella penisola iberica aveva conosciuto il fronte più intenso con le diverse fasi della cosiddetta Reconquista. Accanto al Portogallo, dunque, avvantaggiato per posizione geografica nell’esplorazione oceanica, venne a trovarsi il regno di Castiglia, che anche prima della conquista di Grenada nel 1492 aveva cominciato a interessarsi ad una espansione marittima.
Questo interesse castigliano per l’Atlantico, frustrato dal dinamismo portoghese e dalla efficace resistenza degli arabi in Marocco, riuscì però a trovare sbocco in un altrettanto inappagato progetto: quello di Cristoforo Colombo di attraversare l’Oceano verso ovest per raggiungere l’Asia. Colombo si era infatti stabilito in Portogallo nel decennio precedente e lì aveva potuto apprendere le tecniche della navigazione oceanica e proporre la sua idea alla corte di Giovanni II, che si era però rifiutato di appoggiare l’impresa. Di altro avviso si dimostrò la regina di Castiglia, Isabella. Dopo il Trattato di Alcáçovas del 1479 con il Portogallo, infatti, alla Castiglia era stato proibito l’accesso all’Atlantico a sud delle Canarie; conseguentemente, le era stato reso impossibile raggiungere l’Asia viaggiando verso est, lasciando quindi aperta solo la via ad ovest, mai tentata prima e da molti ritenuta impercorribile. Fu così che, nel 1492, Colombo poté intraprendere quella traversata che tanto lo rese celebre e che ebbe un influsso decisivo sulla storia mondiale.
Il progetto di Colombo
L’idea di Colombo di attraversare il Mar Oceano per raggiungere l’Asia maturò quindi in un contesto di grandi trasformazioni degli orizzonti geografici, culturali e tecnologici. La cartografia in particolare aveva fatto importanti progressi e la realizzazione di mappe più dettagliate aveva reso più concreto ciò che era a lungo vissuto soprattutto nella sola immaginazione degli studiosi. È proprio da questo ambito di studi che prese forma il pilastro dell’intero progetto del navigatore genovese, ovvero l’idea, errata, del fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli secondo cui la distanza fra l’attuale Giappone e l’Europa lungo il Mar Oceano sarebbe stata molto minore di quanto fino ad allora ritenuto. Ad oggi sappiamo che i suoi calcoli erano sbagliati, per cui la distanza considerata era circa un terzo di quella reale, ma anche all’epoca non mancarono gli scettici.
Colombo non era però, per l’appunto, fra questi, ed anzi sposò a tal punto le posizioni del Toscanelli da scommettere sulla praticabilità di una rotta che, partendo dalle coste iberiche, avrebbe raggiunto il pressoché mitico “Cipango”, descritto da Marco Polo sulla base di informazioni raccolte in Cina. La forza di questa convinzione è testimoniata anche dal fatto che, pur di fronte all’evidenza degli errori di calcolo del Toscanelli, verificati già col viaggio del ’92, Colombo finì i suoi giorni convinto di essere comunque giunto in prossimità dell’Asia. Da questa certezza, condivisa da molti almeno fino all’esplorazione delle coste settentrionali da parte di Vespucci e al ritorno di Pigafetta dalla spedizione circumglobale di Magellano, deriva l’utilizzo del termine Indias per riferirsi al nuovo continente, che ebbe lunga fortuna prima di essere soppiantato da quello di “America” anche nell’uso comune.
Prima del 1492, però, a vigere era lo scetticismo verso le idee di Toscanelli, seppur per l’altrettanto errata idea che la distanza oggetto di discussione fosse molto più grande di quella effettiva. La spedizione proposta da Colombo appariva dunque, agli occhi di molti, totalmente impraticabile. Non deve sorprendere, quindi, se il re di Portogallo Giovanni II declinò le richieste di Colombo di supportare il suo progetto; di fronte all’incertezza di un piano basato sull’azzardo, la corona portoghese preferì puntare sul consolidamento di una direttrice più sicura e da più tempo inaugurata, cioè quella verso sud-est lungo le coste africane. Come detto nel paragrafo precedente, però, quell’azzardo costituiva l’unico modo con cui la Castiglia poteva pensare di raggiungere l’Asia. Nonostante, quindi, l’avversione di una parte del mondo degli studiosi e grazie, però, anche a una cordata di banchieri italiani che decisero di finanziare il progetto insieme alla corona, venne trovato un accordo fra Colombo e Isabella di Castiglia che, formalizzato nelle Capitulaciones de Santa Fe nell’aprile del 1492, diede il via ai preparativi per la spedizione.
Con le Capitulaciones, peraltro, il navigatore genovese non otteneva solo un semplice appoggio finanziario, bensì tutta una serie di privilegi: dal semplice diritto a reclamare per sé una percentuale sulle merci che sarebbero state inviate dalle terre eventualmente conquistate, all’ottenimento del titolo di viceré delle suddette terre, nonché di quello di ammiraglio del Mar Oceano, passando per il monopolio sui futuri viaggi lungo la rotta da lui inaugurata. Colombo sarebbe così diventato, anche se solo per delega, il de facto padrone delle “islas y tierras firmes” che avrebbe scoperto. Nei fatti, però, le cose non sarebbero andate esattamente come pianificato.
Il primo viaggio e il Contatto (1492-1493)
Forte di quanto stabilito nelle Capitulaciones, Colombo partì dal porto di Palos il 3 agosto del 1492. La piccola flotta era composta di tre sole navi, due caravelle e una caracca, le famose Niña, Pinta e Santa Maria. Erano tutti e tre tipi di legni ideati o modificati dai portoghesi nei decenni precedenti proprio al fine della navigazione oceanica, soprattutto per quanto riguardava le caravelle. Dopo una tappa di spostamento verso le Canarie al fine di sfruttare al meglio i venti alisei, la spedizione riprese la navigazione in settembre e solo dopo più di un mese, il 12 ottobre, raggiunse finalmente la terraferma; il viaggio si era rivelato molto più lungo del previsto e non erano mancate le tensioni a bordo delle imbarcazioni, ma per fortuna di Colombo non si verificarono ammutinamenti.
La terra raggiunta era quella delle attuali Bahamas, e l’isola quella di Guanhani, ribattezzata da Colombo in San Salvador. Fu così che, oltre al primo contatto con il nuovo continente, comunque scambiato per un arcipelago asiatico, avvenne anche il primo contatto con le popolazioni indigene; i Taino. Diffusa in larga parte degli attuali Caraibi, quella dei Taino era una civiltà molto diversa non solo da quella europea, ma anche da quella azteca o inca: organizzati principalmente in tribù, privi di “città” e di reti infrastrutturali, quantomeno se pensate in termini europei, l’impressione che questi popoli fecero alla spedizione colombiana fu quella che si trascinò nei secoli successivi, ovvero quella di trovarsi di fronte a cosiddetti “selvaggi”. Come tali, perciò, i Taino vennero fin da subito trattati. Piuttosto che essere riconosciuti come soggetti alla pari, essi vennero considerati come l’oggetto di una serie di azioni fondamentali, esseri plasmabili da: civilizzare, ovvero cristianizzare; sfruttare come forza lavoro, o comunque come fonte d’approvvigionamento delle risorse locali tramite tributi. Durante il primo viaggio i rapporti fra Colombo e i suoi con gli indigeni furono comunque sostanzialmente pacifici e, con l’aiuto di alcuni di essi, usati come interpreti e guide, poté esplorare la regione, venendo a raggiungere le attuali Cuba e Hispaniola, dove vennero lasciati alcuni membri della spedizione prima di ripartire alla volta della Spagna.
Nonostante le scoperte effettuate, però, il ritorno in Europa fu denso di incertezze; l’oro tanto agognato era stato trovato solo in scarse quantità, e soprattutto in forme già lavorate dagli indigeni, mentre delle spezie asiatiche non v’era alcuna traccia. Nonostante ciò, quanto trasportato alla corte di Castiglia fu sufficiente a convincere i reali a sostenere un secondo viaggio. Colombo avrebbe così potuto continuare le sue esplorazioni, avendo dimostrato che il Mar Oceano non era quella massa d’acqua impercorribile che gli contestavano e aprendo la strada alla rotta occidentale verso quelle che, pur a torto, si pensava fossero le indie.
Apogeo e declino (1493-1504)
Il ritorno di Colombo e la sua descrizione delle nuove terre scoperte fu da subito un fatto importantissimo e carico di conseguenze su ampia scala. Innanzitutto, Spagna e Portogallo avrebbero dovuto ridefinire quegli accordi sulla spartizione del mondo extra-cristiano in zone di influenza inaugurati dal Trattato di Alcáçovas del 1479. Nel 1493, infatti, Papa Alessandro VI stabilì una nuova linea di demarcazione, posta a 100 leghe ad ovest delle isole di Cabo Verde: i territori non cristiani ad est di questa linea avrebbero potuto essere rivendicati dal Portogallo, mentre quelli ad occidente dalla corona spagnola. Il rifiuto portoghese di accettare tale divisione portò però, nell’anno successivo, a un trattato discusso direttamente fra Spagna e Portogallo e solo più tardi ratificato da un altro papa, Giulio II; il Trattato di Tordesillas. In base all’accordo, la linea sarebbe stata posta non più a sole 100 leghe dalle coste capoverdiane, bensì a 370. Questa decisione si sarebbe rivelata fortunata per i portoghesi, poiché parte della costa dell’attuale Brasile, all’epoca non ancora scoperta, sarebbe rientrata nella loro sfera d’influenza, permettendone la colonizzazione a partire dall’approdo di Cabral nel 1500.
Per quanto riguarda più direttamente Colombo, invece, il ritorno ad Hispaniola nel 1493 segnò l’apice della sua carriera, ma anche l’inizio altrettanto rapido del suo declino. Il tentativo durato tre anni di creare una colonia stabile, di trovare più oro e di proseguire l’esplorazione della regione si scontrò con le avversità climatiche ed i primi conflitti con gli indigeni, che si ribellarono a quella che, in sostanza, era una condizione di lavoro forzato. Ma non fu solo il conflitto con gli indigeni a generare problemi al Viceré; i malumori generatisi nell’aristocrazia spagnola per la gestione dei nuovi territori da parte di Colombo aumentarono infatti col tempo.
Nonostante le difficoltà, il navigatore genovese riuscì a tornare in Castiglia nel 1496 e a ripartire dopo circa due anni, nel maggio del 1498. Questa volta, però, il dissenso della nobiltà spagnola sfociò in aperta ribellione e, nel 1500, Colombo fu arrestato e condotto in Spagna, dove fu privato del titolo di viceré e del monopolio sui viaggi verso le nuove terre, ma anche liberato dalla prigionia grazie ai suoi legami con la corona. Riacquisita la libertà, Colombo riuscì ad ottenere il permesso per un quarto, ed ultimo, viaggio fra il 1502 e il 1504, che lo portò ad esplorare la costa orientale dell’America centrale.
Colombo raccontato
Il 20 maggio 1506, all’età di 55 anni, Cristoforo Colombo morì. A non spegnersi, però, furono i contenziosi che in vita aveva aperto per vedere ripristinati i diritti a lui accordati nelle Capitulaciones del 1492, di cui si sentiva ingiustamente privato. Se, infatti, Cristoforo era uscito, almeno di persona, di scena, così non lo era il suo cognome; anche la sua famiglia era infatti entrata a far parte della nobiltà castigliana, come “Colón”, e avrebbe dimostrato di non voler rinunciare ai privilegi inizialmente accordatigli. In particolare, fu il figlio Diego a riuscire a ricoprire nuovamente, seppur in maniera non continuativa e con poteri limitati rispetto a quelli paterni, i ruoli di viceré delle Indie e di ammiraglio del Mar Oceano fra il 1509 e il 1526.
Fu così che l’immagine di Cristoforo Colombo, che come ogni uomo di potere già in vita aveva dovuto costruirsi e difendere dagli attacchi degli avversari e, quando ancora era un semplice avventuriero, dei critici, subì un processo tutt’oggi in atto di trasformazione strumentale. Colombo fu un conquistatore sanguinario o uno scopritore di spirito umanista? Fu un despota o un governatore giusto ed equilibrato? Fu un genio incompreso o un semplice folle ad azzardarsi a intraprendere la rotta verso ovest?
È difficile rispondere a tali domande, perché fin dal XVI secolo si assistette a una proliferazione di fonti che pretendevano di restituire la “vera” storia di Colombo. Da una parte i suoi detrattori, dall’altra i suoi sostenitori e in particolar modo la sua famiglia. Chi ha detto la verità? A chi dare ascolto, tenendo considerato che sostanzialmente entrambe le parti avevano dei cavalli nella corsa all’eredità, in senso più o meno figurato, del navigatore genovese? Attribuire o meno la scoperta di un determinato territorio a Colombo, per esempio, poteva stabilire chi avrebbe dovuto governarlo. Ancora; riconoscere la veridicità delle accuse di violenza che gli erano state rivolte al tempo del governatorato su Hispaniola avrebbe fatto pendere o meno i piatti della bilancia a favore dei Colón nella pretesa di riottenere il titolo di viceré. In questo modo, Colombo diventò, a seconda di chi ne parlava, un essere abietto o un “servo di Dio”, mentre posizioni più sfumate, ma non per questo necessariamente più vicine alla realtà dei fatti, hanno avuto meno risalto nel dibattito.
“Cristoforo Colombo” finì quindi per diventare più il simbolo di qualcosa, che il nome di qualcuno. In Spagna, per ridimensionare le pretese dei Colón-Colombo e per stabilire un maggior controllo della corona sulle Indias, Cristoforo passò dall’esserne il “primo scopritore” ad “uno degli scopritori”, servo leale dei reyes católicos. Quando la Spagna, a partire da Carlo V, diventò una, se non la più grande delle potenze europee, la propaganda dei suoi avversari fece buon uso della leyenda negra, e le storie sulle violenze ai danni degli indigeni di Colombo furono accostate a quanto raccontato da Bartolomé de Las Casas.
Quando, però, nacquero gli Stati Uniti d’America, le cose cambiarono di nuovo. Il neonato stato, nella ricerca di simboli esterni alla tradizione anglosassone e quindi alla madrepatria con cui aveva appena concluso una guerra d’indipendenza, trovò nel navigatore genovese un emblema della costruzione di un mondo nuovo, o meglio di un Nuovo Mondo, dando il nome di Columbia al distretto in cui venne a sorgere Washington, la capitale statunitense. Ed è sempre negli USA che venne a rafforzarsi il mito positivo di Colombo, come testimonia la World’s Columbian Exposition dedicatagli nel 1893, ovvero all’incirca nel 400° anniversario dallo sbarco a Guanhani. In questo contesto già favorevole alla figura del genovese, quindi, gli emigrati italiani colsero fin dal XIX sec. l’occasione per fare della sua figura un ponte identitario fra la Penisola e l’America, prodigandosi per l’erezione di statue celebrative e per l’istituzione, prima a livello locale e poi federale, di feste a ricordo dell’impresa colombiana, culminanti nella ormai famoso, nonché problematico, Columbus Day, il 12 ottobre.
