#Poesia naturalistica
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pier-carlo-universe · 10 days ago
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Pianura di Antonia Pozzi: La magia del paesaggio lombardo tra versi e contemplazione. Recensione di Alessandria today
Un viaggio poetico nella pianura lombarda attraverso le parole di Antonia Pozzi, tra natura e intimità, in una poesia intrisa di sensibilità e riflessione.
Un viaggio poetico nella pianura lombarda attraverso le parole di Antonia Pozzi, tra natura e intimità, in una poesia intrisa di sensibilità e riflessione. Antonia Pozzi, con la poesia Pianura, ci conduce nei paesaggi silenziosi e infiniti della Lombardia, rendendo il paesaggio stesso un simbolo di riflessione e desiderio. Nei suoi versi, la poetessa esprime un’aspirazione di connessione con la…
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libero-de-mente · 1 year ago
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In mezzo ai lupi e altre cose così.
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La vita mi ha gettato in mezzo a un branco di lupi.
Ne sono uscito allupato e con le pulci.
Ma la vita sa sorprenderti, così una volta risalita la china mi ha buttato tra i cachi, ne sono uscito cacato.
Poi in un campo di rape. Ne sono uscito arrapato.
Successivamente in un campo di cavoli, ne sono uscito incavolato.
Mi ha gettato in mezzo alle capre, ne sono uscito capro espiatorio.
Finita la fase naturalistica la vita mi ha gettato sui binari del treno, ne sono uscito Italo in ritardo di sette ore.
Sono stato scaraventato tra i morti, ne sono uscito kittemmuorto.
Ho vissuto giudicato con luoghi comuni, sono diventato capoluogo.
Mi è stata concessa una vita spartana e priva di comodità, ne sono uscito Leonida.
Mi ha chiuso in una bara credendomi spacciato, ne sono uscito capibara.
Mi voleva maschio α e io sono diventato maschio α e i o u y.
Mi sono laureato all'università dei social, ho imparato filosofia e poesia leggendo le scritte poste sotto le foto di tette e culi.
L'ho sempre detto che la gnagna è poesia e filosofiga.
Alcune di loro, sicuramente, la vita le ha buttate tra gli zoccoli.
E per quelli che diranno "nell'immagine non sono lupi ma cani gnè gnè", allora sappiate che la vita mi ha buttato anche in mezzo ai cani, ne sono uscito del tutto cannato.
Perché io non mi piego, piuttosto faccio asole e ghirigori ma non mi piego. Che mi fa male la schiena.
Manca poco alla fine dell'anno, la vita mi butterà nella notte di San Silvestro, ne uscirò capodanno.
Siate forti se la vita vi scaraventa di qua e di là in ambienti ostili, che solo i deboli per comodità si fanno buttare nei pagliai, ma ne escono pagliacci.
Così parlò il filosofo Socretino, del famoso Socrate il nipotino.
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pangeanews · 4 years ago
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“Vogliamo vivere momenti di pura grazia… scrivo attraversando la nebbia”. Dialogo con Mariadonata Villa
Per chi segue le vicende della poesia italiana contemporanea, il nome di Mariadonata Villa non è sicuramente sconosciuto, benché si possa definirla una pacifica “appartata”. Tutt’altro che aliena dai rapporti artistici, certo, ma anche distante dall’affannoso presenzialismo e attivismo che in tante penne sembra surrogare la ricerca profonda, lo scavo del verso, la progettazione dell’architettura.
Poetessa fino ad oggi di un solo libro, quell’Assedio pubblicato nel 2012 con Raffaelli e finalista al premio Carducci, Mariadonata è anche un’eccellente fotografa e un’appassionata traduttrice di poesia anglo-americana, capace di mettere nella sua faretra autori come Seamus Heaney e Les Murray, con il quale ha condiviso anche un’amicizia epistolare decennale.
Autori, quelli citati, che rivivono nella sua poesia soprattutto nella facoltà immaginativa, nella capacità di restituire la presa dello sguardo in una rappresentazione rimeditata, a un tempo naturalistica e metafisica. Ecco perché, in occasione del suo secondo volume di versi, Verso Fogland (Minerva, 2020, 10 euro), è stato naturale chiederle non tanto di parlare del libro, quanto di raccontare invece quel suo esercizio dello sguardo che rende le cose immagini e le immagini poesia. (d.g.)
Uno dei tuoi poeti prediletti, Seamus Heaney, scriveva guardando la campagna venirgli incontro mentre guidava. Sia per temi, sia per luoghi, Verso Fogland ricorda un’elaborazione simile, una simile acquisizione delle immagini – l’attraversamento della campagna in macchina. È così? Anche tu scrivi guidando?
Sì, anche se, pur viaggiando spesso in auto, in realtà di solito sono il passeggero, e questo mi lascia gli occhi liberi. Però sì, senz’altro la pianura è il mio ambiente e la nebbia ne fa parte. Non solo quella intorno a Modena, perché per motivi famigliari mi capita molto spesso di attraversare la pianura tra Modena e Verona. Da un certo punto di vista, perciò, le immagini del libro sono tutte reali, anche se questo non fa di Fogland un luogo reale.
Un reale immaginato?
In parte. Ma quest’aspetto meditativo dell’andare e del vedere è un tratto che riconosco non tanto alla mia poesia, quanto a me come persona. Molto di quello che scrivo viene da queste grandi cavalcate nella nebbia. Di tante di queste poesie ti potrei dire l’immagine «corto-circuito» e dico «immagine» non a caso: perché negli ultimi dieci anni sono diventata un’accumulatrice di foto, ne ho 30000 nel mio archivio digitale; e perché, d’altra parte, le cose bisogna immaginarsele, bisogna che si facciano immagine.
Non è un caso che il libro si apra con un componimento che si intitola Cartografie e che racconta di un’antichissima mappa preistorica scolpita sulla pietra…
No, non è casuale, anche se io ho visto di persona quel posto solo dopo averne scritto, in maniera del tutto imprevista. È una delle più antiche rappresentazioni topografiche reali, non simboliche, a noi note, se non la più antica. Per vederla si percorre un sentiero che arriva a dominarla dall’alto, così che uno deve sporgersi e guardarla dall’alto in basso.
Quindi «l’uomo in bilico» della poesia è chiunque passi di lì?
Sì, è chiunque arrivi lì. Poi, in particolare, la poesia nasce da una foto molto di Franco Farinelli – uno dei più importanti filosofi del paesaggio – che guarda in giù a quella mappa di pietra.
Nella poesia, il corpo dell’osservatore che si sporge diventa un axis mundi: «e quell’uomo in bilico sul margine/ del mondo non si accorge/ che l’axismundi, la meridiana dell’oggi/ è il suo corpo fragile sul bilico/ è la polvere che sarà e il sangue che è/ è tutta la luce che passa». In che senso sporgersi per osservare diventa un modo di “reggere” l’universo?
Mi piaceva il corto circuito secondo cui l’uomo pensa che la rivelazione sia lo sporgersi su questa mappa, mentre invece la rivelazione è lui stesso, lui che esiste e che è lì, straniero a se stesso ma profondamente presente.
Quindi «l’uomo in bilico» è a un tempo sia l’uomo della foto, sia qualunque visitatore, sia qualunque uomo?
Sì, qualunque uomo, ma nella sua assoluta individualità.
Qualunque uomo, ma non un uomo qualsiasi…
Esatto: qualunque uomo nel suo coincidere con l’uomo tutto. Mi interessa l’aspetto per cui ogni uomo è un exemplum della specie homo, ma che per essere un exemplum deve incarnare interamente se stesso, la propria individualità.
È una questione che investe anche il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, mi sembra…
Sì, è così. C’è un saggio degli anni Ottanta di Luigi Ghirri, un fotografo che amo molto, in cui lui rimpiange il fatto che dalle fotografie di paesaggio sia scomparso «l’omino sul ciglio del burrone», e che questo è un peccato perché l’omino dava in qualche modo l’unità di misura del paesaggio fotografato.
Una specie di autocoscienza del paesaggio?
In un certo senso sì, visto che Ghirri diceva che in un giro in bicicletta si incontra più realtà e più novità che in una crociera intorno al mondo. Ma anche in senso inverso, visto che secondo lui, se mai l’omino del paesaggio dovesse tornare nella foto, dovremmo dirgli con Cézanne «affrettati a guardare, perché tutto sta per scomparire».
Mariadonata Villa in una fotografia di Lupe de la Vallina
Si resta sull’idea dello stare in bilico.
È un’idea in cui mi ritrovo molto. Tanto che c’è un altro artista di cui parlo nel libro, Gino Covili, che in uno dei suoi quadri più famosi dipinge l’eroe con una lupa morta sulle spalle, su una sorta di crinale con davanti a sé gli uomini nel buio e dietro sé il mondo dell’Appennino illuminato dalla Luna. Come fosse il crinale tra un tempo antichissimo – che può essere l’età dell’oro, o il tempo degli eroi – e il dramma storico dell’uomo.
Mi fai venire in mente un’altra delle poesie iniziali, Paesaggio marino con cane, in cui evidenzi una sorta di iato tra l’attesa di grandi avvenimenti, dove «qualcuno aspetta apparizioni/ su tavole meno traballanti,/ il lampo improvviso della luce/ al centro […]» e l’incapacità di riconoscere e accogliere l’avvenimento dell’essere nelle maglie banali e slabbrate del quotidiano, laddove «nessuno invece aspetta nella canicola/ l’apparizione tremolante/ il cane col fianco di salsedine/ che sembra sul punto di scrollarsi».
Riguardo a questo direi che ci sono due livelli. Da un lato, venendo da studi classici, ho molto presente, anche in senso pre-cristiano, il tema dell’epifania intesa come l’apparizione improvvisa del divino, mentre la mia poesia tratta molto più di quelle che sono epifanie per me. Quindi, in un certo senso, lo iato di cui parli tu. D’altra parte, però, vedo più in generale un senso di perdita del sacro anche nell’apparizione del terribile. È come se nella trama dell’oggi che viviamo si perda anche la statura del male, oltre alla percezione del fatto che anche noi partecipiamo di questo male, di quest’ombra.
E infatti la poesia si conclude con una presa d’atto di questa distanza: «non c’è dionisiaco in un cane/ col pelo che puzza di acqua salmastra, solo l’orrore/ delle apparizioni mediocri che costellano la vita».
Sì, è come se desiderassimo vivere solo quelli che anche in modo del tutto laico possiamo riconoscere come momenti di pura grazia, quei momenti di apparizione di altro da ciò che vediamo, in cui – per così dire – avvertiamo che cambia lo spessore dell’aria.
Bella questa immagine!
La mia amica Ewa Chrusciel, una poetessa che amo molto, usa in un suo testo l’immagine di un big moment yellow, uno di quei momenti in cui si ha a un tempo desiderio e paura dell’apparizione. A me sembra che questo senso della paura lo abbiamo perduto: abbiamo una grande rabbia verso il male, ma non abbiamo più il senso del fatto che il male, come la luce, è nel tessuto dell’oggi.
È la lotta di Giacobbe con l’Angelo che con la mediazione degli U2 citi in epigrafe a un altro componimento?
Sì, ed è una metafora perfetta per la poesia, è la lotta con lo sconosciuto da te che devi in qualche modo dire e che ti lascia stremato, se non è stato un esercizio di stile. Perché gli esercizi di stile non credo che ti possano lussare l’anca, mentre la lotta di tutta una notte con qualcuno che non sai chi è, quello invece sì.
Come entra in questa prospettiva quella mancanza di immaginazione di cui a volte abbiamo chiacchierato, della disabitudine a figurarci le cose?
Sicuramente c’entra un’incapacità di chiamare le cose con il loro nome, ma anche di dare loro un ordine di grandezza adeguato. Una delle cose di cui sento sensibilmente l’avanzare, anche nel mio lavoro di insegnante, è un restringersi della lingua. E questa restrizione ha sicuramente a che fare con la perdita dell’immaginazione, ma anche con la perdita del mondo. Dante diceva che nomina sunt consequentia rerum: noi abbiamo bisogno di nominare cose che arrivano alla nostra esperienza, e uno dei canali principali è la visione.
Parliamo quindi di una perdita di esperienza, anzitutto?
Sì. Il problema della contrazione della lingua non è drammatico perché “ci perdiamo una lingua ricchissima”… Questa non è che una conseguenza ed è anche, fammi dire, un problema da letterati. Il dramma vero è che si contrae l’esperienza, non che si contrae la lingua!
Vale lo stesso con l’immaginazione, credo…
È del tutto analogo. Amici antropologi mi dicono che una delle tesi più accreditate è che l’uomo del paleolitico sia sopravvissuto non solo per le scoperte tecniche, ma perché creava racconti e immagini. Che questa capacità creativa ha strutturato il nostro cervello in modo tale da permettere la sopravvivenza in un ambiente a lui ostile e a nemici per molti versi più forti e biologicamente più attrezzati di lui.
Serve un’educazione dello sguardo.
Un’educazione dello sguardo, ma vale quello che dicevamo prima della lingua: non è lo sguardo e basta, è lo sguardo di una persona. Quando avevo otto anni, per circostanze casuali, incontrai il pittore Bill Congdon. Un incontro di pochi minuti, quasi il tempo di uno sguardo, eppure ti assicuro che di tutte le persone che mi hanno voluto bene negli anni, mai più mi è successo di sentirmi guardata così. Era uno sguardo pieno di una presenza, in cui sono potuta entrare. Ed è quello che si vede nei suoi quadri, del resto: uno sguardo che nutre la persona e una persona che affina lo sguardo, che vede la realtà e che la mette in figura della realtà.
