#l’immagine movimento
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Nodo alla gola è costituito da un solo piano nella misura in cui le immagini non sono che i meandri di un solo e identico ragionamento. La ragione è semplice: nei film di Hitchcock un’azione, essendo data (al presente, al futuro, o al passato), sarà letteralmente circondata da un insieme di relazioni, che ne fanno variare il soggetto, la natura, la finalità, eccetera. Ciò che conta non è l’autore dell’azione, quello che Hitchcock chiama con disprezzo il whodunit («chi l’ha fatto?»), e nemmeno l’azione stessa: è l’insieme delle relazioni in cui sono presi l’azione e chi la compie. Di qui il senso assai particolare del quadro: i disegni preliminari dell’inquadratura, la stretta delimitazione del quadro, l’eliminazione apparente del fuori-quadro, si spiegano con il costante riferimento di Hitchcock non alla pittura o al teatro, ma alla tappezzeria, cioè alla tessitura. Il quadro diventa come i montanti che sostengono la catena delle relazioni, mentre l’azione costituisce soltanto la mobile trama che passa al di sopra e al di sotto. Ecco perché Hitchcock procede abitualmente per piani corti, altrettanti piani quanti sono i quadri, ove ogni piano mostra una relazione o una variazione della relazione. Ma il piano teoricamente unico di Nodo alla gola non è per nulla un’eccezione a tale regola: molto diverso dal piano-sequenza di Welles o di Dreyer, che tende in due modi a subordinare il quadro a un tutto, il piano unico di Hitchcock subordina il tutto (delle relazioni) al quadro, accontentandosi di aprire questo quadro in lunghezza, a condizione di mantenere la chiusura in larghezza, esattamente come nella tessitura di un tappeto infinitamente lungo. L’essenziale, in ogni modo, è che l’azione, e anche la percezione e l’affezione, siano inquadrate in un tessuto di relazioni. È questa catena di relazioni a costituire l’immagine mentale, in opposizione alla trama delle azioni, percezioni e affezioni.
Gilles Deleuze
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Mario Schifano Gioie istantanee
a cura di Enrico Gusella
Biblos, Padova 2007, 80 pagine, 24x24cm, ISBN 978-88-88064-70-3
euro 25,00
email if you want to buy [email protected]
Mostra Padova Aprile Fotografia 07 - 7 aprile 27 maggio 2007
La rassegna, promossa dall’Assessorato alle Politiche Culturali e Spettacolo – Centro Nazionale di Fotografia e curata da Enrico Gusella e Brasilia Pellegrinelli, presenta una particolare antologia di immagini dell’artista italiano Mario Schifano (1934–1998), nella quale il mezzo fotografico diventa il pretesto per un’azione pittorica di appropriazione e comprensione del mondo. L’esposizione mette in luce un aspetto meno noto al pubblico della sua arte, aggiungendo un elemento prezioso di ulteriore lettura dell’immagine fotografica.
Nato con l’anima esclusiva di pittore, Schifano sceglie di contaminare la pittura con il flusso e le retoriche narrative del cinema, con l’asserzione e la corporeità ambigua della fotografia. Cattura, scatto dopo scatto, con meraviglia, immagini di un mondo televisivo da scoprire, dentro il quale ritrovare altri percorsi artistici. A seguire è l’intervento pittorico, brusco e veloce, provocatorio ed eccentrico.
Schifano non riceve le immagini, ma le “guarda”, “scava” dentro, padroneggia, anche quando è più appariscente il suo rapporto con la casualità. La superficie dell’immagine originale, sottratta al mondo televisivo, diventa il campo di apparizione iconografica su cui si intrecciano l'occhio meccanico dell'obiettivo fotografico e l’istintività della mano che segna la foto. Il suo sguardo si posa senza filtri né preconcetti sull’immagine, ed egli assume su se stesso il compito di ritrovarne il respiro, riaccende le riproduzioni, le rimette in movimento, le smonta e le manipola, consapevole del fatto che si tratta di un processo senza fine, perché l’immagine compiuta non può essere che morta, e dunque nessun processo deve prevedere il proprio compimento.
Le fotografie sono ritoccate a pennello, quasi a sottolineare alcuni atteggiamenti o rafforzare un’espressione attraverso l’uso di colori vistosi ed esagerati; una cornice nera che assume il significato di finestra di congiunzione tra due mondi in continuo dialogo: il tubo catodico e l’occhio fotografico di Mario Schifano.
16/03/24
#Mario Schifano#exhibition catalogue#Padova Aprile Fotografia 07#photography books#fashionbooksmilano
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Marjane Satrapi
Marjane Satrapi, fumettista, regista, sceneggiatrice e illustratrice, con il suo lavoro illustrato ha dato voce all’Iran contemporaneo.
È l’autrice del famosissimo Persepolis, il primo fumetto autobiografico sulla storia iraniana poi diventato un film, nel quale descrive la sua infanzia in patria e la sua adolescenza in Europa. La protagonista è una bambina, i suoi giochi, la scuola e la scoperta del rock, che si svolgono in mezzo all’ascesa del fondamentalismo religioso in Medio Oriente.
Una riflessione sui comportamenti legati alla superficialità e al pregiudizio che portano a identificare un paese, un’intera civiltà, con alcuni estremi, drammatici aspetti della sua storia recente.
Scritta con l’intento di “ribattere ai pregiudizi sul mio Paese senza essere interrotta” è la saga di una famiglia iraniana a Teheran tra il 1960 e il 1990.
Sua è anche l’immagine simbolo della lotta delle donne iraniane contro il regime: Donna, Vita, Libertà.
Nata a Rasht, il 22 novembre 1969, è stata educata secondo principi progressisti da genitori illuminati, che, per evitarle il clima oppressivo ed estremista del regime di Khomeini, l’hanno fatta studiare prima al Liceo Francese di Teheran e poi, ancora giovanissima, a Vienna, dove ha dovuto fare i conti con pregiudizio e razzismo nei suoi confronti.
Nel 1988, alla fine della guerra con l’Iraq, è tornata a casa e ha frequentato la Facoltà delle Belle Arti. Incapace di reggere il clima di censura e privazione delle libertà, terminati gli studi, si è trasferita prima a Strasburgo e poi a Parigi dove, frequentando l’Atelier des Vosges, gruppo di disegnatori e disegnatrici che hanno dato vita al movimento d’avanguardia della Nouvelle bande dessinée.
Nel 2001 è nato il suo capolavoro Persepolis che ha riscosso subito un grande successo grazie allo stile semplice e immediato del disegno, volutamente naif e talvolta elementare, sempre efficace.
