#individualità e amore
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pier-carlo-universe · 1 month ago
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"Se saprai starmi vicino" di Pablo Neruda: Una poesia sull'amore e l'individualità. Recensione di Alessandria today
Un inno alla libertà nell'amore, dove la scoperta reciproca e la condivisione di emozioni sono al centro di una relazione profonda.
Un inno alla libertà nell’amore, dove la scoperta reciproca e la condivisione di emozioni sono al centro di una relazione profonda. “Se saprai starmi vicino” di Pablo Neruda è una poesia che esplora la delicata alchimia dell’amore, un amore che si nutre di libertà e rispetto reciproco. In questi versi, Neruda mette in luce l’importanza di mantenere la propria individualità pur essendo…
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cywo-61 · 4 months ago
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Quando un uomo sa più degli altri diventa solitario
... Ma la solitudine non è necessariamente nemica dell’amicizia, perché nessuno è più sensibile alle relazioni che il solitario, e l’amicizia fiorisce soltanto quando ogni individuo è memore della propria individualità e non si identifica con gli altri.
Carl G. Jung
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Bisogna avere un gran rispetto verso l'essere se stessi dell'altro, in amicizia come in amore. Solo così si creano grandi amicizie e un amore vero e profondo.
cywo
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canesenzafissadimora · 18 days ago
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Una persona matura non si innamora, non cade innamorata, ma sale in amore...
“Una persona matura ha integrità per stare sola, e quando dà amore, lo dà senza essere legata a nessun filo, lo dà semplicemente.
Quando una persona matura dà amore, sta ringraziando che tu lo accetti, non si aspetta che tu lo ringrazi, semplicemente ti ringrazia per aver accettato il suo amore.
E quando due persone mature si amano, succede uno dei fenomeni più belli: sono insieme ma enormemente soli. Non distruggono la loro individualità.
Si aiutano a essere più liberi.
Non sono coinvolti nel dominarsi. Come puoi dominare la persona che ami?
Il dominio è una sorta di odio, rabbia, inimicizia.
La libertà è un valore più alto dell'amore. Se l'amore distrugge la libertà, non ne vale la pena. Senza libertà non sarai mai felice, è impossibile.
La libertà è il desiderio intrinseco di ogni uomo e di ogni donna, per questo uno comincia ad odiare tutto ciò che distrugge la propria libertà.
Il vero amore è amore dell'essere. L'amore dell'essere è uno stato.
Quando arrivi a casa e sai chi sei, allora nasce l'amore nel tuo essere. La fragranza inizia a diffondersi e puoi offrirla agli altri.
Il primo requisito fondamentale per poter dare amore è avere amore, perché non si può dare ciò che non si ha."
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Osho
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nonhovogliadiniente · 11 months ago
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Ho parlato per ore con una psicologa e dopo una lunga chiacchierata ha dato un nome a quello che ho.
Dipendente affettivo ossessivo.
Non riesce a distaccarsi dalla propria relazione, anche se il partner non è emotivamente o sessualmente disponibile, incapace di comunicare, distante, svalutante, abusante, egocentrico, egoista, controllante, a sua volta dipendente da qualcos'altro (alcool, droghe, gioco d'azzardo, etc.)
“La dipendenza affettiva non è in realtà una diagnosi che troviamo nel manuale dei disturbi psicologici e mentali (DSM-V). Si tratta però di un pattern di comportamenti, pensieri, sensazioni ed emozioni molto preciso e spesso ripetitivo, una sindrome psicologica con delle caratteristiche ricorrenti che viene classificata come “dipendenza comportamentale“.
Possiamo definire le dipendenze affettive come un modo patologico di entrare in relazione.
Si tratta di una forma di legame molto intenso che comporta la progressiva riduzione fino alla perdita completa della propria autonomia e della propria libertà.
Si tratta di una forma di “amore” simbiotico in cui si ricerca la fusione con l’altro, con conseguenti danni al benessere emotivo e psicologico della persona.
Si entra quindi in relazione in modo patologico, dannoso e disfunzionale.
Il “dare” e il “ricevere” nel rapporto sono fortemente squilibrati a favore dell’uno e a sfavore dell’altra.
Nella dipendenza affettiva si riscontrano le seguenti caratteristiche:
•forte bisogno della presenza dell’altra persona, dalla quale si dipende in tutto e per tutto: la propria felicità e soddisfazione dipendono esclusivamente dalla presenza dell’altro. Vi è un bisogno compulsivo dell’altra persona;
•investimento totale (di tempo e di pensieri) sulla relazione di coppia e sul partner, a discapito di altre relazioni affettive (amicali e familiari), spesso anche per evitare le critiche). Si trascurano quindi altre attività svolte in maniera individuale o con altre persone che non siano il partner. Talvolta si trascurano anche i propri impegni lavorativi e il rendimento cala, poiché la mente è piena dei pensieri (dolorosi) che riguardano l’altra persona;
•si tende a giustificare il partner con se stessi e agli occhi delle altre persone, anche quando è maltrattante o violento. Ci si isola o si mente per evitare le critiche;
•si perde la capacità critica sul rapporto oppure – più spesso – si negano evidenti aspetti patologici perché, se presi sul serio, la consapevolezza raggiunta dovrebbe comportare la rottura della relazione;
•l’autostima e il valore percepito di sé dipendono esclusivamente dalla valutazione e dall’approvazione del partner;
•proprio perché si teme di perdere il legame, si ricercano continue conferme e rassicurazioni, spesso vivendo dei forti sentimenti di dubbio, insicurezza e gelosia;
•annullamento di sé e perdita di importanza della propria autonomia, individualità e indipendenza: questo comporta che le attività svolte senza il partner perdono di importanza, non sono desiderabili e vengono vissute con un sentimento di tristezza, sono svuotate di senso;
•vi è una mancanza di energia disponibile per portare avanti i propri progetti, spesso a causa dei sentimenti depressivi che accompagnano la dipendenza emotiva;
•difficoltà a prendere posizione o ad esprimere le proprie emozioni di fronte al partner. Si perde di vista quello che si desidera veramente, per accondiscenderlo;
•i propri bisogni vengono percepiti esclusivamente in relazione all’altra persona. I bisogni del partner hanno la priorità, a discapito delle proprie esigenze;
•assenza di parità e di reciprocità nella relazione;
•la relazione è rigida e non evolve né matura; i cambiamenti all’intero del rapporto vengono percepiti come minacce. La relazione può diventare davvero distruttiva;
•si ricerca e si porta avanti la relazione nonostante crei molta sofferenza. Anzi, proprio per trovare sollievo da questa sofferenza, si ricerca il partner sempre di più → si crea sofferenza ancora maggiore → si ricerca il partner ancora di più.. etc. (circolo vizioso).
il circolo vizioso si autoalimenta, allo scopo di non perdere la persona “amata”, poiché si temono fortemente l’abbandono, il rifiuto o la separazione.
I sintomi fisici di cui generalmente soffre il dipendente affettivo sono: stanchezza, problemi posturali, cattiva nutrizione, problemi respiratori, problemi al sistema immunitario e problemi digestivi, ad esempio la gastrite. “
Non riesco a spiegare come sto ma ogni singola parte del mio corpo e della mia mentre sembra spegnersi,crollare,distruggersi. Il mio corpo soffre come se mancasse una parte interiore di me, la mia mente sta facendo crollare ogni pensiero sano e il mio cuore si sta chiudendo.
Ed e’ proprio vero che la salute mentale affetta quella fisica perche il mio corpo sta dando allarmi su ogni fronte. Sono stanca ma dormo poco o nulla , mangio senza avere fame e subito dopo mi sento male con lo stomaco e mi obbligo a cacciare tutto fuori.
Sto chiedendo aiuto con gli occhi, con il cuore, con le azioni e con il silenzio ma nessuno mi legge,nessuno mi ascolta . Sono in questo da sola e non so se voglio affrontare tutto questo dolore che provo, vorrei avere un po’ di pace e di tranquillità assoluta.
Vorrei spegnere tutto e mollare , qui non mi resta niente solo i pezzi di me lasciati lì soli a marcire.
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scenariopubblico · 1 year ago
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Un viaggio spirituale, metodico, chiaro…
È questo ciò che è stato vissuto domenica 11 novembre al Teatro Sangiorgi di Catania, con Africa - orizzonti di rinascita, un progetto coreografico di Claudia Scalia danzato da Rebecca Bendinelli, Ismaele Buonvenga, Rachele Pascale e Nunzio Saporito.
Scalia è direttore artistico insieme a Marco Laudani, di Ocram Dance Movement, compagnia associata a Scenario Pubblico/ Compagnia Zappalà Danza Centro di Rilevante Interesse Nazionale per la danza.
Africa è stato il primo spettacolo “fuori abbonamento” della stagione in corso, portato in scena nella costola del Teatro Massimo Bellini grazie al progetto Be resident-nella città la danza, l'articolato protocollo d'intesa stretto tra Scenario Pubblico e il Teatro Massimo Bellini per promuovere la danza contemporanea nel territorio.
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Da dove ha origine Africa? Ce lo spiega il coreografo:
«Questo lavoro nasce da un viaggio che ho fatto con il desiderio di trovare un luogo ‘incontaminato’ dall’uomo: naturale, puro e vergine. Così, prima di iniziare il processo creativo, mi sono recato in Africa con la speranza di trovare quel tipo di luogo "vuoto", ma allo stesso tempo pieno di tutto ciò che ci può offrire la natura. Purtroppo questo mito si è tramutato in qualcosa di negativo in quanto nel 2019, anno di nascita del lavoro, la ricerca di quest’Eden è stata vana, perché ho visto che anche acque di mari e fiumi e luoghi così naturali e paradisiaci sono contaminati da spazzatura e plastica. Quest’anno, riprendendo il lavoro, dopo quattro anni, la situazione del nostro pianeta è degenerata. Riflettendo mi sono detto, perché non riportarlo in scena con un messaggio di speranza? Da qui l’aggiunta del sottotitolo orizzonti di rinascita. Il nome Africa l’ho scelto perché mi piaceva l’idea di personificare la mia idea e non semplicemente assegnare un titolo».
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La scena si è aperta con una lunga striscia di plastica sita a bordo palco perché, riprendendo le parole di Claudio, la ricerca di un territorio incontaminato si rivela un fallimento nel momento in cui anche i territori paradisiaci celano angoli bui e sporchi...
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Africa è nato ispirandosi al connubio di quattro elementi che danno vita alla materia pragmatica: acqua, aria, fuoco e terra. Come gli uomini, essi sono governati da amore e discordia che si incontrano e si scontrano, dominano a tempi alterni. È così che, attraverso il linguaggio del coreografo, i danzatori hanno instaurato un profondo ascolto con il pubblico e una potente connessione tra i loro corpi, con un’energia scattante. È proprio quell’energia che ha permesso di coinvolgere, inebriare, spettinare ed entrare a pieno in quella visione del pianeta, in cui viene continuamente soffocato e sopraffatto dall’azione degli uomini.
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Claudio Scalia è coreografo di Africa ma, nell'anno di nascita della creazione, è stato anche danzatore. Cosa e come è cambiato oggi il lavoro?
«Se ripenso al 2019 ritrovo un Claudio con una visione della coreografia non matura come quella di adesso…ero coinvolto dall’idea, dalla coreografia e riuscivo a esprimere ciò come danzatore. Successivamente ho fatto un passo indietro, volevo vedere da fuori per capire cosa arrivasse. Ho capito così che, in questo momento della mia vita il mio desiderio era quello di vederlo dalla parte del pubblico. Sicuramente a livello drammaturgico un contributo importante mi è stato dato da Marco Laudani e Sergio Campisi che ringrazio per avermi aperto nuovi orizzonti».
Mani e braccia evocative e comunicative risaltate dal continuo gioco di luci che ha aperto scenari diversi, la pioggia sui corpi, il riflesso di un fascio di luci gialle sui corpi dei danzatori... È in questo momento che sembra essersi creato un equilibrio tra l’uomo e la natura.
Voi artefici del vostro destino, incuranti del domani, Voi ignari della grandezza della natura. Voi uomini, già sconfitti, contro Madre Terra T.S Eliot
Ogni danzatore nascosto da una maschera, appariva sicuro della propria individualità e della forza del gruppo, ma allo stesso tempo sembrava che volesse nascondersi dai sensi di colpa….