È questo che dobbiamo cercare in Verso Fogland?
È quello che forse mi auguro di fare, tra le altre cose, scrivendo. Di creare uno spazio di visione in cui sia possibile entrare.
Daniele Gigli
*In copertina: Caspar David Friedrich, “Monaco in riva al mare”, 1810
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vanessa-love-fan · 5 years ago
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La pedagogia francescana possibile orizzonte educativo?
San Francesco, uno dei santi più venerati della chiesa cattolica ha vissuto una vita piena di eventi fissati e precisi, che lo definiscono un santo moderno dai tratti geniali. È il santo del perdono, della carità, dell’allegria e della natura. Un santo che si pone tra mito e realtà. Definito teologo e talvolta artista e filosofo. Un santo che fa parte del patrimonio culturale italiano e per tale motivo è sempre entrato tra i banchi di scuola per essere conosciuto come il santo degli animali. Forse questo amore che San Francesco nutriva per gli animali, come d’altronde i bambini, lo ha portato a rimanere conosciuto solo nelle scuole dei piccoli e dimenticato in quelle dei grandi; soprattutto  dalle scuole che si definiscono laiche e lontane da qualsiasi orientamento religioso. Ma San Francesco è solo questo? Può rimanere intrappolato tra i tralci di una obsoleta cultura? Può entrare nelle scuole solo per qualche fringuello o perché realizzò il più tradizionale modellismo della storia, il presepe? Se la figura di San Francesco debba essere ridotta ad una mera e antica concezione catechista, non dovrebbe varcare nessun cancello di qualsiasi scuola, se non per pura conoscenza culturale. Ma in realtà Francesco ha il diritto e il dovere di entrare, umilmente come egli era, in punta di piedi e sedere orgogliosamente tra i banchi dell’educazione.
La sua fede e il suo pensiero apre molti spunti riflessione su un nuovo modus pensandi et operandi del fare pedagogico. San Francesco nella sua semplicità essenziale riesce a buttare le basi di una nuova e autentica pedagogia dell’Essere. Egli crede nelle relazioni autentiche, nella forza simpatica della comunicazione e nella meraviglia dell’essere umano e dell’intero mondo circostante.
La persona fatta di corpo, mente e spirito vive tutta la sua esistenza, dal suo primo vagito sino all’ultimo sospiro, in relazione con sé, con gli altri e con l’ambiente circostante in un continuum temporale. Dove il “vivere” non si vuole intendere una missione egoistica di sopprimere i propri bisogni, ma un “vivere alto” il cui obiettivo è scoprire il suo Essere e migliorarlo, per sé e per tutti gli oggetti posti in relazione con sé.
Detto ciò, la dottrina, o meglio la vita di San Francesco ne diventa uno manifestazione sublime.
                       “La persona è fatta di corpo, mente e spirito”
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Per San Francesco il corpo umano è un corpo creato, perciò va lodato in quanto creato da Dio. Tutta la creazione di Dio è benefica, perciò la concezione che egli ha del corpo si contrappone a quella del suo tempo, assumendo una visione positiva. Emerge l’idea di un corpo da rispettare e da amare, non da venerare. San Francesco vive il corpo e non l’umilia. Una buona prassi educativa, deve partire da tale concezione corporale. Un corpo che deve essere vissuto, percepito e conosciuto. Un’azione che porta la Persona ad avere un’immagine positiva di sé, e di conseguenza come in una giostra, amare il suo corpo e la propria identità. Un amore, questo, che possa portare la Persona alla perfezione e all’amore vero, non narcisistico. Se per San Francesco la perfezione cade teologicamente in Dio, nel fare pedagogico cade nella perfezione umana.
San Francesco prende le distanze dalla scienza, non perché non accetti il progresso e le scoperte, ma perché vogliono soggiogare la mente umana. Crede che l’uomo debba vivere nella sua libertà umana e di conoscenza, che lo porti lontano da una scienza dell’indottrinamento. San Francesco crede in una scienza critica. Non è forse questo l’obiettivo principale di un fare didattico? La Persona deve riuscire a sviluppare la sua mente nella sua completa intelligenza, per potersi elevare all’idea della perfezione, e creare la sua visione critica della realtà. Allora un fare didattico non può semplicemente indottrinare, ma offrire tanti canali di sapere in modo tale che il soggetto possa liberamente scegliere la via giusta e creare la sua mente. Un sapere ricercato e accettato nell’individualità soggettiva della persona.
La persona infine non può annullare lo spirito e le emozioni che vive. Perciò ogni buona educazione deve educare non solo al corpo o alla mente, ma anche allo spirito, tutti e tre nello stesso tempo e interagendo tra di loro. San Francesco è il Santo, il teologo delle Emozioni. Vive le emozioni in tutte le sue forme, le comunica e le vive nella pienezza. La sofferenza è un ponte, una rampa di lancio per evolversi e fare un salto per migliorarsi e diventare se stessi. Accetta tutte le emozioni e riesce a superarle nella più grande delle emozioni: la Gioia. Non è forse proprio questa l’educazione emozionale? Non è aiutare la Persona  a conoscere le emozioni, a viverle, a raccontarle e superarle per sfociare nel benessere? Vivere l’emozione e i sentimenti significa anche darne voce, e così che il sentimento si trasforma in arte e poesia. San Francesco è un artista che comunica e condivide il suo essere, il suo pensiero e le sue emozioni.
                                                  “Le relazioni”
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San Francesco nella sua vita, non detesta le relazioni, le ama e le condivide. San Francesco è il santo del lebbroso, degli uccelli e del lupo. Cosa hanno in comune questi tre personaggi? La bellezza della relazione. San Francesco crede nelle autentiche relazioni con gli altri e con l’ambiente. Egli fa tanti incontri importanti che fanno da appendice al testamento pedagogico che ci ha tralasciato. La prima relazione che merita una riflessione pedagogica è l’incontro con il lebbroso. Inizialmente San Francesco, o meglio Giovanni da Bernardone, ripudiava i lebbrosi, li teneva al margine, forse gli incutevano paura per la verità. Ma un incontro ben preciso gli fa prendere una prospettiva diversa. San Francesco, da quello incontro ne esce cambiato, comprende chi è e cosa vuole essere. Incontrando l’altro Francesco si misura e scopre un sé più vero. Come ognuno di noi, solo entrando in relazione con gli altri che scopriamo il nostro essere; più l’altro è diverso da me, più io mi identifico in me. San Francesco allora premia la relazione, vuole che tutti vivono e convivo di relazioni. L’altra relazione significativa è l’incontro con il lupo, che in un’analisi approfondita è una relazione simpatica con la natura. San Francesco è capace di superare il pregiudizio, supera lo stereotipo del lupo malvagio. Riesce a fare ciò con la comunicazione empatica. Pone un esempio di un ponte relazionale e comunicativo.  L’incontro con il lupo non è solo un incontro fisico, ma anche vissuto. Francesco empatizza e simpatizza con e per il lupo. Questo incontro diventa un ponte di unione tra la società che ha tralasciato il valore dell’essere e l’essenza naturalistica di ogni cosa.
                                                     “La natura”
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L’uomo vive nella e con la natura, e tornare ad essa è fondamentale per potersi completare e non si può trascendere da essa. San Francesco la vede sorella, madre e benevola. Una natura da conoscere. Una conoscenza critica. Oggi come allora la società è travolta dallo tsunami del progresso, dimentichiamo l’appartenenza intrinseca alla natura. Allora forse lui è stato il prima pedagogista del verde? Un pedagogista dell’ecologia?  Francesco ha giocato un ruolo decisivo nello sviluppo della spiritualità, sviluppando una dimensione ecologica della cura dell'anima a partire dalla valorizzazione della natura in tutte le sue manifestazioni. Conoscere e amare la natura significa parlarne e creare. Cosi San Francesco ne diventa poeta. Tutto l’amore che prova lo scrive, ne diventa un artista del bello. La pittura, la scrittura e la musica sono arti per contemplare la bellezza del creato. Le arti diventano un mezzo di trasmissione e  di comunicazione della gioia emotiva. Educare all’arte e al bello non è forse proprio riuscire a trasmettere con i diversi canali la bellezza che vediamo ognuno con i proprio occhi?
                                            “Condivisone e talento”
…Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. Chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano. Chi lavora con le sue mani e la sua testa ed il suo cuore è un artista…
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Nel rapporto continuo con la Natura e di Comunicazione si istaura un altro anello pedagogico: la Condivisone. La condivisione è la base di ogni relazione, e per San Francesco il primo elemento da condividere è il talento. Egli crede nei talenti, confida in esso che è in ogni persona, come dono di Dio, come tale va condiviso. Lui evangelizza la povertà, non solo materiale, ma anche dell’essere. Il talento, in qualità di dono è un bene da scoprire non per un fare egoistico, ma per restituirlo alla società. Ecco allora che San Francesco crede nelle relazione e nella condivisione, riuscendo ad entrare in relazione con tutto lo spazio. Oggi questa condivisione la potremmo definire senso civico, una qualità da perseguire nel valore della cittadinanza attiva. Una condivisione di libertà, una condivisione sociologica e sociale, una condivisione pauperistica dei talenti. Il talento intrinseco è unico di ogni essere umano, e non può essere usato solo per un fine egoistico, ma condiviso come bene civile e democratico.
Allora possiamo fare del mondus pensandi et operandi di San Francesco una nuova frontiera pedagogica, come ritorno alla pura e naturalistica visione ed evoluzione della Persona? Una nuova scuola? Una pedagogia che vede la persona nella sua completa evoluzione di perfezione, in una scuola dove regni l’allegria e la gioia dei cuori. Un fare scolastico che scavi nella scoperta dei talenti, una scoperta soggettiva per poi condividerla come tesoro di una nuova cittadinanza attiva. Una scuola basata sulla scoperta e il gusto del sapere, che porta alla bellezza delle arti. Una scuola che non dimentichi la natura, perché solo con la natura la Persona si completa e vive.  Una scuola senza differenze, dove il lebbroso, il sultano, la donna e gli animali si trovano sullo stesso piano e sono la base delle relazioni autentiche.
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degiovanniluigi · 8 years ago
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Luigi De Giovanni
 Viaggio nell’armonia del Salento che sa di bellezza, spiritualità e amore.