Il libro ha venduto oltre tre milioni di copie in tutto il mondo ed è stato tradotto in oltre venti lingue. La storia ha assunto un carattere universale grazie all’astrazione conferita dal segno in bianco e nero e alla semplificazione delle figure. La forma del romanzo grafico è riuscita magistralmente a sintetizzare specificità culturali entrando in comunicazione con culture e età diverse.
Nel 2007 ne è stato tratto l’omonimo film d’animazione candidato al Premio Oscar nel 2008. Scritto e diretto da Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud è stato realizzato interamente a mano, secondo le tecniche più tradizionali, per ricreare il segno del fumetto.
Dopo Persepolis ha pubblicato Taglia e cuci, Pollo alle Prugne con cui ha vinto l’Oscar del fumetto al festival internazionale di Angoulême, Il sospiro, favole persiane, Il velo di Maia. Marjane Satrapi o dell’ironia dell’Iran.
La trasposizione filmica di Pollo alle prugne, in live action, del 2011, è stata presentata in anteprima alla 68ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Ha anche diretto The Voices (2014) e Radioactive (2019).
La sua ultima fatica letteraria è stata Donna, vita, libertà, in cui ha riunito esperti di storia, politica e comunicazione e i più grandi talenti del mondo del fumetto per raccontare l’evento che ha segnato la storia contemporanea: l’uccisione di Mahsa Amini dovuta al pestaggio della polizia morale perché non indossava “correttamente” il velo. La morte della giovane ha scatenato in tutto l’Iran un’ondata di protesta che ha dato vita a un movimento femminista senza precedenti.
Marjane Satrapi vive e lavora a Parigi, collabora con numerose riviste e cura una colonna illustrata per il The New York Times.
Nel 2024 è stata insignita del prestigioso Premio Principessa delle Asturie 2024 per la comunicazioni e gli studi umanistici per “la sua voce essenziale nella difesa dei diritti umani e della libertà“.
Nella motivazione, la giuria ha evidenziato che “è un simbolo dell’impegno civico guidato dalle donne. Per il suo coraggio e la sua produzione artistica è considerata una delle persone più influenti nel dialogo fra culture e generazioni“.
Nel ringraziare per il riconoscimento, Marjane Satrapi ha affermato: “approfitto l’opportunità per celebrare la feroce lotta del mio popolo per i diritti umani e la libertà. Oggi si onorano tutti i giovani che hanno perso la vita e a quanti continuano nella battaglia per la libertà in Iran“. E ha dedicato il premio a Toomaj Salhebi, artista di rap, condannato a morte per il suo canto alla libertà.
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Brano tratto da: LE STREGHE DI SHAKESPEARE - di Gianpiero Menniti
DONNE SULLA SOGLIA DELL'INVISIBILE
[...] “La follia dal Dio proveniente è assai più bella della saggezza d’origine umana” diceva Platone. Prima abbiamo discusso di arte. Il simbolismo non è comprensibile senza questa capacità. Che senso ha un’arte del reale, del materiale, l’arte che traccia l’immagine della storia. Guarda le donne annoverate nel movimento impressionista: Cassatt e Morisot. I loro dipinti riescono a cogliere le atmosfere che conducono verso il confine tra sensibile e soprasensibile. Le pennellate della Morisot sono come saette. Gli sguardi della Cassatt già scorgono il profondo. I ritratti di donna che dipingono sono diversi. Loro, dentro un movimento artistico che tendeva a ridurre la realtà alla materialità della visione, sono le più intuitive nel superare la visione, nel saper vedere oltre. Marie Bracquemond forse è la più intensa.
- Mary Cassat (1844 - 1926): "Le sorelline", 1885 circa, Kelvingrove Art Gallery and Museum, Glasgow, Scotland, UK
- Berthe Morisot (1841 - 1895): "Giovane donna in tenuta da ballo", 1879, Museo d'Orsay, Parigi
- Marie Bracquemond (1840 - 1916): "Sulla terrazza a Sèvres", 1880,Museo del Petit Palais, Ginevra
- In copertina: Maria Casalanguida, Interpretazione de ‘Il bagno turco di Ingres’, 1976, collezione privata
#thegianpieromennitipolis#berthe morisot#Mary Cassat#marie bracquemond#maria casalanguida#impressionismo#arte#arte contemporanea
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L’agente Vinnie, Fox e l’ispettore Greco.
La strada bagnata scorreva sotto le ruote della sua Shevy d’ordinanza, erano 5 minuti che l’inseguimento era cominciato. L’agente Vinnie aveva notato un movimento sospetto mentre era fermo all’El’s dinner, un tizio coperto da un lungo impermeabile e con in testa un cappellaccio da australiano stava trafficando accanto ad una Chevrolet bianca, scese dalla pattuglia e si avvicinò al soggetto, “hey” grido per farsi notare, e l’uomo lo noto, la reazione era prevista. Il tizio saltò in auto e partì con la fretta di chi aveva qualcosa da nascondere, Vinnie si aspettava una reazione simile, aveva 30 anni d’esperienza, ed era già pronto a raggiungere il volante della pattuglia per dargli dietro, tutto questo con buona pace della voglia di ciambelle del suo collega Josh.
Pioveva quella cazzo di notte, sulla strada bagnata la Shevy era come un pesante rinoceronte con le pattine ai piedi, scivolava ovunque, bisognava guidare in punta di dita, ogni frenata rischiava di diventare un bacio contro il muro, ogni curva sembrava una faticosa virata in mare, e anche in rettilineo non si poteva abbassare la guardia, ogni pozzanghera generava una sbandata, l’unica cosa positiva era che anche il fuggiasco guidava una Chervolet special deluxe del ‘40 di colore bianco, i fari della volante la facevano risaltare nel buio della notte, era un cazzo di inseguimento a rallentatore.
L’Hudson era una spaventosa macchia scura sul lato sinistro della strada, Vinnie era travolto dal desiderio e dalla paura, voleva prendere il fuggiasco ma non voleva saltare dentro al fiume con la macchina, l’immagine di una Shevy zebrata intenta a saltare giù da un ponte lo aggredì, scosse la testa, doveva rimanere concentrato, quel figlio di puttana andava preso, era sicuro di dar dietro al criminale che veniva chiamato Fox, erano mesi che li faceva penare. Sulle prime non ci dettero molto peso, ma nel giro di poco passò dai piccoli furti ad atti sempre più efferati, l’escalation era stata vertiginosa, due mesi fa il primo omicidio a sangue freddo e poi, poi non si era più fermato, i suoi attacchi erano diventati sempre più frequenti e sempre più feroci, ultimamente si era messo a giocare con le lamette da barba.