Ma una volta caduta la maschera?
E’ proprio il senso di comunità a far dell’uomo l’artefice del destino del pianeta. Tutti abbiamo la stessa colpa di aver reso il mondo come lo vede T.S Eliot, una terra desolata e devastata.
L’offuscarsi delle luci insieme all'inizio di un monologo di Greta Thunbergha in sottofondo ha preceduto l’ingresso di un sacco di plastica riciclata (come i costumi utilizzati) insieme i quattro danzatori. Una volta in scena, hanno tolto le maschere, spostato la plastica e iniziando a rotolarvi sopra e intorno, dando la sensazione di restare intrappolati, metaforicamente e fisicamente, nelle conseguenze delle loro azioni.
Il faro sul fondo palco ha illuminato Ismaele che, avvolto dalla plastica, è diventato come la silhouette di un disegno caotico, tempestoso e incessante. Nell'intento di volersi liberare, è riuscito a sfuggire e a raggiungere, insieme agli altri danzatori lo Shanti, quella pace ineffabile, riferimento anch’essa al testo di Eliot. Alla fine di tutto l’uomo sovrastato dai sensi di colpa, capisce che è la natura a governare il mondo e pertanto capisce di doverne rispettare il ruolo indiscusso.
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È così che al termine della performance è stato riproposto lo stesso quadro iniziale: le ombre dei danzatori, in fila, messe in risalto dalla luce in fondo, simboleggiano l'aperta ricerca dell'orizzonte di rinascita in una situazione di quiete comune.
Abbiamo chiesto a Ismaele, uno dei danzatori, se rispetto al codice di movimento di Claudio, ha inserito proprie sfumature personali. Andiamo a vedere cosa dice al riguardo…
«Nonostante il lavoro a livello coreografico sia molto settato e preciso ci sono anche vari momenti di improvvisazione, soprattutto in relazione allo studio dei quattro elementi. In quanto elemento-terra, ho avuto massima libertà di esprimere sia la forza della terra che ci sostiene, ma anche la friabilità, perché il suolo non è poi così tanto solido come sembra e può sgretolarsi».
Il numeroso pubblico presente in platea e in tribuna ha avuto la possibilità di immergersi in un viaggio senza tempo e di cogliere la chiarezza esponenziale della performance. Gli applausi di gradimento sono stati notevoli a dimostrazione di quanto effettivamente il pubblico sia stato coinvolto dal flusso incessante dell’acqua e da quello travolgente dell'aria, dal fuoco impetuoso e dalla forza e friabilità della terra.
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E tu che leggi, hai recepito il messaggio e contribuirai a creare nel tuo piccolo un orizzonte di rinascita?
A cura di Martina Giglione
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fridagentileschi · 2 years ago
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LUCIO BATTISTI E IL SUO MONDO LIBERO
Lucio Battisti cantava ''in un mondo che non ci vuole piu' il mio canto libero sei tu...'' mi sono sempre interrogata su questa frase e l'epoca in cui e' stata partorita: gli anni 60: belli all'inizio con il futuro davanti e brutti alla fine quando la sinistra prese il potere sulle menti e le persone e fu solo l'inizio di una guerra civile che con il sangue e la violenza mise le mani su ogni cosa...anche sulle canzoni. Battisti era inviso alla sinistra. Egli cantava l'individuo, l'amore...come Pasternak in Russia era censurato con ''il dottor Zivago'' perche' parlava di un sentimento borghese quale l'amore, Battisti lo era altrettanto in Italia tanto che alla fine fu costretto all'esilio...il suo individualismo non poteva in nessun modo essere accettato, men che meno il suo enorme e clamoroso successo popolare.
Già, l’individualismo.
Ogni concezione autoritaristica, totalitaria, non sopporta l’individualità, perché il fine cui si tende e creare una massa conforme, gregaria, abbeverantesi ai diktat dei capi, tanto che ogni espressione libera è avvertita come una pericolosissima minaccia, e la massima minaccia è espressa proprio dalla creativa e libera azione dell’individuo, che sfugge alle costrizioni in cui lo si vorrebbe intrappolare.
Quella individualità che i Vigilanti della Linea vorrebbero distruggere e che Lucio Battisti, con la sua arte, esprimeva in pieno, quella individualità che fece dire al filosofo Kierkegaard: “Quando si sa per esperienza che non c’è nulla di più terribile che esistere in qualità di Individuo, non si deve neppure aver paura di dire che non c’è nulla di più grande”, al contrario dei collettivisti, dei settari che “…si associano a vicenda con un gran baccano, tengono lontana l’angoscia con le loro grida; e questa banda di gente urlante crede assalire il cielo…”
Così i settari dell’odio totalitario comunista, non potendo più eliminare direttamente fisicamente le individualità, le costringono all’esilio ed espungendole dal contesto umano in cui esse liberamente attraggono e sprigionano la loro azione creativa, pensano di poter uccidere ogni libertà.
Ma la libertà non può avere contropartite: o essa è presente, oppure l’uomo si disumanizza e muore.
Lucio Battisti, come altre creative individualità, come Mina, è stato costretto all’esilio, ma la sua arte è rimasta viva, la sua anima libra ancora nel suo canto libero contro tutti i Vigilanti della Linea dell’odio.
''Nasce il sentimento
Nasce in mezzo al pianto
E s'innalza altissimo e va
E vola sulle accuse della gente
A tutti i suoi retaggi indifferente
Sorretto da un anelito d'amore
Di vero amore....''
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magicnightfall · 2 years ago
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ONCE UPON A MIDNIGHT DREARY, WHILE I PONDERED, WEAK AND WEARY
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Mezzanotte. C’è un orario più suggestivo? È un varco, la soglia tra ciò che è stato e ciò che sarà; l’ora in cui termina l’incantesimo della fata madrina di Cenerentola; l’ora dei baci di cui il Quartetto Cetra metteva in guardia; l’ora in cui si attiva l’assicurazione dell’auto e quella dopo la quale è consigliabile non dar da mangiare ai gremlin, ed è l’ora che se c’è qualche evento che ti interessa non sai di preciso in quale giorno scriverlo in agenda. Tutte cose che sarebbero prive della stessa suggestione se accadessero, che ne so, alle ore dieci, ore due, un quarto alle tre, tour jeté, doppia piroetta, contropiroetta, pas de deux, figura della teiera, caricamento finale ed eccola che vola!
La mezzanotte è anche l’ora in cui Edgar Allan Poe meditava stanco e affaticato sopra un raro codice obliato, e si può dire che Taylor Swift abbia fatto più o meno la stessa cosa, ma coi gatti sul letto in luogo del corvo appollaiato sul busto di Atena.
Per sua stessa definizione, Midnights, il suo decimo album, è infatti “una raccolta di musica scritta nel cuore della notte, un viaggio tra terrori e dolci sogni. I pavimenti su cui camminiamo avanti indietro e i demoni che affrontiamo.”
Un “concept album”, insomma, che ha ad oggetto quel che la tiene sveglia la notte, tra dubbi, sensi di colpa, desideri di rivalsa, tragedie, amore e sguardi speranzosi al futuro.
Direi a buon diritto una ponderazione, di chi, insonne, cerca se stesso e spera di trovarsi allo scoccare delle dodici. Speculazioni, perfino, di cosa avrebbe potuto e dovuto essere, in un ricorso alle ipotesi che si trova non solo nel titolo della sesta traccia dell’edizione 3am, Would’ve, Could’ve, Should’ve, ma anche nei ritornelli di Bigger Than The Whole Sky.
L’album raccoglie riflessioni che originano in vari periodi della sua vita, remoti e recenti, e musicalmente e testualmente è pieno di richiami (qualcuno più palese di altri) alle ere passate (su tutti: quel’”I remember”, seppur distorto, di Question…? è lo stesso di Out Of The Woods), come se una sorta di filo invisibile legasse tutte queste canzoni a quelle precedenti. 
In effetti, la prima cosa che ha attirato la mia attenzione è stato il sound, nuovo ma al contempo in buona misura familiare, un sound che per forza di cose ha trovato una sua originalità e individualità con il progredire degli ascolti, ma che di primo acchito mi ha fatto pensare a 1989 e a Lover. 
D’altronde, per quanto Taylor sia solita sperimentare, non si può dire che vi sia mai stata una cesura così netta o cambi di rotta così drastici da disancorarla dalla sua consolidata poetica. La sua carriera potrebbe dirsi un albero che per quanto presenti ramificazioni e innesti e grovigli, comunque per forza poggia su un tronco portante, a sua volta radicato a un concetto di base; se vogliamo un vero e proprio fulcro: l’attingere al proprio vissuto, mettendo in scena il personale con una notevole dose di schiettezza, nell’incessante ricerca della catarsi. E non è, questo, un mero marchio di fabbrica della Taylor cantautrice: è proprio la sua filigrana, sia che si tratti della Taylor “campagnola” del debutto o di quella accademicadellacrusca del duo folklore/evermore.
Sennonché la catarsi, pur nascendo nell’intimità di una singola persona, smette quasi subito di essere purificazione individuale e sublima in universale, diventando patrimonio di chiunque le sue canzoni le ascolti, che abbia o no vissuto esperienze analoghe o almeno assimilabili. A volte — perlomeno è così per me — è semplicemente il suo modo di vedere le cose o di interpretare la vita che mi fa partire per la tangente e mi consente di ragionare sulle mie questioni, che con le sue sono affini tanto quanto un pesce è affine a una bicicletta. Per esempio io, a forza di ascoltare it’s time go e a farmi certi piantoni nel parcheggio, ho raggiunto l’illuminazione come Buddha (ancora non c’era l’inflazione energetica) e ho trovato il coraggio di cancellarmi dall’albo degli avvocati. No, per dire.
In questo caso specifico è stata You’re On Your Own, Kid a mandarmi il cervello in ebollizione, e chissà quale altre drastiche decisioni mi attendono in futuro “solo perché me l’ha detto Taylor Swift”. Madò, manco fossi entrata in Scientology.
Ora, fatte queste dovute premesse, direi che è il caso di tuffarsi senza ulteriori indugi nella mia personalissima esegesi di ‘sto fracco di canzoni (ventuno, mortaccisua, qua c’è gente che ha stipendi da guadagnare e telefilm da guardare), continuando una tradizione che ha compiuto dieci anni proprio questo ottobre, inaugurata col tomone su Red.
Ma vi devo avvertire: non vi piacerà proprio tutto tutto quello che troverete scritto qui di seguito. Perciò accendete le torce e affilate i forconi, e in caso venitemi a cercare che facciamo a botte sulle divergenze dogmatiche che ci separano. Prima, però, dear reader(s), beccatevi
il Tomone 7.0.™ MIDNIGHTS BECOME MY AFTERNOONS
Lavender Haze
[Taylor Swift, Jack Antonoff, Zoë Kravitz, Mark Spears, Jahaan Sweet, Sam Dew]
“Lavender haze” è un’espressione degli anni ’50 del Novecento usata per descrivere l’essere innamorati. E uno dice, vabbè, sticazzi. E infatti non è tanto questo ad avermi colpito, ma che sia andata a pescarla da un telefilm, Mad Man. È un po’ come se io scrivessi una canzone e la chiamassi “Scrocchiazzeppi”, che è una parola che ho sentito in Distretto di Polizia.
Di tutto il cucuzzaro, questa è tra le canzoni che mi piacciono di meno, anche se in effetti farei prima a elencare quelle che mi piacciono. Ecco, si doveva dire e si è detto.
Ignoro addirittura quante volte abbia dovuto ascoltarla per scriverci sopra due righe visto che la trovo così poco memorabile che ogni volta che arrivavo alla fine non mi ricordavo nemmeno di averla fatta iniziare, e dovevo — Iddio me ne scampi e liberi — sorbirmela daccapo (poffare! Volano parole mordaci!).