 La mostra “e il naufragar m'è dolce in questo mare”, che si tiene, fino all'8 gennaio 2017 dalle 18 alle 21, alle  Scuderie di Palazzo Gallone a Tricase (Lecce), curata da Antonietta Fulvio ed organizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Tricase in collaborazione con Il Raggio Verde edizioni e associazione “e20Cult”, è un modo per percorrere il Salento con altri occhi. È un viaggio che sa di spirituale, di passione per i luoghi che si vanno scoprendo per impadronirsene e conservare emotivamente in opere che sanno d’amore e del ricordo ancestrale che si perde nell’animo di Luigi De Giovanni che in questo viaggio sembra sia stato stimolato dalla spiritualità che governa i luoghi. L’artista è partito da Santa Maria di Leuca, vivendo sulle tele gli attimi delle luci vestite dalle tonalità di terre rosate in tocchi che sfumano in luminescenze poetiche negli scorci che precipitano in un mare blu striato di smeraldo. Visuali selvagge di aspre terrazze sul mare ove gli alberi e gli arbusti spontanei pare vogliano riportare ad altri tempi, ad altri valori. Le opere sono panorami di natura sfuggita alle brame di affaristi che vedono nella costa solo investimenti e cementificazione. Oasi disposte magicamente sulle tele nella narrazione della ciclicità e del tempo di luci che vivono l’oggi nel ricordo di sempre. Quasi con il fiato sospeso l’artista, con le sue opere, ci porta al Ciolo, dove si ergono dal mare, quasi a voler respirare le suggestioni dei contrasti, i riflessi della scogliera imponente segnata da un chiarore puro ed eterno: un maestoso pino che risalta i piani prospettici pare voglia indicare il tempo della vita. La natura si fa più selvaggia nelle pennellate che rappresentano gli intrichi della vegetazione dei percorsi, profumati dal mirto e di essenze selvatiche, delle grotte Cipolliane dove le angosce e la fatica cadono negli oscuri e inaspettati pozzi già ristoro di viandanti. Si prosegue nei paesaggi della Marina di Novaglie, i cui muretti a secco pare vogliano contenere le emozioni di Luigi De Giovanni che vi ha fatto opere che sanno di malinconia dolce e di finezza simbolica: che non si percepisce nei dettagli ma nelle pennellate veloci che creano macchie di colore che comunicano intensamente le sensazioni suscitate dal luogo e rese della sua sintesi pittorica. Nella zona Torre Naspre di Tiggiano l’artista descrive le ombre degli ulivi con pennellate essenziali ed efficaci. Negli scorci, che prendono luce dal paesaggio di pietra e di mare, Luigi De Giovanni, inseguendo i suoi pensieri, sinteticamente traccia le forme attorcigliate dei fusti battuti dal vento e diventati sculture di merletti imprevisti. Le ampie vedute di visuali, illuminate da bianchi che si specchiano in mare, volgono a Marina Serra e alla torre che narra di antiche paure. Nella solitudine del paesaggio l’artista si sofferma a lungo in questa zona di parco cogliendo la vibratilità dei colori che giocano con i riverberi del mattino, in rimandi e rincorse di momenti di percezione dove l’urgenza pittorica dà tempo alla meditazione. Dipinti dell’anima che lo portano più in la a ritrovare l’asprezza coinvolgente delle marine di Tricase Porto o dell’Isola che gli ha suggerito più di un’opera in cui sono evidenti le sfumature degli scogli e delle canne che si rispecchiano nel mare che ha scavato architetture naturali che Luigi De Giovanni ha scolpito con pennellate che inseguono contrasti e armonie. Le onde s’innalzano e schiumano in toni di bianco i sassi e le verdi salicornie che vi trovano dimora, donando chiazze di malinconie terrose di vita che, benché sia fuggita, è ancora nei segni e nei toni fissati sulle tele. Nel Tratturo, o strada vecchia, che da Andrano portava al mare, si ritrovano i segni di duro lavoro di chi non si arreso mai alle asperità del paesaggio. È qui che l’artista indugia ricercando se stesso, la sua interiorità, i suoi ricordi di bambino e il paesaggio che lo riporta al suo paese. Ritrova il Genius Loci che gli ha da sempre suggerito colori e nostalgie, che già stavano nel suo animo, e i contrasti cromatici si fanno più intensi sino agli scuri dei turbamenti che s’illuminano nelle chiome argentee dei verdi degli ulivi: continuità della vita e della speranza. Seguendo il percorso della mostra si arriva ad Acqua Viva di Marittima e nella bellissima insenatura naturalistica i colori del mare appaiono smorzati da un primo piano di alberi spogli e dai fusti che si elevano come a voler superare il dislivello del canalone. L’artista qui dipinge più opere e in tutte emergono le tonalità rosate che si tuffano nelle acque tinte di cobalto che sfumano nei toni smeraldo sino a diventare cristallina a riva, in un contrasto che sa di magico nella spuma del mare increspato. Poi si arriva ai profili delle vedute di Castro vestita dai bianchi lirismi che si specchiano nelle ombre delle insenature che si affacciano in un mare di una bellezza unica. Improvvisi picchi arrivano al mare specchio di sfumature di macchia mediterranea e la schiuma delle onde pare far rivivere antiche storie di Santa Cesarea Terme. Seguendo un itinerario, in alcuni tratti, brullo e capace di suggerire infinite suggestioni pittoriche, Luigi De Giovanni, con le sue opere, ci porta a Otranto. Si sofferma nel paesaggio affascinante e unico della cava di bauxite, dove i rossi precipitano in una voragine in fondo  alla quale un laghetto inaspettato, diventato specchio, prende i colori del cielo blu, della vegetazione delle pareti e le acque diventano verde smeraldo con riflessi del rosso cupo della bauxite in un rimando cromatico così insolito da sorprendere e coinvolgere profondamente l’artista che qui ha realizzato quadri che sanno di meraviglioso e unico.
Pennellate di luci e colori che segnano i paesaggi fra terra e mare, dove le ombre sembrano descrivere malinconie brusche, per scoprire gli aspetti spirituali di un paesaggio che, nonostante l’apparente durezza, sa donare sensazioni di poesia che va oltre il visibile nell’humus loci dei luoghi.  Le emozioni dell’artista diventano per lo spettatore un vivere spiritualmente tutta la zona del Parco Naturale Regionale “Costa Otranto S.M. di Leuca - Bosco di Tricase”: Alessano, Andrano, Castrignano del Capo, Castro, Corsano, Diso, Gagliano del Capo, Ortelle, Otranto, Santa Cesarea Terme, Tiggiano e Tricase.     
Federica Murgia                                                             
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valoriontinuit · 5 years ago
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Luigi De Giovanni Viaggio nell’armonia del Salento che sa di bellezza, spiritualità e amore. La mostra “e il naufragar m’è dolce in questo mare”, che si tiene, fino all’8 gennaio 2017 d…
Luigi De Giovanni
Viaggio nell’armonia del Salento che sa di bellezza, spiritualità e amore.
La mostra “e il naufragar m'è dolce in questo mare”, che si tiene, fino all'8 gennaio 2017 dalle 18 alle 21, alle Scuderie di Palazzo Gallone a Tricase (Lecce), curata da Antonietta Fulvio ed organizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Tricase in collaborazione con Il Raggio Verde edizioni e associazione “e20Cult”, è un modo per percorrere il Salento con altri occhi. È un viaggio che sa di spirituale, di passione per i luoghi che si vanno scoprendo per impadronirsene e conservare emotivamente in opere che sanno d’amore e del ricordo ancestrale che si perde nell’animo di Luigi De Giovanni che in questo viaggio sembra sia stato stimolato dalla spiritualità che governa i luoghi. L’artista è partito da Santa Maria di Leuca, vivendo sulle tele gli attimi delle luci vestite dalle tonalità di terre rosate in tocchi che sfumano in luminescenze poetiche negli scorci che precipitano in un mare blu striato di smeraldo. Visuali selvagge di aspre terrazze sul mare ove gli alberi e gli arbusti spontanei pare vogliano riportare ad altri tempi, ad altri valori. Le opere sono panorami di natura sfuggita alle brame di affaristi che vedono nella costa solo investimenti e cementificazione. Oasi disposte magicamente sulle tele nella narrazione della ciclicità e del tempo di luci che vivono l’oggi nel ricordo di sempre. Quasi con il fiato sospeso l’artista, con le sue opere, ci porta al Ciolo, dove si ergono dal mare, quasi a voler respirare le suggestioni dei contrasti, i riflessi della scogliera imponente segnata da un chiarore puro ed eterno: un maestoso pino che risalta i piani prospettici pare voglia indicare il tempo della vita. La natura si fa più selvaggia nelle pennellate che rappresentano gli intrichi della vegetazione dei percorsi, profumati dal mirto e di essenze selvatiche, delle grotte Cipolliane dove le angosce e la fatica cadono negli oscuri e inaspettati pozzi già ristoro di viandanti. Si prosegue nei paesaggi della Marina di Novaglie, i cui muretti a secco pare vogliano contenere le emozioni di Luigi De Giovanni che vi ha fatto opere che sanno di malinconia dolce e di finezza simbolica: che non si percepisce nei dettagli ma nelle pennellate veloci che creano macchie di colore che comunicano intensamente le sensazioni suscitate dal luogo e rese della sua sintesi pittorica. Nella zona Torre Naspre di Tiggiano l’artista descrive le ombre degli ulivi con pennellate essenziali ed efficaci. Negli scorci, che prendono luce dal paesaggio di pietra e di mare, Luigi De Giovanni, inseguendo i suoi pensieri, sinteticamente traccia le forme attorcigliate dei fusti battuti dal vento e diventati sculture di merletti imprevisti. Le ampie vedute di visuali, illuminate da bianchi che si specchiano in mare, volgono a Marina Serra e alla torre che narra di antiche paure. Nella solitudine del paesaggio l’artista si sofferma a lungo in questa zona di parco cogliendo la vibratilità dei colori che giocano con i riverberi del mattino, in rimandi e rincorse di momenti di percezione dove l’urgenza pittorica dà tempo alla meditazione. Dipinti dell’anima che lo portano più in la a ritrovare l’asprezza coinvolgente delle marine di Tricase Porto o dell’Isola che gli ha suggerito più di un’opera in cui sono evidenti le sfumature degli scogli e delle canne che si rispecchiano nel mare che ha scavato architetture naturali che Luigi De Giovanni ha scolpito con pennellate che inseguono contrasti e armonie. Le onde s’innalzano e schiumano in toni di bianco i sassi e le verdi salicornie che vi trovano dimora, donando chiazze di malinconie terrose di vita che, benché sia fuggita, è ancora nei segni e nei toni fissati sulle tele. Nel Tratturo, o strada vecchia, che da Andrano portava al mare, si ritrovano i segni di duro lavoro di chi non si arreso mai alle asperità del paesaggio. È qui che l’artista indugia ricercando se stesso, la sua interiorità, i suoi ricordi di bambino e il paesaggio che lo riporta al suo paese. Ritrova il Genius Loci che gli ha da sempre suggerito colori e nostalgie, che già stavano nel suo animo, e i contrasti cromatici si fanno più intensi sino agli scuri dei turbamenti che s’illuminano nelle chiome argentee dei verdi degli ulivi: continuità della vita e della speranza. Seguendo il percorso della mostra si arriva ad Acqua Viva di Marittima e nella bellissima insenatura naturalistica i colori del mare appaiono smorzati da un primo piano di alberi spogli e dai fusti che si elevano come a voler superare il dislivello del canalone. L’artista qui dipinge più opere e in tutte emergono le tonalità rosate che si tuffano nelle acque tinte di cobalto che sfumano nei toni smeraldo sino a diventare cristallina a riva, in un contrasto che sa di magico nella spuma del mare increspato. Poi si arriva ai profili delle vedute di Castro vestita dai bianchi lirismi che si specchiano nelle ombre delle insenature che si affacciano in un mare di una bellezza unica. Improvvisi picchi arrivano al mare specchio di sfumature di macchia mediterranea e la schiuma delle onde pare far rivivere antiche storie di Santa Cesarea Terme. Seguendo un itinerario, in alcuni tratti, brullo e capace di suggerire infinite suggestioni pittoriche, Luigi De Giovanni, con le sue opere, ci porta a Otranto. Si sofferma nel paesaggio affascinante e unico della cava di bauxite, dove i rossi precipitano in una voragine in fondo alla quale un laghetto inaspettato, diventato specchio, prende i colori del cielo blu, della vegetazione delle pareti e le acque diventano verde smeraldo con riflessi del rosso cupo della bauxite in un rimando cromatico così insolito da sorprendere e coinvolgere profondamente l’artista che qui ha realizzato quadri che sanno di meraviglioso e unico. Pennellate di luci e colori che segnano i paesaggi fra terra e mare, dove le ombre sembrano descrivere malinconie brusche, per scoprire gli aspetti spirituali di un paesaggio che, nonostante l’apparente durezza, sa donare sensazioni di poesia che va oltre il visibile nell’humus loci dei luoghi. Le emozioni dell’artista diventano per lo spettatore un vivere spiritualmente tutta la zona del Parco Naturale Regionale “Costa Otranto S.M. di Leuca - Bosco di Tricase”: Alessano, Andrano, Castrignano del Capo, Castro, Corsano, Diso, Gagliano del Capo, Ortelle, Otranto, Santa Cesarea Terme, Tiggiano e Tricase. Federica Murgia
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pedanews · 5 years ago
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La pedagogia francescana possibile orizzonte educativo?
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San Francesco, uno dei santi più venerati della chiesa cattolica ha vissuto una vita piena di eventi fissati e precisi, che lo definiscono un santo moderno dai tratti geniali. È il santo del perdono, della carità, dell’allegria e della natura. Un santo che si pone tra mito e realtà. Definito teologo e talvolta artista e filosofo. Un santo che fa parte del patrimonio culturale italiano e per tale motivo è sempre entrato tra i banchi di scuola per essere conosciuto come il santo degli animali. Forse questo amore che San Francesco nutriva per gli animali, come d'altronde i bambini, lo ha portato a rimanere conosciuto solo nelle scuole dei piccoli e dimenticato in quelle dei grandi; soprattutto  dalle scuole che si definiscono laiche e lontane da qualsiasi orientamento religioso.
Ma San Francesco è solo questo? Può rimanere intrappolato tra i tralci di una obsoleta cultura? Può entrare nelle scuole solo per qualche fringuello o perché realizzò il più tradizionale modellismo della storia, il presepe? Se la figura di San Francesco debba essere ridotta ad una mera e antica concezione catechista, non dovrebbe varcare nessun cancello di qualsiasi scuola, se non per pura conoscenza culturale. Ma in realtà Francesco ha il diritto e il dovere di entrare, umilmente come egli era, in punta di piedi e sedere orgogliosamente tra i banchi dell’educazione.
La sua fede e il suo pensiero apre molti spunti riflessione su un nuovo modus pensandi et operandi del fare pedagogico. San Francesco nella sua semplicità essenziale riesce a buttare le basi di una nuova e autentica pedagogia dell’Essere. Egli crede nelle relazioni autentiche, nella forza simpatica della comunicazione e nella meraviglia dell’essere umano e dell’intero mondo circostante.
La persona fatta di corpo, mente e spirito vive tutta la sua esistenza, dal suo primo vagito sino all'ultimo sospiro, in relazione con sé, con gli altri e con l’ambiente circostante in un continuum temporale. Dove il “vivere” non si vuole intendere una missione egoistica di sopprimere i propri bisogni, ma un “vivere alto” il cui obiettivo è scoprire il suo Essere e migliorarlo, per sé e per tutti gli oggetti posti in relazione con sé.
Detto ciò, la dottrina, o meglio la vita di San Francesco ne diventa uno manifestazione sublime dell’educazione.