Vinnie era solo in auto, Josh era rimasto con le ciambelle in mano e la bocca aperta, era ancora dentro l’El’s dinner e poco poteva fare per il collega. Vinnie provò ad allungare la mano verso la radio, ma le luci spente non facevano presagire nulla di buono, la radio era muta. Provò ad accendere la sirena ma anche quella era guasta, era dentro un fottuto rinoceronte incapace di grugnire o qualunque sia il verso di un rinoceronte, era fottutamente solo.
I primi bagliori dell’alba normalmente presagivano la fine del turno di notte e Vinnie li accoglieva sempre con un sorriso, ma oggi significavano solamente un rischioso straordinario mal pagato, e forse, forse una pallottola nel petto.
Vinnie doveva solamente resistere, più riusciva a far durare l’inseguimento e più Fox sarebbe stato nei guai. Fox, lo chiamavano così perché si comportava come una volpe, mimava il carattere della vittima, se la faceva amica, e appena questa abbassava la guardia se la beveva, psicopatico bastardo.
Il segnale dei lavori in corso apparve come una madonna nella notte, normalmente è un segnale indesiderato per chi guida, ma questa sera no, il ponte sul fiume era interrotto e Fox ci stava finendo dentro, dopotutto forse non sarebbe stato Vinnie a saltare nel fiume. L’auto bianca cominciò a rallentare per poi fermarsi, era in trappola e non c’era più nulla da fare, sembrava finita, ma una bestia in trappola è sempre pronta a tutto, non era il momento per abbassare la guardia.
“SCENDI SUBITO DALLA MACCHINA!” urlò Vinnie, nessuna risposta, la luce adesso permetteva di vedere chiaramente, e dentro l’abitacolo non si scorgeva nessuno, non poteva essere fuggito, Vinnie dalla sua posizione vedeva chiaramente le portiere, non poteva essergli scappato. Il peso del ferro lo confortava, decise di agire, uscì dall’auto e percorrendo un lento e ampio raggio e cominciò ad avvicinarsi allo sportello dell’auto, “SCENDI!”, “ALZA LE MANI!” “FATTI VEDERE!”, ad ogni passo ripeteva come un mantra queste parole, ma niente, nulla di nulla, riceveva in cambio solo silenzio, la maniglia era giunta a portata di mano, la bianca portiera era il confine tra la vita e la morte.
Vinnie era in difficoltà sul da farsi, ogni errore sarebbe stato fatale, la soluzione più semplice sarebbe stata quella di sparare alla portiera, il potere distruttivo della magnum avrebbe fatto il resto, ma il codice non lo permetteva, si sollevò dalla posizione di guardia per sbirciare dentro l’abitacolo.
Vuota, era orribilmente vuota, aprì di scatto la portiera, e dentro non c’era nessuno, come cazzo aveva fatto a scappare? Sul divanetto anteriore c’erano solamente l’impermeabile vuoto ed una valigetta aperta contenente un rasoio e delle dita tranciate, e sangue, macchie di sangue ovunque. “Dove cazzo sei finito bastardo?”, si girò verso la strada e la volante era sparita, “Che cazzo succede?” ringhiò Vinnie, si portò le mani alla testa ma il tatto non incontrò i suoi radi capelli ma un cazzo di cappello da australiano, che cazzo stava succedendo!? Cadde a terra in preda alle convulsioni e vomitò, ora le sue mani tremavano e la pistola emetteva un sinistro tintinnio.
L’ispettore Greco era stato buttato giù dal letto alle 5 di mattina, si dirigeva al cantiere sull’Hudson, l’agente Josh aveva dichiarato il furto di una Chervolet special deluxe del ‘40 di colore bianco da parte di Vinnie, la stessa ritrovata poi al cantiere, che cazzo gli era preso a quel mezzo italiano maledetto?
L’ispettore Greco scese dalla macchina e sbottò “che cosa abbiamo qui?”, “ un agente con un buco in testa, una manciata di dita e un rasoio,”, ”sangue?”, ”quanto ne vuoi”, “e nel bagagliaio?”, ”pezzi di carne appartenenti ad un numero imprecisato di persone”, “Il solito cazzo di casino al quale tentare di dare un senso”, L’ispettore si accese una sigaretta bestemmiando.
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Ho fatto una grande fatica a leggerlo fino in fondo, col pensiero che ancora oggi, nel 2023, sono in molti a giustificare uno stupro 😑
È il 9 MARZO 1973.
La donna picchiata, sfregiata e violentata è FRANCA RAME.
Abbandonata vicino a un parco cittadino, cammina fin davanti alla Questura, per poi tornare a casa.
LO STUPRO
MEDICO Dica, signorina, o signora, durante l’aggressione lei ha provato solo disgusto o anche un certo piacere... una inconscia soddisfazione?
POLIZIOTTO Non s’è sentita lusingata che tanti uomini, quattro mi pare, tutti insieme, la desiderassero tanto, con così dura passione?
GIUDICE È rimasta sempre passiva o ad un certo punto ha partecipato?
MEDICO Si è sentita eccitata? Coinvolta?
AVVOCATO DIFENSORE DEGLI STUPRATORI Si è sentita umida?
GIUDICE Non ha pensato che i suoi gemiti, dovuti certo alla sofferenza, potessero essere fraintesi come espressioni di godimento?
POLIZIOTTO Lei ha goduto?
MEDICO Ha raggiunto l’orgasmo?
AVVOCATO Se sì, quante volte?
Il brano che ora reciterò è stato ricavato da una testimonianza apparsa sul “Quotidiano Donna”, testimonianza che vi riporto testualmente.
Si siede sull’unica sedia posta nel centro del palcoscenico.
FRANCA C’è una radio che suona... ma solo dopo un po’ la sento. Solo dopo un po’ mi rendo conto che c’è qualcuno che canta. Sì, è una radio. Musica leggera: cielo stelle cuore amore... amore...
Ho un ginocchio, uno solo, piantato nella schiena... come se chi mi sta dietro tenesse l’altro appoggiato per terra... con le mani tiene le mie, forte, girandomele all’incontrario. La sinistra in particolare.
Non so perché, mi ritrovo a pensare che forse è mancino. Non sto capendo niente di quello che mi sta capitando.
Ho lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce... la parola. Prendo coscienza delle cose, con incredibile lentezza... Dio che confusione! Come sono salìta su questo camioncino? Ho alzato le gambe io, una dopo l’altra dietro la loro spinta o mi hanno caricata loro, sollevandomi di peso?