Di più: è la traccia di apertura, su cui grava la responsabilità di fare strada a tutte quelle che seguono, è quella che indirizza il primo (quantunque acerbo) giudizio sul resto del disco. Ecco, a me quel primo giudizio veicolato da Lavender Haze è stato di noia tendente a "maccheèstammerda" "mmh, bruttino". Sì, per carità, un pregiudizio che ha avuto modo di evolvere e in parte ribaltarsi man mano che ho approfondito gli ascolti, ma di cui Lavender Haze è abbastanza responsabile. È pur vero che se come traccia di apertura ci fosse stata Midnight Rain avrei tirato il disco dalla finestra ancora prima di arrivare alla numero due.
Tematicamente, la canzone riprende concetti che già presenti in reputation: i versi “I’ve been under scrutiny / You handle it beautifully” e “They're bringing up my history / But you weren't even listening” sono speculari a “My baby's fly like a jet stream / High above the whole scene” di Call It What You Want e “And here's to my baby / He ain't reading what they call me lately” di This Is Why We Can’t Have Nice Things, e in essi emerge tutta la gratitudine di avere al proprio fianco una persona che se ne frega del delirio che le ruota intorno, tra media ossessionati, haters squinternati e fan sciroccati.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 4 (shit)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I'm damned if I do give a damn what people say” Maroon
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Dal (color) lavanda si passa al rosso. Rectius: a cinquanta sfumature di rosso (su per giù). Alcune sono menzionate per il tramite di aggettivi: rosé (rosato, qui sostantivato a indicare il vino), burgundy (borgogna), scarlet (scarlatto), maroon (granata); altre invece a mezzo di sostantivi indicanti cose che hanno in comune il colore nelle sue gradazioni: blood (sangue), rust (ruggine), carnations (garofani), roses (rose), rubies (rubini).
Il rosso è un colore caro alla poetica swiftiana, a partire dall’album eponimo, Red, ed è il colore che per eccellenza individua la passione, quello che rappresenta un sentimento acceso, dirompente, eclatante, sia nel bene sia nel male. E infatti in quell’album le sue esperienze e l’amore vengono raccontati con aggettivi perentori (burning, sad, beautiful, tragic, happy, free, confused, lonely, treacherous, reckless). Se mi passate la metafora starwarsiana, la Taylor del 2012 era un Sith che viveva di assoluti.
In questa canzone, invece, quel che colpisce sono le tonalità con cui il sentimento è descritto: si abbandonano i termini categorici e si ammette e riconosce che l’amore vive diversi gradi di intensità: dalla leggerezza del rosato al parossismo dello scarlatto, dal livido del borgogna alla ricchezza del rubino, e tutto il resto del cucuzzaro che passa in mezzo. E può accadere, come qui è accaduto, che quei colori affievoliscano insieme al sentimento stesso: un po’ come il sangue, che dapprima sgorga rosso intenso ma poi si ossida e diventa marrone. Qui non soltanto ci viene esplicitamente detto che la relazione è in qualche modo finita (“And I lost you”; “And I wake with your memory over me”) ma ci viene anche visivamente suggerito con l’eloquente immagine della ruggine sui telefoni (tanto a livello cromatico, un bruno rossastro non certo vivido, quanto a livello squisitamente simbolico, di corrosione e indice di poca “manutenzione”). Anche i garofani scambiati per rose potrebbero essere sintomatici di qualche problema: sebbene entrambi i fiori rappresentino e significhino l’amore in vario modo, di certo confonderli tra loro potrebbe voler alludere a qualche sorta di inganno, o di equivoco, o di illusione. Peraltro, “Garofani rossi per te / ho comprato stasera” suona proprio male.
#AlcoholicCount: 2 (rosé, wine)
#CurseWordsCount: 5 (cheap-ass, shit, fuckin’ x2)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “And I wake with your memory over me / That's a real fuckin' legacy, legacy” Anti-hero
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Nelle narrazioni, l’antieroe è un personaggio archetipico frequentemente confuso con l’antagonista, il cattivo, qualcuno che svolge la sua funzione narrativa in aperta opposizione all’eroe (colui che muove la storia), ostacolandone i tentativi di quello di raggiungere gli obiettivi che si è dato. Normalmente l’antagonista si pone in contrasto con le caratteristiche e le istanze positive che fanno capo a quest’ultimo, in una sorta di dialettica hegeliana. 
Ecco, l’antieroe non è nulla di tutto questo: non è l’opposto dell’eroe ma un suo tipo particolare, in un rapporto di genus e species. Christopher Vogler, nel suo “Il viaggio dell’eroe” (Dino Audino Editore, 2017, pag. 43) suddivide l’archetipo in due categorie: da una parte, “personaggi che si comportano come eroi convenzionali ma hanno una forte impronta cinica”; dall’altra personaggi tragici, “figure centrali di una storia che potrebbero non piacere e non essere ammirate e le cui azioni potrebbero persino essere biasimate”. In particolare, questi ultimi “non sconfiggono i loro demoni interiori e ne sono colpiti e distrutti”.
L’“anti-hero” con cui si identifica Taylor in questa canzone rientra evidentemente nella seconda categoria: l’invecchiare senza contestualmente maturare (“I have this thing where I get older, but just never wiser”), il complottare (“my scheming”), il darsi alla macchia con le persone (“All of the people I've ghosted stand there in the room”), il narcisismo dissimulato e travestito da altruismo (“Did you hear my covert narcissism / I disguise as altruism like some kind of congressman?”), sono tutti comportamenti o difetti che ben si attagliano all’archetipo di cui si sta cantando. Peraltro, se Vogler ritiene che questo archetipo sia spesso incapace di vincere i propri demoni, ecco che in qualche modo Taylor conferma la teoria quando mette in bocca ai propri immaginari parenti la frase “She's laughing up at us from hell!”. E sì, per quanto le lamentele dei familiari delusi dal de cuius durante la lettura del testamento lascino il tempo che trovano, la possibilità — anche solo remota — che sia finita all’inferno non depone certo a favore di qualcuno che abbia superato i propri difetti.
L’antieroe è, anche per questo, una figura con la quale si tende a empatizzare. Ritengo che il picco dell’empatia qui avvenga nella seconda strofa: con pochi versi suggestivi e visivamente evocativi — un “mostro” impossibile da uccidere e troppo grande (direi nel senso di “impegnativo”) da frequentare, che dalla collina barcolla in direzione della città pronto a distruggere tutto sul suo cammino — ci viene spiegato cosa si prova a perdere il controllo della propria immagine e di come l’idea che gli altri (i media soprattutto) hanno di lei prende il sopravvento e travolge (o rischi di travolgere) tutto quanto: la sua vita, la sua relazione, le sue amicizie, la sua stessa personalità.
Questa canzone per me vince il jackpot. È la mia preferita a mani basse, bassissime. Così basse che posso quasi dare il cinque a Taylor all’inferno.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 1
#FavLyrics: “I have this thing where I get older, but just never wiser / Midnights become my afternoons” Snow On The Beach feat. Lana Del Rey
[Taylor Swift, Jack Antonoff, Lana Del Rey]
Servizio catering Del Rey & co., disponibili per compleanni, cerimonie civili e religiose e cene aziendali. No, perché è un po’ così che mi immagino il contributo di Lana Del Rey a questa canzone: l’aver portato i cappuccini in studio di registrazione. Ochèi, ochèi, in realtà la si nota (con delle belle cuffie) nell’armonizzazione delle due voci, impalpabile e fuggevole… come neve sulla spiaggia.
La canzone racconta di un innamoramento simultaneo di due persone, un’esperienza ritenuta bizzarra ma bellissima come quando nevica al mare (evento atmosferico voluto dalla lobby dei ristoratori marittimi che così possono appendere la foto sulla parete vicino a quella col vip della tv che era entrato per usare il bagno una volta), descritto con l’uso sapiente di uno stesso verbo — to fall — che ha due significati: cadere (la neve, appunto) ma anche innamorarsi.
Ora, devo ammettere che su questa canzone non riesco a decidermi: non la trovo necessariamente brutta, al più noiosa, ma in ogni caso — sia che piaccia sia che non piaccia — penso che saremo tutti concordi nell’ammettere che abbia il peggior bridge di sempre, ancora peggiore di quello di Cuernavaca, Messico, che è crollato il giorno dell’inaugurazione facendo precipitare nel fiume sindaco e giornalisti. ¡Ay, caramba! 
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 3 (fuckin’)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Life is emotionally abusive” You're On Your Own, Kid
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Anti-hero è la mia preferita ma vince su questa davvero di pochissime lunghezze; perfino con la moviola sarebbe difficile stabilirne il primato.
You're On Your Own, Kid è un ottimo esempio per spiegare quello che intendevo nell’introduzione, quando dicevo che non importa quanto le mie esperienze di vita c’entrino un cactus con le sue, perché bene o male c’è sempre, in uno dei suoi versi, qualcosa che mi illumina sulla via di Damasco. Per esempio, che c’entro io con lo struggermi romanticamente per qualcuno che non mi nota (“I wait patiently / he's gonna notice me / It's okay, we're the best of friends), o a cui non frega proprio nulla (“Just to learn that you never cared”), o coi disturbi del comportamento alimentare (“I search the party of better bodies”; “I hosted parties and starved my body”)? Zero, zip, zilch, nada, niente. Eppure questa canzone mi fa partire per la tangente, perché quell’“you’re on your own, kid” mi apre un intero universo di consapevolezza che va ben oltre la narrazione della sua vita che fa nella canzone.
Anche nel suo discorso per la sua laurea honoris causa all’New York University (io me sò laureata a quella de Macerata, altro che Grande Mela, e ho pure dovuto studiarci sopra, vedete che siamo proprio agli antipodi?) aveva utilizzato questa stessa espressione. Lì prendeva le mosse da un discorso di venti minuti (tra i più belli che abbia mai ascoltato) rivolto a chi aveva appena raggiunto quel traguardo davanti al quale si spalanca quella vita adulta di cui finalmente si può prendere le redini (per quanto spaventoso possa essere): “The scary news is, you’re own your own, now. But the cool news is, you’re own your own, now!”.
Qui la medesima saggezza origina da un luogo diverso, e sebbene parta da altre premesse, altre esperienze, altri presupposti, in ogni caso è carica della medesima accezione positiva che echeggia nel discorso di laurea. Il brano, che attraversa emozioni come la speranza (nelle prime due strofe) e la disillusione (in tutto il resto eccettuato il finale), da ultimo lascia cadere il velo di Maya di schopenhaueriana memoria e arriva a una realizzazione potentissima (“And I saw something they can't take away”) che ribalta il significato — di sconforto dato dal sentirsi soli e abbandonati, di non avere altro che se stessi nel senso più negativo possibile — di tutti quegli “you’re own your own, kid” cantati fino a quel momento: è un invito a essere demiurghi del proprio destino, una volta capito che in qualcosa di perso può celarsi qualcosa di guadagnato, o che in un capitolo che si chiude si nasconde la possibilità di un rinnovamento positivo (“'Cause there were pages turned with the bridges burned / Everything you lose is a step you take”). E, quel che è più importante, non c’è motivo di avere paura perché… sei per conto tuo. 
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “From sprinkler splashes to fireplace ashes / I called a taxi to take me there / I search the party of better bodies / Just to learn that my dreams aren't rare” Midnight Rain
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Midnight Rain ha lo stesso problema di Lavender Haze: non ha nulla che me la renda memorabile. A differenza dell’altra, però, che almeno è orecchiabile, questa per me è lacunosa anche in quel dipartimento. Manca senza dubbio di un climax (e il paragone con You're On Your Own, Kid, che la precede, è inevitabile) e sebbene parecchie altre canzoni in questo album non siano necessariamente dirompenti nei bridge e nelle variazioni, questa qui è monotona e incolore nella sua interezza. E non è nemmeno anticlimatica, perché l’anticlimax implicherebbe una digradazione da un punto alto a uno più basso, cosa possibile solo se c’è effettivamente un punto alto da cui scendere: qui è elettroencefalogramma piatto dall’inizio alla fine. Onestamente non credo che mi capiterà di ascoltarla anche solo un’altra volta in un futuro prossimo, in uno remoto e in tutti i futuri che stanno in mezzo.
(Taccio sulla voce distorta perché a questo punto sarebbe come sparare sulla Croce Rossa).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 1 (il mio, e questa canzone è l’arma del delitto)
#FavLyrics: “My town was a wasteland / Full of cages, full of fences / Pageant queens and big pretenders” Question...?