Soprattutto durante la seconda metà del ‘900, infatti, si sono fatte sempre più forti e rilevanti le voci di chi, nel contesto della lotta per i diritti degli afroamericani e delle popolazioni precolombiane o loro discendenti, la rinnovata attenzione sulla brutalità con cui avvenne la colonizzazione delle Americhe da parte degli europei trovò ancora una volta in Colombo un simbolo contro cui scagliarsi. Grazie a queste suggestioni, però, si è anche reso possibile sottrarre la figura di Cristoforo Colombo ad una visione che è stata decisamente celebrativa e probabilmente poco storica per lunghissimo tempo. Nuove indagini e nuove sensibilità si sono quindi fatte carico, e continuano tutt’ora, di riscoprire la storia di un personaggio di cui molti pensano di sapere tutto, ma della cui persona forse sappiamo ancora poco o niente.
#il tema è vastissimo quindi prendete questo testo per ciò che è cioè una semplice introduzione#colombo#cristoforo colombo#storia#unimi#latin america#columbus#history
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Fabrizio Croce controlla il sud Europa per WatchGuard
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Fabrizio Croce controlla il sud Europa per WatchGuard
Fabrizio Croce è stato promosso Regional Vice President sud Europa per WatchGuard Technologies, con la responsabilità su Italia, Spagna, Portogallo, Francia, Grecia, Cipro, Malta, Turchia e il Magreb con Algeria, Tunisia e Marocco.
Nel suo nuovo ruolo, Croce assumerà un maggiore controllo e coordinamento del gruppo di lavoro che gestisce questi Paesi. A seguito della recente acquisizione di Panda Security, il team è cresciuto, con riporto ai country manager di ogni Paese, che ora risponderanno a Croce. Nella nuova posizione, Croce si relazionerà con clienti direzionali e gestirà opportunità di alto livello per promuovere entrambi i brand, WatchGuard Technologies e Panda Security.
Nel 2001 Croce ha introdotto WatchGuard in Italia. Dal 2011 fino al 2020 ha ricoperto il ruolo di Area Director South Europe. Ora, arriva la nuova posizione in riconoscimento del lavoro intenso svolto per la multinazionale in questi ultimi due decenni, con risultati sempre in crescita.
Fabrizio Croce, Regional Vice President Southern Europe di WatchGuard Technologies
“Ho iniziato da solo in Italia nel 2001 quasi come scommessa, intuendo che la cybersecurity avrebbe avuto un forte sviluppo quando ancora nessuno ci pensava. WatchGuard era una startup americana appena nata. Per diversi anni ho operato da solo, coprendo tutti gli incarichi a 360 gradi, forte delle mie competenze tecniche che poi ho nel tempo affiancato a skill commerciali. Sono stati anni davvero intensi, da 80.000 chilometri all’anno e 12 ore di lavoro al giorno in tutta Italia, per creare la community di distributori e partner di canale che ora sono il nostro patrimonio da cui dipende il nostro business. Oggi ho la fortuna e l’onore di avere un team di oltre 40 persone pan europee da gestire, con diverse culture e mentalità, ma rimane per me estremamente eccitante e gratificante. L’entusiasmo non si è spento!”, racconta Croce.
Il Sud Europa è una delle region più importanti per WatchGuard: genera un fatturato superiore al 15% del globale, con l’Italia che al momento è il Paese con maggiore incidenza nella region, con il 7% sul fatturato aziendale globale e il 47% del fatturato della region Sud Europa. Una continua crescita, quella di WatchGuard, alimentata da continui investimenti sia a livello marketing che con l’apertura di nuove sedi, razionalizzazione dei team e acquisizioni di alte professionalità.
Quest’anno, il Covid ha messo in pausa i piani di espansione ma nel nuovo anno la multinazionale americana ripartirà. “La nostra ambizione – spiega Croce – è diventare a breve il fornitore numero uno per la cybersecurity perimetrale ed endpoint nel segmento SMB e small enterprise. Come tutti, a partire da marzo abbiamo dovuto fare i conti con la pandemia. Noi lavoriamo da sempre in ‘smart working’ quindi non abbiamo risentito più di tanto del lockdown. Certo è che l’organizzazione commerciale ha avuto dei limiti negli incontri interpersonali con i clienti, e in Italia – in un mercato dove il rapporto e il contatto umano è importante anche nel business e questo ha pesato. D’altro canto, abbiamo avuto una forte richiesta delle nostre tecnologie, poiché moltissime aziende hanno dovuto organizzarsi con personale in telelavoro: quindi, è aumentata la richiesta di firewall per stabilire connessioni VPN sicure, di soluzioni di autenticazione multifattore e anche per il WiFi sicuro. Possiamo dire che a livello di business non abbiamo avuto impatti.”
“In questo periodo – prosegue Croce – il canale è stato, ancora una volta, fondamentale per la nostra azienda che lavora esclusivamente in modalità indiretta. Il diretto contatto con i nostri partners è stato importante: abbiamo continuato ad erogare training da remoto tramite webinar, supporto tecnico e presentazioni di nuovi prodotti come l’offerta AD360 di Panda.”
L’azienda ha capacità di livello nella creazione di VPN in molte modalità diverse, ma recentemente ha introdotto una suite di prodotti, denominata Passport, pensata appositamente per proteggere l’endpoint e il remote worker attraverso il cloud, comprende soluzioni per l’autenticazione a più fattori, content filtering, protezione dai siti di phishing, e protezione degli endpoint dal ransomware.
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Forse le spiagge più belle d’Europa? Chi lo sa… forse dovrei vederle prima tutte per poter giudicare ma sicuramente le spiagge a sud del Portogallo, nella regione dell’ Algarve,sono di una bellezza struggente e non serve allontanarsi molto da loro per scoprire bellissimi sentieri immersi nel verde da percorrere a piedi, in bici o addirittura a cavallo. L’ Algarve si raggiunge facilmente dalla capitale Lisbona o dalla confinante Spagna partendo ad esempio in bus da Siviglia come ho fatto io, i collegamenti in entrambi i casi sono frequenti e poco dispendiosi. Se si cerca una meta dove immergersi completamente nella natura alternando passeggiate a scoperta di piccoli paesi tranquilli l’ Algarve è perfetto. In realtà scegliendo di visitare l’ Algarve a fine febbraio inizi di marzo non sapevo bene cosa aspettarmi sia climaticamente che turisticamente ed invece devo dire che la scelta è stata perfetta. Il clima in Algarve è mite e nonostante in alcune giornate il vento proveniente dall’Oceano può essere forte, il sole arriva sempre a far capolino e durante le ore centrali del giorno si riesce anche a stare in spiaggia prendendo un pò di sole se si rimane nelle zone più riparate,a ridosso degli stabilimenti balneari tra i quali si trova anche qualcuno che noleggia sedie sdraio ai numerosi pensionati nord europei, principali frequentatori dell’ Algarve in inverno. L’acqua del mare è davvero fredda, impensabile fare il bagno neppure per i più temerari come me, chi lo fa indossa una muta di diversi centimetri. Scegliere la stagione estiva per dedicarsi al trekking in Algarve è forse azzardato se non si amano le alte temperature che possono arrivare a sfiorare i 40 gradi mentre la primavera o l’inizio dell’autunno sono i momenti migliori le camminate tra la natura. Uno dei percorsi che maggiormente mi ha colpito durante la mia permanenza in Algarve è stato quello tra la piccola frazione di Monte Gordo fino a quell’incanto di Vila Real de Santo Antonio, nel distretto di Faro. Monte Gordo è una piccola località balneare che conta poco più di 3000 abitanti, un piccolo borgo marinaro che oggi si è trasformato in un paese a vocazione prettamente turistica, qui sorgono hotel e ristoranti frequentati praticamente tutto l’anno dalla gente che si sposta qui arrivando dall’aeroporto di Faro, la città più grande in Algarve. Come accade in molti posti sfruttati turisticamente Monte Gordo è stata un pò usurpata dalla cementificazione forsennata, alti palazzi si susseguono ininterrottamente anche se per fortuna le autorità locali negli ultimi anni hanno deciso di dare uno stop all’edilizia fuori misura cercando di preservare la natura che circonda questi luoghi meravigliosi. Ad ogni modo la piccola frazione di Monte Gordo resta perfetta come base per esplorare e camminare attraverso i sentieri che si snocciolano tra dune di sabbia e pinete. Raggiungere Villa Real de San Antonio a piedi partendo da Monte Gordo è adatto a chiunque, la distanza è di circa 3 chilometri e la strada tutta in piano. Nel tragitto si incontrano diverse aree di sosta per fermarsi a sentire l’odore inebriante della pineta che si mescola al mare e la cosa più pazzesca è offerta dallo spettacolo del mare che appare come un miraggio se si devia internamente dalla pineta alla spiaggia chilometrica, unica raccomandazione è quella di prestare attenzione al vento che se è forte può sollevare molta sabbia, fastidiosissima per chi indossa lenti a contatto. Ma partendo sempre da Monte Gordo in direzione Faro,quindi quella opposta a Villa Real de San Antonio,si possono percorrere altri sentieri dove altre alla pineta si possono trovare aree lacustri in cui vivono molti uccelli che si fermano da queste parti per nidificare. La cosa più entusiasmante e che fermandovi da queste parti potrete scegliere per quanto tempo camminare o dopo quando tornare indietro senza alcun rimpianto perché non dovrete rinunciare a niente,né al mare né all’ombra degli alberi, alternando mare e campagna tutte le volte che vorrete e che sia voi siate esperti camminatori o passeggiatori della domenica questo angolo di Portogallo vi riempirà di emozioni.
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Trekking in Algarve: da Monte Gordo a Vila Real de Santo Antonio,una passeggiata tra immense pinete e spiagge oceaniche Forse le spiagge più belle d'Europa? Chi lo sa... forse dovrei vederle prima tutte per poter giudicare ma sicuramente le spiagge a sud del Portogallo, nella regione dell' Algarve,sono di una bellezza struggente e non serve allontanarsi molto da loro per scoprire bellissimi sentieri immersi nel verde da percorrere a piedi, in bici o addirittura a cavallo.
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L’attività diplomatica di Leone XIII: da effimeri successi a grandi conquiste
(di Claudio Mancusi) Il pontificato di Pio IX era stato essenzialmente difensivo e, pur avendo purificato la Chiesa, l’aveva isolata troppo dalla società non consentendole d’intrecciare relazioni con i gruppi e le idee allora dominanti. Per il bene stesso della religione cattolica era giunto il momento d’attuare una nuova tattica occupandosi di ristabilire i contatti e di trovare qualche terreno d’incontro con il “mondo”, perché, in caso contrario, un’intransigenza portata all’eccesso avrebbe reso sterile di buoni risultati qualsiasi buona attività ecclesiastica. Ma per fare questo era necessario superare una pregiudiziale presentatasi per la prima volta alla morte di Pio IX; infatti la Chiesa si trovò davanti al caso delicatissimo di dover tenere il conclave per la scelta del successore del defunto pontefice senza quella libertà di movimenti che le era offerta per l’innanzi dal possesso di uno Stato suo proprio. Qualcuno avanzò la pazzesca opinione di allontanarsi da Roma, ma per fortuna il buon senso prevalse e tutto si svolse regolarmente, risultando eletto, il 20 febbraio 1878 il cardinale camerlengo Gioacchino Pecci, arcivescovo di Perugia, che prese il nome di Leone XIII. I timori degli “ultra” di questa e di quella sponda del Tevere (cioè dei più intransigenti clericali e dei più accesi anticlericali) si dimostrarono, in quella come in altre circostanze, sbagliati e la situazione –che era indubbiamente difficile e complicata– non fu mai portata alle estreme conseguenze né da parte della Santa Sede né da parte del Regno d’Italia, lasciando invece al tempo di sanarla; tutti finirono con il rendersi conto che la Chiesa Cattolica stava godendo ormai di un nuovo tipo di libertà, forse non peggiore di quello garantitole per l’innanzi da un pezzo di terra o dagli appoggi interessati di qualche sovrano protettore. Il tentativo di far cadere –insieme con i poteri temporali ecclesiastici– anche il prestigio spirituale, la funzione sacerdotale, fallì pienamente ed il compito insostituibile di una società ecclesiale brillò di una nuova luce, perché non fu offuscato dalle incombenze temporali (che spettavano di diritto ad altri) e si rivolse peculiarmente alla formazione interiore e personale dei fedeli. Il lungo pontificato di Leone XIII (morì novantaquattrenne il 20 luglio 1903) presenta due aspetti preminenti, abbastanza facilmente individuabili; una serie di affermazioni dottrinali e prese di posizione ideologiche in campo filosofico, biblico e sociale. Per comprendere quello che avvenne in Germania bisogna ritornare un po’ indietro e ricordare che il Bismarck, onnipotente ministro del re di Prussia diventato anche imperatore, ubriacato dai successi ottenuti ovunque, aveva dato inizio ad un’astiosa guerra di religione volendo piegare ai suoi fini politici anche i cattolici; questa guerra fu chiamata del Kulturkampf, quasi si trattasse di una battaglia combattuta in nome della cultura e del progresso contro l’oscurantismo e i residui di un passato vergognoso; insomma la ragione si ergeva contro la superstizione, di cui la Chiesa cattolica era ritenuta depositaria e propagandista. La proclamazione dell’infallibilità pontificia, uscita dal concilio ecumenico Vaticano del 1869-70, aveva fortemente preoccupato Bismarck (ma non lui solo, perché anche l’Austria denunciò il Concordato dichiarando che uno dei contraenti, cioè la Santa Sede, aveva mutato la sua natura); egli affermò che un cattolico si trovava d’ora in avanti legato da due vincoli di fedeltà, verso il pontefice e verso lo Stato di cui era cittadino, e che l’uno era incompatibile con l’altro. Era un comodo pretesto per colpire il gruppo parlamentare cattolico, divenuto molto forte al Reichstag; il Cancelliere trovò l’appoggio dei cosiddetti “vecchi cattolici”, un gruppo di professori capeggiato dal Dollinger, che crearono uno scisma non accettando il dogma dell’infallibilità. Costoro tuttavia, malgrado l’appoggio governativo, non ebbero alcuna importanza in Germania mentre i deputati del Centro –come fu chiamato il partito cattolico- che era guidato da Luigi Windthorst e s’ispirava alla viva sensibilità sociale del vescovo di Magonza, mons. Ketteler, svolsero un’energica opposizione alle misure persecutorie del Bismarck riuscendo alla fine ad avere la vittoria su tutto il fronte. Il complesso delle leggi anticattoliche fu chiamato “leggi di maggio” perché votato in quel mese dell’anno 1873 e comportava il controllo statale sulle scuole tenute da religiosi, la limitazione dell’attività dei Gesuiti e di altri Ordini, la subordinazione delle nomine ecclesiastiche alle autorità civili e finanche facilitazioni per coloro che apostatassero. L’applicazione dei provvedimenti fu anche più dura ed astiosa della lettera stessa di essi (al contrario di quello che avveniva in Italia) e nel giro di pochi anni tutti i vescovadi rimasero scoperti mentre lo Stato, ripristinando un diritto di patronato, affidava a laici l’uso di benefici minori, né mancarono arresti in massa di sacerdoti, sospensioni e trasferimenti, e, per ultimo, la rottura delle relazioni diplomatiche tra Berlino ed il Vaticano. Una ben orchestrata propaganda metteva in pessima luce il Cattolicesimo di fronte alla coscienza nazionale ed alla civiltà moderna. I risultati furono perfettamente opposti a quelli desiderati; i deputati del