Non lo so.
È il cuore, che mi sbatte così forte contro le costole, ad impedirmi di ragionare... è il male alla mano sinistra, che sta diventando davvero insopportabile. Perché me la storcono tanto? Io non tento nessun movimento. Sono come congelata.
Ora, quello che mi sta dietro non tiene più il suo ginocchio contro la mia schiena... s’è seduto comodo... e mi tiene tra le sue gambe... fortemente... dal di dietro... come si faceva anni fa, quando si toglievano le tonsille ai bambini.
L’immagine che mi viene in mente è quella. Perché mi stringono tanto? Io non mi muovo, non urlo, sono senza voce. Non capisco cosa mi stia capitando. La radio canta, neanche tanto forte. Perché la musica? Perché l’abbassano? Forse è perché non grido.
Oltre a quello che mi tiene, ce ne sono altri tre. Li guardo: non c’è molta luce... né gran spazio... forse è per questo che mi tengono semidistesa. Li sento calmi. Sicurissimi. Che fanno? Si stanno accendendo una sigaretta.
Fumano? Adesso? Perché mi tengono così e fumano?
Sta per succedere qualche cosa, lo sento... Respiro a fondo... due, tre volte. Non, non mi snebbio... Ho solo paura...
Ora uno mi si avvicina, un altro si accuccia alla mia destra, l’altro a sinistra. Vedo il rosso delle sigarette. Stanno aspirando profondamente.
Sono vicinissimi.
Sì, sta per succedere qualche cosa... lo sento.
Quello che mi tiene da dietro, tende tutti i muscoli... li sento intorno al mio corpo. Non ha aumentato la stretta, ha solo teso i muscoli, come ad essere pronto a tenermi più ferma. Il primo che si era mosso, mi si mette tra le gambe... in ginocchio... divaricandomele. È un movimento preciso, che pare concordato con quello che mi tiene da dietro, perché subito i suoi piedi si mettono sopra ai miei a bloccarmi.
Io ho su i pantaloni. Perché mi aprono le gambe con su i pantaloni? Mi sento peggio che se fossi nuda!
Da questa sensazione mi distrae un qualche cosa che subito non individuo... un calore, prima tenue e poi più forte, fino a diventare insopportabile, sul seno sinistro.
Una punta di bruciore. Le sigarette... sopra al golf fino ad arrivare alla pelle.
Mi scopro a pensare cosa dovrebbe fare una persona in queste condizioni. Io non riesco a fare niente, né a parlare né a piangere... Mi sento come proiettata fuori, affacciata a una finestra, costretta a guardare qualche cosa di orribile.
Quello accucciato alla mia destra accende le sigarette, fa due tiri e poi le passa a quello che mi sta tra le gambe. Si consumano presto.
Il puzzo della lana bruciata deve disturbare i quattro: con una lametta mi tagliano il golf, davanti, per il lungo... mi tagliano anche il reggiseno... mi tagliano anche la pelle in superficie. Nella perizia medica misureranno ventun centimetri. Quello che mi sta tra le gambe, in ginocchio, mi prende i seni a piene mani, le sento gelide sopra le bruciature...
Ora... mi aprono la cerniera dei pantaloni e tutti si dànno da fare per spogliarmi: una scarpa sola, una gamba sola.
Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, sento che si struscia contro la mia schiena.
Ora quello che mi sta tra le gambe mi entra dentro. Mi viene da vomitare.
Devo stare calma, calma.
“Muoviti, puttana. Fammi godere”. Io mi concentro sulle parole delle canzoni; il cuore mi si sta spaccando, non voglio uscire dalla confusione che ho. Non voglio capire. Non capisco nessuna parola... non conosco nessuna lingua. Altra sigaretta.
“Muoviti puttana fammi godere”.
Sono di pietra.
Ora è il turno del secondo... i suoi colpi sono ancora più decisi. Sento un gran male.
“Muoviti puttana fammi godere”.
La lametta che è servita per tagliarmi il golf mi passa più volte sulla faccia. Non sento se mi taglia o no.
“Muoviti, puttana. Fammi godere”.
Il sangue mi cola dalle guance alle orecchie.
È il turno del terzo. È orribile sentirti godere dentro, delle bestie schifose.
“Sto morendo, – riesco a dire, – sono ammalata di cuore”.
Ci credono, non ci credono, si litigano.
“Facciamola scendere. No... sì...” Vola un ceffone tra di loro. Mi schiacciano una sigaretta sul collo, qui, tanto da spegnerla. Ecco, lì, credo di essere finalmente svenuta.
Poi sento che mi muovono. Quello che mi teneva da dietro mi riveste con movimenti precisi. Mi riveste lui, io servo a poco. Si lamenta come un bambino perché è l’unico che non abbia fatto l’amore... pardon... l’unico, che non si sia aperto i pantaloni, ma sento la sua fretta, la sua paura. Non sa come metterla col golf tagliato, mi infila i due lembi nei pantaloni. Il camioncino si ferma per il tempo di farmi scendere... e se ne va.
Tengo con la mano destra la giacca chiusa sui seni scoperti. È quasi scuro. Dove sono? Al parco. Mi sento male... nel senso che mi sento svenire... non solo per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per lo schifo... per l’umiliazione... per le mille sputate che ho ricevuto nel cervello... per lo sperma che mi sento uscire. Appoggio la testa a un albero... mi fanno male anche i capelli... me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo la mano sulla faccia... è sporca di sangue. Alzo il collo della giacca.
Cammino... cammino non so per quanto tempo. Senza accorgermi, mi trovo davanti alla Questura.
Appoggiata al muro del palazzo di fronte, la sto a guardare per un bel pezzo. Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora... Sento le loro domande. Vedo le loro facce... i loro mezzi sorrisi... Penso e ci ripenso... Poi mi decido...
Torno a casa... torno a casa... Li denuncerò domani.
Buio.
(Questo brano è stato scritto nel 1975 e rappresentato nel 1979 in Tutta casa, letto e chiesa).