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Questa canzone parla di due persone precedentemente coinvolte in una relazione amorosa che hanno preso strade diverse; ma una delle due (e ti pare che non era la gattara) è ferma a rimuginare e chiede all’altro se con la sua nuova fiamma abbia già vissuto quanto vissuto con lei.
Oltre all’“I remember” di Out Of The Woods, c’è un verso (“Painted all my nights / A color I have searched for since”) che richiama quanto già espresso in uno di illicit affairs (“You showed me colors you know I can't see with anyone else”).
#AlcoholicCount: inquantificabile (one drink after another)
#CurseWordsCount: 3 (fuckin’ x2, dickhead)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Painted all my nights / A color I have searched for since” Vigilante Shit
[Taylor Swift]
Una canzone dalle vibes fortemente noir, tanto nel testo e nel modo in cui è cantato (lento, deliberato), quanto nella melodia. E visto che me l’hanno inopinatamente cancellata, fingerò che valga come terza stagione di Why Women Kill.
Il brano ricorda per forza di cose no body, no crime, dove Taylor si era incaricata di farsi giustizia da sé — e infatti qui dice che è “on my vigilante shit again”. Tuttavia, se là era giudice, giuria e, soprattutto, boia, qui si limita alla delazione: tanto all’FBI, a cui vengono spifferati crimini da colletto bianco dell’uomo di cui intende vendicarsi, quanto alla moglie di quest’ultimo, la quale, al termine di un bel divorzio, alla fine si becca casa, figli e Mercedes.
In effetti, sembra anche — e forse lo è davvero — il prosieguo e la conclusione di mad woman: lì infatti si dichiara che, nonostante la società disapprovi le donne arrabbiate, non si dimenticheranno i torti subiti e prima o poi si reagirà (“Does a scorpion sting when fighting back? / They strike to kill and you know I will”; “My cannons all firing at your yacht / They say «move on» / But you know I won’t”; “And you'll poke that bear 'til her claws come out”). E in Vigilante Shit, spiffera di qua e spiffera di là, si è senz’altro agito. Di più, in entrambe le canzoni si menziona una moglie tradita (probabilmente sempre la stessa, e vien da pensare a quella di Scooter Braun, peraltro con un giudizio pendente a suo carico per qualche imbroglio su dei fondi di investimento). Insomma, due più due fa quattro e i conti tornano perfino a me che al liceo sono uscita con tre in matematica. 
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 4 (shit)
#MurderCount: nessuno, ma dice che potrebbe provare, e pertanto risponderebbe di delitto tentato qualora compisse atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, se l’azione non si compie e o l’evento non si verifica.
#FavLyrics: “And I don't dress for villains / Or for innocents / I’m on my vigilante shit again” Bejeweled
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
«Cosa? Che cosa? È un’ora che ti aspetto! Non è possibile, tu non sei al lavoro! Ma come non vieni? Ah sì? E io sai cosa ti dico? Adesso esco e vado col primo che incontro!» «Buonaseeera!»
L’avreste mai detto che lo spot del 2001 della Fiat Punto avrebbe anticipato una canzone di Taylor Swift? Qui siamo ben oltre le previsioni fatte dai Simpson; persino Nostradamus e Beda il Venerabile impallidiscono in confronto.
Perché proprio come la ragazza della pubblicità, anche Taylor lamenta un evidente mancanza di interesse da parte del suo “baby boy”: di più, si rende proprio conto di non essere una priorità per l’altra persona (“Putting someone first only works when you're in their top five”; “Don't put me in the basement / When I want the penthouse of your heart”), mentre per lei è l’esatto contrario (“Did all the extra credit then got graded on a curve”; “I made you my world / Have you heard?”). 
Soprattutto, capisce anche che è ingiusto lasciarsi offuscare quando in realtà si dovrebbe brillare (“And I miss you / But I miss sparkling”), perché brillante è proprio ciò che si è (“What's a girl gonna do? / A diamond's gotta shine”; “Best believe I'm still bejeweled / When I walk in the room / I can still make the whole place shimmer”). Una dichiarazione ontologica, quella, già presente in All Too Well (10 Minute Version) (Taylor's Version) (From The Vault) (“The idea you had of me, who was she? / A never-needy, ever-lovely jewel whose shine reflects on you”) e in mirrorball (“Drunk as they watch my shattered edges glisten”).
E allora sai cosa? E allora sticazzi, “I’m going out tonight” e, a seconda di come mi gira, deciderò se ricordarmi o no di te (“And when I meet the band / They ask, ‘Do you have a man?’ / I could still say, ‘I don't remember’” — e da uno smaliziato ma piuttosto innocente “non mi ricordo” al ben più drastico e già rodato “ho scordato che tu sia mai esistito” il passo è breve).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Sapphire tears on my face / Sadness became my whole sky” Labyrinth
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Taylor, gattara pazza de mi corazón, perché, perché ancora con ‘sta voce distorta che me pare quando te se scaricavano le batterie del walkman?
Ora, se sia per caso o per complotto non lo saprei dire, ma tutto quello che ho detto per Midnight Rain vale anche per questa canzone, e anche qui ogni volta che arrivo alla fine mi viene da pensare “Bene, e quindi? Finisce così? Addirittura quattro minuti per non dire assolutamente niente?”. 
Questa, però, nonostante tutto mi piaciucchia, di sicuro più di Midnight Rain, ma ogni volta che penso “Ochèi, forse l’ho giudicata male, in effetti è bellina” arriva quella orribile distorsione che pare che a parlare sia un pentito di mafia a cui hanno camuffato la voce per non farlo riconoscere dai sicari del boss ed ecco che se ne va il beneficio del dubbio.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I thought the plane was going down / How'd you turn it right around?” Karma
[Taylor Swift, Jack Antonoff, Mark Spears, Jahaan Sweet, Keanu Torres]
Stavo lì a sforzarmi di ricordare se abbia mai visto il karma in azione in prima persona e mi sono ricordata di quando una macchina sulla strada per Macerata (che è tremenda, tutta curve e saliscendi e trattori che vanno a due ed è un attimo che finisci dentro a un campo) correva e sorpassava come chi ha appena mangiato il pesce crudo a Gubbio e cerca disperatamente di raggiungere il cesso più vicino, salvo poi venir fermata dai Carabinieri che stavano appostati in fondo alla discesa. Non so se conti come allineamento karmico, però è stato un momento piuttosto soddisfacente.
A naso, credo che TS non abbia scritto questa canzone in riferimento ai sorpassi selvaggi, ma d’altronde, come dicevo, io e lei abbiamo esperienze di vita ben poco paragonabili. Il concetto di base che tratta la canzone — vedere con soddisfazione che chi ha seminato vento finalmente raccoglie tempesta — però, arriva forte e chiaro. 
L’idea del karma non è estranea a Taylor, che già lo menzionava espressamente in Look What You Made Do: “The world moves on, another day, another drama, drama / But not for me, not for me, all I think about is karma”. In questo brano, però, non lo si cita soltanto di sfuggita ma lo si sviscera, in quello che è e in quello che rappresenta. Intanto, lo si descrive attraverso una lunga serie di metafore: un fidanzato, un dio, una brezza, un pensiero rilassante (immagino che infonda una certa tranquillità la convinzione che prima o poi chi ci ha fatto un torto verrà ripagato con la sua stessa moneta), un tuono, una regina e finanche un gatto che le fa le fusa in grembo; e ancora con un paio di similitudini: un acrobata e un cacciatore di taglie.
Volendo, anche Vigilante Shit si può interpretare in senso karmico (perché il cattivo ha avuto quel che si meritava), tuttavia lì c’è un invito a essere concreta parte attiva nel ripristino dell’equilibrio universale (“Don’t get sad, get even”), che mal si concilia con l’idea stessa di karma, basata sull’attesa passiva — ci viene solo richiesto di comportarci rettamente — dell’agire di qualche forza arcana.
Comunque, dal modo in cui si parla del karma in questa canzone, è evidente che lo si ritiene un’entità dai feeenomenali poteri cosmici (tanto che tra i sostantivi che lo descrivono troviamo “dio”, “regina” e “tuono”), implacabile persino (“Karma's on your scent like a bounty hunter / Karma's gonna track you down / Step by step from town to town”), e appunto sarebbe bene evitare di trovarsi sul suo cammino e prenderlo dritto in faccia come un 38 barrato qualsiasi. Ecco perché Taylor dice di tenere pulito il suo lato della strada (“And I keep my side of the street clean”): cioè si comporta in modo che il karma non abbia nulla da rimproverarle. Che è la versione un po’ più igienica del cospargere di sangue d’agnello lo stipite della porta così che l’angelo sterminatore passi oltre e vada a uccidere i primogeniti di qualcun altro. Perché se ci pensate, se pure regolarmente le piove un bel po’ di merda addosso (penso, tra le altre cose, alla famigerata telefonata tagliata e cucita da Kim Kardashian, o a tutta la questione dei diritti dei master), alla fine, poffare!, si scopre sempre che erano gli altri nel torto, non lei. Perché loro, a differenza sua, non sanno cosa voglia dire tenere le strade pulite (“You wouldn't know what I mean”). Mi domando: c’è mica qualche Comune disposto a farla assessora con delega alla nettezza urbana?
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Ask me what I learned from all those years / Ask me what I earned from all those tears / Ask me why so many fade but I'm still here” Sweet Nothing
[Taylor Swift, William Bowery]
Contro il logorio della vita moderna o ti fai un Cinar o ti metti al tuo fianco una persona che da te non pretende altro che uno “sweet nothing”, qualcuno che mentre gli altri fuori sgomitano e spingono se ne sta in cucina a canticchiare.
Quello che più colpisce di questo brano è il bridge, costruito tutto sull’allitterazione delle lettere d, s, r, t (“Industry disruptors and soul deconstructors / And smooth-talking hucksters out glad-handing each other”) suoni di per sé piuttosto duri ma che con la voce delicata di Taylor fanno un bel contrasto, e sembrano quasi una dolce filastrocca. 
Il bridge prosegue poi con “And the voices that implore / «You should be doing more»” , e potrebbe riferirsi alla vita di Taylor posta sotto il costante scrutinio degli altri in quanto personaggio pubblico, della serie che se dovesse fare una donazione a un rifugio per pinguini vittime di incidenti stradali ci sarà sempre qualcuno che si chiederà perché mai non abbia fatto una donazione anche al centro di recupero per dromedari afflitti da ludopatia.
In generale, per chi non è un personaggio pubblico, in ogni caso è facile interpretare quei versi, come anche il ritornello, nell’ottica di un mondo in cui tutti sono in competizione e cercano di prevaricare, in cui lo “sweet nothing” viene demonizzato, con conseguente senso di colpa se non sei produttivo quanto gli altri (“«You should be doing more»”).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Industry disrupters and soul deconstructors / And smooth-talking hucksters / Out glad-handing each other / And the voices that implore / «You should be doing more»" Mastermind
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
“Precisamente tra diciotto anni i pianeti si allineeranno senza affanni…” “Ahi, in versi, ahi.” “Di tempo per agire ne avrai a iosa; sguinzaglia i titani, la tua banda mostruosa.”
Una volta anche a me è successo di trovarmi nella stessa stanza con una persona che dici “wow” per via di un raro allineamento planetario, solo che non era una stanza ma un autobus urbano a Milano, e non era per un raro allineamento planetario ma per un ordinario ritardo mostruoso del Frecciarossa su cui avevo viaggiato. Uh, e la persona che dici “wow” era Emanuela Pacotto, e racconterò questa storia fin sul letto di morte, mio ma anche di chiunque altro (con mia madre, sull’autobus con me che “Ma chi conosci a Milano? Era una tua amica di scuola forense?”).
Questa canzone riprende la confessione che Taylor ha già fatto in Anti-hero di essere una persona che pianifica ogni mossa, ogni dettaglio, che nulla di quello che accade e la riguarda è accidentale ma frutto di qualche suo machiavellico complotto. Un po’ la Flintheart Glomgold de noantri, ma senza l’accento scozzese.
Mastermind è la traccia di chiusura dell’album e, come quella di apertura, è sciapa allo stesso modo. È simpatica, ochèi, e parecchio orecchiabile, ma di sicuro nulla di più di questo.