 “La persona è fatta di corpo, mente e spirito”
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Per San Francesco il corpo umano è un corpo creato, perciò va lodato in quanto creato da Dio. Tutta la creazione di Dio è benefica, perciò la concezione che egli ha del corpo si contrappone a quella del suo tempo, assumendo una visione positiva. Emerge l’idea di un corpo da rispettare e da amare, non da venerare. San Francesco vive il corpo e non l’umilia. Una buona prassi educativa, deve partire da tale concezione corporale. Un corpo che deve essere vissuto, percepito e conosciuto. Un’azione che porta la Persona ad avere un’immagine positiva di sé, e di conseguenza come in una giostra, amare il suo corpo e la propria identità. Un amore, questo, che possa portare la Persona alla perfezione e all'amore vero, non narcisistico. Se per San Francesco la perfezione cade teologicamente in Dio, nel fare pedagogico cade nella perfezione umana.
San Francesco prende le distanze dalla scienza, non perché non accetti il progresso e le scoperte, ma perché vogliono soggiogare la mente umana. Crede che l’uomo debba vivere nella sua libertà umana e di conoscenza, che lo porti lontano da una scienza dell’indottrinamento. San Francesco crede in una scienza critica. Non è forse questo l’obiettivo principale di un fare didattico? La Persona deve riuscire a sviluppare la sua mente nella sua completa intelligenza, per potersi elevare all'idea della perfezione, e creare la sua visione critica della realtà. Allora un fare didattico non può semplicemente indottrinare, ma offrire tanti canali di sapere in modo tale che il soggetto possa liberamente scegliere la via giusta e creare la sua mente. Un sapere ricercato e accettato nell'individualità soggettiva della persona.
La persona infine non può annullare lo spirito e le emozioni che vive. Perciò ogni buona educazione deve educare non solo al corpo o alla mente, ma anche allo spirito, tutti e tre nello stesso tempo e interagendo tra di loro. San Francesco è il Santo, il teologo delle Emozioni. Vive le emozioni in tutte le sue forme, le comunica e le vive nella pienezza. La sofferenza è un ponte, una rampa di lancio per evolversi e fare un salto per migliorarsi e diventare se stessi. Accetta tutte le emozioni e riesce a superarle nella più grande delle emozioni: la Gioia. Non è forse proprio questa l’educazione emozionale? Non è aiutare la Persona  a conoscere le emozioni, a viverle, a raccontarle e superarle per sfociare nel benessere? Vivere l’emozione e i sentimenti significa anche darne voce, e così che il sentimento si trasforma in arte e poesia. San Francesco è un artista che comunica e condivide il suo essere, il suo pensiero e le sue emozioni.
“Le relazioni”
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San Francesco nella sua vita, non detesta le relazioni, le ama e le condivide. San Francesco è il santo del lebbroso, degli uccelli e del lupo. Cosa hanno in comune questi tre personaggi? La bellezza della relazione. San Francesco crede nelle autentiche relazioni con gli altri e con l’ambiente. Egli fa tanti incontri importanti che fanno da appendice al testamento pedagogico che ci ha tralasciato. La prima relazione che merita una riflessione pedagogica è l’incontro con il lebbroso. Inizialmente San Francesco, o meglio Giovanni da Bernardone, ripudiava i lebbrosi, li teneva al margine, forse gli incutevano paura per la verità. Ma un incontro ben preciso gli fa prendere una prospettiva diversa. San Francesco, da quello incontro ne esce cambiato, comprende chi è e cosa vuole essere. Incontrando l’altro Francesco si misura e scopre un sé più vero. Come ognuno di noi, solo entrando in relazione con gli altri che scopriamo il nostro essere; più l’altro è diverso da me, più io mi identifico in me. San Francesco allora premia la relazione, vuole che tutti vivono e convivo di relazioni. L’altra relazione significativa è l’incontro con il lupo, che in un’analisi approfondita è una relazione simpatica con la natura. San Francesco è capace di superare il pregiudizio, supera lo stereotipo del lupo malvagio. Riesce a fare ciò con la comunicazione empatica. Pone un esempio di un ponte relazionale e comunicativo.  L’incontro con il lupo non è solo un incontro fisico, ma anche vissuto. Francesco empatizza e simpatizza con e per il lupo. Questo incontro diventa un ponte di unione tra la società che ha tralasciato il valore dell’essere e l’essenza naturalistica di ogni cosa.
“La natura”
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L’uomo vive nella e con la natura, e tornare ad essa è fondamentale per potersi completare e non si può trascendere da essa. San Francesco la vede sorella, madre e benevola. Una natura da conoscere. Una conoscenza critica. Oggi come allora la società è travolta dallo tsunami del progresso, dimentichiamo l’appartenenza intrinseca alla natura. Allora forse lui è stato il prima pedagogista del verde? Un pedagogista dell’ecologia?  Francesco ha giocato un ruolo decisivo nello sviluppo della spiritualità, sviluppando una dimensione ecologica della cura dell'anima a partire dalla valorizzazione della natura in tutte le sue manifestazioni. Conoscere e amare la natura significa parlarne e creare. Cosi San Francesco ne diventa poeta. Tutto l’amore che prova lo scrive, ne diventa un artista del bello. La pittura, la scrittura e la musica sono arti per contemplare la bellezza del creato. Le arti diventano un mezzo di trasmissione e  di comunicazione della gioia emotiva. Educare all’arte e al bello non è forse proprio riuscire a trasmettere con i diversi canali la bellezza che vediamo ognuno con i proprio occhi?
“Condivisone e talento”
…Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. Chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano. Chi lavora con le sue mani e la sua testa ed il suo cuore è un artista…
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Nel rapporto continuo con la Natura e di Comunicazione si instaura un altro anello pedagogico: la Condivisone. La condivisione è la base di ogni relazione, e per San Francesco il primo elemento da condividere è il talento. Egli crede nei talenti, confida in esso che è in ogni persona, come dono di Dio, come tale va condiviso. Lui evangelizza la povertà, non solo materiale, ma anche dell’essere. Il talento, in qualità di dono è un bene da scoprire non per un fare egoistico, ma per restituirlo alla società. Ecco allora che San Francesco crede nelle relazione e nella condivisione, riuscendo ad entrare in relazione con tutto lo spazio. Oggi questa condivisione la potremmo definire senso civico, una qualità da perseguire nel valore della cittadinanza attiva. Una condivisione di libertà, una condivisione sociologica e sociale, una condivisione pauperistica dei talenti. Il talento intrinseco è unico di ogni essere umano, e non può essere usato solo per un fine egoistico, ma condiviso come bene civile e democratico.
Allora possiamo fare del mondus pensandi et operandi di San Francesco una nuova frontiera pedagogica, come ritorno alla pura e naturalistica visione ed evoluzione della Persona? Una nuova scuola? Una pedagogia che vede la persona nella sua completa evoluzione di perfezione, in una scuola dove regni l’allegria e la gioia dei cuori. Un fare scolastico che scavi nella scoperta dei talenti, una scoperta soggettiva per poi condividerla come tesoro di una nuova cittadinanza attiva. Una scuola basata sulla scoperta e il gusto del sapere, che porta alla bellezza delle arti. Una scuola che non dimentichi la natura, perché solo con la natura la Persona si completa e vive.  Una scuola senza differenze, dove il lebbroso, il sultano, la donna e gli animali si trovano sullo stesso piano e sono la base delle relazioni autentiche.
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racheleleonardi · 5 years ago
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Il naturalismo greco
Il naturalismo greco
secondo Ranuccio Bianchi Bandinelli
dalla voce Arte greca Enciclopedia dell’ Arte Antica (1960)
Con la vitalità guizzante delle sue forme l'arte greca si contrappone nettamente alla essenza impenetrabile delle opere dell'arte del vicino Oriente (mesopotamica ed egiziana). L'arte greca, e in ciò sta la sua grandezza e il suo rischio, è pertanto la più potentemente realistica fra le civiltà artistiche del mondo antico. Ma lo è anche rispetto a tutte quelle venute di poi nella civiltà occidentale, per la minore concessione che in essa si riscontra a tendenze simboliche o puramente ornamentali e formalistiche. L'arte greca fu celebrata dalla critica neoclassica (Winckelmann) come la più “ideale” e la più lontana da ogni verismo. Tale giudizio (a parte la distinzione da farsi tra verismo e realismo) era fondato su premesse teoriche legate a un particolare momento della cultura europea e anche, in parte, a un fondamentale equivoco su ciò che fosse in effetti arte greca, poiché le opere di statuaria allora note erano quasi esclusivamente copie di età romana e non originali greci. La polemica che è stata sollevata nell'arte moderna e contemporanea contro la pretesa sopravvalutazione dell'arte greca, in realtà era diretta contro la accennata interpretazione, e non risulta applicabile all'arte greca nei suoi effettivi valori.
Tra immagine artistica e realtà di natura non vi è un necessario rapporto di identità; generalmente l'immagine artistica è però una riduzione dell'immagine di natura, di per sè infinitamente più complessa, che può esser frutto di una sintesi dei suoi elementi espressivi principali (e perciò acquista una efficacia più intensa che non l'immagine di natura) o una semplificazione effettuata (specialmente nella scultura) sotto l'impulso di una prevalenza dell'interesse strutturale, architettonico, dell'immagine. Ma può essere nient'altro che una composizione di linee e di masse, ridotte a una specie di ideogramma, la cui originaria derivazione da una forma di natura è così lontana da non essere più avvertita dagli artefici che ripetono la composizione di forme schematiche. Queste hanno, per essi come per il loro pubblico, un valore assoluto, con un significato preciso, che non sarebbe più compreso, se la forma schematica venisse improvvisamente sostituita da un'altra, più naturalistica.
Esempî di questi tre diversi modi di esprimere la forma artistica (sintesi espressiva, semplificazione strutturale, schematizzazione astratta) si trovano in tutte le civiltà dell'antico Oriente. In esse, e particolarmente nella civiltà egiziana prima e in quella assira poi, si trovano anche rappresentazioni nelle quali ci si pone l'obiettivo di raggiungere la vivezza della forma di natura; ma si deve osservare che tale ricerca è limitata a determinati temi e a un determinato fine. I temi sono quelli, espressi in rilievo molto basso, equivalente a un disegno, e avvivati dal colore, che trattano soggetti narrativi: le imprese di guerra del sovrano, con il loro contorno di narrazioni collaterali, o le cacce del sovrano (specialmente in Assiria, a Ninive, sotto Assurbanipal attorno alla metà del VII sec. a. C.). E un fine perseguito è anche quello della facilità di lettura della narrazione; ma soprattutto della espressività dei singoli episodî. Il naturalismo della rappresentazione, spesso di sorprendente esattezza nelle figure di animali, ancora assai vivo nelle figure dei servi o del popolo minuto, si arresta dinanzi alla figura del sovrano e degli alti funzionarî, le cui forme corporee tendono ad avere quella certa astrazione dalla realtà, quella genericità tipologica, che si trova inevitabilmente nelle figure delle divinità. Il realismo non esce, inoltre, dai temi narrativi ed esula quindi dalle sculture monumentali.
Ora è accaduto, invece, che i Greci vollero affrontare in pieno la traduzione della forma di natura in forma d'arte, senza limitazioni di temi o di situazioni, ivi compresa la figura della divinità: una prova terribile, perché dinanzi alla ricchezza infinita e alla complessità dell'immagine di natura, la forma artistica rischia di essere distrutta e ridotta a una trasposizione quasi meccanica, nella quale viene a mancare, insieme all'elemento di selezione espressiva, ogni partecipazione di sentimento e di razionalità, e quindi ogni qualità artistica. E d'altra parte il contenuto, il più elevato, rischia di venir banalizzato e abbassato a un valore contingente.
Perché i Greci affrontarono questa prova? Essa non è che un aspetto, coerente agli altri, della civiltà particolare che i Greci andarono costruendo, nella quale, a differenza di ogni altra civiltà precedente, per una lucidità logica che spinge alla indagine razionale della natura e che ha la sua radice nella particolare struttura della società greca, nella quale agirono a lungo le conseguenze della primitiva struttura tribale, l'uomo è posto a misura dell'universo, è posto al centro della vita sul mondo, con la sua facoltà di ragionamento come con le sue passioni, e quindi con il suo giudizio etico: conseguentemente anche con la sua forma reale. (Perciò noi possiamo parlare per la prima volta, per i Greci, di una concezione “umanistica” della vita, della cultura, della scienza, dell'arte). Nel mito, nella poesia altissima del dramma, i temi centrali non sono le imprese meravigliose di un dio o quelle quasi divine di un sovrano invincibile; ma sono le passioni umane, le lotte degli uomini contro le divinità avverse, nelle quali l'uomo viene distrutto, ma afferma la sua persona e la sua grandezza. Mito e arte sono l'espressione di una continua conquista della interiorità umana. Perciò la conquista della forma naturalistica nella sua pienezza e complessità va considerata la più alta che l'arte greca abbia compiuto.
Anche se a certo nostro evasivo gusto attuale le semplificazioni stilistiche dell'età arcaica, cariche di grande forza vitale e dominate da una squisita sensibilità epidermica, lineare e coloristica, possono apparire più congeniali e perciò più facilmente comprensibili, da una più matura considerazione critica va riconosciuto che l'età fra il 460 e il 430, che comprende la maturità dell'opera di Mirone, di Policleto e di Fidia e con quest'ultimo lo “stile partenònico” che a lui si collega, rappresenta il momento più alto raggiunto dalla scultura greca e dalla sua concezione rivoluzionaria della forma artistica, che affronta in pieno il realismo. Con ciò non si vuol affatto ridar valore alla antistorica concezione classicistica che vedeva in questo momento artistico il modello unico, dal quale non era lecito derogare senza condanna, della forma artistica in assoluto. Certo è che la conquista di questa forma fu decisiva per l'umanità, molto al di là del solo interesse in seno alla storia dell'arte.