Tratto dalla pagina facebook Atlantide
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La psicoanalisi ha smascherato le credenze umane nei confronti degli idoli e degli ideali di ogni specie. Sotto la sua onda d’urto anche i sentimenti più altruistici e solidaristici si sono rivelati solo povere maschere che ricoprivano l’avidità originaria della pulsione. Al fondo della natura umana non si incontrano buoni sentimenti, ma solo una spinta pulsionale che afferma sé stessa. All’origine della vita – come sosteneva già Hobbes – non c’è l’amore ma la guerra di tutti contro tutti. E se allora l’amore, di cui la retorica di ogni tempo si è riempita la bocca, non fosse che una impostura? Se l’essere umano al suo fondo volesse solo potenziare il proprio Ego, se la natura stessa dell’inconscio fosse profondamente criminogena, se la pulsione avesse di mira solo il suo proprio soddisfacimento, come spiega Freud, come potrebbe mai esistere un amore altruistico? Un atto di donazione di sé stessi verso l’Altro capace di prescindere dal narcisismo? Come può esistere un amore che non sia solo rivolto a noi stessi?
L’odio è più antico e originario dell’amore, scriveva Freud. È sotto i nostri occhi una escalation individuale e collettiva dell’incultura dell’odio, dell’anti-amore, del rifiuto, della segregazione, del respingimento dell’Altro in qualunque forma esso appaia. L’odio è una risposta difensiva finalizzata a salvaguardare la vita in pericolo, esposta, come direbbe sempre Freud, alla natura straniera e ostile del mondo. Se dimenticassimo questa verità ridurremmo l’amore ad una marmellata di buoni sentimenti o, più precisamente, per usare una categoria della psicoanalisi, ad una rimozione dell’odio. Ma proprio perché il primo movimento dell’uomo, il più originario, è quello della chiusura, dell’arroccamento e della paura nei confronti del mondo “straniero e ostile”, la possibilità dell’amore non può prescindere da questo carattere primario e dominante dell’odio. Ecco perché siamo così colpiti dai gesti di amore altruistico. Ci stupiamo forse sempre meno dell’orrore – che non ha limiti – e sempre di più dei gesti di amore e di solidarietà. Nondimeno è evidente, non solo agli psicoanalisti, che anche dove c’è amore serpeggia sempre una ambivalenza affettiva: io ti amo, ma poiché tu hai introdotto in me il seme della mancanza – poiché tu mi manchi proprio perché ti amo –, tu mi fai paura, io non mi posso fidare di te, tu sei pericolosa per la mia identità, ergo, ti odio.
L’amore è una vera alternativa all’odio solo quando sa assumere con slancio la dimensione della mancanza che l’esperienza dell’amore apre in noi. Si tratta di un movimento contro-natura: amo chi mi rende mancante. Come è possibile? La condizione dell’amore è quella di stabilire un rapporto di amicizia con la propria mancanza. Solo se si accoglie la nostra mancanza si può amare, ovvero sentire la mancanza di chi amiamo. Eppure ci sono amori che finiscono nell’odio e nella distruzione. Molto spesso sono gli amori più idealizzati, amori che hanno escluso l’insopportabile amando solo la bella immagine dell’Altro e non il suo fondo più insopportabile. Poi accade fatalmente che, in un momento o nell’altro, l’insopportabile faccia inaspettatamente irruzione e tutto frana, cade, si dissolve e di quell’amore non resta più nulla. Gli amori che finiscono nell’odio sono quelli che hanno cancellato l’insopportabile, che hanno amato solo l’immagine ideale dell’Altro, ovvero l’immagine che corrisponda alla nostre attese. Per questo Lacan diceva che un amore degno di questo nome sa amare tutto dell’Altro, dunque anche la sua parte più insopportabile. È un insegnamento che travalica il piano della vita amorosa e che investe ogni forma di legame umano: l’odio subentra all’amore quando l’idealizzazione lascia il posto alla delusione e questo accade tanto più facilmente quando l’infatuazione per l’Altro vorrebbe ricoprire i suoi limiti. Diversamente gli amori che durano sono gli amori che sanno condividere l’insopportabile, ovvero ciò che è veramente impossibile condividere.
Si dovrebbe allora aggiungere che se l’amore è amore non di qualcosa dell’Altro, ma di “tutto”, nulla
consentirà mai agli amanti di fare o di essere un tutto, di coincidere l’uno con l’altro. Ciascuno sarà infatti
confinato al non-tutto come verità ineliminabile di ogni rapporto. Il mito platonico dell’androgino non dice la verità sull’amore: ricostruire l’intero non può mai essere la meta dell’amore. Piuttosto quando amiamo facciamo esperienza di perdere l’intero, di conoscere la nostra insufficienza e la nostra vulnerabilità. L’amore da questo punto di vista non ricompone la sfera, non sana la ferita ma la apre perché ci costringe a incontrare la mancanza.
Ma se non possiamo aspirare a una totalità – è quello che accade invece nei regimi totalitari dove la massa ama e si sente amata dal suo leader, sentendosi un “tutto” – allora l’amore può essere una vera alternativa all’odio e non solo la sua fatale prosecuzione. L’amore scade nell’odio solo quando apre la ferita che avrebbe dovuto illusoriamente chiudere, ma se l’amore, invece, è la ferita, se è l’esperienza della mancanza, non è nel ritrovamento dell’intero, ma nella sua perdita che esso può realizzarsi. L’amore diventa così un grande antidoto ad ogni forma di odio, perché ci rende possibile fare amicizia con la nostra mancanza.
Il punto è che Freud non coglie la verità più profonda del messaggio cristiano. Egli riduce l’amore per il
prossimo ad una contraddizione insanabile: perché dovrei amare lo sconosciuto? Lo straniero? O, addirittura, chi non sopporto? E come dargli torto? Ma il limite del suo ragionamento consiste nel non intendere che il “prossimo” – come spiegherà invece Lacan – è innanzitutto la parte più dissonante di me stesso. L’amore suppone sempre l’accettazione di questo “prossimo interno”, di questo insopportabile che porto dentro di me. Allora colui a cui dichiaro il mio amore non è più la rappresentazione ideale di me stesso, lo specchio narcisistico che rende amabile la mia stessa immagine, ma diviene l’incontro con ciò che non intendo, che non posso avere e che non sono. La non coincidenza è, infatti, il senso più profondo di ogni legame d’amore. Per questo non c’è amore senza libertà, senza rispetto per la libertà dell’Altro. E per questo la violenza non fa parte dell’amore ma è la sua profanazione più estrema. Ogni amore ci espone al rischio di perdere una parte di noi stessi più che – come pensava Platone – di ritrovarla. Ma questo rischio comporta una gioia ineguagliabile che rende l’amore il più potente anti-depressivo in circolazione: esso introduce, infatti, una pausa, una tregua nel dolore infinito del mondo. Un nascondiglio? Un riparo? Una tana? Quando facciamo esperienza dell’amore facciamo esperienza di una interruzione nell’orrore insensato che accompagna l’esistenza. La mia esistenza, una volta amata, non è più alla deriva, non è più “di troppo”, ma si trova, come direbbe Sartre, voluta sin nei suoi minimi dettagli, “chiamata”, “attesa”, “salvata”. È tantissimo.