#AlcoholicCount: 2 (liquor, cocktails)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “No one wanted to play with me as a little kid / So I've been scheming like a criminal ever since” Hits Different [Target deluxe edition]
[Taylor Swift, Aaron Dessner, Jack Antonoff]
Come Ponzio Pilato, anche Taylor “se ne lava le mani”, salvo poi trascorrere i successivi tre minuti e cinquanta secondi a rimuginarci sopra. “Moving on was always easy / for me to do”, dice. Seee, lallero. Tuttavia questa è una delle canzoni più riuscite di tutto il cucuzzaro mezzanottiano — accattivante, con un bridge travolgente, orecchiabile all’ennesima potenza — quindi chi si lamenta; al più mi lamento che non l’abbiano inserita nell’edizione standard. È frequente che le sue canzoni deluxe siano dei gran pezzoni, basti pensare a Ours, Wonderland, the lakes, right where you left me, it’s time to go; tuttavia gli album di cui quelle sono il complemento (Speak Now, 1989, folklore ed evermore) sono già perfetti così come sono, mentre Midnights avrebbe tratto giovamento da scelte più oculate in termini di tracce: dentro questa e via Snow On The Beach, per esempio, o via Midnight Rain (in realtà Midnight Rain via proprio in generale da ogni piano dell’esistenza). 
#AlcoholicCount:  0
#CurseWordsCount: 5 (shit x3; asshole)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Oh my, love is a lie / Shit my friends say to get me by / It hits different / It hits different this time” The Great War [3am edition]
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
And today we're all brothers Tonight we're all friends A moment of peace in a war that never ends Today we're all brothers We drink and unite Now Christmas has arrived and the snow turns the ground white - Sabaton, “Christmas Truce”
Io sono fissata con la storia, la amo quanto amo i gatti, persino i romanzi che leggo devono essere ambientati almeno dagli anni ’50 del Novecento in giù, altrimenti non mi diverto. E non succederà mai, e dico mai, ne sono consapevole, ma se per caso dovesse accadere che Taylor scriva una canzone che parli effettivamente di un evento storico, uno qualsiasi, cadrei morta stecchita all’istante. Mmmh, Didn’t They? conta? Vabbè. Per ora, comunque, mi dovrò fare una ragione che questa canzone rimandi solo col titolo (o forse no? *wink wink nudge nudge*) alla prima guerra mondiale e non ne racconti in effetti gli accadimenti, come a suo tempo me la sono fatta per la “corsa all’oro” in evermore che era tutt’altra cosa rispetto quella del Klondike di Zio Paperone e di Jack London; ma d’altronde ho due interi album dei Sabaton che soddisfano il mio bisogno di avere musicata la Grande Guerra (Alexa, play “Versailles”).
Ora, questa traccia di apertura dell’edizione 3am fa impallidire Lavender Haze, e non posso fare a meno di pensare a quanto avrebbe potuto cambiare l’intera percezione iniziale che ho avuto di Midnigths se questo brano fosse stato presente all’inizio dell’edizione standard, e invece ecco qua come stiamo, con il mio post più critico di un suo album da dieci anni a questa parte.
Ed è curioso che sia proprio Lavender Haze a tornare in causa, e non tanto perché con The Great War condivide l’essere una traccia di apertura (solo che una è bella e un’altra no), ma perché tematicamente sono in netto contrasto: la prima racconta di quella fase della relazione amorosa in cui tutto è meraviglioso, nella seconda invece la relazione si è trasformata in una guerra e Taylor attinge da un vocabolario specifico, utilizzando termini tipicamente associati ai conflitti e alla morte: la tomba (“Spineless in my tomb of silence”) e anche la cripta (“Screaming from the crypt”), la caduta dei vessilli del nemico (“Tore your banners down”) lo spargimento di sangue (“All that bloodshed”), le bombe (“the bombs were closer”), i soldati caduti (“Soldier down on that icy ground”), le truppe (“So I called off the troops”). 
Sebbene siano numerose nelle sue canzoni le occorrenze per “war”, guerra (la si trova in Innocent, Safe & Sound, Clean, You Are In Love, ivy e long story short), ad oggi in un solo altro caso Taylor aveva fatto uso metaforico dell’immaginario bellico: nelle prime due strofe e nei ritornelli di epiphany. The Great War, invece, è metafora dall’inizio alla fine, proprio come è Miss Americana & The Heartbreak Prince, e per questo è efficacissima nel pennellare un quadro terribile, ben lontano da quella sensazione di pacata contentezza di Lavender Haze.
Ma come tutte le guerre reali, anche quelle metaforiche a un certo punto terminano. La prima guerra mondiale con l’armistizio di Compiègne, quella swiftiana con la realizzazione che il proseguire delle ostilità avrebbe condotto alla perdita definitiva dell’altra persona (“So I called off the troops / That was the night I nearly lost you / I really thought I'd lost you”).
Giunge quindi il momento, come d’altronde è successo anche nella realtà, in cui si giura che non si permetterà mai più che qualcosa di simile accada ancora (“It was war, it wasn't fair / And we will never go back to that”). Se non fosse che la storia è, o dovrebbe essere, magistra vitae: sappiamo bene come “la guerra che porrà fine a tutte le guerre” in questo abbia miseramente fallito e, anzi, le condizioni della resa tedesca e la depressione che ne conseguì portarono infine al collasso della Repubblica di Weimar e all’ascesa del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, con a capo Adolf Hitler, e non serve ricordare cosa sia accaduto dopo. Insomma, visti i precedenti, io comunque andrei cauta nel dire che non si arriverà mai più a una guerra (quand’anche metaforica) simile. Certo, se servisse ad avere un’altra canzone così allora daje Taylor, spara a tutti gli arciduchi che vuoi.
Dicevo che il riferimento alla Grande Guerra potrebbe trovarsi non solo nel titolo. Nell’ultima strofa, infatti, si menziona il papavero (“Place a poppy in my hair”): ora, non so se sia una buffa coincidenza o sia stato inserito consapevolmente (e in questo caso chapeau, anche perché mmmh, di tutti i fiori proprio a quello mi va a pensare?), ma il papavero riveste un ruolo importante nell’iconografia del primo conflitto mondiale. Compare per la prima volta in senso simbolico nella poesia “In Flanders Field”, scritta nel 1915 dal tenente colonnello canadese John McCrae in ricordo di un commilitone caduto nella seconda battaglia di Ypres, in Belgio: “In Flanders fields, the poppies blow”; “We shall not sleep, though poppies grow”. La poesia acquisì ben presto una tale popolarità da ispirare il “remembrance poppy”, un papavero artificiale da appuntare agli abiti che, al termine della prima guerra mondiale, servì a onorare i caduti inglesi e americani, e tutt’ora lo si usa come simbolo commemorativo nelle nazioni del Commonwealth nelle cerimonie del “Giorno della memoria”, che cade l’11 novembre. Vedi a forza di ascoltare i Sabaton la roba che si impara? Alexa, play “In Flanders Field”.
#AlcoholicCount:  0
#CurseWordsCount:  0
#MurderCount: in questa canzone nessuno, ma la prima guerra mondiale ha causato almeno sedici milioni di morti.
#FavLyrics: “All that bloodshed, crimson clover / Uh-huh, the bombs were closer / My hand was the one you reached for / All throughout the Great War” Bigger Than The Whole Sky [3am edition]
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
La peculiarità di questa canzone è quella di essere plasmabile, di adattarsi alla singola, unica, specifica esperienza di chi la ascolta. È una tela bianca, di cui Taylor, che ci ha messo in mano i pennelli, ha solo definito il fulcro: il dolore, la perdita. A cosa si riferisca questo dolore, in cosa consista questa perdita, tuttavia, sta a noi stabilirlo in base al nostro vissuto, lei non ce lo dice. Per questo c’è chi ci ha visto la narrazione di un aborto spontaneo, chi la fine di una relazione (ma per me sarebbe una banalizzazione eccessiva), chi addirittura la perdita della propria identità.
Quale che sia il caso specifico di cui Taylor ha scritto — magari non necessariamente in riferimento a una sua esperienza ma, come nel caso di happiness, a quella di qualcuno a lei vicino — la canzone origina da un retroterra luttuoso secondo me piuttosto evidente. È un racconto tragico, e lo si intuisce già dal primo verso, con la parola “aftermath” — che per definizione riguarda l’indomani di un disastro o di una calamità — posta alla fine della frase a garanzia di maggior enfasi. È accaduto qualcosa di così devastante da averla lasciata senza parole (“No words appear before me in the aftermath”); lei, che, be’, con le parole ci campa. E la tragedia è così totalizzante che la tristezza va a informare ogni singola cosa che Taylor tocca (“Every single thing I touch becomes sick with sadness”).
La seconda strofa, invece, accosta due diverse — e contrastanti — idee di “consequenzialità”: il battito d’ali di una farfalla in Asia (che secondo la teoria del caos porterebbe un tornado in un’altra parte del mondo) e il non aver pregato. In entrambi i casi c’è un rapporto di causa ed effetto, ma se la prima circostanza menzionata esula dal controllo, e per questo ha un respiro “assolutorio” perché nessuno avrebbe potuto farci nulla, la seconda invece si tramuta in devastante senso di colpa. Certo, pregare Dio conduce allo stesso risultato di assoluta inconcludenza che pregare Superman, Topo Gigio, tutte le evoluzioni di Eevee o non pregare affatto, quindi è irragionevole farsi logorare dal rimorso di essere stati manchevoli. Eppure qualcuno potrebbe dire “Ho fatto anche quello. Non è servito a un cazzo [ma va!], ma almeno posso dire di averle provate tutte e non posso rimproverarmi di niente”. Per esempio, in Soon You’ll Get Better dice “Desperate people find faith, so now I pray to Jesus too” perché oh, vedi mai, alla fine cosa mi costa? Qui, invece, ci si rimprovera eccome, forse perché incolparci di una nostra supposta mancanza, qualcosa che se ci fosse stata avrebbe fatto la differenza, allontana da noi l’idea spaventosa che la vita sfugge a ogni nostro tentativo di domarla o di indirizzarla, e che la tragedia che ci ha colpiti sia solo il frutto di un mero tiro di dadi del destino.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Every single thing I touch becomes sick with sadness / ‘Cause it's all over now, all out to sea” Paris [3am edition]
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Avete presente quando in Blank Space mezzo internet aveva capito che un verso facesse “All the lonely Starbucks lovers” anziché “Got a long list of ex-lovers”? Ecco, io qua irrimediabilmente sento “We were in some wharehouse” anziché “We were somewhere else” e mi sfuggiva la ragione per cui avrebbe dovuto trovarsi in un magazzino. Insomma, avrei capito se la canzone si fosse intitolata, che ne so, “Brembate di Sopra”, ma siccome si intitola “Paris” i conti proprio non mi tornavano.
Un’altra cosa che non mi torna, ma stavolta sul serio, è il vino economico, di cui anche in Maroon: perché, con tutti i soldi che ha, questa me beve il Tavernello?
#AlcoholicCount: 5 (wine x2, champagne x3)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Sit quiet by my side in the shade / And not the kind that's thrown / I mean, the kind under where a tree has grown” High Infidelity [3am edition]
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Fedeltà: qualcosa che puoi ricercare in un cane, in un Carabiniere, eventualmente in un cane Carabiniere ma anche in un Carabiniere cane (il primo in senso cinofilo, l’altro in senso cialtrone), in un marine, in un impianto stereo e nella tessera punti del supermercato, ma non in una canzone di Taylor Swift. Infatti la fedeltà, o, meglio, la sua carenza, è un tema che è già stato sviluppato — vuoi in modo approfondito, vuoi soltanto en passant — in parecchi suoi brani: dalla ormai remotissima Should’ve Said No fino ad arrivare al blocco indie di august; betty; illicit affairs; mad woman; no body, no crime; ivy, passando per Better Than Revenge e Girl At Home.
High Infidelity, come già illicit affairs, è esplicita del tema fin dal titolo, ma se in illicit affairs è evidente il senso di colpa che permea l’intera canzone per un comportamento che si sa sbagliato, qui il tradimento invece è vissuto come qualcosa di inevitabile in una relazione ormai danneggiata (“Lock broken / Slur spoken / Wound open”; “Your picket fence is sharp as knives”), salvifico addirittura (“Do I really have to tell you how he brought me back to life?”).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: nei fatti nessuno, però potrebbe essere un campanello d’allarme il fatto che rifletta sui modi in cui si può uccidere una persona amata, quindi la gattara potrebbe essere destinataria di una misura di sicurezza praeter delictum.