centro vedevano ad ogni elezione aumentare il loro numero ed il Bismarck finì con il capire che la sua tattica era sbagliata; buttando a mare il ministro dei culti, egli iniziò un lento riavvicinamento con la Chiesa emanando via via “leggi di pace” con il quale era abolito il tribunale per gli affari ecclesiastici, restituiti i seminari, riammessi i religiosi, ristabilite le relazioni diplomatiche. Quasi a dimostrare tangibilmente l’avvenuto accordo, il Bismarck compì il gesto simbolico di chiamare Leone XIII come arbitro in una controversia che era sorta tra la Germania e la Spagna circa il possesso delle isole Caroline nell’Oceano Pacifico; il papa compose la delicata vertenza con soddisfazione di entrambe le potenze interessate. Senza seguire caso per caso le polemiche e le lotte verificatesi nei singoli Stati tedeschi in quello stesso periodo di tempo, si può passare all’Austria, che riservò all’imperatore il diritto illimitato di regole tutti gli affari della Chiesa e mise sotto il controllo statale l’amministrazione delle proprietà del clero. Alla fine del secolo sorse anche un movimento di separazione da Roma basato sul principio che il cattolicesimo era il principale ostacolo all’unione di tutti i tedeschi (pangermanesimo), e soltanto lo zelo dei vescovi e dei religiosi ridusse le cattive conseguenze di tale iniziativa. Anche in Boemia l’organizzazione ecclesiastica cattolica fu accusata di essere un sostegno della tirannia asburgica e di reprimere l’elemento nazionale ceco; invece in Polonia la salda fede cattolica era un fattore di speranza per quanti vivevano oppressi dalla Russia, benché il papa Leone XIII avesse riallacciato amichevoli rapporti con lo Zar alla salita al trono di Nicola II (1894) ritenendo che –non appena vi fosse un minimo di garanzia– era meglio mantenere contatti e buone relazioni in vista del raggiungimento del bene comune e di una larga possibilità di azione per i cattolici nella vita pubblica e sociale dei singoli paesi. Anche con la Svizzera vi furono approcci per il ristabilimento della gerarchia cattolica nel paese; con l’Inghilterra, dove il moto di ritorno verso Roma diveniva sempre più rapido ed imponente, avvennero novità soddisfacenti; in Belgio (dove Leone era stato nunzio e che quindi conosceva bene nella sua struttura politica) la collaborazione dei cattolici con le altre forze continuava felicemente; negli Stati Uniti, immenso territorio aperto all’apostolato cattolico, la religione godeva grande libertà essendo la Chiesa del tutto staccata dallo Stato, nel frattempo le immigrazioni di Irlandesi e d’Italiani spostavano le proporzioni confessionali; in Spagna il pontefice invitò i cattolici ad aderire lealmente al governo di Alfonso XII per impedire il prolungarsi di lotte intestine dannose alla Chiesa non meno che allo Stato, ma, così facendo, si liquidavano anche tutti i residui di legittimismo liberando la religione dai lacci della politica che si erano colà rivelati dannosi ai veri interessi spirituali. Un curioso incidente diplomatico scoppiò con il Portogallo perché questo Stato non volle riconoscere le nuove giurisdizioni ecclesiastiche create in India dalla Santa Sede e pretese che l’arcivescovo di Goa –che era un portoghese– avesse ancora un potere su tutta la regione; lo scisma si trascinò per l’ostinazione del clero locale e l’appoggio dato dal governo ai ribelli, ma finì con un concordato in cui all’arcivescovo era riservato solamente il titolo onorifico di “Patriarca delle Indie”. Anche nelle missioni il vecchio sistema del patronato andava scomparendo senza rimpianti, non avendo dato buoni frutti per la confusione della religione cattolica con la dominazione coloniale europea. Che cosa avvenne in Francia dopo l’abdicazione di Napoleone III nel 1870 e mentre i Tedeschi proclamavano imperatore di Germania il re di Prussia in quello stesso palazzo di Versailles che era stato il soggiorno dei sovrani borbonici? Parigi era insorta travolgendo ogni ordinamento costituito, e il suo arcivescovo, insieme a molti altri preti, dopo essere stati presi come ostaggi, vennero fucilati. Non fu facile al governo repubblicano –che aveva preso stanza nel Sud del paese– ristabilire la sua autorità nella capitale, ma per noi ciò che interessa è l’atteggiamento delle nuove forze verso la Chiesa, dato che –come si disse– i clericali avevano appoggiato assai l’imperatore napoleonico e questi era sempre stato il tutore dello Stato della Chiesa. Ora il potere temporale non esisteva più, ma le rivendicazioni di esso da parte del papa erano sempre vibrate né l’intesa, sul piano politico, tra l’Italia e la Francia era facile o gradita alle due parti; di conseguenza vi erano tutti gli elementi per creare un complicato intreccio d’interessi in cui Chiesa e Stato, religione e politica, partiti e tendenze, convinzioni e personalismi facessero di volta in volta da bandiera o da scudo ed alimentassero movimenti, polemiche, iniziative dando luogo spesso a complicazioni, insuccessi, rapide fortune, improvvisi cambiamenti di fronte e (perché no?) anche a qualche buon risultato. Non si può non riconoscere negli esponenti repubblicani francesi (Leone Gambetta, Giulio Grévy e altri) un sincero amor patrio ed una tenace volontà di ripresa nazionale, tuttavia il loro feroce anticlericalismo era, oltre tutto, fuori luogo in una situazione generale così delicata; la parola d’ordine dopo le elezioni del 1877 fu “Le cléricalisme, voilà l’ennemi !” e la battaglia fu sostenuta senza tregua né esclusione di colpi contro tutte le istituzioni cattoliche con l’intento di arrivare alla scristianizzazione della scuola e della cultura, al divieto delle manifestazioni pubbliche del culto, all’espulsioni di molti religiosi ed alla rottura dei legami con Roma. Fu una ventata d’irreligione quale mai si era vista in precedenza; nondimeno la prova dolorosa fu feconda perché affinò la vocazione religiosa del clero francese e migliorò la preparazione culturale del nucleo del laicato conservatosi fedele alla Chiesa. I cattolici erano rimasti per la maggior parte attaccati alle idee monarchiche e dimostravano in ogni modo la loro ostilità al regime repubblicano, ma il pontefice li invitò ad accettare la nuova costituzione ed a servirsi dei mezzi legali (parlamento, giornali) per opporsi alle manovre anticlericali invece di isterilirsi nei vani sogni di restaurazione di un passato anacronistico e malvisto dalla maggioranza dei concittadini. Fu proprio per dimostrare i sinceri proposti di Leone XIII che il cardinale Lavigerie, arcivescovo di Algeri, fondatore della Congregazione dei Padri Bianchi per la conversione degli Arabi, compì un gesto clamoroso accogliendo nel suo palazzo il 12 novembre 1890 gli ufficiali della flotta francese in visita alla città ed elevando un brindisi al banchetto d’onore per la salute della Repubblica; il ralliement era fatto, ma non ebbe sviluppi e mancò la formazione di un partito repubblicano-legalitario-cattolico-conservatore, che avrebbe potuto incidere sull’evoluzione politica della Francia. Poco più tardi lo stesso papa intervenne con un’enciclica, Au milieu des sollicitudes, per ripetere al clero e al popolo che era pericoloso lasciare andare le cose verso la totale separazione della Chiesa dallo Stato ed era necessario un esprit nouveau di conciliazione verso la Terza Repubblica; ma anche questa volta fu poco seguito ed i cattolici ralliés furono pochi e malvisti da tutti, né essi seppero agire con abilità ed energia in modo da controbilanciare la propaganda anticlericale. Per di più scoppiò il famoso “affare Dreyfus”, che vide i cattolici schierati quasi al completo dalla parte degli antidreyfusiani – che erano anche antisemiti ed antirepubblicani – e ciò gettò nuova cattiva luce sui clericali, aiutando la definitiva scissione tra la Chiesa e la società laica ed intellettuale francese; le Congregazioni religiose, che avevano in mano l’educazione della gioventù, furono particolarmente colpite e la politica religiosa puntò verso la denuncia del Concordato napoleonico, che era ancora in vigore. In conclusione, l’intensa attività diplomatica di Leone XIII rispondeva ad un disegno che gli consentì di raggiungere feconde conquiste accanto a effimeri successi; il pontefice era convinto della necessità della restaurazione del potere temporale della Chiesa (ma non nelle vecchie forme ed estensione), tuttavia non si limitò a protestare, come il predecessore, bensì chiese esplicitamente l’appoggio di alcune potenze conservatrici. Per ben tre volte inviò appelli a Francesco Giuseppe imperatore di Austria, ma ebbe sempre risposte evasive anche se gentili. Con Bismarck tentò qualcosa del genere, ma ebbe soltanto buone parole; per far da contrappeso alla Triplice Alleanza il papa vide di buon occhio la stipulazione dell’Intesa franco-russa, ma anche da quella parte nulla fu fatto per la causa del potere temporale, ed anzi verso la fine del secolo il riavvicinamento franco-italiano non poté riuscire gradito Leone perché toglieva sempre più l’Italia dal suo isolamento diplomatico, ne consolidava le istituzioni ed accresceva il prestigio diplomatico del nuovo Stato senza obbligarlo a cercare in un accordo con la Santa Sede l’appoggio negatogli altrove. D’altra parte Leone XIII –come è ben noto– guardò con simpatia le nuove forze popolari ed allargò l’orizzonte sociale della Chiesa auspicando la compatibilità del Cristianesimo con la democrazia moderna; sembrò, dunque, che volesse conciliare cose contraddittorie, dato che si volgeva verso i sovrani assoluti e insieme verso gli esponenti più avanzati delle rivendicazioni popolari, verso governanti (come quelli francesi) che si dichiaravano apertamente anticlericali ed erano notoriamente affiliati a sette segrete e verso i più strenui oppositori di qualsiasi ordinamento liberale e costituzionale. Forse l’incertezza era nelle cose stesse, nel dilemma aperto da secoli tra la Chiesa e la società moderna, in quanto la prima non poteva non sostenere il principio di autorità e dell’unica verità di cui era depositaria, l’altra si presentava come assertrice della critica, della discussione e della tolleranza. Read the full article
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REGIONE CALABRIA Al via la settima edizione di “A scuola di OpenCoesione”
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REGIONE CALABRIA Al via la settima edizione di “A scuola di OpenCoesione”
REGIONE CALABRIA Al via la settima edizione di “A scuola di OpenCoesione”
REGIONE CALABRIA Al via la settima edizione di “A scuola di OpenCoesione” Lente Locale
R. & P.
Alla vigilia dell’avvio di una nuova stagione il binomio Calabria e ASOC si preannuncia già come un ennesimo successo: a certificarlo è il numero delle scuole del territorio regionale ammesse al percorso didattico che avrà inizio mercoledì 6 novembre 2019.
Sono infatti 37 i team calabresi che parteciperanno all’edizione 19/20 di “A Scuola di OpenCoesione” il progetto innovativo di didattica interdisciplinare rivolto agli studenti delle scuole superiori italiane che promuove attività di ricerca, data journalism e monitoraggio civico dei finanziamenti pubblici europei e nazionali. Il coinvolgimento sul territorio è complessivamente di 28 scuole, 700 studenti e 39 docenti.
Un’adesione ampia, dunque, che consolida il percorso fin qui tracciato in Calabria che vede ancora una volta la Regione, in virtù di uno specifico accordo con l’Agenzia per la Coesione, come partner privilegiato dell’iniziativa con attività di supporto ai team e di affiancamento ai soggetti della rete che collaborano al progetto a livello locale.
La sfida civica, che si sviluppa attraverso l’utilizzo di open data e l’impiego di tecnologie di informazione e comunicazione, metterà a confronto su tutto il territorio nazionale 204 squadre, appartenenti a 157 istituzioni scolastiche di tutta Italia, che avranno la possibilità di crescere lavorando, acquisendo nuove competenze digitali, di scoprire come vengono spesi i fondi pubblici e di verificarne l’efficacia con il contributo della cittadinanza. In palio la possibilità di conoscere le istituzioni europee direttamente a Bruxelles. E non solo: la Regione Calabria, così come avvenuto nelle passate edizioni, offrirà supporto economico per consentire ai team calabresi la possibilità di fare gemellaggi ed esperienze di vario tipo anche fuori dai confini regionali.
I numeri della partecipazione ad #ASOC1920, a livello locale e nazionale, hanno favorevolmente colpito anche il presidente della Regione Mario Oliverio che ha potuto apprezzare, edizione dopo edizione, il consolidarsi del grado di consapevolezza e del senso di partecipazione civica dei giovani studenti coinvolti nel progetto. I piazzamenti lusinghieri dei team calabresi nelle top ten degli ultimi anni consentono, infatti, di valutare positivamente le capacità, la passione e il livello di maturità dei ragazzi, che vanno formati e sostenuti nelle iniziative di monitoraggio civico poiché rappresentano la futura classe dirigente su cui è doveroso investire. In questa direzione la Regione è pronta, ancora una volta, ad accompagnare in qualità di partner il percorso di ASOC, partecipando al trasferimento di strumenti utili per operare quel controllo sociale indispensabile per la crescita dell’intera comunità.
L’adesione ad #ASOC 1920 delle scuole della Calabria è quasi del 20% sul totale nazionale. Un dato che il vicepresidente Francesco Russo ha voluto mettere in risalto rimarcando il valore della vivacità e della voglia di partecipazione dei millenials nella Regione: dal lavoro di ricerca e analisi degli studenti la Regione può trarre un contributo significativo per la pianificazione e la definizione del nuovo ciclo di programmazione delle risorse comunitarie nel territorio (POR Calabria 21-27), assumendo indicazioni utili sull’incremento e il potenziamento degli strumenti di monitoraggio civico e controllo sociale.
L’Adg del POR Calabria 2014/2020 Tommaso Calabrò ha ribadito il ruolo della Regione di coordinamento e di raccordo organizzativo delle attività del progetto a supporto della rete dei partner territoriali, prestando particolare attenzione alle azioni di rafforzamento delle capacità di analisi e di comunicazione degli studenti. L’amministrazione intende realizzare, anche per #ASOC1920, le sessioni formative e di confronto sull’uso degli open-data e sull’impiego di tecnologie di informazione e comunicazione digital.
La portata della competizione didattica, altamente innovativa per i contenuti e gli strumenti utilizzati, è stata sottolineata anche dalla Responsabile Comunicazione POR Calabria 2014/2020, Ivonne Spadafora che ha evidenziato come ASOC rappresenti una preziosa occasione per gli studenti per imparare a leggere e interpretare il contesto in cui vivono e ad interloquire con i vari attori del territorio per misurare l’impatto e le ricadute sulle comunità delle azioni politiche e amministrative. “La Regione- spiega Spadafora – ha scelto di partecipare attivamente alla realizzazione di “A Scuola di OpenCoesione”, inserendolo tra i progetti speciali della Strategia di comunicazione del POR Calabria 2014/2020, per far germogliare il senso di cittadinanza attiva tra i giovani calabresi. Con l’eredità delle prime due edizioni di intensa collaborazione, che raccontano dell’entusiasmo e della passione di più di 1000 studenti e della forte motivazione di dirigenti scolastici, docenti e tutor, l’amministrazione regionale si avvia adesso al terzo anno con una organizzazione ed un impegno maggiore, nella consapevolezza che trasferire conoscenza sia un dovere”.