Massimo Recalcati
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Paura vuol dire fuggire via da qualcosa. Ciò che è, non è la paura, è il fuggire che è la paura.
Se capite ciò che è, che bisogno c’è di ciò che dovrebbe essere? Quando diciamo di capire, non è implicito anche l’aver compreso tutto ciò che questo qualcosa ha da dire?
Il “come” implica che qualcuno vi dia un metodo, un sistema che vi porterà a comprendere. Comprensione significa amore e giusto discernimento, ma questi non possono essere insegnati da altri o con sistemi inventati da voi.
Esiste un cambiamento? Nella totale negazione di ogni movimento del pensiero che si allontani da ciò che è, è la fine di ciò che è.
La negazione è l’azione più positiva.
La condizione di vedere è molto più importante di ciò che si vede. Osservare senza l’immagine del pensiero è un’azione libera dal passato.
Quando separiamo il particolare dall’intero, il particolare genera problemi.
Disciplina vuol dire imparare, non adeguarsi, non opprimere, non imitare.
Imparare ciò che è vuol dire libertà da ciò che è.
Il non far niente è di gran lunga più importante del fare qualcosa. L’amore non è attività del pensiero, non è la conseguenza di un comportamento, se non potete coltivarlo, non potete far niente dell’amore.
Il problema di come avere la mente quieta non esiste.
E’la verità che la mente deve essere quieta, vedere questa verità libera la mente dalle ciarle.
Conoscerci ci spaventa, dal momento che siamo divisi in una parte buona ed una cattiva. La parte buona giudica sempre quella cattiva, e questi frammenti sono sempre in lotta l’uno contro l’altro. Questa lotta è dolore.
L’oggetto del mio attaccamento è il mio dominio territoriale o sessuale. E lo proteggo, rintuzzando qualsiasi forma di usurpazione da parte di altri. Limito anche la libertà della persona a cui sono attaccato e limito la mia stessa libertà.
Quando la mente è silenziosa, quel silenzio è un nuova dimensione, e quando c’è qualche piccineria che imperversa, immediatamente si dissolve, perché ora la mente ha una diversa qualità, non nasce dal passato.
Vedere totalmente è intelligenza, vedere frammentariamente è mancanza di intelligenza.
L’osservatore getta sempre la propria ombra su quel che sta osservando. L’osservatore è il passato con tutte le sue memorie, è un’entità condizionata e limitata. È colui che afferma che lui è, ed io sono. Si mette da parte come se fosse differente da quello che sta osservando. Questo genera dualità e conflitto. Per essere consapevoli dell’osservatore, bisogna essere consapevole di tutti i conflitti che generano questa pretesa separatista e di essere differente.
Jiddu Krishnamurti
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Mentre la Sicilia brucia e la gente muore, il Parlamento ieri si è dedicato al niente. I ministri schieratissimi a far da guardia armata al Senato a Daniela Santanchè, tutti lì, nessuno in Sicilia, erano l’immagine del niente. Il dibattito parlamentare che ne è scaturito è stato il dibattito sul niente. I senatori accigliati e battaglieri erano accigliati e battaglieri sul niente. La mozione di sfiducia del singolo ministro era il niente ed è sempre stata il niente. Di ventisei mozioni di sfiducia individuale nella storia repubblicana, una ha ottenuto esito positivo e venticinque non hanno ottenuto niente perché erano il niente. L’unica con esito positivo – ministro guardasigilli Filippo Mancuso, anno 1995 – l’ha avuto perché fu chiesta dalla maggioranza. Le altre venticinque, chieste dalla minoranza, siccome la minoranza non diventa maggioranza, erano il niente ridipinto di niente. Il Movimento cinque stelle che da anni inchioda il Parlamento alle mozioni di sfiducia per agghindarsi alla passerella del niente è il Movimento del niente. Il ministro della Protezione civile, Nello Musumeci, che ieri era in aula e non in Sicilia, è il ministro del niente. Tutto quanto ormai si discuta in Parlamento lo si discute per la bella recita del niente e per far colpo col niente dentro un dibattito pubblico sul niente di modo che ci si possa indignare e accapigliare per il niente. Intanto Palermo è in fiamme, coperta di fumo, col rischio diossina, l’energia elettrica saltata, gli abitanti chiusi in casa, sei morti, in fiamme l’intera Sicilia e mezzo sud ma niente, dalla messinscena non li scuote niente, preferiscono il niente. (Mattia Feltri)
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#FICFest: 9 maggio
***English Below***
La scena si è aperta con due spettacoli che hanno condiviso la terza serata del #FICFest: T.R.I.P.O.F.O.B.I.A. e Cu’ mancia fa muddichi.
Nel foyer di Scenario Pubblico, prima dell’inizio della performance, ci siamo domandati cosa questi titoli stessero suscitando nella mente degli spettatori, ricevendo diversi riscontri a caldo. Quello che ci ha colpito di più è stato: <<Uno spettacolo che ti ipnotizza>>.
T.R.I.P.O.F.O.B.I.A. è una creazione della Compagnia IVONA, di cui Pablo Girolami è direttore artistico e coreografo, interpretata dai danzatori Guilherme Leal e Lou Thabart.
❓❓MA COS’È LA TRIPOFOBIA?❓❓
La tripofobia è la paura dell’uomo nei confronti di gruppi irregolari di piccoli buchi o protuberanze. La creazione si ispira a questa peculiare paura, che ha portato altre suggestioni come, ad esempio, l’immagine del rospo del Suriname. Quest’ultimo, nel processo di creazione, ha determinato la scelta di utilizzare in scena delle coppette che i danzatori applicano sul proprio corpo durante la performance; concretizzando fisicamente la paura.
L’obiettivo della performance è quello di partire dalla tripofobia per indagare l’irrazionalità della mente e il comportamento dell’uomo nei confronti delle paure. Uno spettacolo, infatti, che lascia appesi ad un filo di tensione conducendo tutto il pubblico, in maniera incisiva, a confrontarsi con il ricordo delle sensazioni che nascono dalle proprie paure.
È presente una straordinaria attenzione al dettaglio che possiamo ritrovare nelle qualità di movimento usate, come: staticità e compulsività, fluidità e convulsione. Anche nel disegno luci, un quadrato bianco proiettato sul pavimento, è possibile cogliere particolari minuziosi. Entrare all’interno del quadrato luminoso, infatti, significa mettersi in contatto con le proprie paure.