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italianaradio · 5 years ago
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PRO LOCO BRANCALEONE Buon inizio del calendario degli eventi estivi
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PRO LOCO BRANCALEONE Buon inizio del calendario degli eventi estivi
PRO LOCO BRANCALEONE Buon inizio del calendario degli eventi estivi
R. & P. Iniziato già a correre il programma degli eventi e manifestazioni dell’Estate promossi dalla pro loco. Sedici eventi che caratterizzeranno questa Estate 2019 sotto tutti i punti di vista. Un associazione che non si è mai arrestata nei suoi lunghi 7 anni alla guida del Presidente Carmine Verduci che ha dimostrato di avere una squadra all’altezza per superare ostacoli, difficoltà e soprattutto prove di capacità organizzative. Un’Associazione quella della Pro-Loco di Brancaleone che organizza e promuove eventi di carattere, Turistico-Culturale, Enogastronomico e naturalistico sul territorio di sua competenza capace di coinvolgere le realtà locali in maniera sinergica e positiva, senza l’ausilio di fondi o contributi da parte di Enti pubblici o privati. Il Programma dell’estate 2019 a Brancaleone, quest’anno alza la posta in gioco, mantenendo un profilo culturale che è la base del saper “fare turismo” con poche risorse ma con grande entusiasmo e spirito di sacrificio. Partito già a luglio scorso con una splendida serata dedicata alla Poesia Dialettale Calabrese, grazie al coinvolgimento dell’Unione Poeti Dialettali Calabresi che ha riscosso un buon successo, è proseguito poi con lo storico appuntamento dei due giorni di Workshop giunto alla sua settima edizione e dedicato al turismo e alla valorizzazione del territorio che ha visto una due giorni davvero ricco e variegato, con il forum tematico discusso con autorevoli rappresentanti del territorio e proseguito quest’anno con l’innovativo “Laboratorio Interattivo” sulla lavorazione della pasta fatta in casa che ha riscosso un buon successo. Le iniziative hanno poi visto importanti sodalizi che hanno voluto la Pro-Loco al fianco dell’Associazione Amica Sofia che ha organizzato una serata di grande cultura presso la Dimora del Confino di Cesare Pavese in occasione dell’ 84° Anno dall’arrivo dello scrittore a Brancaleone che ha visto un grande successo sia nella serata del 4 Agosto e sia alla Passeggiata a Brancaleone Vetus “Tra le rocce rosse lunari di Cesare Pavese”. Anche quest’anno lo storico sodalizio con il Planetario Pitagoras di Reggio Calabria si è rinnovato con l’iniziativa tenutasi il 7 Agosto nel magico borgo di Brancaleone Vetus con l’osservazione astronomica di Giove, Saturno e la Luna, evento che ha riscosso larghi consensi in termini di presenze attirate anche dalla sagra “Du pani conzatu” che ha deliziato il palato dei presenti. Altri appuntamenti che caratterizzeranno l’estate Brancaleonese di sicuro l’imperdibile Mostra Fotografica Collettiva “ISMIA” che racconterà con oltre 60 scatti d’autore tre anni di cammini in lungo e in largo per il territorio Calabrese e non solo, del progetto Kalabria Experience e La Via dei Borghi che aprirà i battenti il 9 Agosto alle ore 17:30 presso la dimora del Confino di Cesare Pavese e proseguirà domenica 10 con all’interno la presentazione del libro “Lumache” di Anton Francesco Milicia e Antonio Tassone. Di rilievo è stato anche l’inaugurazione del Centro documentazioni di Brancaleone Vetus che è avvenuto il 3 Agosto che ha visto la sua realizzazione presso la ex chiesa dell’annunziata di Brancaleone Vetus, progetto sostenuto grazie alle donazioni di privati cittadini e associazioni del territorio, che si è avvalso della collaborazione di prestigiosi enti quali: Parco Nazionale d’Aspromonte, Lipu Onlus e Comune di Brancaleone. E l’inaugurazione di un sentiero dedicato a Gianni Carteri, figura e memoria storica del Borgo di Brancaleone Vetus, scomparso tre anni fa e che la pro loco attraverso percorsi della memoria vuole far rivivere attraverso azioni che riportino l’attenzione verso quelle figure che hanno contribuito alla cultura del paese. L’evento avverrà il prossimo 13 Agosto a Brancaleone Vetus ore 18:00 alla presenza della famiglia del compianto Gianni Carteri. A tutto questo si aggiungono le “Escursioni Culturali” Summer Experience, legate al progetto Kalabria Experience che muove i suoi passi proprio sul territorio di Brancaleone e dintorni, in un ricco calendario di esperienze, storico, archeologiche e naturalistiche che partendo da Staiti e Santa Maria di Tridetti l’11 Agosto, proseguirà attraverso l’attesissimo Trekking notturno a Brancaleone Vetus “Tra leggende e misteri” e varcherà anche i confini territoriali con la Rocca Armenia di Bruzzano Zeffirio il giorno di ferragosto e poi a seguire tornerà a Brancaleone con l’escursione intitolata “Le origini dell’abitare” che offrirà uno spaccato storico della vita del borgo agli albori della civiltà rupestre che ha fondato l’antica città di Sperlinga. Per poi terminare il 25 Agosto con un inedita escursione naturalistica nel vicino territorio di Palizzi con i suoi “Calanchi al Tramonto” che terminerà con una cena presso l’azienda Oinos Palizzi per gustare il vino tratto dalla forza di questa terra particolare. Dulcis in fundo, l’evento atteso dell’estate anche la tappa del Festival Paleariza che torna a Brancaleone Vetus con una serata davvero speciale come i “Karamà Jelì” – Musica oltre i Confini Special Guest: Ossou Baba Line alle 22:30 e la Sagra delle Zeppole a partire dalle ore 21:30 presso lo stand della Pro-Loco sempre nel borgo antico. Un programma condiviso dalla Commissione straordinaria del Comune di Brancaleone che sin dalla sua prima bozza ha ritenuto opportuno supportare ed incentivare con ogni azine possibile, volta a favorire lo svolgimento e la realizzazione delle manifestazioni che assumono un carattere fondamentale per favorire il turismo ed offrire un prodotto di qualità al turismo variegato che in questi periodi è presente nella cittadina costiera e non solo… Di seguito in dettaglio il calendari degli eventi ed attività organizzate per questa estate 2019 ricca di cultura e perché no, anche di sana “innovazione culturale”
LUGLIO 21- ore 21:30 Lido Liberty “Poesie sotto le stelle” incontro con la poesia contemporanea dialettale in collaborazione con Unione Poeti Dialettali Calabresi 27 ore 17:30 Dimora del Confino Cesare Pavese VII Workshop Territoriale “Forum Tematico” 28 ore 17:30 Dimora del Confino Cesare Pavese VII Workshop Territoriale – Laboratorio interattivo “Le mani in Pasta”
AGOSTO 3 – ore 17:30 Brancaleone Vetus Inaugurazione Centro Documentazione di Brancaleone Vetusa seguire ore 19:30 Esperienza Sensoriale “La Grotta dell’ Albero della Vita” con Serena Palermiti 4- ore 21:00 “Cesare Pavese in Terra di Confino” – Serata di letture presso la Dimora del Confino Cesare Pavese a Brancaleone (Evento in collaborazione con l’associazione Amica Sofia) 5- ore 07:00 Passeggiata a Brancaleone Vetus “Tra le rocce rosse lunari di Cesare Pavese” (su prenotazione anticipata Tel/ +39 347 0844 564) 7 – ore 21:00 Brancaleone Veus : Serata Astronomica “Stelle dal Borgo” e sagra “Du Pani Conzatu” (Evento in collaborazione con il Planetario Pitagoras di Reggio Calabria) 9 – ore 17:30 Dimora del Confino C. Pavese: Mostra Fotografica “Ismìa” Kalabria Experiencee presentazione del Libro “Lumache” di Anton Francesco Milicia e Antonio Tassone 10 – ore 17:30 Dimora del Confino C. Pavese: Mostra Fotografica “Ismìa” Kalabria Experience 11- ore 17:30 Escursione Culturale a Staiti e Santa Maria di Tridetti (Su prenotazione anticipata) 13 – ore 18:00 Brancaleone Vetus: inaugurazione di un sentiero dedicato a Gianni Carteri 14 – ore 20:15 Trekking Notturno a Brancaleone Vetus “Tra leggende e Misteri” (Su prenotazione anticipata) 15 – Ore 17:30 Escursione Culturale a Rocca Armenia di Bruzzano Zeffirio “Gli Armeni in Calabria” Su prenotazione anticipata 18 – ore 17:30 Escursione Culturale a Brancaleone Vetus “Le origini dell’Abitare” (Su prenotazione anticipata) 19 – ore 21:00 Brancaleone Vetus “SAGRA DELLE ZEPPOLE” – FESTIVAL PALEARIZA 2019 25- Ore 17:30 Escursione Naturalistica “I calanchi al Tramonto” (Su Prenotazione anticipata Tel/ +39 347 0844 564)
All’interno delle manifestazioni la Pro-Loco di Brancaloene svolge i servizi turistici di accompagnamento e fruizione dei siti di interesse storico e culturali della cittadina con le proposte del progetto: VISIT BRANCALEONE che da l’opportunità di effettuare visite guidate su prenotazione presso i principali siti di interesse come: La Dimora del Confino di Cesare Pavese e Parco Archeologico urbano di Brancaleone Vetus Semplicemente telefonando al num. +39 347 0844 564 o consultando il sito www.prolocobrancaleone.it oppure wwwkalabriaexperience.altervista.org per lasciarsi ispirare
R. & P. Iniziato già a correre il programma degli eventi e manifestazioni dell’Estate promossi dalla pro loco. Sedici eventi che caratterizzeranno questa Estate 2019 sotto tutti i punti di vista. Un associazione che non si è mai arrestata nei suoi lunghi 7 anni alla guida del Presidente Carmine Verduci che ha dimostrato di avere
Gianluca Albanese
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storiearcheostorie · 6 years ago
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SAN PIETROBURGO, Russia – Sarà interamente dedicata a Piero della Francesca (1412 – 1492), tra i capisaldi della pittura italiana del XV secolo, la mostra “Piero della Francesca. Monarca della pittura” che s’inaugura al Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo il prossimo 6 dicembre, in occasione dei festeggiamenti per il compleanno del museo fondato da Caterina II di Russia.  Piero, con la sua pittura nobile e umile a un tempo, razionale e austera quanto lirica e poetica, può essere definito senza esagerazione l’artista simbolo del Primo Rinascimento, capace come fu di rivoluzionare la pittura del tempo, trasfondendo nelle sue opere complessi calcoli matematici e una personale visione del mondo. Fu tra i primi a scoprire le regole della prospettiva sia lineare che atmosferica (a cui Leonardo da Vinci prestò poi puntuale e fattiva attenzione) e la sua arte ebbe un ruolo chiave nello sviluppo del ritratto rinascimentale.
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Piero della Francesca Annunciazione della Vergine Maria, 1467 -1468 (Cimasa del Polittico di Sant’Antonio) Tempera su tavola, 122×194 cm Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria
MOSTRA INEDITA – Ciononostante in Russia non si conservano opere di Piero, di cui in generale rimangono solo straordinari cicli di affreschi e non più di una ventina di dipinti, per lo più considerati inamovibili e conservati salvo poche eccezioni in Italia, in siti lontani delle principali rotte turistiche della penisola come Perugia, Monterchi, Arezzo o nella vicina Sansepolcro ( al tempo, Borgo San Sepolcro) , dove egli nacque.  Curata da Tatiana Kustodieva, capo ricercatore del Dipartimento dell’Arte europea occidentale all’Ermitage, promossa dal Museo Statale Ermitage con la collaborazione di “Ermitage Italia” e di Villaggio Globale International, l’esposizione – che ha come sponsor generale ROSNEFT e partner in Italia INTESA SANPAOLO – si propone dunque come un evento eccezionale. Da diverse collezioni italiane ed europee giungeranno un nucleo di opere dell’artista mai così consistente prima d’ora in una mostra temporanea, 11 dipinti e 4 manoscritti autografi, offrendo la rara opportunità di far conoscere Piero della Francesca in Russia.
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Piero della Francesca La Madonna di Senigallia, 1470-1485 Olio e tempera su tavola, 61×53,5 cm Urbino, Galleria Nazionale delle Marche
TANTI CAPOLAVORI ASSOLUTI – Nella prestigiosa Sala del Picchetto, nel Palazzo d’Inverno, in un allestimento che rievoca le architetture prospettiche dei dipinti di Piero, si potranno ammirare, giunti dall’Italia, straordinari e iconici capolavori come la “Madonna di Senigallia” dalla Galleria Nazionale delle Marche a Urbino, “l’Annunciazione” , mai prestata prima d’ora, dalla Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia e il “San Girolamo e un devoto” dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia, ai quali si aggiungono il “San Nicola da Tolentino” del Museo Poldi Pezzoli di Milano e due affreschi con “San Giuliano” e “San Ludovico” dalla natia Sansepolcro. Quindi il “San Michele” prestato per l’evento dalla National Gallery di Londra, il “Ritratto di Sigismondo Malatesta” eccezionalmente dal Musée du Louvre di Parigi, il “Ritratto di giovane” – presumibilmente Guidobaldo da Montefeltro – dal Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, il “Sant’Agostino” dal Museo Nazionale d’Arte Antica di Lisbona e la giovanile “Madonna col Bambino” già in collezione Contini Bonacossi.