ASOC è promosso dall’Agenzia per la Coesione in collaborazione con il MIUR e la Rappresentanza in Italia della Commissione Europea. Docenti e studenti partecipano al progetto con il sostegno delle reti territoriali ASOC, formate dai centri EDIC e CDE, le organizzazioni degli “Amici di ASOC” e i referenti territoriali Istat, e saranno impegnati in attività come il reperimento, l’analisi e l’elaborazione di dati, la verifica della modalità di spesa dei fondi pubblici, l’utilizzo di tecniche avanzate di ricerca, di comunicazione e storytelling, la realizzazione di incontri e interviste con le istituzioni e i soggetti beneficiari dei finanziamenti, nonché l’organizzazione di eventi rivolti alla comunità scolastica.
Ma il percorso di ASOC non si esaurisce con le attività previste dal progetto didattico. Le esperienze rivolte ai giovani studenti si moltiplicano in relazione alla qualità dei prodotti ricerca realizzati. E lo sa bene il team restArt dell’ITT “Mario Ciliberto” di Crotone vincitore assoluto di #ASOC1819 che ha potuto conoscere direttamente le istituzioni europee a Bruxelles e sarà coinvolto, grazie al partenariato tra la Regione Calabria e la Regione Campania, al FORUM PA SUD “Il Festival della Coesione” che si svolgerà a Napoli il 13 e 14 novembre. Nel corso della due giorni il team sarà accompagnato in diverse attività tra cui un tour nel nuovo polo di innovazione universitario “San Giovanni a Teduccio”, della Federico II di Napoli.
Tutte le novità di #ASOC1920 – dall’ampliamento delle reti territoriali ed europee con la prima sperimentazione internazionale in Bulgaria, Croazia, Grecia, Portogallo e Spagna – sono disponibili sul sito http://www.ascuoladiopencoesione.it/.
Ai seguenti link è possibile scaricare, inoltre, la Circolare MIUR sulla selezione delle scuole e l’elenco completo delle scuole candidate con indicazioni di idoneità:
http://www.ascuoladiopencoesione.it/sites/default/files/asoc_files/1920/doc/Circolare%20MIUR%20Scuole%20ammesse%200004832_31-10-2019.pdf
http://www.ascuoladiopencoesione.it/sites/default/files/asoc_files/1920/doc/Circolare%20MIUR%20Scuole%20ammesse%200004832_31-10-2019.pdf
REGIONE CALABRIA Al via la settima edizione di “A scuola di OpenCoesione” Lente Locale
REGIONE CALABRIA Al via la settima edizione di “A scuola di OpenCoesione” Lente Locale
R. & P. Alla vigilia dell’avvio di una nuova stagione il binomio Calabria e ASOC si preannuncia già come un ennesimo successo: a certificarlo è il numero delle scuole del territorio regionale ammesse al percorso didattico che avrà inizio mercoledì 6 novembre 2019. Sono infatti 37 i team calabresi che parteciperanno all’edizione 19/20 di “A […]
REGIONE CALABRIA Al via la settima edizione di “A scuola di OpenCoesione” Lente Locale
Francesca Cusumano
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Solo ora mi accorgo di non avervi mai scritto dell’Algarve, la regione più al sud del Portogallo. In passato ho già visitato praticamente quasi tutta la costa sud ma non ho mai messo nulla nero su bianco. Oggi voglio rimediare e parlarvi di una cittadina che non conoscevo, una cittadina ferma nel tempo dove le tracce degli arabi sono ancora visibili. Vi presento SIlves, la capitale delle arance.
la capitale delle arance
Prima di presentavi la città dal punto di vista storico e culturale voglio darvi alcune informazioni sulla sua “elezione” a capitale delle arance. Nel 1863 l’Algarve era campione di produzione di agrumi del Paese e Silves già nel 1705 coltivava arance sul margine del fiume Arade, essendo conosciuta come la settima maggior produttrice di arance della regione.
Grazie alla costruzione della diga, che ha consentito un nuovo sistema di irrigazione, Silves riesce a scalare la classifica e diventa la maggior produttrice del dolce frutto del Portogallo, salendo al primo posto in classifica.
un po´di storia
Gli archeologi ci raccontano sempre molto sui luoghi e pare, a detta loro, che Silves sia stata abitata sin dalla Preistoria. Numerosi sono i monumenti megalitici che si possono ammirare sul Monte Roma e i menhir di Vilarinha. Inoltre, le miniere sul margine del fiume Arade hanno portato alla luce tracce di una comunità dell’età del bronzo che costruì la necropoli di Alfarrobeira.
Anche i resti della conquista romana sono ben visibili nel nucleo urbano della città così come il precendente periodo musulmano (VIII a XIII secolo) che segnò profondamente la storia e l’urbanistica di Silves.
Prima della conquista romana, Silves era abitata dagli arabi del mediterraneo orientale che, amanti delle arti e della scienza, permisero lo sviluppo di un importante polo culturale e politico del al-Gharb al-Andaluz, (IX – XII secolo). Si ricorda ancora oggi la Medina Xelb conosciuta come la città di filosofi e poeti come Ibn Caci, Ibn Ammar e il re Al-Mutamide.
Torniamo alla conquista romana del 1189 per opera delle truppe di D. Sancho I aiutate dai crociati in transito verso la Terra Santa. Bisogna aspettare però la metà del XIII secolo con D. Afonso III per eleggere Silves capitale dell’Algarve. Si, Silves fu prima di Faro il capoluogo della regione più a sud del Portogallo. Non lo sapevate?
Diventa in seguito un importante centro industriale che creò numerosi posti di lavoro. fino all’arrivo dello “Stato Nuovo”, periodo di dittatura, che pose fine alla produzione del sughero. Comincia un periodo buio per la città fino alla costruzione della diga.
Lo stato decadente dell’agricoltura cambia radicalmente con l’introduzione della coltivazione di agrumi, grazie anche alla costruzione della diga (Barragem do Arade), al punto tale da far eleggere SIlves la capitale delle arance con una produzione del 70% di agrumi del Paese.
youtube
cosa visitare
Scusate l’introduzione storica forse un po’ troppo lunga. Arriviamo alle informazioni che forse possono esservi più utili per l’organizzazione della visita di SIlves. Prima di cominciare però vi consiglio di scaricare la mappa ufficiale della città.
Dirvi di perdervi per le stradine del centro storico credo sia abbastanza ovvio e quindi evito. Se doveste però chiedermi una sorta di intinerario da fare a piedi per visitare i maggiori punti d’interesse della città, allora, direi:
ponte romano
Appena arriverete a Silves, la prima cosa che noterete sarà il bianco ponte romano (pare sia romano in realtà non si hanno documenti ufficiali). La sua storia è abbastanza occulta e raccontata attraverso informazioni contrastanti.
Si sostiene che il primo documento su cui fu referenziato il ponte fu trovato nella corte di Lisbona nel 1439. Anche se la sua origine pare sia sconosciuta possiamo affermare con certezza che è un ponte pedonale a cinque archi (lungo 76 metri e largo 5,5) che sovrasta le calme acque del sul fiume Arade dove cicogne e gabbiani si rinfrescano, per non parlare di anatre, papere ed oche.
castello
Il castello di Silves è forse uno dei meglio conservati del sud del Portogallo. Un’opera di archietettura militare eretto dagli arabi sul punto più alto della città. Dall’insolita forma di poligono irregolare, occupa un’area totale di circa 12.000 m2.
Purtroppo i numerosi terremoti lo danneggiaro e fu restaurato nel 1940 assumendo l’aspetto che ancora oggi possiamo ammirare. Quando arriverete all’entrata, prima di entrare in biglietteria, troverete la statua in bronzo del re D. Sancho I, monarca che nel 1189 conquista la città agli arabi.
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La visita del castello è a pagamento ma credo che ne valga la pena per la vista della Aljibe, la grande cisterna di pianta rettangolare che forniva gran parte dell’acqua per l’intera città. Di interesse anche la Cisterna dos Cães, un pozzo di oltre 40 metri di profondità nel quale gli archeologi ritirarono numerosi frammenti di oggetti in ceramica islamica del periodo medievale.
Nella prossimità del pozzo si trovano anche numerosi silos sotterranei per la conservazione dei cereali. Nella zona nascente invece, sono state trovate abitazioni datate 1121 – 1269, pare siano state case di due piani con giardino interno e bagni. Probabilmente questo congiunto di spazi faceva parte di un unico palazzo che fu abbandonato dopo la conquista romana in quanto incompatibile con lo stile di vita cristiano.
Visita del castello Aperto tutti i giorni (tranne il 25 dicembre e l’1 gennaio) dalle 9 alle 17:30 (2 gennaio – 31 maggio), dalle 9 alle 22 (dal 1 giugno al 31 agosto), dalla 9 alle 20 (1 settembre – 15 ottobre) e dalle 9 alle 17:30 (16 ottobre – 31 dicembre). L’entrata ha un prezzo di 3€ (i prezzi possono variare nel tempo). Esistono numerosi sconti per età e gruppi. Consultate il sito web ufficiale.
Sé de Silves – la cattedrale
L’ex-cattedrale di Silves fu costruita nel 1268 durante il regno di D. Afonso III. Oggi il titolo di cattedrale è passato alla Sé di Faro quando nel XVI secolo la diocesi fu trasferita nell’attuale capitale dell’Algarve.
Consiglio sicuramente la visita del tempio di stile gotico influenzato dal’estetica del Monastero di Batalha. Magnifico il portale dell’entrata in stile roccocò costruito alla fine del XVIII secolo, chiamato Porta do Sol (la porta del sole).
Foto: vortexmag
Mercado Municipal
Sapete ormai benissimo che amo i mercati e non me li faccio scappare quando viaggio. L’attuale edificio che ospitale il Mercado Municipal di Silves è un esempio classico di architettura del periodo fascista conosciuta come “Português Suave”. Sul tetto dell’edificio impossibile non vedere la famosa sfera armillare insieme alle armi della città e lo stemma evocativo delle torri municipali di epoca medievale.
Non solo per la sua architettura consiglio una visita ma anche per la possibilità di scoprire prodotti locali, e non mi riferisco appena alle arance, scambiare due chiacchiere con i venditori e perché no, comprare prodotti da trasformare in un improvvisato picnic in uno dei giardini di Silves.
MUSEo delle tradizioni
Se avete ancora qualche ora a disposizione per la visita della città, consiglio la visita del Museu do Traje e das Tradições. Lo troverete proprio all’entrata della città in una tipica casa di stile “algarvio” recuperata dall’architetta Carla Alfarrobinha.
Un progetto museale progettato dall’attuale direttrice del Museu de Artes Decorativas Portuguesas – Fundação Ricardo Espírito Santo Silva e dalla precendete direttrice del Museu Municipal de Arqueologia de Silves. Un museo ricco, grazie alla collezione del Rancho de São Bartolomeu de Messines, che espone numerosi oggetti legati alle tradizioni popolari della città della fine del XIX secolo e inizio del XX.
Interessanti le sale dedicate ai lavori agricoli e commerciali di vendita dei prodotti della terra così come gli attrezzi di produzione dell’olio. e della pastorizia. Il museo organizza periodicamente anche numerose attività educative.
Visita del museo: Dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13 e dalle 14 alle 17 (periodo invernale) e dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18 (periodo estivo giugno settembre).
Museo Municipale di Archeologia
Inaugurato nel 1990, il Museu Municipal de Arqueologia è stato costruito intorno al Poço-Cisterna Almóada del XII-XIII secolo scoperto grazie agli scavi arheologici degli anni 80 ed oggi considerato monumento nazionale. Il museo integra anche parte delle antiche mura della città ed oltre all’importanza della sua collezione lo stesso edificio che lo ospita è un’opera inestimabile del patrimonio islamico del Portogallo.
Ma non solo l’epoca islamica testimonia il museo, numerosi sono anche gli oggetti trovati del Paleolitico e Neolitico, per non parlare dell’età del bronzo, del ferro e la conquista romana.
La collezione, divisa in otto nuclei tematici e in ordine cronologico, riunisce oggetti che dimostrano l’importante influenza commerciale della città e le rotte che la portavano a stringere rapporti commerciali e culturali con diverse regioni del mondo.
Inoltre, dal 2005 il museo collabora in stretto contatto con l’organizzazione Museum With no Frontiers nella sezione Discover Islamic Art. Dal 2008 è anche membro della rete dei musei dell’Algarve.
Visita museo Tutti i giorni dalle 10 alle 18, ultima entrata alle 17:30. Chiude il 25 dicembre e il 1 gennaio. L’entrata costa 2,10€ (i prezzi possono variare nel tempo). esistono diversi sconti per età e gruppi, consiglio di consultare il sito web ufficiale del museo.
Casa da Cultura Islâmica e Mediterrânica
La casa della cultura islamica è un edificio costruito in origine per essere il Matadouro Municipal (datato 1914) recuperato dall’architetto José Alberto Alegria.
Oggi la Casa da Cultura Islâmica e Mediterrânica ha lo scopo di promuovere la cultura islamica e del mediterraneo strettamente legate alla città di SIlves. Al suo interno si promuovono iniziative culturali e didattiche come: conferenze, esposizioni e dibattiti, allo scopo di far conoscere ai visitatori e curiosi parte della storia della città e della regione. Nel video in basso potete farvi una prima idea della bellezza dell’edificio.
youtube
galleria fotografica
FUORI CITTÀ
Alcantarilha – la cappella di ossa
Dopo avervi consigliato la visita della cappella delle ossa ad Évora in Alentejo, oggi voglio consigliarvi l’imperdibile Capela dos Ossos di Alcantarilha facente parte della chiesa parrocchiale Nossa Senhora da Conceição. Una chiesa del XVI secolo nel centro storico di Alcantarilha ed una cappella del XVI secolo.
L’interno della cappella è completamente rivestito di ossa, per la precisione oltre 1500 ossa umane, fatta eccezione della scultura del Cristo datato XVI secolo. Si suppone siano ossa dei gesuiti che occupavano la regione ma non ci sono documenti o prove storiche che confermino questa teoria.
Per maggiori informazioni sui luoghi d’interesse da visitare consiglio di accedere al sito web ufficiale del comune di Silves http://www.cm-silves.pt.
le cicogne
No, non è il nome di una località da visitare mi riferisco proprio ai bianchi uccelli dalle lunghe zampe legati simbolicamente alla nascita dei bambini.
Nel periodo invernale prima dell’arrivo della primavera in questa zona è possibile incontrare numerosissimi nidi che ospitano una coppia di cicogne pronte per riprodursi. Camminando tra le stradine di Sines si èspesso interrotti dai loro curiosi suoni per l’accoppiamento.
COME ARRIVARE
AUTO
In auto da Lisbona è facile: prendere la A2/Algarve (l’autostrada è a pagamento circa 23€ i prezzi possono variare nel tempo). Seguire poi la N124 / Silves / Messines.
Da Faro seguire la EN 125 direzione Lisboa / A22 – Portimão – Albufeira, seguire poi la N 124-1 direzione Silves / Lagoa.
autobus
Prendere la rete Expressos che parte da numerose località del Portogallo. Consultate qui.
TRENO
La stazione di treni più vicina è quela di Tunes che dista circa 30 Km dalla città. Arrivati a Tunes si può prendere una coincidenza per la stazione di Silves che dista 3 km dal centro. Per informazioni sui treni cliccare qui.
[Tutte le immagini non firmate sono di proprietà di cm-silves.pt.]