Cu’ mancia fa muddichi
è il titolo della seconda performance, un proverbio della tradizione siciliana legato al concetto: chi fa delle azioni commetterà degli errori… dove errore può essere sinonimo di possibilità, produttività, crescita.
La creazione è di Dario Rigaglia, giovane artista di origine siciliana, nominato da Danza&Danza Miglior Ballerino Italiano all'Estero 2016, vincitore del bando ACASA 2022/2023. Per il #FICFest ha portato in scena la sua prima produzione come coreografo e danzatore.
Lo spettacolo si è aperto con una registrazione di un breve testo pronunciato da Rigaglia, dove emerge un invito al rischio e a non aver paura di tentare e commettere errori. Uno spettacolo che coinvolge umanamente, che offre uno spunto di riflessione riguardo le aspirazioni che ognuno di noi ha.
Il coreografo, immerso nel profumo di arance e terra, lascia la libertà di viaggiare all’interno del tema scelto per la performance. Il movimento virtuoso del danzatore ha mostrato il ventaglio di possibili sfumature che caratterizzano una scelta: da quelle più oscure e cupe, a quelle più brillanti e colorate.
Il #FICFest prosegue oggi, 10 maggio, con Satiri di Virgilio Sieni, in scena alle 20.45 presso il Teatro Sangiorgi di Catania.
A domani con la prossima pagina del Blog!
Credits Redattore: Matilde Bianchi Reporter: Martina Adelfio Media: Iolanda Longo Revisione: Sofia Bordieri
🪂🪂🪂🪂
The stage opened with two shows that shared the third day of #FICFest: T.R.I.P.O.F.O.B.I.A. and Cu' mancia fa muddichi.
In the foyer of Scenario Pubblico, before the start of the performance, we asked what these titles were stirring in the minds of the audience, receiving several feedbacks. The one that struck us the most was, <a show that mesmerizes>.
T.R.I.P.O.F.O.B.I.A. is a creation of IVONA Company, of which Pablo Girolami is artistic director and choreographer, performed by the dancers Guilherme Leal and Lou Thabart.
❓❓WHAT IS TRYPOPHOBIA?❓❓
Trypophobia is a man's fear of irregular groups of small holes or protuberances. The creation was inspired by this peculiar fear, which brought other suggestions such as, for example, the image of the Surinam toad. The latter, in the creative process, determined the choice to use cups that the dancers apply to their bodies during the performance, in order to physically concretize the fear.
The goal of the performance is to start from trypophobia to investigate the irrationality of the mind and human behavior towards fear. A performance that leaves you hung by a thread of tension, leading the whole audience, in an incisive way, to face the memory of the sensations that arise from their own fears.
An extraordinary attention to detail can be found in their quality of movement, such as: stillness and compulsiveness, fluidity and convulsion. Even in the lighting design, a white square projected onto the floor, minute details can be captured. To enter inside the light square, in fact, means to get in touch with one's fears.
Cu' mancia fa muddichi
The title of the second performance is a traditional Sicilian proverb related to the following concept: those who do actions will make mistakes … but mistake can be synonymous with possibility, productivity, growth.
That's the first production as choreographer and dancer for Dario Rigaglia, a young Sicilian-born artist, named Best Italian Dancer Abroad 2016 by Danza&Danza and winner of the ACASA 2022/2023 call for applications.
The performance opened with a recording of a short text spoken by Rigaglia himself, an invitation to risk and not to be afraid of trying and making mistakes. A humanly engaging performance that offers food for thought regarding the aspirations each of us has.
Between the scent of dirt and oranges, the choreographer lets freedom travel, showing the range of nuances that might characterize a choice: from the darkest and gloomiest, to the brightest and most colorful.
The #FICFest continues today, May 10 at 8.45 p.m., with Virgilio Sieni's Satiri at the Sangiorgi Theater in Catania.
We'll see you tomorrow with the next Blog news!
Credits Redaction: Matilde Bianchi Reporter: Martina Adelfio Media: Iolanda Longo Text revision: Sofia Bordieri Translation: Luca Occhipinti
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Quando mi dicono “ma si,ansia cosa vuoi che sia” mi verrebbe da prenderli a pugni. Loro non sanno cos’è l’ansia e la giudicano,loro non sanno quanto faccia male a livello fisico e sopratutto psicologico,loro non sanno dei mal di testa cronici che ti vengono perché l’ansia prende possesso del 100% del tuo cervello continuando a pensare e ripensare a tutto quello che ti è successo,ti sta succedendo o ti succederà. Loro non sanno che l’ansia ti porta a piangere 1 ora prima di andare a lavoro perché non riesci a riposare prima del turno di notte e quindi sai che sarai stanca e non riuscirai a lavorare bene,loro non lo sanno. Loro vivono il momento e non si fanno problemi per quello che succederà. Loro non sanno che l’ansia ti porta a non riuscire a respirare, ma sei in mezzo alla gente e non puoi permetterti di fare scenate e quindi fai finta di niente,mentre dentro stai morendo. E per non parlare di ogni minimo sbaglio che fai, che nella tua testa sembra enorme e pensi possa essere la distruzione del tuo futuro. L’ansia è quel mostro silenzioso che devi tenere nascosto per non rovinarti “l’immagine”, per poi sentirti dire “ma si vede che sei una persona tranquilla che fa le cose serenamente” eh no caro mio, ogni minimo mio movimento è una lotta contro l’ansia perché qualsiasi cosa possa fare può essere quella sbagliata. Io posso essere quella sbagliata. Io voglio dire a tutti quelli che non soffrono d’ansia: beati voi. Ma non provate a parlarne se non sapete cos’è.
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Come dipingere il luccio senza scoprire la linea spezzata d’universo che lo congiunge alla pietra su cui struscia in fondo all’acqua e alle erbe della riva tra le quali si dissimula?
Gilles Deleuze
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Dashcam, Registratore di Guida per Auto Durevole con sporgenza del Movimento e...
Price: (as of – Details) 1. Schermo di visualizzazione a colori da 1,6 pollici: il registratore di guida ha uno schermo di visualizzazione a colori da 1,6 pollici, che è comodo per regolare l’immagine di ripresa e visualizzare lo stato di ripresa corrente. 2. Qualità ‘immagine HD 1080P: questo registratore di guida per auto può ottenere la registrazione di immagini ad alta definizione 1080P, che…
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“Tempo” di Antonia Pozzi: un viaggio poetico tra il passare delle stagioni e l’eterna ricerca dell’essenza. Recensione di Alessandria today
Antonia Pozzi ci regala, attraverso “Tempo,” una riflessione lirica sul trascorrere del tempo e sul legame indissolubile tra natura, memoria e identità.