DALLA TELA ALLO SCRITTO – Quindi il Piero matematico, a ricordare l’importante attività teorica che egli svolse,m congiuntamente alla pittura, per tutta la vita: la ricerca di regole scientifiche che governino la realtà, e dunque la costruzione interna dei dipinti, il bisogno di armonia, lo studio delle proporzioni costituiranno del resto una costante della sua ricerca artistica. In mostra ci saranno il giovanile Trattato d’abaco, proposto nella versione autografa della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, l’Archimede di Spiralibus, raccolta di trattati del matematico greco in cui è stata riconosciuta nel 2004 la mano dell’artista toscano, e infine il De prospectiva pingendi presentato attraverso le uniche due testimonianze quattrocentesche in volgare esistenti al mondo: quella interamente autografa nel testo e nei disegni, prestata della Biblioteca Palatina del Complesso Monumentale della Pilotta a Parma e il manoscritto Reggiano della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, con correzioni e annotazioni di Piero. Fu proprio il De Prospectiva pingendi, universalmente noto, a formare intere generazioni di pittori, che non si limitarono a trarre ispirazione dai dipinti del grande Maestro, ma studiarono il suo testo per imparare quello che sarebbe divenuto il linguaggio comune e condiviso dell’arte occidentale per almeno quattro secoli, fino alla rottura avvenuta nell’Ottocento.
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Piero della Francesca De Prospectiva Pingendi, sec. XV codice cartaceo autografo 291x 215 mm Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi
GRANDISSIMO, COME MOZART – “Si è paragonata l’arte di Piero alla musica di Mozart e alla poesia di Wordsworth”, ha scritto lo storico dell’arte russo Michail Alpatov. “Ma la sua capacità di abbracciare il mondo con uno sguardo può essere raffrontata anche al talento di Tolstoj di ammirare, come in Guerra e Pace, la curva delle spalle d’una avvenente mondana o d’inchinarsi alla saggezza del contadino Karataiev”. Così appare dunque Piero: raffinato frequentatore delle principali corti italiane (Perugia, Firenze, Ferrara, Rimini, Roma, Urbino), coltissimo nell’elaborare composizioni prospettiche innovative, costruzioni geometriche dal perfetto equilibrio e figure monumentali ieratiche e potenti, quanto sincero cantore della nobiltà dell’uomo e della bellezza del paesaggio, caparbiamente legato alle sue terre e al borgo natale, ove conservò sempre la sua bottega.
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Piero della Francesca Ritratto di Sigismondo Malatesta, 1451 c. Olio su tela, 44,5×34,5 cm Parigi, Musée du Louvre
UN ARTISTA “LIBERO” – Piero non fu mai pittore di corte, mantenendo autonomia di vita e di pensiero, eppure riuscì a innovare profondamente e a segnare in maniera indelebile il percorso dell’arte italiana ed europea, traghettandola dal medioevo all’età moderna. Da Domenico Veneziano, con il quale lavorò prima a Perugia e poi a Firenze, Piero aveva appreso l’importanza e il valore delle gamme cromatiche, della composizione e della prospettiva nelle sue prime applicazioni; durante il soggiorno nel capoluogo toscano (1439), allora nevralgico  centro culturale, aveva conosciuto l’arte d’avanguardia del suo tempo – la scultura di Donatello,  gli affreschi di Masaccio, le concezioni architettoniche di Leon Battista Alberti e di Filippo Brunelleschi – e aveva ammirato la corte bizantina.
A Ferrara, dove si presume sia stato intorno al 1450, e poi a Urbino, aveva conosciuto l’arte fiamminga e il gusto d’oltralpe, traendone l’attenzione per la resa naturalistica dei dettagli. Suggestioni e influenze che, accanto agli interessi scientifici, alla capacità immaginifica e alla profonda sensibilità per le vicende politiche, hanno consentito a Piero una cifra artistica assolutamente originale, portandolo a creare opere di una tale altezza intellettuale e spirituale da influenzare profondamente, con la riscoperta ottocentesca, anche l’arte del XX secolo.
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La mostra è accompagnata da catalogo Skira/Museo Statale Ermitage, in edizione russa e italiana, con saggi di Carlo Bertelli, Tatiana Kustodieva, Antonio Natali, Piergiorgio Odifreddi, Antonio Paolucci, Paola Refice. Informazioni: www.hermitagemuseum.org
Fonte: Comunicato ufficiale.   
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tmnotizie · 6 years ago
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JESI – Domenica 4 novembre alle ore 17.30 nell’affascinante Chiesa di San Bernardo a Jesi (ingresso: Via Valle n°3) si terrà un incontro interamente dedicato a scoprire, approfondire e meglio conoscere un componente importante della nostra alimentazione, ovvero lo zafferano.
L’iniziativa, ideata e curata dall’Associazione Culturale Euterpe di Jesi, si iscrive all’interno del progetto “Sapori tra le righe”, sostenuto dal Comune di Jesi che nel 2017 ha visto la realizzazione di due serate tematiche analoghe rispettivamente sull’olio e il miele che hanno raccolto ampio consenso di pubblico.
L’iniziativa, patrocinata dall’Assemblea Legislativa della Regione Marche e dalla Provincia di Ancona si articolerà secondo il seguente programma. L’apertura sarà a cura di Gioia Casale (scrittrice) e Michela Tombi (poetessa), entrambe Consigliere dell’Ass. Euterpe, che proporranno una selezionata scelta di estratti poetici e narrativi di autori classici in cui il tema del giallo risulta prevalente.
La storia dello zafferano, i suoi usi e le forme di coltivazione, si perdono, come ciascun vegetale e spezia, nella notte dei tempi anche se esistono testi, non di carattere letterario, che ce ne parlano e che, forse, possono facilitare una contestualizzazione delle aree di utilizzo e coltivazione. Difatti già nel 2300 a.C. esso si utilizzava e alcuni ne sottolineavano con enfasi le proprietà curative.
Secondo il mito lo zafferano avrebbe avuto origine dall’unione sessuale tra la ninfa Smilace e un giovane avvenente noto come Krocos. Appare nei maggiori testi della nostra tradizione, dalla Bibbia al Cantico dei Cantici, sino agli scritti di Omero, Ovidio e Virgilio. La coltivazione dello zafferano si è iniziata in contesto orientale, nell’Asia, sino a che non è stata esportata anche in ambito europeo e soprattutto mediterraneo.
Durante l’evento si passerà poi all’intervento principe della serata, quello condotto da Sabrina Cesaretti, Dottoressa in Scienze Naturali, dal titolo “Lo zafferano: ecologia, utilizzo e proprietà dell’oro rosso”. La Cesaretti si è laureata in Scienze Naturali con una specializzazione in Botanica ed Ecologia presso l’Università di Camerino; dopo il dottorato ha deciso di dedicarsi alla coltivazione delle piante officinali e dello zafferano.
Tornando a casa ad Avacelli (Arcevia), tra il castello e la piccola azienda di famiglia, ha messo in piedi in pochi anni un laboratorio a norma dove continua, senza sosta, a sperimentare ed innovare la tradizione. Ella ha saputo guardare lontano, unendo tutto questo al turismo, come guida naturalistica propone insieme ad uno storico dell’arte, Per erbe e per castelli, dei percorsi storico-naturalistici alla scoperta del territorio.
Si proseguirà con un reading poetico inerente alle tematiche dello “zafferano”, del “giallo”, dei “fiori” con i poeti Elvio Angeletti (Senigallia), Flavia Scebba (Foligno), Marinella Cimarelli (Jesi), Ida Palombo (Pesaro) e Antonio Cerquarelli (Sassoferrato). Ad impreziosire l’evento saranno gli intermezzi musicali ad opera di Filippo Lombardelli e, a conclusione dell’iniziativa, l’Associazione Euterpe offrirà un brindisi di chiusura a quanti avranno partecipato all’evento.
Info: www.associazioneeuterpe.com [email protected] Tel. 327 5914963
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colospaola · 7 years ago
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Velate è uno dei borghi storici che compongono Varese, amatissimo da Renato Guttuso, che ammaliato dal suo fascino e dal suo paesaggio con vista sui laghi e sul massiccio del Monte Rosa, visse qui per trent’anni in una storica villa, dove dipinse molti dei suoi quadri più celebri, tra cui la Vucciria, ma anche paesaggi con boschi e sentieri del luogo.
Nel centro di quest’incantevole borgo antico, lontano dal traffico, immerso nel verde del Parco del Campo dei fiori e ai piedi, del Sacro Monte di Varese, proprio accanto alla Chiesa di Santo Stefano, nel Battistero, un piccolo prezioso scrigno, ora è tornato a nuova vita, per mano della creatrice di eventi e molto altro, Carla Tocchetti. In questa cornice, dal 24 febbraio si terrà una mostra-evento di primavera dedicata ai Gitani e altre storie di Camargue, con le fotografie di Isella Bellotti.
La mostra sarà inaugurata sabato 24 febbraio, alle 16.30, e vedrà l’esposizione di un centinaio di fotografie, con stampe di grande formato e videoproiezione, dedicate al mondo dei gitani, che la fotografa ha esplorato nel contesto del meridione francese, con particolare riferimento alla Camargue. Un territorio ancora abbastanza selvaggio, protetto da un parco, natura a tratti umida e paludosa, che da aprile e maggio dà il meglio di sé, per colori e feste. Una terra che stregò anche Van Gogh, che proprio ad Arles si stabilì per gran parte della sua vita. Un piccolo gioiello con le case in pietra chiare con le imposte colorate di verde acqua, azzurro e glicine.
Isella Bellotti si è dedicata nella fotografia negli ultimi anni, dopo la fine della sua attività lavorativa, dandosi una nuova chance, facendo di una passione, qualcosa di artistico, perfezionando la sua tecnica al fianco di alcuni insegnanti molto stimati e apprezzati nel varesotto, come Marmino e Berestovoy.
Isella ha poi mosso i primi passi sul web, incoraggiata dagli amici di Luino Meteo, e successivamente diventando una fotografa per le più importanti testate locali.
Pur non essendo una professionista, le sue foto, spesso e volentieri delle vere e proprie tavolozze di colori, sono state scelte più volte e pubblicate come copertina dalle testate quotidiane locali, e alcune hanno vinto anche dei concorsi nazionali.
Ora Isella Bellotti è forse la fotografa donna più conosciuta dell’alto varesotto, e dice di se stessa “La mia è una fotografia prevalentemente naturalistica, adoro gli animali e in particolare uccelli, cavalli, orsi. Sono nata sul lago, a Luino, e porto con me anche nei viaggi più lontani l’amore per la natura e l’acqua. Per me fotografare significa emozionare ed emozionarmi, cogliere l’attimo e farlo rivivere a modo mio per sempre.”
Dopo la sua prima personale, Orsi e altre storie del Grande Nord, curata da Carla Tocchetti nel 2016 presso le Stanze medievali del Camponovo al Sacro Monte di Varese, Isella ha esposto I colori del Nord a Maccagno al Punto d’incontro, poi ha collaborato con Varese Land of Food raccontando il territorio attraverso i suoi scatti e con la mostra fotografica Metti un paesaggio nel piatto.
Grazie alla collaborazione con la Floricoltura Stocchetti i colori e i profumi del mondo gitano saranno nell’esposizione con un allestimento ispirato al carro, la dimora del popolo nomade che dalla seconda metà dell’Ottocento e poi, per più di settant’anni, ha percorso tutte le strade d’Europa, e in versione più piccola era utilizzato per sbarcare il lunario.
La mostra, a cura di Carla Tocchetti, ha il patrocinio della Fondazione Comunitaria del Varesotto e del Festival Internazionale di Poesia di Milano, diretto da Milton Fernàndez.
L’esposizione sarà aperta nei giorni di venerdì, dalle 15 alle 18, di sabato e domenica, dalle 10 alle 18, fino a domenica 18 marzo.
Nel contesto della mostra è previsto un ricco programma di eventi.
Sabato 24 febbraio alle 16.30, per il Vernissage, Isella Bellotti si racconterà, accompagnata dal flautista di origine italo-francese Jean Charles Candido, che eseguirà una serie di musiche ispirate al Sud della Francia.
Alle 18.30 di venerdì 2 marzo ci sarà Solo posti in piedi, un rècital dei Lindbergh, ideato in collaborazione con il cantautore Claudio Lolli, autore della ballata Ho visto anche degli zingari felici.
Con questo lavoro la formazione, composta da Matteo Bestetti, sassofono soprano e autore degli arrangiamenti, ed Enrico Del Prato, pianoforte e tastiere, ha avviato una collaborazione diretta con Lolli, culminata con l’uscita di un CD basato su testi inediti di Alessandro Fogarollo e dello stesso Lolli.
L’evento al Battistero, a ingresso gratuito, sarà proposto in collaborazione con il Festival Internazionale di Poesia di Milano diretto da Milton Fernàndez.
Sabato 10 marzo alle 16.30 verrà presentato il libro I fiori del Male / I fiur dul maa di Giorgio Sassi, scrittore bosino, traduzione in dialetto di Varese della famosa raccolta di Charles Baudelaire, ancora oggi considerare l’opera francese più nota di tutti i tempi, con le letture di Magda Aimetti.