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25 ott 2018 09:23
ABBIAMO RIPRESO LA VALIGIA DI CARTONE - NEGLI ULTIMI DODICI ANNI GLI ITALIANI CHE ESPATRIANO SONO AUMENTATI DEL 64,7% - NON SOLO GIOVANI, ANCHE PERSONE MATURE E INTERE FAMIGLIE - LA CRESCITE PIÙ SOSTANZIOSA - CON PICCHI DEL 78% PER GLI ULTRA 85ENNI - RIGUARDA LE PERSONE DAI 50 ANNI IN SU…
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Luca Liverani per “Avvenire”
Fanno le valigie per cercare una vita migliore. E sono sempre di più: giovani, intere famiglie con bambini, ma anche uomini e donne maturi. Negli ultimi dodici anni sono aumentati del 64,7 %. Sono gli italiani.
Dal 2006 al 2018 la mobilità dei nostri connazionali è passata da 3,1 milioni di iscritti all' Anagrafe degli italiani residenti all' estero a 5, 1 milioni. Solo l' anno scorso i nuovi iscritti all' Aire sono stati 243 mila, di cui oltre la metà, 128.193 proprio per espatrio. Emigranti, insomma. L' Italia del Terzo millennio - seconda patria per oltre 5 milioni di stranieri regolari - continua, sorprendentemente, a essere allo stesso tempo terra di emigrazione.
A registrare una tendenza in costante aumento è il XIII Rapporto Italiani nel mondo curato dalla fondazione Cei Migrantes e presentato a Roma dal presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti, dal presidente di Migrantes, il vescovo Guerino Di Tora e dal direttore, don Giovanni De Robertis, con la partecipazione del sottosegretario agli esteri Ricardo Merlo, che ha la delega agli italiani nel mondo.
Al 1° gennaio 2018 dunque gli iscritti totali all' Aire risultano 5.114.469, l' 8,5 % dei quasi 60,5 milioni di residenti totali in Italia. Non tutti - va precisato - sono emigranti: nel 2017 la percentuale di iscritti all' Aire per 'espatrio' è stata infatti pari al 52%. Seguono con un 39,5% i figli di cittadini italiani all' estero, il 6,3% per reiscrizione da irreperibilità, il 3,7% per acquisizione di cittadinanza (solitamente figli di oriundi che ottengono il secondo passaporto) e l' 1 per cento circa per trasferimento dall' Aire di altro Comune.
Dall' Italia dunque continuano a partire soprattutto i giovani (37,4%) e i giovani adulti (25,0%). Ma c' è un importante cambiamento: le crescite più sostanziose - con picchi del 78% per gli ultra 85enni - sono dai 50 anni in su.
Più della metà, il 54,1%, sceglie l' Europa, mentre il continente americano registra il 40,3% degli iscritti, soprattutto nell' America centrale e meridionale con un 40,3%. Le realtà nazionali più numerose sono l' Argentina (819.899) e la Germania (743.799), la Svizzera (614.545), seguita dal Regno Unito e dalla Francia (412.263), che nell' ultimo anno è stata superata dal Brasile (415.933).
Da segnalare che con oltre 6mila arrivi in meno, il Regno Unito registra un decremento del 25,2%, probabile conseguenza della Brexit. Il Portogallo, invece, registra la crescita più significativa (+140,4%). Evidente anche la crescita del Brasile (+32,0%) e quelle della Spagna (+28,6%) e dell' Irlanda (+24,0%).
E da dove partono? Sorprendentemente la prima regione di partenza è la ricca ed efficiente Lombardia (21.980) seguita da Emilia-Romagna (12.912), Veneto (11.132), Sicilia (10.649) e Puglia (8.816). Nel 2017 gli italiani sono partiti da 107 province e sono andati in 193 località del mondo. In testa Milano, seguono Roma, Genova, Torino e Napoli. Tutte grandi aree metropolitane che ospitano importanti università e multinazionali.
In questo caso si tratta soprattutto della 'fuga di cervelli', categoria che comunque non esaurisce tutte le motivazioni dell' emigrazione.
«Il migrare non è legato a una particolare congiuntura, ma è un diritto umano fondamentale della persona», dice il cardinale Bassetti. «Al centro del fenomeno delle migrazioni - aggiunge - va posto sempre il tema dell' accoglienza ». Perché «chi arriva in un Paese straniero, o anche solo dal Sud al Nord d' Italia, ha sempre bisogno di essere accolto e integrato, coltivato nei suoi valori, aiutato. Verso i migranti dobbiamo avere tanta attenzione, sia per chi parte che per chi accogliamo».
E «noi come italiani siamo un popolo molto esperto in questo senso, anche per quello che i nostri hanno sofferto e realizzato nel mondo». Per il cardinale Bassetti «il riconoscimento della cittadinanza è un tema caldo» per oriundi italiani all' estero.
Un riconoscimento non tanto finalizzato «al possesso di un passaporto che apra le porte dell' Europa, ma nell' esaltazione di una identità fortemente legata ad un territorio in cui non solo ci si riconosce, nonostante non ci si è nati, ma lo si conosce nei racconti di genitori e dei nonni». Forse però la memoria dell' emigrazione italiana non è ancora un patrimonio diffuso, se monsignor Di Tora rileva che «ciò che appare compromettere ogni cosa è la rappresentatività che si fa della mobilità, non corrispondente assolutamente a ciò che accade, ma distorta e fuorviante».
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San Giacomo non è un hippy vagabondo, ma uno spietato “ammazza Mori”. Guido Mina di Sospiro ci spiega Santiago di Compostela, senza ipocrisie turistiche
[In Spagna sono pubblicato con vari libri tradotti dall’inglese, ai quali contribuisco lavorando a fianco del traduttore o dei traduttori; parlo spagnolo (castigliano) fluentemente e sono stato intervistato alla radio e alla televisione nazionali spagnole, così come dai maggiori giornali del paese; mia moglie è di discendenza spagnola (Basca, galiziana e cantabrica) e lo spagnolo è la sua madre lingua; sono un Grande di Spagna (titolo concesso a un mio antenato da Carlo V); leggo avidamente libri in spagnolo, particolarmente un sottogenere revisionista in espansione che racconta le conquiste militari della Spagna lungo i secoli; e ho viaggiato in lungo e in largo attraverso la Spagna più che in qualsiasi altro paese europeo, Italia inclusa. Detto ciò, nel saggio seguente ho cercato di offrire al lettore un distillato: alcuni aspetti, più o meno famosi, o famigerati, che sono emblematici di un certo spirito spagnolo.]
Due enormi autobus si sono appena fermati e hanno parcheggiato vicino al santuario. Mi volto verso mia moglie e le dico, “Ci sono i cinesi! Svelta, andiamo a porgere i nostri rispetti alla Vergine finché abbiamo il posto tutto per noi”. E che posto: Nostra Signora di Covadonga è un santuario mariano dedicato alla Vergine Maria, a Covadonga, nelle Asturie, nel nord ovest della Spagna. Le Asturie sono una regione strana che, per la maggior parte della gente, non richiama alla mente la Spagna stereotipata: un misto fra le Dolomiti e l’Irlanda, molto verde perché molto piovosa, scarsamente popolata, eccetto che per le due città principali, Oviedo e Gijon, e molto bella. È stato qui che, all’inizio del VII secolo, la nobiltà visigota si ritirò dopo essere stata sconfitta dai Mori che stavano conquistando l’intera penisola iberica. Pelagio, o Pelayo, fondò il regno delle Asturie, e quattro anni più tardi guidò ciò che restava dell’esercito visigoto contro i Mori che avanzavano, e li fronteggiò a Covadonga; una statuetta della Vergine Maria era stata segretamente nascosta in una delle grotte sopra la cascata (Cova Donga, dal latino Cova Dominica, cioè Grotta della Signora). Miracolosamente, Re Pelagio e i suoi uomini riuscirono a sconfiggere i Mori, e ogni visigoto credette che fosse stato grazie all’aiuto della Vergine. Era il 722, una data celebrata in tutta la Spagna come l’inizio della Reconquista, la Ri-conquista, che, dopo 800 anni di guerra costante, portò all’espulsione dei Mori dalla Penisola Iberica.
*
Come poi si è scoperto, gli autobus non erano pieni di turisti cinesi, ma di bambini delle elementari spagnole. Erano là per un pellegrinaggio che unisce il nazionalismo al marianesimo. Abbiamo sentito i loro insegnanti raccontare di Pelagio e della Vergine che lo aiutò, della nascente Spagna contro i Mori che conquistavano tutto; poi hanno spiegato che la Reconquista è nata lì; infine, non senza un certo orgoglio, hanno parlato degli otto gloriosi secoli che seguirono, ricchi di battaglie che si conclusero con l’espulsione dei Mori, con l’unificazione della Spagna, e con l’inizio della Conquista, cioè l’impero spagnolo. Come una capsula di storia e metastoria (la fine della Reconquista coincide, quasi in modo soprannaturale, con l’inizio della Conquista nell’anno 1492), potrebbe essere risultata pesante per i bambini, ma sembravano assorbire le informazioni con attenzione. Erano silenziosi e ascoltavano. Il luogo stesso, alla fine di una lunga galleria scavata nella roccia a strapiombo, sopra una cascata sull’orlo di un precipizio, è straordinario. E la piccola statua della Vergine di Covadonga, che qualcuno potrebbe ritenere kitsch, sembrava operare la sua magia sui ragazzi (e su mia moglie e me, ma questa è un altro discorso). Abbiamo domandato a una delle insegnanti se portare i bambini a Covadonga è qualcosa che fanno solo le scuole asturiane; ci ha risposto, “No, portano qui bambini da tutta la Spagna. È un monumento nazionale. Qui sono stati sconfitti i Mori per la prima volta; qui è dove ha avuto inizio la Reconquista”.
*
L’Estremadura, nell’ovest della Spagna al confine col Portogallo, è una terra di conquistatori che ha prodotto più famosi (o famigerati, a seconda del punto di vista) Conquistadores di qualsiasi altra regione della Spagna. Trujillo oggi è principalmente ricordata per due dei suoi figli: Francisco Pizarro, che conquistò l’impero Inca; e Francisco de Orellana, il primo a navigare l’intero corso del Rio delle Amazzoni, da principio chiamato Rio de Orellana: 4345 miglia verso l’ignoto. Ma ben prima di allora, Trujillo ha contribuito anche alla Reconquista. Mentre Alfonso VIII iniziò a testare la resistenza dei Mori nell’area, fu Ferdinando III “el Santo” il monarca che, nel 1232, riconquistò Trujillo alla fede cristiana grazie a un intervento sovrannaturale: la Vergine, con in braccio il bambin Gesù, apparve sopra le mura del castello moresco, nel punto più alto della città, e perciò la battaglia fu vinta dai soldati di Alfonso VIII. Da quel momento in poi, l’intero esercito si rivolse alla Vergine col titolo “La Victoria” (la Vittoria), come santa patrona e avvocato della Reconquista. Fu messa sul trono in cima alla porta principale che porta al castello, dove fu creata una cappella per lei.
Ferdinando III “il Santo” (el Santo) – re di Castiglia dal 1217 e re di León dal 1230 come pure re di Galizia dal 1231 – fu uno dei capi militari di maggior successo durante la Reconquista. Era anche un uomo devoto, sempre pronto ad ascrivere le sue vittorie contro gli “infedeli”, sia militari sia diplomatiche, a Dio o, come mostrato, alla Vergine. Secoli dopo la sua morte, papa Clemente X lo canonizzò. La Valle di san Fernando, vicino a Los Angeles, nel sud della California, porta il suo nome. Le feste patronali in onore di Nostra Signora della Vittoria sono tenute ancora oggi a Trujillo tra la fine di agosto e l’inizio di settembre. Contemporaneamente, ci sono festival di musica, danza e teatro. La cittadina si anima e attrae visitatori da tutta la regione. 786 anni dopo che Nostra Signora della Vittoria aiutò gli spagnoli a sconfiggere i Mori e riconquistare la città, la sua memoria continua a vivere in modo molto tangibile. Un estraneo penserebbe che Pizarro o de Orellana siano stati scelti dalla città per cantare la sua gloria. Certamente molto vien celebrato su di loro e sui Conquistatori, ma il capitolo che riguarda la Reconquista, con l’intervento, niente meno, di Nostra Signora della Vittoria, è ancora quello festeggiato e sentito di più.
*
Al pari di Trujillo, Zamora, in Castiglia e Leon sulle rive del Duero, è un’altra città che difficilmente sarà visitata da orde di turisti parlanti lingue misteriose. Quando ci siamo stati, abbiamo incontrato solo visitatori spagnoli, e pochissimi dal vicino Portogallo. E tuttavia, Zamora è sia una gemma sia una stranezza molto emblematica. Annovera ventiquattro chiese del XII e XIII secolo, tutte in stile romanico, così come altri edifici non religiosi nello stesso stile. Nessun’altra città al mondo è abbellita da così tante chiese romaniche – sono ovunque. Ce n’è persino una in miniatura (non del tutto) nel centro della plaza mayor . Durante i secoli della dominazione moresca nella penisola iberica, Zamora, allora alla periferia del regno delle Asturie, divenne una roccaforte strategica per la Reconquista dei Cristiani. Dall’inizio dell’ottavo secolo fino alla fine del decimo, cambiò di mano dai Cristiani ai Mori attraverso feroci contrasti militari; furono costruiti edifici difensivi e ogni sorta di fortificazione. Durante il dodicesimo secolo il combattimento s’intensificò. La città, in quel momento parte del regno di Leon, fu finalmente riconquistata e tolta agli Almoravidi e Almohadi. Fu allora che si decise di popolare la città di cristiani provenienti da altri centri, e costruire un numero impressionante di chiese, tutte più o meno nello stesso momento e perciò tutte nello stile corrente, il romanico. La straordinaria, grande ed estremamente composita cattedrale fu costruita in soli ventitré anni.
Mentre si viaggia da nord a sud, le chiese in Spagna diventano più “recenti”, poiché quest’ultima regione fu riconquistata più tardi. In nessun altro luogo più che a Zamora è evidente che la costruzione delle chiese era più di una affermazione religiosa; implicava, in modo abbastanza esplicito, il trionfo sugli “infedeli” e la costruzione della nazione. Liberando città dopo città dalla dominazione moresca, la Spagna gradualmente divenne la Spagna. Con l’eccezione di alcune chiese preromaniche nelle Asturie, quasi ogni chiesa in Spagna è una testimonianza della Reconquista. La Spagna visigota era cristiana (all’inizio ariana, poi, dopo che Recaredo, il re visigoto di Toledo, si convertì al cattolicesimo nel 587 d.c., ci fu un tentativo mai riuscito di cattolicizzare l’intera penisola iberica) e produsse alcune chiese. Ma poi i Mori o le trasformarono in moschee o le distrussero, così, una volta riconquistato il territorio, molte chiese dovettero essere costruite da zero oppure le moschee convertite in chiese.