#FavLyrics: “You know there's many different ways that you can kill the one you love / The slowest way is never loving them enough” Glitch [3am edition]
[Taylor Swift, Jack Antonoff, Sam Dew, Mark Anthony Spears]
Questa canzone sconfessa quanto detto in Mastermind: se là l’amore sbocciato era frutto di una macchinazione, qui invece è il risultato di un errore imprevedibile del sistema TS, di un comportamento anomalo del programma (“We were supposed to be just friends”; “I was supposed to sweat you out”; “I think there's been a glitch”). In questo senso, quindi, è simile a Paper Rings quando dice “I hate accidents except when we went from friends to this”.
Comunque, te guarda la vita quanto è balorda: io quest’estate, per un glitch del sistema, nella domanda di partecipazione a un concorso pubblico mi sono vista sparire il campo compilato relativo al possesso della laurea, titolo che dava due punti secchi, il che ha portato, cinque giorni prima dell’orale, all’invio di una pec impanicata a mezzanotte (almeno io e TS triboliamo agli stessi orari) in cui dimostravo in tutti i modi la sussistenza del requisito (“Ce l’ho la laurea, ce l’ho, me ne sono pentita ma ce l’hoooo”); quest’altra, invece, per un glitch del sistema, trova l’amore. Come disse Scarlet Witch, it doesn’t seem fair.
(comunque poi i punti me li hanno riconosciuti) (e da quella graduatoria poi sono stata pure assunta)
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “In search of glorious happenings of happenstance on someone else's playground” Would’ve, Could’ve, Should’ve [3am edition]
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Il proverbiale senno di poi di cui sono piene le fosse, che ai comuni mortali consente una ponderazione sulle scelte passate, e a Taylor Swift pure, ma a lei, in aggiunta, consente anche di scrivere canzoni che definire spettacolari è dire poco. Io, purtroppo, faccio parte della prima categoria, perché sennò sai quante hit avrei sfornato sul senno di poi dell’aver fatto giurisprudenza.
Con questa canzone andiamo lontano, lontanissimo nel tempo, a qualcosina meno di tre lustri fa, perché a quel “nineteen” i nostri sensi di ragno si allertano e la mente corre subito a Dear John (“Don't you think nineteen's too young to be played / By your dark twisted games?”) e a quella relazione sbilanciata e manipolatoria. Da una parte, infatti, abbiamo lei, ancora troppo giovane (“a child”, “nineteen”) e di conseguenza ancora priva degli strumenti per difendersi; dall’altra lui, un “grown man” che ha omesso di prendersi la responsabilità dei suoi comportamenti (“[…] did it matter / If you got to wash your hands?”).
Ora, se vogliamo, anche in Dear John c’è un embrionale senno di poi (“I should’ve known”), ma lì le vicende sono ancora troppo fresche per poterle esaminare con il dovuto distacco, cosa che è invece possibile fare in Would’ve, Could’ve, Should’ve, stanti i molti anni passati. Si badi, e in effetti trattandosi di Taylor sarebbe strano il contrario, che “analisi distaccata” è diversa da “asettica”, perché la canzone è vibrante di emozione, di trasporto, di passione (nel senso proprio etimologico, dal latino pati, cioè “patire, soffrire”). Infatti, nonostante il tempo trascorso, vediamo bene come quel rapporto ancora la perseguiti (“The tomb won’t close”; “I regret you all the time”; “I can't let this go / I fight with you in my sleep / The wound won't close”, “If clarity's in death, then why won't this die?”), ma non perché ne abbia nostalgia o si sia pentita del fatto che sia naufragato, ma perché l’ha resa una persona diversa e a lei manca quella che era prima (“I miss who I used to be”), e le manca un’adolescenza che non le ridarà più nessuno (“Give me back my girlhood, it was mine first”).
Il bridge di questa canzone (Snow On The Beach, te possino ciaccà, prendi appunti) è il mio preferito di tutto l’album (forse addirittura nella mia top five di tutta la sua discografia) e introduce un’ulteriore variazione che mi fa altrettanto impazzire. Strutturalmente quindi manca la solita alternanza standard tra strofe, ritornelli, bridge, ritornello, e lo stesso bridge in questo brano svolge la doppia funzione di “collegamento” e di chiusura, con la sua ripetizione due volte di seguito nel finale. La parte migliore, peraltro, è il modo in cui dapprima prende velocità e poi a un tratto si frena (quando arriva a “Stained glass windows in my mind” e “I keep on waiting for a sign”) per ricominciare veloce. L’equivalente musicale delle montagne russe. Tra l’altro mi ha ricordato a una cover di “Whiskey In The Jar”che ho ascoltato tanti anni fa in un pub a Lisbona: il ragazzo che cantava faceva più o meno lo stesso giochetto, aumentando e diminuendo la velocità del ritornello e, inutile dirlo, quella è una delle cover più riuscite che abbia mai ascoltato in vita mia.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “God rest my soul / I miss who I used to be / The tomb won't close / Stained glass windows in my mind / I regret you all the time” Dear Reader [3am edition]
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Come già Snow On The Beach, anche Dear Reader mi lascia combattuta, perché pure questa non la ritengo necessariamente brutta, ma mi annoia allo stesso modo. Rispetto all’altra, tuttavia, a livello di testo ci sono cose interessanti, con alcuni versi latori di verità universali che può essere utile tenere a mente (“If it feels like a trap/ You're already in one”; “Bend when you can / Snap when you have to”; “You don't have to answer / Just 'cause they asked you”), un po’ come già in marjorie. Il problema più che altro risiede nella parte finale, totalmente sbrodolata nell’esecuzione, che infatti appare disordinata (e di nuovo la voce distorta, diocrisantemo, io giuro che la denuncio).
#AlcoholicCount: 4 (my fourth drink)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Never take advice from someone who's falling apart" IT MUST BE EXHAUSTING ALWAYS ROOTING FOR THE ANTI-HERO
Una premessa e due confessioni: è sempre affascinante trascorrere un po’ di tempo a cercare di capire cosa passi nel cervello di Taylor Swift, ma scrivere questo post è stata una gran fatica. Per prima cosa, perché da qualche anno a questa parte faccio fatica in ogni aspetto della vita; poi perché mi ero intrippata a vedere The Crown e per un mese è stato il mio solo e unico interesse; poi ancora per mancanza di tempo, mica come quando dovevo trovare il modo di passare quelle cinque ore di scuola forense ogni lunedì (avendo fatto voto di non ascoltare una singola parola di lezione, ma obbligata a frequentare pena invalidamento del semestre di pratica); infine, e presumo sia la ragione principale, le altre suonano più come scuse: perché quest’album, come il cheddar a Kuzco, no me gusta.
O, comunque, non del tutto.
Forse, più esattamente, la sensazione che mi dà questo disco l’ha spiegata bene uno degli sceneggiatori cialtroni di Occhi del Cuore, prima di intortare René con il monologo sulla locura: “per funzionare funziona, ma rischi di non convincere”.
Ecco, allora: Midnights non mi convince.
Al primo ascolto l’ho bocciato interamente, con solo Anti-hero e You're On Your Own, Kid a tenere in piedi la baracca. E ne sono rimasta sorpresa come restano sorpresi i vicini di casa alla notizia dell’inquilino del piano di sotto che ha sventrato come un gamberetto l’intera famiglia usando il coltello a mandorla del Grana Padano: “Salutava sempre, ferst riacscion sciòk”.
Ma è comunque Taylor Swift, perciò gli ho dato il beneficio del dubbio: forse il problema non era che fosse un album poco ispirato, ma ero io dell’umore sbagliato per apprezzarlo in modo adeguato (venivo da un periodo di merda, e ora mi trovo in una benvenuta fase di tregua tra quello e il prossimo periodo di merda che di sicuro mi aspetta dietro l’angolo): un “It’s me, hi, I’m the problem, it’s me” da manuale. Insomma, ero più che disposta ad andare a Canossa. Ebbene, trascorso poco più di un mese, credo che — per prendere in prestito una frase da happiness — siano vere entrambe le cose.
Peraltro ho anche avuto modo di notare una certa polarizzazione nelle opinioni, e non mi pare ci sia stato il consenso generalizzato e unanime che hanno avuto folklore ed evermore. Non che ciò sia dirimente, sintomatico o rappresentativo di alcunché ma, e torno a parlare per me, confesso ogni assenza di folgorazione: né all’inizio (come con Speak Now, Red, 1989 e folklore), né durante, né dopo (come con evermore); nessuna discesa su di me della fiammella della Verità come lo Spirito Santo il giorno di Pentecoste o quello che diavolo era, che io al catechismo prestavo meno attenzione che a scuola forense.
Per quanto Midnights presenti tante belle canzoni (qualcuna molto più che solo bella), in realtà mi è difficile immaginarlo svettare in una discografia che contiene titoli come Speak Now, Red, 1989, reputation, folklore ed evermore, ognuno in qualche misura iconico, se non proprio autorevole; due cose che secondo me è incapace di essere Midnights. Se fosse un cartello stradale non sarebbe uno stop ma un semplice dare precedenza: qualcosa che ti fa rallentare ma non necessariamente fermare, e quando vedi che la strada è libera pigi sull’acceleratore, già concentrato sui segnali che verranno e dimentico di quelli che hai superato.
Ho spulciato la Treccani per cercare un termine che descriva la sensazione che mi dà Midnights, e quel termine è “anodino”: “senza carattere, insignificante; o che non prende posizione decisa, che non esprime un parere netto”. È proprio quella mancanza di decisione che mi perseguita. Perché nonostante sia un “concept album”, il cui filo conduttore sono le notti insonni passate a rimuginare sull’esistenza, in ogni caso l’esecuzione mi pare frammentata e il tema disorganico, con tanti picchi, senza dubbio, ma anche altrettante banalità.
L’edizione “standard”, che di base è il vero Midnitghs, suona atipicamente ordinaria, scialba addirittura; non sono nemmeno sicura che lo si potrebbe considerare un buon album di debutto se fosse di un qualsiasi artista a caso, ma di certo per essere il decimo di Taylor Swift è ben poco persuasivo. Raga, sia chiaro, chiarissimo: è più che concesso, a ‘sta pora crista, di non fare gol a ogni tiro in porta, va bene pure se ogni tanto prende la traversa o spara la palla sulle tribune, perché se esiste qualcuno, in tutto il mondo mondiale, che si è guadagnato il diritto di non dover dimostrare più niente a nessuno, quel qualcuno è proprio lei.
Magari, toh, lei e Alberto Angela. Ma soprattutto lei.
Quanto all’edizione 3am, con le sue The Great War, Bigger Than The Whole Sky, High Infidelity, Would’ve, Could’ve, Should’ve da una parte e Paris, Glitch, Dear Reader dall’altra sembra mantenere l’equilibrio tra pezzi riusciti e no, anche se in proporzione e per mera questione di quantità, rispetto alla standard qui i pezzi davvero riusciti sono di più. Ed è anche questo il problema: mi resta difficile considerare Midnights come un unicum e non come due entità separate, di cui una che funziona meglio dell’altra.
E tutte le belle canzoni che pure ci sono paiono non servire un disegno unitario — l’album, appunto, col suo tema dichiarato — ma restano splendide in modo fine a se stesse, un arcipelago di isolotti con palmizi rigogliosi e lambiti da acque cristalline ma senza un istmo di terra che li unisca, o almeno un traghetto della Grimaldi Lines che li colleghi.