L’opera, in due volumi, ha l’introduzione dello scrittore Andrea Fazioli e una premessa del professor Gianmarco Gaspari, docente di Letteratura Italiana all’Università degli Studi dell’Insubria e presidente del Corso di Studi in Scienze della Comunicazione.
La Flower Planner varesina Maria Giovanna Stocchetti, domenica 4 marzo, alle 10.15, terrà un laboratorio per realizzare il cestino centrotavola pasquale, e domenica 18 marzo, alla stessa ora, uno dedicato alle talee delle piante profumate, entrambi della durata di un’ora.
Ai partecipanti, oltre alla lezione tecnica, sarà dato tutto il materiale per realizzare il laboratorio, dalle piantine ai fiori e alle uova, dalla terra ai vasetti, per poi portare a casa l’elaborato realizzato con le proprie mani.
Il costo sarà di 20 euro per ogni laboratorio, mentre per la prenotazione si dovrà scrivere a [email protected]
Nel weekend di sabato e domenica 17 e 18 marzo, in omaggio alla Camargue, al Battistero ci sarà un allestimento speciale e profumatissimo con piante odorose, mentre per domenica 18 marzo, alle 14.30, si terrà una passeggiata nell’antico borgo di Velate alla scoperta dei segni della Primavera con una guida del Parco del Campo dei Fiori, con alle 16.30 un finissage.
  Gitani e altre storie di Camargue al Battistero di Velate Velate è uno dei borghi storici che compongono Varese, amatissimo da Renato Guttuso, che ammaliato dal suo fascino e dal suo paesaggio con vista sui laghi e sul massiccio del…
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redazionecultura · 8 years ago
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sede: BIM, Banca Intermobiliare (Lugano).
L’esposizione presenta i dipinti e le sculture realizzati negli ultimi due anni, evidenziando l’evoluzione stilistica che ha marcato un passaggio fondamentale verso nuove soluzioni tecniche e formali rispetto alla produzione precedente dell’autore e, d’altro canto, la correlazione tra due discipline apparentemente distanti che trovano, all’interno di una stessa e personale visione, interessanti punti d’incontro. Un acceso sperimentalismo ha condotto Francesco Attardo ad indagare la materia ricercando spunti visivi capaci di evocare sensazioni, paesaggi, figure simboliche ed esperienze di vita attraverso composizioni sempre nuove che si sono succedute in maniera fluida, ponendosi di volta in volta come ponte tra il passato e il futuro. Se inizialmente l’artista si è avvicinato alla pittura per fermare sulla tela le immagini più care della sua Noto, la terra natale a cui rivolge costantemente il pensiero e fonte inesauribile di ispirazione, in seguito si è dedicato ad un astrattismo lirico di matrice esistenziale che prevede l’impiego di materiali estranei alla tradizione come legni, polveri, sabbie, gesso e cartapesta per raccontare visioni interiori in cui i singoli elementi si fanno portatori di un messaggio, diventano voci narranti di un racconto corale e metaforico. Le tele esposte alla BIM di Lugano mostrano il raggiungimento di una matura e consapevole sicurezza nell’accostamento dei colori, dei volumi e di alcuni effetti (come i “cretti”, spaccature dovute all’essiccamento della materia pittorica e quindi in parte imprevedibili); le atmosfere hanno un respiro maggiore, più disteso e idilliaco nella raffigurazione di paesaggi immersi in uno stato di pace, più acceso e quasi violento nella trasposizione dei sentimenti più intensi, come il dolore e la solitudine. Anche le sculture riflettono questa polarità espressiva, nata dall’esigenza e dal desiderio di trovare la correlazione migliore tra la Forma e l’Idea; è emblematico il confronto tra due serie di lavori dedicati alla Donna. Nella prima serie, la donna è una forma astratta, a tutto tondo, colta nei suoi volumi principali che vengono enfatizzati da un trattamento superficiale monocromo, lucido e levigato. Silhouette piacevoli, accattivanti, sensuali che esprimono gioia e leggerezza. Nella seconda serie, il materiale che viene scolpito è importante tanto quanto il soggetto; si tratta della “pietra pece”, un minerale estratto in Sicilia, a Ragusa, fondamentale per la storia locale, per l���economia, per l’architettura e per il senso di appartenenza dei ragusani al loro territorio. La pietra pece è una pietra bruna, dalle tonalità calde, odorosa, in alcuni punti anche molle; per mano di Francesco Attardo si trasforma in bassorilievi da cui emergono, gradualmente, figure femminili aggraziate, accurate nella resa naturalistica dei dettagli, dai tratti contemporanei. Lo spazio che circoscrive le figure rimane volutamente appena abbozzato, un non-finito che da risalto alla bellezza della pietra, alla sua essenza. Si intravede in queste prime opere l’inizio di un percorso nuovo, in parte estetico ma soprattutto concettuale e sentimentale: la pietra pece fu scoperta nel 1838 da tre ufficiali svizzeri dell’esercito borbonico e ora un artista siciliano residente in Svizzera decide di elaborarla e di presentarla in terra elvetica, riannodando in maniera originale coordinate spazio temporali. Emerge così anche il legame con il proprio passato, strettamente personale. La pietra pece diventa uno spazio narrativo che consente ad Attardo di raccontarsi e, quindi, di raccontare le mille sfaccettature di una passione mai sopita: la passione per la sua Terra, eterno orizzonte della sua arte.
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Francesco Attardo. Storie di poesia, colore e materia sede: BIM, Banca Intermobiliare (Lugano). L'esposizione presenta i dipinti e le sculture realizzati negli ultimi due anni, evidenziando l'evoluzione stilistica che ha marcato un passaggio fondamentale verso nuove soluzioni tecniche e formali rispetto alla produzione precedente dell'autore e, d'altro canto, la correlazione tra due discipline apparentemente distanti che trovano, all'interno di una stessa e personale visione, interessanti punti d'incontro.
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degiovanniluigi · 5 years ago
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Luigi De Giovanni Viaggio nell’armonia del Salento che sa di bellezza, spiritualità e amore. La mostra “e il naufragar m’è dolce in questo mare”, che si tiene, fino all’8 gennaio 2017 d…
Luigi De Giovanni
Viaggio nell’armonia del Salento che sa di bellezza, spiritualità e amore.
La mostra “e il naufragar m'è dolce in questo mare”, che si tiene, fino all'8 gennaio 2017 dalle 18 alle 21, alle Scuderie di Palazzo Gallone a Tricase (Lecce), curata da Antonietta Fulvio ed organizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Tricase in collaborazione con Il Raggio Verde edizioni e associazione “e20Cult”, è un modo per percorrere il Salento con altri occhi. È un viaggio che sa di spirituale, di passione per i luoghi che si vanno scoprendo per impadronirsene e conservare emotivamente in opere che sanno d’amore e del ricordo ancestrale che si perde nell’animo di Luigi De Giovanni che in questo viaggio sembra sia stato stimolato dalla spiritualità che governa i luoghi. L’artista è partito da Santa Maria di Leuca, vivendo sulle tele gli attimi delle luci vestite dalle tonalità di terre rosate in tocchi che sfumano in luminescenze poetiche negli scorci che precipitano in un mare blu striato di smeraldo. Visuali selvagge di aspre terrazze sul mare ove gli alberi e gli arbusti spontanei pare vogliano riportare ad altri tempi, ad altri valori. Le opere sono panorami di natura sfuggita alle brame di affaristi che vedono nella costa solo investimenti e cementificazione. Oasi disposte magicamente sulle tele nella narrazione della ciclicità e del tempo di luci che vivono l’oggi nel ricordo di sempre. Quasi con il fiato sospeso l’artista, con le sue opere, ci porta al Ciolo, dove si ergono dal mare, quasi a voler respirare le suggestioni dei contrasti, i riflessi della scogliera imponente segnata da un chiarore puro ed eterno: un maestoso pino che risalta i piani prospettici pare voglia indicare il tempo della vita. La natura si fa più selvaggia nelle pennellate che rappresentano gli intrichi della vegetazione dei percorsi, profumati dal mirto e di essenze selvatiche, delle grotte Cipolliane dove le angosce e la fatica cadono negli oscuri e inaspettati pozzi già ristoro di viandanti. Si prosegue nei paesaggi della Marina di Novaglie, i cui muretti a secco pare vogliano contenere le emozioni di Luigi De Giovanni che vi ha fatto opere che sanno di malinconia dolce e di finezza simbolica: che non si percepisce nei dettagli ma nelle pennellate veloci che creano macchie di colore che comunicano intensamente le sensazioni suscitate dal luogo e rese della sua sintesi pittorica. Nella zona Torre Naspre di Tiggiano l’artista descrive le ombre degli ulivi con pennellate essenziali ed efficaci. Negli scorci, che prendono luce dal paesaggio di pietra e di mare, Luigi De Giovanni, inseguendo i suoi pensieri, sinteticamente traccia le forme attorcigliate dei fusti battuti dal vento e diventati sculture di merletti imprevisti. Le ampie vedute di visuali, illuminate da bianchi che si specchiano in mare, volgono a Marina Serra e alla torre che narra di antiche paure. Nella solitudine del paesaggio l’artista si sofferma a lungo in questa zona di parco cogliendo la vibratilità dei colori che giocano con i riverberi del mattino, in rimandi e rincorse di momenti di percezione dove l’urgenza pittorica dà tempo alla meditazione. Dipinti dell’anima che lo portano più in la a ritrovare l’asprezza coinvolgente delle marine di Tricase Porto o dell’Isola che gli ha suggerito più di un’opera in cui sono evidenti le sfumature degli scogli e delle canne che si rispecchiano nel mare che ha scavato architetture naturali che Luigi De Giovanni ha scolpito con pennellate che inseguono contrasti e armonie. Le onde s’innalzano e schiumano in toni di bianco i sassi e le verdi salicornie che vi trovano dimora, donando chiazze di malinconie terrose di vita che, benché sia fuggita, è ancora nei segni e nei toni fissati sulle tele. Nel Tratturo, o strada vecchia, che da Andrano portava al mare, si ritrovano i segni di duro lavoro di chi non si arreso mai alle asperità del paesaggio. È qui che l’artista indugia ricercando se stesso, la sua interiorità, i suoi ricordi di bambino e il paesaggio che lo riporta al suo paese. Ritrova il Genius Loci che gli ha da sempre suggerito colori e nostalgie, che già stavano nel suo animo, e i contrasti cromatici si fanno più intensi sino agli scuri dei turbamenti che s’illuminano nelle chiome argentee dei verdi degli ulivi: continuità della vita e della speranza. Seguendo il percorso della mostra si arriva ad Acqua Viva di Marittima e nella bellissima insenatura naturalistica i colori del mare appaiono smorzati da un primo piano di alberi spogli e dai fusti che si elevano come a voler superare il dislivello del canalone. L’artista qui dipinge più opere e in tutte emergono le tonalità rosate che si tuffano nelle acque tinte di cobalto che sfumano nei toni smeraldo sino a diventare cristallina a riva, in un contrasto che sa di magico nella spuma del mare increspato. Poi si arriva ai profili delle vedute di Castro vestita dai bianchi lirismi che si specchiano nelle ombre delle insenature che si affacciano in un mare di una bellezza unica. Improvvisi picchi arrivano al mare specchio di sfumature di macchia mediterranea e la schiuma delle onde pare far rivivere antiche storie di Santa Cesarea Terme. Seguendo un itinerario, in alcuni tratti, brullo e capace di suggerire infinite suggestioni pittoriche, Luigi De Giovanni, con le sue opere, ci porta a Otranto. Si sofferma nel paesaggio affascinante e unico della cava di bauxite, dove i rossi precipitano in una voragine in fondo alla quale un laghetto inaspettato, diventato specchio, prende i colori del cielo blu, della vegetazione delle pareti e le acque diventano verde smeraldo con riflessi del rosso cupo della bauxite in un rimando cromatico così insolito da sorprendere e coinvolgere profondamente l’artista che qui ha realizzato quadri che sanno di meraviglioso e unico. Pennellate di luci e colori che segnano i paesaggi fra terra e mare, dove le ombre sembrano descrivere malinconie brusche, per scoprire gli aspetti spirituali di un paesaggio che, nonostante l’apparente durezza, sa donare sensazioni di poesia che va oltre il visibile nell’humus loci dei luoghi. Le emozioni dell’artista diventano per lo spettatore un vivere spiritualmente tutta la zona del Parco Naturale Regionale “Costa Otranto S.M. di Leuca - Bosco di Tricase”: Alessano, Andrano, Castrignano del Capo, Castro, Corsano, Diso, Gagliano del Capo, Ortelle, Otranto, Santa Cesarea Terme, Tiggiano e Tricase. Federica Murgia
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valoriontinuit · 5 years ago
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Luigi De Giovanni
Viaggio nell’armonia del Salento che sa di bellezza, spiritualità e amore.