*
Guido Mina di Sospiro, scrittore, indagatore dell’ignoto, viaggiatore
La Galizia, una vasta e verdeggiante sotto-regione di montagne, colline, rias, (cioè piccole baie, estuari e fiordi), oceano, spagnoli di origine celtica e zampogne, è dove si trova Santiago di Compostela. Nel mio libro La metafisica del ping pong scrivo: “…per festeggiare il mio quarantesimo compleanno in un luogo mitico che avevo sempre desiderato visitare, mi ero imbarcato nel pellegrinaggio alla cattedrale di San Giacomo, a Santiago di Compostela, insieme a mia moglie. Era stato un incredibile pellegrinaggio di cinquanta metri – quanti ne distava l’albergo dalla cattedrale – percorsi tutti a piedi e senza alcuna sosta, malgrado il tempo inclemente: un’acquerugiola”. A dispetto della mia leggerezza, Santiago de Compostela è uno dei più importanti santuari della cristianità, e di gran lunga il più famoso pellegrinaggio del mondo occidentale. Decine di migliaia di pellegrini di tutte le nazionalità e di tutte le fedi (incluso nessuna) percorrono faticosamente ogni anno il cammino di Santiago, dalla Francia, o dal Portogallo, o da qualsiasi altro posto in Spagna, centinaia di chilometri a piedi. Se ce la fanno, alla fine raggiungono la Plaza de Obradoiro [la piazza della (completata) opera d’oro, un appellativo con chiare sfumature alchemiche], dove sorge la grandiosa cattedrale. Molti, se non la maggior parte, dei pellegrini rimangono scioccati quando, una volta entrati nella cattedrale, s’imbattono nella statua di Santiago (San Giacomo) a cavallo di un destriero bianco che brandisce una spada. Non sanno che, dietro il verde provvidenzialmente collocato per decisione della chiesa cattolica, ci sono statue di Mori che si contorcono sul terreno mentre vengono trucidati dal santo. L’iconografia di Santiago, con la quale tutti diventano familiari, è quella di un primigenio hippy vagabondo, barbuto e comprensibilmente arruffato, con un bastone da passeggio, un ampio cappello e la distintiva conchiglia (che i francesi chiamano coquille Saint-Jacques, per la precisione). Sembra uscito da una comune hippy dei tardi anni sessanta. Dentro la cattedrale, d’altro canto, i pellegrini contemporanei s’incontrano con quest’altro Santiago, il Matamoros, letteralmente, san Giacomo ammazza-Mori.
Giacomo era uno dei dodici apostoli di Gesù, ed è considerato il primo apostolo a essere stato martirizzato. È il santo patrono sia degli spagnoli sia dei portoghesi, chiamato rispettivamente Santiago o São Tiago. Il suo mito come guerriero dalla parte dei cristiani contro i musulmani deriva da quella che sembra essere una finta battaglia, presumibilmente combattuta vicino a Clavijo, tra i cristiani, guidati da Ramiro I delle Asturie, e i musulmani, guidati dall’emiro di Cordoba. In essa, Santiago Matamoros (ammazza-Mori) apparve all’improvviso e aiutò un esercito cristiano in minoranza numerica a raggiungere la vittoria. La data assegnata alla battaglia, l’834, fu più tardi cambiata in 844 per adattarsi a dettagli storici più plausibili.
Sebbene nata da un incidente che, nella migliore delle ipotesi, è spurio, la storia del culto di Santiago procede di pari passo con la storia della Reconquista, e incarna una delle più formidabili icone ideologiche dell’identità nazionale spagnola. “iSantiago y cierra, Espana!” e cioè, “Santiago e addosso, Spagna!” o “Santiago e contro di loro, Spagna!” divenne il grido di battaglia degli eserciti spagnoli che combattevano contro i Mori [e continuò a essere usato, più tardi, dai Conquistatori, con Santiago Matamoros opportunamente trasformato in Santiago Mataindios (ammazza-indiani), ma questa è un’altra storia]. L’Orden de Santiago, cioè l’ordine di San Giacomo della spada, fu fondato nel dodicesimo secolo. Il suo scopo era proteggere i pellegrini del Camino de Santiago, difendere la cristianità, ed espellere i mori dalla penisola iberica. Il suo emblema era la cruz espada, la croce di San Giacomo, cioè una croce che somiglia molto a una spada. Infine, Santiago fu un tema importante delle arti, nella pittura come nella scultura, e si trova in un’infinità di chiese, palazzi e musei in tutta la spagna contemporanea.
*
Entrando finalmente nell’impressionante cattedrale di Santiago di Compostela, la maggior parte dei pellegrini sono stupiti nel vedere Santiago trasformato dal classico vagabondo in un ammazza-mori che brandisce la spada. Nel 2004, poco dopo l’attentato al treno di Madrid, l’attacco terroristico di Al-Qaeda che sterminò 192 persone e ne ferì circa 2000, la chiesa cattolica decise di rimuovere la statua di Santiago Matamoros dalla cattedrale, per non offendere la sensibilità dei musulmani (tardivamente?). Ci fu un sollevamento popolare contro tale rimozione, e si trovò un compromesso, coprendo di piante i mori uccisi, cosa che è stata mantenuta fino ad oggi. I pellegrini, siano essi cattolici, agnostici, umanitari o ipertolleranti globalisti politically correct, pensano che niente potrebbe essere più contrario agli insegnamenti di Gesù dell’idea che uno dei suoi discepoli venga glorificato come assassino. Probabilmente nessuno ha detto loro delle lettere di Bernardo di Chiaravalle ai Templari, o Liber ad milites templi de laude novae militiae (Libro dei cavalieri del Tempio, in lode del a nuova milizia), scritte fra il 1120 e il 1136.
San Bernardo scrisse tale lettera/libro per i cavalieri templari demoralizzati, che nutrivano seri dubbi sul ruolo dei guerrieri cristiani, specialmente riguardo all’atto dell’ammazzare, che consideravano non etico. Dimostrando la sua eloquenza, e partendo dalla premessa della teoria della guerra giusta di Agostino di Ippona (jus bellum iustum), San Bernardo, nel suo libro, introdusse il concetto di mali-cidium (l’uccisione del male). I Milites Christi, i guerrieri di Cristo, non potevano commettere homi-cidum (omicidio, alla lettera uccisione dell’uomo), che è proibito dal quinto comandamento. Ma, siccome il bene superiore dello sradicamento del male lo richiedeva, il malicidium del musulmano “infedele” (l’uccisione del male dentro di lui) era giustificata. Nel medioevo ogni sorta di divinità cristiana fu reclutata per il bene delle Crociate e, in Spagna, ben prima di allora, anche della Reconquista: Santo Cristos de las Batallas (Santo Cristo delle battaglie, tutt’oggi un culto molto seguito particolarmente a Salamanca, Avila, e Cáceres), portato in forma di statua sui campi di battaglia quando si combattevano i Mori; la Vergine, in varie apparizioni (ho menzionato quella decisivo a Covadonga, e un’altra a Trujillo); così come, ovviamente, Santiago Matamoros.
Mentre la chiesa cattolica era occupata a mantenere la sua cortina di verzura alla base della statua di Santiago Matamoros, è avvenuto l’attacco di Barcellona, che ha ucciso 13 persone e ne ha ferite almeno 130, la cui indiretta responsabilità è stata attribuita allo stato islamico dell’Irak e del Levante (ISIL). Dato il suo passato, dato il fatto che la Reconquista è vivamente commemorata fino ad oggi in tutto il paese, e il suo fondamentale significato inculcato nelle menti di tutti i cittadini a partire dai bimbi delle elementari, trovate la correttezza politica occidentale, che sfiora la tolleranza ad ogni costo, adatta o non adatta alla Spagna?
Guido Mina di Sospiro
(tradotto da Patrizia Poli, originalmente pubblicato in inglese da New English Review con il titolo “Spain’s ��Moor-slaying’ Ethos”)
*Guido Mina di Sospiro è l’autore, tra l’altro, di “L’albero” (Rizzoli, 2002), “La metafisica del ping-pong” (Ponte alle Grazie, 2016) e “Sottovento e sopravvento” (Ponte alle Grazie, 2017).
L'articolo San Giacomo non è un hippy vagabondo, ma uno spietato “ammazza Mori”. Guido Mina di Sospiro ci spiega Santiago di Compostela, senza ipocrisie turistiche proviene da Pangea.
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La preistoria.Le prime forme di architettura. I villaggi del Neolitico. Le costruzioni megalitiche. Aosta megalitica. I templi di Malta.
Dolmen di Bisceglie (Bari)
Aosta. Stele detta n.3 sud
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Complesso megalitico di Stonehenge, nella contea di Wiltshire. Inghilterra
Carnac. Bretagna
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Le prime forme si architettura
Il villaggi del Neolitico
Le pime forme di architettura rislagono al tempo in cui l'uomo si è stabilito in comunità sedentarie, dando origine a veri e propri villaggi. Villaggi palafitticoli, le cui case sono cioè elevate su piattaforme sostenute da pali conficcati nel terreno. Nella metà dell'Ottocento, il ritrovamento di palificazioni nel lago di Zurigo veva suggerito l'ipotesi che nei villaggi palafitticoli le case, allineate per file parallele, sorgessero su piattaforme lignee suu pali molto alti confitti nelle acque del lago. La distanza dalla riva sarebbe stata giustificata da ragioni di difesa e confermata dal buono stato di conservazione degli oggetti in legno, argila e fibre vegetali ritrovati al loro interno. Le palafitte non furono erette su laghi o zone paludose, ma in villaggi di terraferma. Ciò sarebbe dimostrato dal fatto che proprio il progressivo aumento del livello dei laghi e l'estenzione delle zone paludose avrebbe determinato l'abbandono dei villaggi, gradualmente immersi dall'acqua. Dall'Età msolitica sono frequenti centri con abitazioni dal pavimento elevato su una palificazione. Tali soluzioni furono ampiamente diffuse nelle regioni alpine. Le Terramere, generalmente quadrangolari, questi insediamenti erano delimitati da un argine e da uno fossato. Risalgono alla media e recente Età del bronzo (1600-1200 a.C.), quindi in Emilia si verificò una forte espansione demografica che detrminò la fondazione di circa 60 villaggi. Un altro tipo di insediamento neolitico è ottenuto scavando in modo sistematico ke abitazioni nella pietra e tra gli anfratti del terreno. L'esempio più viistoso in Italia è costituito dai Sassi di Matera, composti di caverne scavate nel tufo, parzialmente sovrapposte disposte lungo un ripido pendio. Il primo stanziamento risale a circa 10000 anni fa e divenne in poco tempo un vero e proprio villaggio. Le parti scavate e quelle costruite si compenetrano, in modo che il tetto di un'abitazione diventi la strada di accesso all'altra superiore.
Le costruzioni megalitiche
All'ultima fase del Neolitico e alle successive Età del rame e del bronzo risalgono le grandi costruzioni megalitiche (dal greco mégas, grande, e lìhos, pietra). L'inizio della civiltà megalitica segnò la fine dell'età neoolitica e il principio della eneolitica, intorno al 4000 a.C. Tra i tipi di megaliti più diffusi ricordiamo il menhir (dal bretone men, pietra, e hhir, lunga), costituito sa una pietra conficcata nel terreno, di forma troncoconica o parallelepipeda posta probabilmente ad indicare un lugo di sepoltura. Sono alti mediamente da 2-3 metri a 6 metri; possono tuttavia raggiungere altezze elevatissime, come il menhir di Kerolas in Bretagna (alto 9,5 metri, ma un tempo ancor più elevato) e quello di Locmariaquer (alto 23,5 metri). Il dolmen (dal bretone tol, tavola, e men, pietra) è costituito nella forma più semplice, da due blocchi lapidei infissi nel terreno, cui è sovrapposta una lastra orizzontale. Fu utilizzato dal III al I millennio a. C nell'Europa atlantica (dalla Scandinavia al Portogallo) e mediterranea. ll dolmen ha carattere sepolcrale: può essere una tomba individuale o collettiva. Questo sistema costruttivo è il primo utilizzato dall'uomo e prende il nome di trittico, perché composto da tre pietre: due verticali, i piedritti, che sostengono una terza orizzontale, l'architrave. I dolmen erno in origine ricoperti di tumuli di petrame o di terra (cairn). In Italia, i più antichi dolmen sono quelli rinvenuti in Sardegna, regione posta al centro di importanti traffici marittimi, nelle Puglie e, nell'Età del rame, nella regioe alpina. I cromlech (dal bretone crrom, rotondo, e lech, pietra), serie di dolmen disposti in modo da formare figure circolari concentriche. Nella penisola salentina sono numerosi i menhir e i dolmen ritrovati nelle campagne. Per molti di essi si è verificato l'orientamento secondo preciise direzioni economiche, riferite in particolare al Sole e alla Luna. Il dolment di Bisceglie, il più imponente, è introdotto da un percorso d'ingresso orientato.
Aosta megalitica
Ad Aosta, nel quartiere Saint Martin de Corleans, si trova la più vasta area di resi megalitici mai rivenuti in Italia. Databli a partire dal III millennio a.C., testimoniano una società economicamente e culturalmente evoluta rispetto alle società coeve. Si tratta forse di un'area sepolcrale, in cui venivano celebrate anche cerimonie rituali. In venti anni di scavi sonno state rinvenute tombem reperti, stele antropomorfe, dolmen ed alri segni, come buche per palificazioni ed arature sacre. Gli allineamenti seguono l'oriientamento di un'area arata e rispondono a precise connessioni astronomiche, riferibili a cicli solari e lunari. Tutti sono rivolti, al Sorgere del sole nel solstizio d'inverno. I lati del basamento triangolare su cui si poggia il dolmen denominato tomba II, sono orientati secondo direzioni astronomiche: il tramonto e l'alba al solstizio invernale, il tramonto della Luna nella sua massima declinazione. La disposizione delle stele antropomorfe, accostate le une alle altre e quasi tutte di altezza compresa tra i due e i tre metri, seguono due allineamenti ortogonali, all'interno dell'area sacra.
I templi di Malta
Dall'inizio del IV alla metà del III millennio a.C. l'arcipelago maltese fu interessato da un'intensa base costruttiva, momento di fioritura commerciale ed economica. Le testimonianze più importanti, per la novità delle tipologie e per la quantità dei ritrovamenti, sono i complessi monumentali dei santuari. Al loro interno, i grandi templi (ne sono stati individuati circa trenta nell'arcipelago) derivano probabilmente dalle spolture collettive ipogee, documentate a partire dalla fine del V millennio a.C. Nell'età dei complessi templari la popolazione dell'arcipelago, che era pari a circa 10000 abitanti era organizzata in villaggi. I templi sorgevano su alture o presso guadi o approdi. In alcuni casi essi si concentravano in aree più densamente abitate. La prima fase di questo fenomeno, attestata tra il 3600 e il 3000 a.C., prende il nome del sito di Gantija ("Torre dei giganti"), nell'isola di Gozo. Architettura templare con pianta a lobi: un corridoio centrale distribuisce simmetricamente locali absidati, dietro ai quali tre ulteriori vani si dispongono attorno ad un cortile. Questa distribuzione è rimasta pressoché invariata nel tempo, anche tra la fine del IV e la metà del III millennio ha acquisito una maggiore articolazione spaziale. Tutti i complessi sacri sono perimetrati da un possente muro a forma di D. Gli edifici templari potevano raggiungere i nove metri in altezza. Le facciate insistevao su ampi cortili, mentre i blocchi di pietre erano disposti ordinatamente su filari orizzontali in alto e verticali in basso. L'ingresso è di norma inquadrato da tre grandi monoliti. Gli interni erano spesso intonacati e dipinti, talvolta arricchiti da rilievi a motivi geometrici e figure animali che componevano un ricco apparato iconografico. Sono state rinvenute anche statue e figure votive. Esemplari sono le figurine della dea obesa, distesa su un letto e dormiente, come quella ritrovata nell'ipogeo di Hal Saflieni, capolavoro dell'arte preistorica maltese. Essa era forse rappresentazione del passaggio tra la veglia ed il sonno, quindi tra la vita e la morte.