Potreste obiettare, e forse in parte avreste anche ragione, che non potrebbe essere altrimenti, non trattandosi di un concept album duro e puro che racconta una singola storia a capitoli come un romanzo in musica (come quelli dei Rhapsody of Fire, che hanno dato vita a vere e proprie saghe fantasy, o quelli degli Avantasia dei primi anni), e nemmeno un concept album che è espressione del modo di vedere il mondo del suo protagonista fittizio (come American Idiot dei Green Day), ma di un concept album che si sviluppa soltanto intorno a un’idea di base, a un tema e non a una trama, le cui canzoni restano slegate per forza di cose (per di più raccontando randomici pezzi di vita sparsi negli anni). Ora, anche i due album dei Sabaton a cui accennavo (The Great War e The War To End All Wars), che raccontano la prima guerra mondiale, sono composti di tanti tasselli separati — una canzone parla del Barone Rosso, una di Lawrence d’Arabia, una della tregua di Natale, un’altra ancora del trattato di Versailles e via dicendo. Ecco, nonostante ciò, entrambi gli album appaiono coesi, unitari, focalizzati, armonici. Invece Midnights mi pare disgregato.
Sbaglierò di poco se preconizzo qui e ora che, una volta placatasi la normale e fisiologica eccitazione che è corollario immancabile di ogni nuovo album di TS, Midnights passerà decisamente in sordina. Ma mi importa? In realtà no, perché potrebbe fare un album di soli borborigmi e ci sarà lo stesso almeno un paio di canzoni per cui griderò al capolavoro, di cui mi farò portavoce indefessa della loro necessarietà in riguardo al progresso della civiltà umana, e per quelle due canzoni varrà comunque la pena di star dietro, sempre e comunque, nei secoli dei secoli, a Taylor Swift.
P.S. se, stante questa mia intemerata, ci sarà qualcuno, in questo fandom di sbullonati, che mi augurerà di non trovare il biglietto per il concerto o mi accuserà di lesa maestà, ecco, io a quel qualcuno dirò: “A proposito di maestà, bravo che me l’hai ricordato, è ora di farsi un tè e di bingiare daccapo The Crown. Toodle-oo!”)
***
Per chi di voi si fosse sintonizzato soltanto adesso, ecco gli altri tomoni:
Red dead revolution
‘Cause she’s still preoccupied with 19… 19… 1989
(Frankly, me dear, I do and I don’t give a damn about my bad) reputation
(If you wanna be my) lover
That’s all folk(lore)
Quoth the raven, “evermore”
Cicero pro domo sua: giacché ho perorato la mia causa di scribacchina, ne approfitto per segnalare anche i miei due romanzi: Zugzwang - Il dilemma del pistolero e il suo sequel Sicilian Defense, editi da Nativi Digitali Edizioni. Tra i personaggi principali c’è una ragazza bionda, ma non è Taylor Swift.
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la-lettrice-testarda · 2 years ago
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La spiaggia, Cesare Pavese
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"La notte, quando rientravo, mi mettevo alla finestra a fumare. Uno s'illude di favorire in questo modo la meditazione, ma la verità è che fumando disperde i pensieri come nebbia, e tutt'al più fantastica, cosa molto diversa dal pensare. Le trovate, le scoperte, vengono invece inaspettate: a tavola, nuotando in mare, discorrendo di tutt'altro".
Pavese , come per i grandi autori e le grandi autrici, è senza mezze misure: una volta letto, o lo si ama alla follia, o lo si evita. Nel mio caso, posso dire che sia stato un amore a prima vista della mia prima gioventù, nato attraverso la lettura, tra le lacrime, prima delle sue poesie, poi, in età adulta, della prosa — di molte penne mi sono innamorata così, passando prima per la poesia che per la prosa. Non mi sono mai trovata d'accordo, infatti, con il buon Pasolini, che in una famosa intervista afferma come Pavese, per lui, non sia altro che uno scrittore mediocre. Mediocre ovviamente se si concepisce la scrittura come finalizzata all'impegno. Non che Pavese non lo faccia, al contrario: fine conoscitore dell'animo umano e delle sue passioni, tra le righe della sua scrittura, anche nei punti apparentemente più leggeri o frivoli, aleggia un costante senso di inadeguatezza; ai tempi, ma anche e soprattutto nei confronti delle persone. “L'esule in patria”, qualcuno l'ha definito: mai completamente parte di un tutto, troppo costretto nel tutto di quei rapporti umani deturpati da ipocrisia e perbenismo. Per questo è scappato, soprattutto dalla vita — e non solo dal Belpaese per inseguire, prima dei tempi, un istrionico sogno americano. Anche se, onestamente, nessuno possa dire cosa spinge una mente a lasciare la vita. Ce lo avrebbe dovuto dire lui. Quello che possiamo fare è provare a cercare risposte tra le pagine dei suoi libri, delle sue memorie, dei suoi schizzi poetici.
Per quanto sia a tutti gli effetti un bozzetto che sembra ricalcare le atmosfere de La bella estate , La spiaggia contiene, in piccolo, tutto questo. In piccolo perché si tratta di un racconto lungo che avrebbe potuto arricchire la raccolta, appunto, de La bella estate o di Feria d'agosto . Proprio per questo, la storia è semplice e assente di uno sviluppo o di qualche colpo di scena: un quadretto estivo che ritrae la villeggiatura del protagonista, professore di italiano in un liceo torinese, del quale non sappiamo il nome; Doro , suo amico d'infanzia, e Clelia, la moglie di quest'ultimo. Sullo sfondo, si alternano bagni al tramonto, quando la spiaggia è ormai quasi vuota e gli ombrelloni ormai quasi tutti chiusi, e cene con gli amici di una vita tra risate, ricordi delle stupidaggini commesse in giovinezza e pettegolezzi. Una fiera delle vanità versione riviera ligure. Lo sciabordio della risacca sembra nascondere le confidenze oggetto delle conversazioni tra i bagnanti che individuano il protagonista, un uomo pragmatico che sembra nascondere, dietro un certo distacco, un bisogno profondo di caloreumano. Per quanto sempre parte delle conversazioni o partecipe di ogni situazione mondana, se ne taglia sempre fuori con quell'occhio vigile “alla Pavese”, ovvero lo sguardo di chi coglie più i non detti e le parole sparse, che le parole retoriche e vuote. È quello che fa osservando Clelia e Doro. Coppia di novelli sposi, per lui non sembrano amarsi. Non ricorda, infatti, che tra loro ci sia mai stato l'amore vero. I due sembrano animati da una profonda individualità , dalla quale però sembrano non poter scappare. O non voler scappare. Con la schiettezza più semplice, il protagonista lo chiede, a Clelia, se siano innamorati, se abbiano litigato. Clelia lo guarda e sembra non capire. È la sorte degli animi sensibili, non essere compresi.
Quello tra i due, il protagonista e Clelia, è un rapporto che, nella sua semplicità , sembra essere autentico e non intaccato dall'ipocrisia sociale che tiene in piedi tutti gli altri rapporti di contorno di questa vacanza. A dirla tutta, il tempo sembra quasi cristallizzarsi , nei loro discorsi. È ciò che Pavese fa in ogni sua scrittura: cristallizza l'affetto per preservarlo ed evitare che si assottigli a mera cordialità. Sotto ogni loro dialogo si nasconde — e nenche troppo — un'arguta, e al contempo aspra, critica sociale: il matrimonio visto come la tomba di ogni passione, le donne come frivole e prive di spirito critico, i corteggiamenti come ragazzate.
Lo sa Berti , uno studente del protagonista, anche lui in villeggiatura in riviera ligure e invaghito di Clelia. Questo interesse rimarrà tale, non avrà un seguito, anche se sembra non spengersi, neanche a seguito di un evento che cambierà per sempre la vita dei due coniugi. È un romanzo piano , e ciò che colpisce non sono i dialoghi o la storia, ma ciò che rende, a mio modesto parere, Pavese un grande, ovvero la sua capacità di ritirare in ballo una sorta di romanticismo decadente , vale a dire una natura , quella del mare, in grado di farsi espressione del pensiero intimo dei suoi attori. Qui il mare è cosa ben diversa dalla spiaggia, perché la spiaggia non è altro che il palcoscenico della mondanità, dove si mettono in scena i giochi della socialità dei prossimi anni '50, il mare è, come si suol dire, la cosa giusta al momento giusto, l'unica entità , quasi dotata di pensiero anch'esso, dove i protagonisti si spogliano delle loro maschere e riescono ad essere liberi dalle convenzioni.
Lo dice anche Clelia: il mare è l'unico posto suo, dove si sente libera, dove vuole essere libera.
Dove può esserlo.
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crazy-so-na-sega · 2 years ago
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Solo il pensatore logico trova difficoltà a far concordare l'ideale conformista con gli ideali della "libertà" e della "individualità; nella realtà storica non si disturbano a vicenda. Ivi l'asservito viene semplicemente proclamato libero. Essendo libero di percorrere la strada felicemente estroversa, alla quale ha diritto, senza che gli spigoli della sua individualità urtino contro qualche cosa, è lui ora il "libero". Quindi "libertà" viene identificata con "levigatezza" e "assenza di attriti", "individualità" invece con "scabrosità" e "intoppo". Del resto non esiste ordinamento sociale che (a differenza dei sistemi teorici) non si possa permettere idee che si contraddicono a vicenda. Se ognuna di queste idee adempie ad una data funzione utile all'0rdinamento, nulla impedisce che sussistano fianco a fianco. (Possono sussistere, per esempio, il primo libro della Genesi e i principi della "genetica"). Spirito di contraddizione, invece, è attribuito soltanto a colui che mette il dito su tali contraddizioni; e il suo scortese amore fanatico per la verità lo rende sospetto di intolleranza. Infatti non c'è contraddizione e incongruenza che non possano venir giustificate pretendendo di far ricorso alla tolleranza.
-G.Anders
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mariaceciliacamozzi · 2 years ago
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LA PREGHIERA DEL GUERRIERO di Stuart Wilde
Sono quel che sono.
Avendo fede nella bellezza dentro di me, sviluppo fiducia.
Nella dolcezza ho forza.
In silenzio cammino con gli dei.
In pace capisco me stesso e il mondo.
Nel conflitto mi allontano.
Nel distacco sono libero.
Nel rispettare ogni creatura vivente, rispetto me stesso.
In dedizione onoro il coraggio dentro di me.
In eternità ho pietà per la natura di tutte le cose.
In amore accetto incondizionatamente l’evoluzione degli altri.
In libertà ho potere.
Nella mia individualità esprimo la Forza divina che è dentro di me.
In servizio do quel che sono diventato.
Sono quel che sono:
Eterno, immortale, universale e infinito.
E cosi sia!
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pier-carlo-universe · 22 days ago
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"Amati" di Patrizia Gallina: Un Inno alla Libertà e all’Amore per Sé Stessi. Il nuovo brano della poliedrica artista genovese celebra l’accettazione, la diversità e l’autenticità
Patrizia Gallina, artista versatile e figura ben nota nel mondo dello spettacolo e del giornalismo, torna a incantare il pubblico con il suo nuovo brano, "Amati", uscito venerdì 13 settembre.
Patrizia Gallina, artista versatile e figura ben nota nel mondo dello spettacolo e del giornalismo, torna a incantare il pubblico con il suo nuovo brano, “Amati”, uscito venerdì 13 settembre. Questo pezzo rappresenta un messaggio potente e universale, un invito all’accettazione di sé e alla celebrazione della diversità. Con una melodia coinvolgente e testi profondi, Patrizia ci ricorda…
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nodidipaure · 6 days ago
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Ultima lettera al mio primo amore
Avrai sicuramente timore di sentire il mio fluire di parole ed emozioni, mentre io riesco ad esprimerle con consapevolezza e decisione, in te regna da sempre l'incapacità di dare un nome alle tue emozioni e sopratutto quella abilità di tramutarle in parole.
Oggi però ammetto di essere io in difficoltà, di non saper da che parte iniziare e per questo scrivo, scrivo perché mi perderei, scrivo perché anche io sono sofferente e confusa, scrivo perché 7 anni non posso racchiuderli in un discorso svolazzante, in un discorso con voce tremante. Non lo faccio solo per te, lo faccio per me stessa.
È da tempo ormai che mi sentivo amata meno da te. È mesi che cerco di riconquistarti, di esaminare ogni cosa di me e di quello che potevo fare per migliorare. Mi sono indagata sul mio corpo: Sono diversa? Sono più brutta?
Mi sono indagata sulla mente: Sono noiosa? Ripetitiva?