La mostra “e il naufragar m'è dolce in questo mare”, che si tiene, fino all'8 gennaio 2017 dalle 18 alle 21, alle  Scuderie di Palazzo Gallone a Tricase (Lecce), curata da Antonietta Fulvio ed organizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Tricase in collaborazione con Il Raggio Verde edizioni e associazione “e20Cult”, è un modo per percorrere il Salento con altri occhi. È un viaggio che sa di spirituale, di passione per i luoghi che si vanno scoprendo per impadronirsene e conservare emotivamente in opere che sanno d’amore e del ricordo ancestrale che si perde nell’animo di Luigi De Giovanni che in questo viaggio sembra sia stato stimolato dalla spiritualità che governa i luoghi. L’artista è partito da Santa Maria di Leuca, vivendo sulle tele gli attimi delle luci vestite dalle tonalità di terre rosate in tocchi che sfumano in luminescenze poetiche negli scorci che precipitano in un mare blu striato di smeraldo. Visuali selvagge di aspre terrazze sul mare ove gli alberi e gli arbusti spontanei pare vogliano riportare ad altri tempi, ad altri valori. Le opere sono panorami di natura sfuggita alle brame di affaristi che vedono nella costa solo investimenti e cementificazione. Oasi disposte magicamente sulle tele nella narrazione della ciclicità e del tempo di luci che vivono l’oggi nel ricordo di sempre. Quasi con il fiato sospeso l’artista, con le sue opere, ci porta al Ciolo, dove si ergono dal mare, quasi a voler respirare le suggestioni dei contrasti, i riflessi della scogliera imponente segnata da un chiarore puro ed eterno: un maestoso pino che risalta i piani prospettici pare voglia indicare il tempo della vita. La natura si fa più selvaggia nelle pennellate che rappresentano gli intrichi della vegetazione dei percorsi, profumati dal mirto e di essenze selvatiche, delle grotte Cipolliane dove le angosce e la fatica cadono negli oscuri e inaspettati pozzi già ristoro di viandanti. Si prosegue nei paesaggi della Marina di Novaglie, i cui muretti a secco pare vogliano contenere le emozioni di Luigi De Giovanni che vi ha fatto opere che sanno di malinconia dolce e di finezza simbolica: che non si percepisce nei dettagli ma nelle pennellate veloci che creano macchie di colore che comunicano intensamente le sensazioni suscitate dal luogo e rese della sua sintesi pittorica. Nella zona Torre Naspre di Tiggiano l’artista descrive le ombre degli ulivi con pennellate essenziali ed efficaci. Negli scorci, che prendono luce dal paesaggio di pietra e di mare, Luigi De Giovanni, inseguendo i suoi pensieri, sinteticamente traccia le forme attorcigliate dei fusti battuti dal vento e diventati sculture di merletti imprevisti. Le ampie vedute di visuali, illuminate da bianchi che si specchiano in mare, volgono a Marina Serra e alla torre che narra di antiche paure. Nella solitudine del paesaggio l’artista si sofferma a lungo in questa zona di parco cogliendo la vibratilità dei colori che giocano con i riverberi del mattino, in rimandi e rincorse di momenti di percezione dove l’urgenza pittorica dà tempo alla meditazione. Dipinti dell’anima che lo portano più in la a ritrovare l’asprezza coinvolgente delle marine di Tricase Porto o dell’Isola che gli ha suggerito più di un’opera in cui sono evidenti le sfumature degli scogli e delle canne che si rispecchiano nel mare che ha scavato architetture naturali che Luigi De Giovanni ha scolpito con pennellate che inseguono contrasti e armonie. Le onde s’innalzano e schiumano in toni di bianco i sassi e le verdi salicornie che vi trovano dimora, donando chiazze di malinconie terrose di vita che, benché sia fuggita, è ancora nei segni e nei toni fissati sulle tele. Nel Tratturo, o strada vecchia, che da Andrano portava al mare, si ritrovano i segni di duro lavoro di chi non si arreso mai alle asperità del paesaggio. È qui che l’artista indugia ricercando se stesso, la sua interiorità, i suoi ricordi di bambino e il paesaggio che lo riporta al suo paese. Ritrova il Genius Loci che gli ha da sempre suggerito colori e nostalgie, che già stavano nel suo animo, e i contrasti cromatici si fanno più intensi sino agli scuri dei turbamenti che s’illuminano nelle chiome argentee dei verdi degli ulivi: continuità della vita e della speranza. Seguendo il percorso della mostra si arriva ad Acqua Viva di Marittima e nella bellissima insenatura naturalistica i colori del mare appaiono smorzati da un primo piano di alberi spogli e dai fusti che si elevano come a voler superare il dislivello del canalone. L’artista qui dipinge più opere e in tutte emergono le tonalità rosate che si tuffano nelle acque tinte di cobalto che sfumano nei toni smeraldo sino a diventare cristallina a riva, in un contrasto che sa di magico nella spuma del mare increspato. Poi si arriva ai profili delle vedute di Castro vestita dai bianchi lirismi che si specchiano nelle ombre delle insenature che si affacciano in un mare di una bellezza unica. Improvvisi picchi arrivano al mare specchio di sfumature di macchia mediterranea e la schiuma delle onde pare far rivivere antiche storie di Santa Cesarea Terme. Seguendo un itinerario, in alcuni tratti, brullo e capace di suggerire infinite suggestioni pittoriche, Luigi De Giovanni, con le sue opere, ci porta a Otranto. Si sofferma nel paesaggio affascinante e unico della cava di bauxite, dove i rossi precipitano in una voragine in fondo  alla quale un laghetto inaspettato, diventato specchio, prende i colori del cielo blu, della vegetazione delle pareti e le acque diventano verde smeraldo con riflessi del rosso cupo della bauxite in un rimando cromatico così insolito da sorprendere e coinvolgere profondamente l’artista che qui ha realizzato quadri che sanno di meraviglioso e unico. Pennellate di luci e colori che segnano i paesaggi fra terra e mare, dove le ombre sembrano descrivere malinconie brusche, per scoprire gli aspetti spirituali di un paesaggio che, nonostante l’apparente durezza, sa donare sensazioni di poesia che va oltre il visibile nell’humus loci dei luoghi.  Le emozioni dell’artista diventano per lo spettatore un vivere spiritualmente tutta la zona del Parco Naturale Regionale “Costa Otranto S.M. di Leuca - Bosco di Tricase”: Alessano, Andrano, Castrignano del Capo, Castro, Corsano, Diso, Gagliano del Capo, Ortelle, Otranto, Santa Cesarea Terme, Tiggiano e Tricase.       Federica Murgia                                                              
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radiopatelamagazine · 8 years ago
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Davide Zardo 
VIGEVANO ROSSO DUCALE  i delitti di Beatrice d'Este   (2016)                    Ed.  Pagine in Movimento
                           I GIORNI E LE OMBRE DEL COMMISSARIO SPADA
                             di Claudio Montini
Edgar Allan Poe e sir Arthur Conan Doyle si sono finalmente stretti la mano grazie ai buoni uffici di Agatha Christie, Renato Olivieri, Giorgio Scerbanenco e gli applausi di Vincenzo Maimone, Enrico Pandiani, Romano de Marco e un distratto (dagli esiti della incarnazione televisiva di Schiavone) Antonio Manzini; tutto questo movimento di astri del firmamento letterario di ispirazione poliziesca ha generato un flusso di ottime e potenti vibrazioni che si sono infuse e trasmesse nell'estro e nell'arte di Davide G. Zardo, agevolando la venuta alla luce di VIGEVANO ROSSO DUCALE – i delitti di Beatrice d'Este (Ed. Pagine in Movimento, 2016) che, dopo Nebbie e altri miracoli (Ed. Giallomania, 2014), antologia di racconti, rappresenta il suo esordio come romanziere a lungo metraggio senza smettere il ruolo di cronista del territorio (è, infatti, giornalista pubblicista dal 2006 e collabora con alcune testate pavesi e lomelline in particolare). Decenni dopo Mastronardi, Vigevano torna ad essere protagonista letteraria dopo esserlo stata delle cronache nazionali per fatti e polemiche poco edificanti, le quali ultime trovano eco anche nelle pagine di Zardo che se ne serve abilmente per dare più sapore di intrigo e di mistero a un giallo di stampo britannico nel senso più ampio e classico del termine, ma anche per dichiarare un'amore disperato e sconfinato per la ex capitale della calzatura (così come Pavia lo è stata per le macchine per cucire) oltre che stigmatizzare i comportamenti della classe dirigente e della società che gli gira intorno, nessuno escluso, con una prudenza degna del miglior ermetismo (CONVERSAZIONE IN SICILIA di Elio Vittorini al proposito, docet) ma pungendo con una ironia tagliente e serrata degna dei migliori passi de L'IMPORTANZA DI CHIAMARSI ERNEST di Oscar Wilde. A carnevale ogni scherzo vale, ma il commissario Spada prenderebbe volentieri a prestito la scala di rotture di coglioni del collega aostano, obtorto collo, Rocco Schiavone, per collocare la morte di un ex assessore alla cultura al massimo livello: un po' perchè spera vanamente che la moglie ritorni sui suoi passi e riprenda la via al suo fianco, un po' perchè l'omicidio maldestramente camuffato da suicidio si intreccia con un furto di una calzatura carica di sette secoli di storia, essendo appartenuta a Beatrice d'Este sposa giovane e sfortunata di Ludovico Sforza detto il Moro, un po' perchè circolano strane voci su una lottizzazione edilizia nei confronti di un'area naturalistica su cui insiste un'opera di ingegneria idraulica firmata da Leonardo da Vinci in persona, in difesa della quale la vittima si era spesa opponendosi strenuamente alle mire dei nuovi inquilini del palazzo comunale. Già, i guerrieri della lotta allo spreco e allo sperpero di pubblico denaro, che non fanno sconti nemmeno ai bambini negando la mensa scolastica a chi non paga puntualmente la retta o, peggio, vanta debiti arretrati senza investigare sulle cause o sulle condizioni o sulle ragioni, col paraocchi ideologico e propagandistico tipico dei gabellieri medievali cui il simbolo di partito si ispira: anche loro verranno smascherati dalla Nemesi, la dea riparatrice delle ingiustizie, riprodotta in un quadro custodito nel Museo Civico da cui è sparita la pianella sforzesca, con modalità che rimandano alla prima parte de IL NOME DELLA ROSA di Umberto Eco e ai finali di Chandler e Hammett, in cui i buoni "modificano" a fin di bene la scena del crimine facendo un favore a sè stessi e alla giustizia. Tutto è bene quel che finisce bene? L'amore trionfa? Ai posteri, pardon, ai lettori l'ardua sentenza: intanto le ombre e i giorni del commissario Spada, nostalgico milanese trapiantato a Vigevano, filosofo con la pistola e la lente d'ingrandimento alla Sherlock Holmes, si allungano e svaniscono ma non risolvono il misterioso cammeo della duchessa che, tra le righe e dietro le quinte della storia, si riappropria della pianella sottratta da un servo devoto il giorno che venne deposta nella Certosa di Pavia; si aggira per le strade della amata Vigevano per constatare quanto i poveri, a lei così cari, siano sempre più marginalizzati da crapuloni borghesi; lascia entrambe le calzature come prova a carico del colpevole, vendicandosi così di tutti coloro che avevano avvelenato la città in cui aveva vissuto un poco di felicità e liberandosi da ogni vincolo con questa valle di lacrime. VIGEVANO ROSSO DUCALE è un romanzo soltanto in apparenza semplice, lineare, scorrevole nella lettura e nella immaginazione (nel senso anglofono del termine, ovvero la creazione di immagini dal testo): in realtà è un complesso meccanismo multistrato, come la cosmologia tolemaica e aristotelica fatta di sfere inserite le une nelle altre e influenti tra loro, un filo d'acciaio teso tra due mondi paralleli su cui Davide G. Zardo cammina con estrema prudenza registrando ogni possibile fluttuazione di energia, rendendola godibile e apprezzabile anche a noi comuni mortali col puntiglio e con la grazia e la sensibilità propria dei poeti. Il centro della costruzione rimane l'uomo: non il commissario, né la vittima, né i collaboratori, neppure il colpevole o i suoi complici; è l'essere umano e ciò che sente e che prova e che vive ad essere coprotagonista insieme alla città, che non è più soltanto teatro o fondale o quinta fissa, ma diventa soggetto da scoprire, da conoscere, da studiare rivelandosi carico e pregno di storia, di storie e di bellezza che merita più di uno sguardo di annoiata sufficienza. Poi viene l'omaggio ai grandi giallisti del passato, adottandone lo schema narrativo: la morte violenta, l'inchiesta, la raccolta dei dettagli e delle informazioni, il ragionamento e la riunione dei presunti colpevoli e dei comprimari in una stanza, un tranello ben allestito e una disamina retorica dei fatti, un bel rasoio di Occam, che inchiodi il colpevole alle sue responsabilità lasciandogli solo la scelta tra l'ammissione di colpa o la disperata fuga. Il caso è risolto, ma non la vita: che rimane il mestiere più complicato e la matassa più intricata da sbrogliare, poiché non risponde sempre alla logica deduttiva e non ha una dinamica lineare e non ha neppure una meta, come i pensieri privati del commissario autentica prova di prosa poetica. VIGEVANO ROSSO DUCALE – i delitti di Beatrice d'Este (Parole in Movimento, 2016) va letto e riletto perchè, ad ogni volgere di pagina, si toglie un velo di bomboniera e si respira aria di poesia giungendo a un cuore di zucchero e mandorle, tanto gustoso quanto sottovalutato e troppo celato.
© 2017 Testo di Claudio Montini                                                                          © 2017 Foto di Orazio Nullo
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