Il complesso megalitico di Stonehenge
Il più importante e celebrato dei comlech è quello di Stonehenge, eretto nella contiea di Wiltshire in Inghilterra. Realizzato in tre fasi tra il 3100 a.C. e il 1500 a. C.; presenta una struttura circolare formata da 30 monoliti allineati e sormontati da architravi in modo da costituire una sequenza continua di triliti. Sono alti quattro metri e delimitano una circonferenza del diametro di circa 30 metri.il cromlech è circndato da un fossato di circa 98 metri di diametro e 6 di larghezza; all'interno un'ulteriore struttura a forma di ferro di cavallo corrisponde forse ad un cerchio non completato. In alcune pietre sono rimaste tracce di figure incise. Il complesso sarebbe stato in Età preistorica un osservatorio astronomico. I costruttori di Stonehenge avrebbero disposto i monoliti, allineamenti che corrispondono alle posizioni del Sole nei solstizi d'estate e d'inverno. Le 56 buce poste nell'anello esterno: sarebbero servite a contare gli anni (appunto 56), che separano, ciclicamente, un'eclissi solare dalla successiva. Utilizzato per circa due millenni, come calendario, come uno strumento per compiere osservazioni astronomiche e per fornire predizioni e forse come area sacra e cimiteriale. Alcuni monoliti, in pietra azzurra di dolerite screziata, provenivano da cave gallesi distanti 230 km. Alla prima fase, intorno al 3100 a.C. risalirebbero lo scavo esterno, il cerchio più piccolo e concentrico con el 56 buche e l'erezione di due pietre d'ingresso sul lato nord-occidentale (una sola, tuttavia, è ancora in sito). Una seconda fase potrebbe risalire al 2100 a.C., quando furono portate in sito e collocate le circa 80 'pietre azzurre' formanti il cromlech. In una terza fase, a partire dal 2000 a.C., furono disposte le pietre interne, provenienti da cave non molto distanti da Stonehenge. Di queste, solo sette sono oggi in sito. Un'ulteriore fase vide il collocamento di circa 20 'pietre azzurre? disposte ad ovale e, intorno al 1500, la formazione di altri due cerchi concentrici e la disposizione di ulteriori monoliti.
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Un viaggio in Portogallo alla scoperta del tappo perfetto
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Un viaggio in Portogallo alla scoperta del tappo perfetto
(Un viaggio in Portogallo alla scoperta del tappo perfetto)
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Carlos Santos, amministratore delegato di Amorim Cork Italia (Un viaggio in Portogallo alla scoperta del tappo perfetto)
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Un brindisi alla sostenibilità e alla qualità. Quella dei tappi da sughero e dell’azienda leader nella loro produzione, il Gruppo Amorim, è una storia di successo, volta a preservare l’ambiente e a migliorare il prodotto.
Ci stiamo avvicinando al periodo dell’anno in cui probabilmente si stappano più bottiglie. Tra Natale e Capodanno salteranno milioni di tappi di spumante, piuttosto che champagne e perché no, anche di birra. Poi arriveranno le stime sulle tendenze nei consumi e le classifiche andranno poi a confermare o meno i trend.
Ma quante saranno le espressioni deluse per una bottiglia che “sa di tappo”? Ci si augura di non trovarsi mai in una situazione tanto scomoda, al ristorante come in famiglia seduti sorridenti a tavola con i bicchieri in mano. Ma quando succede? Si potrebbe pensare che si tratta di sfortuna anche se invece è proprio colpa del tappo… Un “piccolo” oggetto ma tanto importante, non solo una “chiusura” ma uno scrigno, un gioiello che racchiude un mondo.
Per scoprire cosa c’è dietro la produzione di tappi siamo andati in Portogallo, il principale produttore di sughero al mondo. Perché certamente parliamo di tappi di sughero dal momento che sono quelli che esistono da sempre (erano i tappi di sughero a chiudere le anfore vinarie di Greci e Romani), perché sono la chiusura “per eccellenza” del vino che hanno visto avvicendarsi chiusure alternative in tempi relativamente recenti e perché il sughero copre circa i due terzi del fabbisogno mondiale di chiusure. E non è forse vero che voi per primi pensando a una bottiglia per un brindisi vi raffigurate un bel tappo di sughero che fa “pop”?
In Portogallo abbiamo parlato con la più grande prima azienda al mondo nella produzione di tappi in sughero: il Gruppo Amorim che è in grado di coprire quasi il 37% del mercato mondiale di questo comparto (ogni anno vengono prodotti 11,8 miliardi di tappi di sughero e Amorim ne produce 4,4 miliardi). Se si considera, invece, il mercato globale di chiusure per vino la sua quota è del 23,5% e nel settore degli spumanti raggiunge quota 51%. Tra le sue 22 filiali distribuite nei principali paesi produttori di vino dei cinque continenti, quella italiana, Amorim Cork Italia, con sede a Conegliano (Treviso), secondo le ultime dichiarazioni si è confermata nel 2016 azienda leader del mercato nel Paese, in grado di soddisfare da sola oltre il 25% della richiesta nazionale.
Ma ritorniamo al sentore di tappo… Tecnicamente è tutta colpa del tricloroanisolo, non una malattia del sughero bensì una molecola proveniente dai pesticidi, dagli erbicidi dati dall’uomo che sono talmente radicati nel terreno che anche se si parla al passato del loro utilizzo ancora oggi se ne pagano le conseguenze. Cosa fare per non incappare in questo spiacevole imprevisto? Per Amorim la risposta è stata chiara: investire in ricerca e tecnologia. Si è infatti resa protagonista di un’innovazione senza precedenti, perché grazie a un’anteprima mondiale è riuscita a eliminare i pezzi contaminati da tricloroanisolo (Tca) prima ancora del loro ingresso nella catena produttiva.
L’avanguardia tecnologica (NDtech, una tecnologia di screening per il controllo di qualità individuale dei tappi di sughero naturale monopezzo, in grado di garantire il primo tappo al mondo con Tca non rilevabile) riesce a rilevare la presenza di una molecola con un grado di 0,5 nanogrammi di Tca per litro (parti per trilione) e rimuovere automaticamente i tappi incriminati. Il livello di precisione necessario per soddisfare questo standard su scala industriale è stupefacente, se si considera che la soglia di rilevamento di 0,5 nanogrammi/litro è l’equivalente di una goccia d’acqua in 800 piscine olimpioniche! E il tutto succede in modo estremamente veloce: NDtech riesce ad analizzare ogni singolo pezzo in pochi secondi…
Una rivoluzione industriale e tecnologica internazionale per il packaging del vino, da parte di un’azienda che da sempre sceglie di applicare le più avanzate avanguardie a un elemento naturale e meritevole di tutto rispetto, in ogni singolo dettaglio: il sughero.
E in Portogallo il concetto di “naturale” è lampante: quella del sughero è una vera e propria arte, a partire dalla sua raccolta e fino alla sua trasformazione.
La foresta di sughero rappresenta uno dei 35 santuari di biodiversità del mondo. Il querceto del Mediterraneo è un tesoro biologico di valore incalcolabile, basti pensare che si tratta dell’unica barriera naturale che separa il deserto del Sahara dal sud dell’Europa, una vera e propria difesa contro la desertificazione. Le querce da sughero prevengono il degrado del suolo, rendono i terreni più produttivi, regolano il ciclo idrogeologico, combattono le alterazioni climatiche, catturano e immagazzinano il carbonio in tempi molti lunghi.
Nel mondo ci sono 2,2 milioni di ettari di querceti da sughero, in Portogallo, l’abbiamo detto, forniscono circa il 50% della produzione mondiale di sughero, mentre Spagna, Francia, Italia, Marocco, Algeria e Tunisia producono il restante 50%. L’attività svolta da Amorim nell’industria del sughero (ogni anno acquista più di un terzo di tutta la produzione mondiale di sughero) è stata determinante per la sopravvivenza di milioni di querce, e l’attività del sugherificio, così come le attività complementari che questa innesca, ha generato impiego in molte aree rurali, incentivando le popolazioni a insediarsi stabilmente, rallentando così lo spopolamento. Parallelamente è cresciuta l’importanza del turismo rurale e dell’ecoturismo. Si deve per questi motivi sostenere senza ombra di dubbio che il sughero crea impiego e ricchezza.
E sapete che la raccolta del sughero è il lavoro agricolo meglio pagato al mondo? Un lavoro molto stancante ma anche un processo manuale, quello della decortica, che richiede mani esperte e molti abili e attente per non danneggiare corteccia e albero. Un errore potrebbe persino causare la morte della pianta. E considerando che è con la decortica che inizia il ciclo di vita del sughero ma che al primo raccolto la pianta ha 25 anni di età e che le decortiche successive avvengono a un intervallo di almeno 9 anni, è facile fare un rapido calcolo del patrimonio con cui ci si trova a confrontarsi.
Un tuffo in terra portoghese, e più precisamente nella regione dell’Alentejo, fa crescere la consapevolezza dei vantaggi ambientali e delle tecniche di applicazione del tappo in sughero naturale (oltre al riconoscimento del valore aggiunto in termini di qualità che porta al vino in bottiglia). Ogni tappo di sughero stappato non è più solo un tappo quindi, ma una parte importante di un comportamento virtuoso.
Per informazioni: www.amorimcorkitalia.com
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Boost Your olivo With These Tips
Oliva
Olea europaea , vicino al Mar Morto , Giordania
Classificazione scientifica
Regno: Plantae
(Non classificato): angiosperme
(Non classificato): Eudicotiledoni
(Non classificato): Asteridi
Ordine: Lamiales
Famiglia: Oleaceae
Genere: Olea
Specie: O. europaea
Nome binomiale
Olea europaea
L.
Olea europaea range.svg
Mappa di distribuzione
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L' oliva , nota per il nome botanico infuso Olea europaea , che significa "oliva europea", è una specie di piccolo albero nella famiglia Oleaceae , trovata nel bacino del Mediterraneo dal Portogallo al Levante , alla penisola araba e promotion Asia meridionale fino advertisement est Cina , così come le Isole Canarie e la Riunione . La specie è coltivata in molti luoghi e considerata naturalizzata in tutti i paesi della costa mediterranea, così come in Argentina , Arabia Saudita , Java , Norfolk Island , California e Bermuda .
Olea europeana sylvestris è una sottospecie che corrisponde promotion un albero più piccolo che porta frutta notevolmente minore.
Il frutto d'oliva, chiamato anche l'oliva, è di grande importanza agricola nella regione mediterranea come fonte di olio d'oliva ; È uno dei tre ingredienti fondamentali della cucina mediterranea . L'albero e la sua frutta danno il loro nome alla famiglia delle piante, che comprende anche specie come lillà , gelsomino , Forsythia e i veri frassini ( Fraxinus ). La parola deriva dal latino ŏlīva ("frutto d'olivo", "olivo", "olio d'oliva" è ŏlĕum ) un prestito dalla Grecia ἐλαία ( elaía , "frutta d'oliva", "olivo" ) E ἔλαιον ( élaion , "olio d'oliva") nella forma arcaica * ἐλαίϝα . Le più antiche forme attestate delle parole greche sono il miceneo , e-ra-wa e , e-ra-wo o , e-rai-wo , scritte nello content lineare B sillabico. La parola "olio" in più lingue deriva infine dal nome di questo albero e dal suo frutto. Le più antiche forme attestate delle parole greche sono il miceneo , e-ra-wa e , e-ra-wo o , e-rai-wo , scritte nello content lineare B sillabico. La parola "olio" in più lingue deriva infine dal nome di questo albero e dal suo frutto. Le più antiche forme attestate delle parole greche sono il miceneo , e-ra-wa e , e-ra-wo o , e-rai-wo , scritte nello content lineare B sillabico. La parola "olio" in più lingue deriva infine dal nome di questo albero e dal suo frutto. Scritto nello content sillabico lineare B. La parola "olio" in più lingue deriva infine dal nome di questo albero e dal suo frutto. Scritto nello content sillabico lineare B. La parola "olio" in più lingue deriva infine dal nome di questo albero e dal suo frutto.
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Descrizione Tassonomia .
Coltivazioni Storia
. Preistoria
. Fuori dal Mediterraneo Connotazioni simboliche
. Antico Egitto
. Antica Israele e la Bibbia ebraica
. Grecia antica
. Antica Roma
. Nuovo Testamento
. Islam Olivi più antichi conosciuti Usi
. Olive da tavola
. Fermentazione e curing tradizionali
. Legno di oliva Coltivazione
. Crescita e propagazione
. Parassiti, malattie e beat
. Come specie invasiva
. Raccolta e trasformazione
Produzione
globale Nutrizione
Potenziale allergenico
Galleria di immagini
Vedi anche Riferimenti
Collegamenti esterni
Descrizione olife
Illustrazioni del XIX secolo L'olivo, Olea europaea , è un albero sempreverde o arbusto nativo del Mediterraneo , dell'Asia e dell'Africa . È breve e squat, e raramente supera - m (- piedi) di altezza. "Pisciottana", una varietà unica che comprende . alberi trovati solo nella zona intorno a Pisciotta nella regione Campania del sud Italia, spesso supera questo, con diametri di tronco corrispondenti. Le foglie verdi d'argento sono oblunghe, misurate a - cm (,- , in) e - cm (,- , in) larghe. Il tronco è tipicamente twisted e torto.
I fiori piccoli, bianchi e pievi , con calice e corolla a dieci ceneri , due stami e uno shame bifido , sono generalmente sostenuti nel legno dell'anno precedente, in racemes che sorgono dagli assi delle foglie.
Il frutto è un piccolo drupe lungo - , cm (,- , in) lungo, più sottile e più piccolo nelle piante selvatiche che nelle cultivar di frutteto. Le olive vengono raccolte nella fase verde-viola. Le olive nere in scatola sono state spesso annerite artificialmente (vedi sotto per l'elaborazione) e possono contenere il gluconato ferroso chimico per migliorare l'aspetto. Olea europaea contiene un seme comunemente indicato in inglese americano come una fossa o una roccia, e in inglese come una pietra.
Tassonomia olife Le sei sottospecie naturali di Olea europaea sono distribuite su una vasta gamma:
Olea europaea subsp. Europaea (bacino del Mediterraneo)
O. e. subsp. Cuspidata (da Sudafrica in tutta l'Africa orientale, Arabia a Sud Ovest della Cina) O. e. subsp. Guanchica ( Canarie )
O. e. subsp. Cerasiformis ( Madeira )
O. e. subsp. Maroccana ( Marocco )
O. e. subsp. Laperrinei ( Algeria , Sudan , Niger ) La sottospecie
O. e. Maroccana e
O. e. Cerasiformis sono rispettivamente esaiploidi e tetraploidi .
Le forme selvatiche di coltivazione dell'oliva sono talvolta trattate come Oleas oleosa .
Coltivazioni olife Articolo principale: Elenco delle cultivar d'oliva Sono note centinaia di cultivar dell'olivo. Una cultivar di oliva ha un impatto significativo sulle sue caratteristiche di colore, dimensione, forma e crescita, nonché le qualità dell'olio d'oliva. Le cultivar di oliva possono essere utilizzate principalmente per l'olio, per mangiare o per entrambi. Le olive coltivate per il consumo sono generalmente unmistakable olive da tavola .
Poiché molte cultivar d'oliva sono auto-sterili o semi così, sono generalmente piantate in coppia con una sola cultivar primaria e una cultivar secondaria selezionata per la sua capacità di concimare quella primaria. Negli ultimi tempi, gli sforzi sono stati indirizzati alla produzione di cultivar ibride con qualità come la resistenza alla malattia, la crescita rapida e colture più grandi o più coerenti.