Antonia Pozzi ci regala, attraverso “Tempo,” una riflessione lirica sul trascorrere del tempo e sul legame indissolubile tra natura, memoria e identità. Il tempo che scorre mentre tutto si trasforma La poesia “Tempo”, suddivisa in due sezioni, esplora il fluire incessante del tempo attraverso l’immagine del sonno, contrapposta al movimento continuo della natura. La poetessa crea un contrasto…
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Quello a cui stiamo assistendo in questi giorni, nel grande circo del Movimento Cinque Stelle, è l’apoteosi della rinuncia al pensiero, alla ragione, e all’etica. L’indecoroso spettacolo di un comico e un azzeccagarbugli che si azzuffano per accaparrarsi il potere, incapaci di gestire un congresso, smarriti in quesiti, ignari delle proprie normative, è il riflesso ultimo di quel populismo di pancia che ha sempre rifiutato la complessità per rifugiarsi nella semplificazione più estrema.
L’immagine di questo movimento, nato dalla protesta e dall’invettiva, oggi si sgretola sotto il peso delle stesse dinamiche che aveva elevato a metodo di lotta politica. Quel “vaffanculo” originario, che era il grido primordiale contro le istituzioni, contro la politica tradizionale e contro chiunque osasse proporre una riflessione strutturata, si è trasformato in un boomerang che li sta colpendo con tutta la forza della sua tribalità. Perché sì, quando tutto è ridotto a urla, insulti e istinti primordiali, non rimane spazio per costruire e per dialogare.
Il caos interno che emerge in ogni fase critica del loro percorso – dal conflitto sulle leadership, alle diatribe legali, ai pasticci procedurali – è la dimostrazione più lampante di quanto sia fragile una struttura politica costruita esclusivamente sull’emotività. La loro incapacità di affrontare il dissenso in modo razionale e costruttivo, il continuo scivolare in battaglie personali e ripicche puerili, non è solo uno spettacolo grottesco: è il prezzo inevitabile di una politica che ha scelto di abdicare al pensiero critico.
E ora, alla resa dei conti, emerge la grande verità: per sopravvivere alla lunga, per lasciare un segno duraturo, non basta solo urlare. Non basta indignarsi, gridare slogan o costruire capri espiatori. Talvolta, occorre anche pensare.
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PUBBLICHIAMO OGGI LA SECONDA DI QUATTRO PARTI DEL DIARIO DI BORDO, FRUTTO DELL'INTRECCIO DI DIVERSE VOCI: quelle delle partecipanti al laboratorio, della coreografa Gloria Dorliguzzo, del musicista Gianluca Feccia, delle osservatrici Rebecca Casadei e Chiara Mannucci e Francesca Giuliani, che scrivono queste righe per raccontare ciò che sta accadendo lungo il percorso. Giovedì 21 novembre alle 20 al Teatro Dimora di Mondaino ci sarà la restituzione finale di questo inteso processo di creazione e partecipazione.
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Venerdì 15 novembre 2024
Nei giorni passati un nome riecheggiava spesso in sala, carico di professionalità e della promessa che una nuova figura avrebbe portato prima o poi linfa e concretezza al lavoro sul suono. Oggi finalmente quel nome si fa carne: il maestro Gianluca Feccia arriva a Mondaino e inizia a guidare le ragazze nella complessità del ritmo.
Nel Dies Irae la musica non è solo un accompagnamento: è un linguaggio, un corpo concreto con cui le interpreti dialogano. Ogni gesto è legato a un suono e ogni suono si trasforma in movimento.
Gli esercizi ritmici servono a creare una “partitura nella partitura” di contrappunti timbrici e ritmici che si intrecciano con la composizione originale di Ustvolskaya, creando un’opera che respira e si stratifica attraverso i corpi delle partecipanti. Tutto si fa strumento, tutto si fa protesi di un suono che entra nelle cose e ne struttura l’andamento.
“È tutto reale! Niente si deve nascondere! Accade tutto qui!”
Tra le donne si crea un’energia particolare, fatta di solidarietà e scambio. La serietà e la concentrazione non frenano l’attenzione e il supporto reciproco. Nei momenti di difficoltà, non mancano gli sguardi di incoraggiamento, i sorrisi e i gesti di conforto. È un’energia femminile che si consolida attorno a un obiettivo comune che non crea competizione ma alleanza.
Il gioco è tutto lì: saper dosare la forza in modo che non divori ma, al contrario, valorizzi la delicatezza. è il meccanismo che si innesca tanto nelle interazioni e relazioni umane quanto nel funzionamento della partitura.
“La sfida è proprio nel tenere il martello, cercare di utilizzarlo trasmettendo potenza, ma senza di fatto distruggere davvero. Può essere non immediato capire come dosare la forza, cercando comunque di produrre un suono e di creare un'azione credibile”.
Sabato 16 novembre 2024
Il ritmo del metallo sul legno scandisce il lavoro con una precisione implacabile e potente. Questo gesto di colpire non è solo fisico, ma emotivo. È un atto di affermazione, un’esplorazione del potere personale e collettivo, femmineo e tellurico.
“I martelli parlano di duro lavoro, di Madre Natura, di un femminile sottomesso che si libera.”
Le donne camminano sul palco, seguendo il ritmo della musica fino a sfondare sfrontate la quarta parete. Il gruppo che insieme si avvicina alla platea è potentissimo. In quel movimento c’è tutta la determinazione di chi sceglie di non fermarsi, avanza dritto e sicuro e rompe idealmente ogni barriera.
“È come se il camminare dicesse: ‘Credi in quello che fai e portalo fino in fondo.’”
E poi c’è la lastra, una superficie metallica che nasconde un dipinto, l’opera più luminosa di Turner: vibra sotto i colpi cercando suoni imprevedibili e intensi. Una delle donne impara a suonarla, esplorandone i timbri e le dinamiche, scoprendo che un semplice gesto può trasformarsi in un atto di creazione potente e poetico che riempie lo spazio e trasforma le cose spostandole dalla loro collocazione quotidiana.
“Sto imparando a suonare una lastra. Chi l'avrebbe mai detto?”
Piano piano tutte stanno diventando “donne col martello”. L’immagine di questa compositrice decisa, ferma e risoluta nelle sue scelte si staglia nei loro occhi informando uno stato d’animo che risveglia lati sopiti e incarna una presenza corporea maschile e femminile insieme, mai percepita prima.
... to be continued
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