Storia olife
Preistoria olife
Le demonstrate fossili indicano che l'olivo aveva origini around - milioni di anni fa nella regione oligocenica corrispondente all'Italia e al bacino mediterraneo orientale. La pianta di ulivo fu coltivata in un primo momento around . anni fa nelle regioni mediterranee.
L'oliva commestibile sembra coesistere con gli esseri umani per around .- . anni, risalendo all'età del Bronzo (- aC). La sua origine può essere rintracciata al Levante sulla base di tavolette scritte, scavi di oliva e frammenti di legno trovati nelle tombe antiche. Almeno un produttore di libri di cucina rileva che le demonstrate più antiche della coltivazione di oliva si trovano in Libano, Siria, Israele e Creta.
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Bitdefender estende all'Italia l'accordo di distribuzione con Ingecom
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Bitdefender estende all'Italia l'accordo di distribuzione con Ingecom
Bitdefender ha siglato un accordo di distribuzione con Ingecom anche per la sede italiana del vendor. La partnership, infatti, è già in essere e consolidata in Spagna. L’accordo riguarda tutto il portafoglio prodotti Enterprise dedicato alle aziende e agli MSP.
Bitdefender propone soluzioni in grado di gestire e ridurre il rischio di un attacco informatico, con l’obiettivo di offrire ai clienti un’intera gamma di prodotti di sicurezza innovativi, garantendo maggiore protezione possibile.
Ingecom, in Italia da circa un anno sotto la guida del Country Manager Sergio Manidi, ha raggiunto ottimi risultati grazie alla promozione delle tecnologie in ambito IT Security e Cybersecurity.
In una realtà costituita da crescenti minacce informatiche, gli utenti connessi alla rete sono quotidianamente sottoposti a rischi crescenti, con nuove e mutate forme di attacchi, tentativi di phishing e computer violati.
Bitdefender estende all’Italia l’accordo di distribuzione con Ingecom
“L’accordo di distribuzione formalizzato con Bitdefender si inserisce in una strategia di arricchimento tecnologico del nostro portfolio rispettando la filosofia della massima e migliore “complementarietà”. Siamo consapevoli di quanto gli attori italiani della cyber security siano attenti a questo aspetto. La nostra missione è quella di offrire un tangibile valore ai nostri rivenditori partner grazie ad una costante ricerca, selezione e promozione delle migliori tecnologie al fine di supportarli nell’anticipare le sfide e le minacce peculiari del settore” precisa Manidi.
Denis Cassinerio, Regional Sales Director SEUR di Bitdefender
“L’estensione dell’accordo di Distribuzione in Italia con Ingecom si inserisce all’interno della strategia di sviluppo del Sud Europa, che ci vede sempre più presenti con realtà multi-nazionali e specializzate” dichiara Denis Valter Cassinerio, Regional Sales Director SEUR , che prosegue: “L’accordo appena siglato si inserisce in una visione comune strategia in merito allo sviluppo del mercato, offrendo all’ecosistema di canale un approccio a valore, per una migliore esperienza con le soluzioni Bitdefender. Ingecom ha già dimostrato di essere un distributore affidabile e competente sulle nostre soluzioni e su temi complementari, diventando quindi un ottimo partner per tutto il canale in merito agli argomenti più moderni della Cybersecurity”. Dopo l’ottimo lavoro realizzato in Spagna con Ingecom, siamo convinti che anche in Italia il canale beneficerà del nostro approccio sinergico, portando all’end user più facilmente l’efficacia delle soluzioni Bitdefender, grazie all’efficiente supporto dei servizi di Ingecom.”
Bitdefender estende all’Italia l’accordo di distribuzione con Ingecom
“Siamo lieti di estendere l’accordo di distribuzione con Bitdefender in Italia, dopo gli ottimi risultati che stiamo ottenendo con questo vendor in Spagna e Portogallo”, afferma Javier Modùbar, attuale CEO e socio fondatore di Ingecom che prosegue: “Questo successo è dovuto principalmente alla solidità della tecnologia Bitdefender nella prevenzione, individuazione e risoluzione degli attacchi più avanzati attualmente in circolazione, come dimostrato dai diversi studi internazionali in cui il vendor è riconosciuto, nonché dal grado di soddisfazione dei clienti. Allo stesso modo, crediamo che la strategia di mercato di Bitdefender sia perfettamente allineata a quella di Ingecom, che con questo accordo rafforza il suo portfolio di offerta in Italia per le soluzioni endpoints”.
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Libia, tra martiri che rivivono e la guerra del petrolio che non finisce
Umberto De Giovannangeli Giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam
Wikipedia
A volte i "martiri" ritornano. E vengono usati per sobillare gli animi e cavalcare lo spirito nazionale. La Libia è anche questo. Un passo indietro nel tempo. Pochi anni, giugno 2009, ma lo scenario sembra quello di un'epoca lontana. Narra la cronaca di quel 10 giugno 2009: una foto in bianco e nero che ritrae un eroe della resistenza anti-coloniale in Libia sul petto dell'impeccabile divisa: Muammar Gheddafi non rinuncia al gusto della provocazione e, nonostante i buoni rapporti con l'Italia, ha scelto di caratterizzare sin dal suo esordio la visita nel nostro Paese con chiari riferimenti all'epoca buia del colonialismo italiano in Libia.
Scendendo dalla scaletta dell'aereo che lo ha portato Roma, il colonnello, accolto a Ciampino dal premier italiano Silvio Berlusconi, si è presentato con addosso l'alta uniforme nera decorata da una serie di medaglie, il cappello calzato sui capelli crespi e nerissimi e grossi occhiali scuri. La cosa che ha più colpito della sua mise è stata però proprio la foto in bella vista sulla divisa del colonnello di Omar al-Mukhtar, un eroe della resistenza libica contro gli italiani.
Ad accompagnare Gheddafi è arrivato a Roma un anziano in abito tradizionale, Mohamed Omar al-Mukhtar, ultimo erede dell'eroe anti-coloniale. I giornali del tempo sottolineano la "grande deferenza" del leader libico nei confronti dell'ottantenne, sceso dall'aereo a fatica per problemi di deambulazione. Nell'agosto del 2008, in occasione della visita dell'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a Bengasi in cui fu firmato il trattato di amicizia italo-libico, l'anziano, figlio dell'eroe della resistenza, disse ad Al-Jazeera che non avrebbe mai incontrato il premier di un Paese che "odia il popolo libico e odia Omar al-Mukhtar", neanche se glielo avessero chiesto le autorità libiche. I media libici scrissero di un baciamano di Berlusconi all'erede di Al-Mukhtar, parlando di un gesto altamente simbolico per la conclusione del contenzioso fra i due Paesi frutto del buio passato coloniale.
"La foto di Al Muktar è come la croce che alcuni di voi portano: il simbolo di una tragedia". Così il Colonnello rispose ai giornalisti che lo interpellavano in merito alla foto. Gheddafi ricordando che comunque anche molti "italiani sono stati impiccati da quello stesso governo di allora che poi è finito con l'impiccagione, ma a piedi in giù, di Mussolini". "È come l'uccisione di Gesù Cristo per i cristiani: per noi quell'immagine è come la croce che alcuni di voi portano", apostrofò il leader libico sottolineando che è il "simbolo di una tragedia".
Omar al-Mukhtar, soprannominato il "leone del deserto" fu il leader della resistenza libica contro gli italiani agli inizi tra gli anni Venti e gli anni Trenta. La fotografia sul petto del leader libico è quella dell'arresto del "leone del deserto" operato da parte di squadroni fascisti, l'11 settembre del 1931. Il leader della guerriglia fu condannato a morte il 15 settembre 1931 su ordine di Mussolini che, nel suo telegramma ai giudici, li incoraggiò a concludere il processo con una "immancabile condanna". Il giorno dopo Omar al-Mukhtar fu impiccato. Del colonialismo italiano in Nord Africa, Angelo Del Boca è riconosciuto come il più autorevole studioso. " Per alcuni aspetti – rimarca Del Boca - il colonialismo italiano è stato più severo, più ingiusto di quello di paesi come la Francia, la Gran Bretagna e il Portogallo. In Libia, ad esempio, per contrastare l'opposizione di Omar el Mukhtar sono stati creati dei campi di concentramento nella zona più arida del paese, dove sono state raccolte intere popolazioni della Cirenaica, con un bilancio finale di 40 mila morti, a causa delle malattie, il cattivo nutrimento e le continue percosse o fucilazioni. Uno dei peggiori crimini del colonialismo italiano è stato quello di proibire ogni forma di istruzione. Il limite massimo era la quinta elementare, sufficiente per ricevere ordini ed eseguirli. A differenza di ciò che accadeva nelle colonie inglesi e francesi, dove si garantiva la formazione di una classe dirigente, a volte di alto livello". Il "leone" serve oggi all'uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, per un duplice scopo: recuperare in quel passato un elemento unificante di una incerta identità nazionale, ed ergersi a novello paladino nella difesa degli interessi del popolo libico e di una sovranità messa a repentaglio dai "neocolonialisti italiani". Giugno 2011. La rivolta contro Gheddafi, esplosa a Bengasi, incendia l'intera Libia. Il cimitero di Hammangi a Tripoli, storico complesso dove sono custoditi resti di circa 8mila espatriati italiani in Libia, viene profanato da alcuni sconosciuti che ne hanno danneggiato alcune strutture e imbrattato le mura con ingiurie e minacce. L'Airl, l'Associazione degli italiani rimpatriati dalla Libia, è stata protagonista di una lunga battaglia per la sua ristrutturazione. E Giovanna Ortu, la sua presidente, si dice "rattristata e costernata": "Per anni Hammangi era stato alla mercé di ladruncoli che profanavano le tombe, questa volta invece si è trattato di un vero e proprio atto ostile contro l'Italia da parte dei fedelissimi di Gheddafi, su questo non ci sono dubbi". Ora Gheddafi non c'è più, ma l'ostilità verso l'Italia, più o meno sobillata, ancora vive. 30 aprile 2016: Preoccupano molto le immagini delle bandiere italiane bruciate in Libia nel corso di alcune manifestazioni di protesta indirizzata contro i raid aerei dell'esercito libico guidato dal generale Khalifa Haftar, peraltro osannato a Tobruk. Secondo quanto riportato dal Libya Herald, centinaia di cittadini libici sono scesi in piazza a Derna per protestare contro gli attacchi aerei sulla città da parte delle forze del generale Haftar e hanno "bruciato una bandiera italiana, condannando quelle che considerano interferenze italiane e dell'Onu in Libia". I manifestanti, aggiunge il giornale online, hanno comunque espresso apprezzamento per le "vittorie dell'esercito" contro l'Isis in Libia. Anche il sito Alwasat ha riportato la notizia, specificando che nel corso di queste manifestazioni sarebbero state date alle fiamme alcune bandiere italiane, mentre i manifestanti protestavano al grido di "nessuna tutela". Sui cartelli dei manifestanti, scritte contro l'intervento dell'Italia nella crisi libica, come "no all'intervento dell'Italia nei nostri affari interni" oppure "l'Italia non si sogni di occupare il nostro Paese". Le persone che hanno preso parte alla manifestazione hanno bruciato una bandiera italiana. Simbologia e politica si tengono assieme fomentando ancor più il "caos libico". Un caos che non sarà certo risolto dal premier "voluto" dall'Italia e supportato, almeno a parole, dall'Onu. Serraj, ricorda Del Boca, "non controlla a pieno nemmeno la città di Tripoli; tanto meno la Tripolitania divisa tra milizie in parte schierate con Tripoli, come quelle di Misurata che ricattano costantemente Sarraj, in parte con il precedente governo islamista di Khalifa al-Ghweil; ci sono poi l'enclave armata di Zintane che ha detenuto e liberato Seif al-Islam, il figlio di Gheddafi; il Fezzan delle tribù e dei clan e la Cirenaica di Haftar, ancora alle prese con il tentativo di ricostituzione delle milizie jihadiste, a Derna e Bani Walid dopo la sconfitta di Sirte. Dappertutto centinaia di milizie armate...". "Qualche giorno fa – annota Alberto Negri sul Sole24Ore - Abdel Rahman Shalgam, l'ex ambasciatore libico all'Onu, diceva che, pur non avendo simpatie per Haftar, il generale è il padrone della Cirenaica mentre la Tripolitania è divisa in cento milizie e l'unica piazzaforte sicura è Misurata. Andare in Libia senza un'intesa con Haftar è sbagliato perché, come altri, è in grado comunque di sabotare la missione...". E ancora: "Paradossale: l'Italia che aveva in Gheddafi il maggiore partner nel Mediterraneo, ora potrebbe passare alle cronache come il Paese con velleità neo-colonialiste, accusata da miliziani alleati dei nostri alleati che in Libia hanno condotto i raid e tentato di ridimensionare la presenza italiana. Operazione mal riuscita perché l'Eni continua a estrarre gas, petrolio e fornisce la corrente tutto il Paese. Certo che se l'Italia si fosse opposta ai bombardamenti oggi avrebbe ben altra legittimità". In Libia, è bene ricordarlo, l'Italia non ha alleati internazionali ma concorrenti, che fanno della spregiudicatezza il loro modus operandi: la Francia, la Russia, l'Egitto, gli Emirati Arabi Uniti hanno decisamente puntato su Haftar come "cavallo vincente", se non per diventare il nuovo raìs libico quanto meno per edificare lo Stato-protettorato della Cirenaica, l'area dove sono concentrati i più importanti pozzi petroliferi del Paese nordafricano. La Storia dice che nella Sponda Sud del Mediterraneo e nel Medio Oriente, i conflitti esplodono per il controllo dell'oro nero e di quello bianco: petrolio e acqua. La Libia ne è la riprova. Alla Francia, i nostri fratelli-coltelli euromediterranei, di fronteggiare con spirito solidale e con un'azione condivisa, l'emergenza migranti, interessa poco o niente. Mentre interessa, e tanto, che il loro uomo a Bengasi (Haftar) e un domani a Tripoli, riservi la fetta più grossa della "torta petrolifera" alla transalpina Total, rimpicciolendo quella del cane a sei zampe (l'Eni) italiano. Intanto, mentre l'Italia supporta la Guardia Costiera di Serraj, L'Esercito Nazionale Libico (LNA) di Haftar, si aggiudica un altro successo nella "battaglia del Fezzan" combattuta nella regione desertica meridionale libica contro le milizie di Misurata e i loro alleati legati indirettamente al governo riconosciuto dalla comunità internazionale di al-Serraj. Nei giorni scorsi, le truppe di dell'uomo forte del governo di Tobruk, hanno conquistato la base aerea di Al-Jufra, 500 chilometri a sud di Tripoli e i centri di capoluogo Hun e Sukna, cittadine fra i 30 mila e i 10 mila abitanti e situati a circa 250 km in linea d'aria a sud di Sirte, dove sono state trovati depositi di munizioni e veicoli. LNA controlla ora i centri nevralgici militari del Fezzan dopo che il 25 maggio le truppe di Haftar avevano preso il controllo della base aerea di Tamenhant vicino a Seba. Di certo, a riequilibrare i rapporti di forza sul campo non basterà una fregata italiana. Nella stampa libica la parola più ricorrente, per definire la fase attuale, è: "Somalizzazione". Avere una "nuova Somalia" alle porte di casa non è una bella prospettiva. Preso da: http://ift.tt/2v5Ghnz http://ift.tt/2uLTD6Y
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