Mi sono fatta tante domande, prendendo anatonomicamente ogni pezzo di me e distruggendomi piano piano, perché amarti era troppo importante, perderti era fuori discussione. Così la mia autostima, già debole di suo, ma che con te riusciva ad esserci perché sentivo di essere una buona compagna, è collassata. Precisamente il 1 Novembre ho sentito che qualsiasi cosa dicessi o facessi, il problema ero io e non sarei più riuscita a non farti scivolare via. E sono crollata, a pezzi, senza mangiare, senza dormire. Tutto ciò te lo sto descrivendo come mio percorso e non per mortificarti
Continuo ancora oggi a chiedermi il perché e ho capito che non troverò mai la risposta, perché nemmeno tu sei in grado di trovarla.
Mi hanno ferito tante cose in questi 20 giorni, in primis la tua assenza. Il non poterti raccontare niente, il non poterti vedere, abbracciare. Avevo perso il mio migliore amico e dentro al petto sentivo solo il vuoto, la disperazione. Una specie di lutto, perché tu eri una mia colonna portante.
Mi ha ferito il tuo silenzio, ogni giorno aspettavo un messaggio che non arrivava mai e così ho smesso di sperarci. Ho incentrato il dolore su di me, lavorando su quella autostima ormai a pezzi, pensando che ormai tanto non ti potesse importare niente e quindi il mio sentirmi sola, mi ha fatto pensare: Lui non mi vuole, perché continuare a sperare?
La quotidianità mi parlava di te, così sono scappata. Lavoro, bere, ballare, divertimento, farmi "bella" sono diventate le uniche cose a farmi stare bene, comprese la mie amicizie ovviamente.
Mi ha ferito il tuo passare sempre la decisione a me, perché devo essere io a decidere e lasciare andare quello che pensavo essere l'amore della mia vita?
Ho provato rabbia, così tanto che pensavo fosse l'unica cosa che mi servisse, l'unico moto per andare avanti. Ti ho dato tutto e non è bastato. Come unica motivazione mi sento dire che il problema sono io che vivo a Firenze, ma che motivazione del cazzo è?
Quando ci siamo riscritti la rabbia si è affievolita, ma poi adesso è di nuovo prepotente dentro di me, perché non mi hai dato uno stralcio di spiegazione, perché tu adesso studi e lo affermi con orgoglio come se la mia assenza ti facesse bene, ti piace stare da solo come se lo stare con me ti soffocasse. Ti svelo che si sta da soli anche in una relazione, ti ho sempre lasciato la tua individualità. Ma se stai bene così, Lorenzo, inizio a stare meglio anche io. Per questo ho deciso di lasciarti andare, di smettere di trattenerti con tutte le mie forze.
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lamilanomagazine · 8 months ago
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Vicenza, "Taci, anzi parla", con Carla Lonzi per scoprire come sono cambiati bisogni, diritti e rappresentazioni delle donne
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Vicenza, "Taci, anzi parla", con Carla Lonzi per scoprire come sono cambiati bisogni, diritti e rappresentazioni delle donne.  Partendo dalla propria esperienza di femminismo e teatro, Patricia Zanco con Fatebenesorelle e con il gruppo FLUSSE, propone un nuovo progetto culturale e politico per Vicenza che alimenterà il dibattito tra le generazioni, abitando luoghi istituzionali, culturali e sociali della città quali Palazzo Cordellina, l'Odeo del Teatro Olimpico, il Giardino di Santa Corona, il chiostro della sede di Presenza Donna (in via San Francesco Vecchio 20) e Porto Burci. Gli incontri che si terranno dall'11 aprile al 4 luglio, tutti ad ingresso libero, sono realizzati in collaborazione con Comune di Vicenza, Consigliera di Parità della Provincia di Vicenza, Fondazione Monte di Pietà, Accademia Olimpica, CISL Vicenza, UIL Veneto, CGIL Vicenza, Casa di Cultura Popolare, Biblioteca Civica Bertoliana e Presenza Donna. «Carla Lonzi, storica dell'arte, lascia la sua professione per dedicarsi completamente alla causa del femminismo. Grazie al suo lavoro tante donne scopriranno se stesse, nella propria individualità e nelle relazioni fra loro e con l'altro sesso. A Vicenza, grazie all'idea forte e chiara di Patricia Zanco, attrice e autrice, della collaborazione di Flusse e delle tante partnership che hanno visto collaborare enti e istituzioni, molti dei quali parte della Consulta per le Politiche di Genere, siamo davvero felici di proporre un ciclo di incontri in occasione della ripubblicazione delle opere di Carla Lonzi. Un percorso di conoscenza della sua attualità sempre rivoluzionaria, e di noi stesse, nelle diverse età della vita, e nella nostra sempre cangiante, e 'costruenda', identità"» - commentano la vicesindaca con delega alla pari opportunità Isabella Sala e l'assessore alla cultura, al turismo e all'attrattività della città Ilaria Fantin. La voce di Carla Lonzi, ovvero i suoi scritti, interpretati dall'attrice e regista Patricia Zanco, solleciteranno l'immaginario delle e dei partecipanti che con la moderazione di FLUSSE potranno esprimersi in un dialogo aperto con le relatrici. L'incontro vedrà infatti l'approfondimento e le riflessioni di filosofe, politiche, ricercatrici e attiviste che di volta in volta accompagneranno il pubblico alla scoperta del pensiero di Lonzi e dell'evoluzione del femminismo, tra passato e presente. Il primo incontro è previsto per giovedì 11 aprile a Palazzo Cordellina con Annarosa Buttarelli, curatrice della recente riedizione delle opere di Carla Lonzi per la casa editrice La nave di Teseo, nell'ambito della collana La Tartaruga: «Carla Lonzi ha deciso di dare spazio alla vita vissuta dalle donne nel quotidiano, nei rapporti con gli altri, in ogni ambito dell'esistenza, e lo ha fatto con un rigore e un'attenzione pieni di ferocia ma anche di amore. I riverberi di quell'esplosione si sentono ancora oggi: Carla Lonzi continua a essere amata, letta e discussa, e a generare nuovi filoni di pensiero. Questo la rende una delle pensatrici più radicali e vive che abbiamo la fortuna di leggere, al di là di qualsiasi geografia e ordine di tempo». A seguire il 15 maggio a Porto Burci sarà presente la filosofa e redattrice culturale del quotidiano Il manifesto Alessandra Pagliaru; il 30 maggio all'Odeo del Teatro Olimpico la filosofa e politica Maria Luisa Boccia, presidente del Centro per la Riforma dello Stato; l'11 giugno nel chiostro della sede di Presenza Donna, in via San Francesco Vecchio 20, la filosofa co-fondatrice della comunità filosofica "Diotima" Chiara Zamboni. Il 25 giugno nel Giardino di Santa Corona saranno ospiti la filosofa Linda Bertelli e la ricercatrice e docente Marta Equi Pierazzini, in un appuntamento al quale seguirà nella Sala Lampertico del cinema ODEON la presentazione del documentario Alzare il cielo, voluto da Loredana Rotondo, per la regia di Gianna Mazzini. Il ciclo si concluderà il 4 luglio a Porto Burci con le ricercatrici indipendenti Valeria Mercandino e Daniela Pietta. "Taci, anzi parla" si propone di creare tempi e spazi di confronto per condividere esperienze collettive e personali, alimentare le relazioni in presenza, conoscere realtà e progetti del territorio. Capire se e come sono mutati i bisogni nel tempo, con quali azioni si fa riflessione e denuncia oggi, cosa hanno da imparare reciprocamente le pratiche del passato e quelle contemporanee. Gli incontri saranno un'occasione di formazione sui diritti delle donne, l'autodeterminazione femminile e di confronto sulle relazioni tra i sessi, concorrendo a creare una cultura personale e collettiva volta a contrastare la violenza di genere. «La voce e la libertà ce la siamo sempre presa al prezzo di lotte e conflitti - dichiara Patricia Zanco -. Questo progetto è iniziato mesi fa, a partire da un dialogo con la vicesindaca Isabella Sala, la consigliera comunale Luisa Consolaro e la consigliera di parità Francesca Lazzari. La sua realizzazione sarà possibile con FLUSSE, e con la collaborazione di Adriana Chemello per Accademia Olimpica, della Fondazione Monte di Pietà, di CISL Vicenza, UIL Veneto e CGIL Vicenza, della Casa di Cultura Popolare, di Biblioteca Civica Bertoliana e di Presenza Donna».... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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surferpurple · 11 months ago
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Cosa tiene unite le persone?
Non c'è una vera e propria ragione.
Ma Solo una le tiene davvero insieme;
il volere.
Chi si vuole veramente resta;
chi non si vuole veramente si perde...
L'amore è una scelta...,
accompagnata dall'affinità e dalla maturità emotiva.
Molto spesso le persone si incontrano ed ognuna ha le proprie ferite...che se non vengono risolte, autonomamente, rischiano di minarne il legame.. , poiché non fondato su un vero equilibrio...e sfociare , poi, in dipendenze emotive...
L'amore è interdipendenza ...
Le imperfezioni legano e, se non accolte ed amate, dividono.
Allora non è amore,
ma idealizzazione...
Ci sono livelli di connessione, rare e profonde, in cui gli individui riescono a percepirsi l'un l'altro , sono le connessione animiche...
Anime che si sentono a "casa" sono quel..
"mi sembra di conoscerti da sempre".
L'amore è un legame invisibile...
E accade se si è autentici, rinunciando di conseguenza alle maschere ...
Innamorarsi può accadere, ma amarsi si sceglie..
amare è intima condivisione e comunicazione ,
rivelazione di se stessi...
anche con il rischio di essere feriti. ..
Ma l'amore non si fonda sulla paura ed altrettanto non è certezza... ,
È trasformazione, evoluzione, elevazione del sé in un noi...,
Senza perdere se stessi..
L'amore non scappa di fronte alle difficoltà..
L'amore è fedele a se stesso...
Amare non è rinunciare alla propria individualità od ai propri confini, bisogni o valori, ma è riconoscerli e accoglierli nell'altro..
Non esiste inizio o fine...
Tutto si trasforma e ciò che resta è il "senso" del
Io ci sono e ci sarò, nonostante tutto.., poiché Sono , Sei , Siamo...
E saremo...
Questo, per me, è amare..;
Amando te imparo ad amare me stesso.., ed amando me guarisco me stesso attraverso l'amore che rifletto in te ..
Ognuno di noi sceglie consapevolmente dove vuole andare ..
Ognuno di noi sceglie se amare incondizionatamente o accontentarsi di quel che ne rimane...
Ognuno di noi concepisce l'amore in base al proprio vissuto ed ognuno di noi ha "bisogno"di essere amato in modo diverso ..e non sempre tutto combacia perfettamente, ma tutto può essere "costruito "..
Una cosa è certa, ciò che fa la differenza in qualsiasi relazione è la COMUNICAZIONE e la reciproca CONDIVISIONE..
Le modalità hanno poca importanza ...
Tutto il resto diviene complemento..
Alexandra Daniel
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sognosacro · 1 year ago
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Quello che sembrava non era altro che un silenzio, di qualcuno che non parlava e si sentiva molto forte.
Che vivevo nella presenza di suoni, che nelle canzoni mi ri accendevano il cuore.
Io folle in questa vita, mi lasciavo prendere in giro dalla situazione, impotente di fronte a tale forza.
Mi chiedevo "e perchè non mi hai presa quando ti avevo davanti e ora mi ossessioni come se mi rovini la vita"
Trovai il modo di smorzare la sua voce silenziosamente espressa nella musica, sentendomi di uccidere un fiato, ma più leale.
Guardavo la persona che avevo davanti e non eri tu, non vedevo altro e mi sentivo mortificata. Triste.
Le canzoni non suonavano più, ma qualcosa era rimasto. Grazie al nascondiglio sicuro che ci avevo dato inconsciamente.
Le sue parole tradivano il tuo amore o l'amore stesso e il mio sentore del suo mondo oscuro mi pietrificavano.
Io che per ricevere un pò di amore ero lì, più che altro per paura di rimanere sola. Pensando a te.
Triste.
Mi lasciavo fare tutto e tu non rispondevi.
Eppure sentivo tutto quello che dicevi.
Allora ti vedevo toccare un'altra, e poi un'altra ancora, come se qualcosa volesse dimostrarmi il contrario
E l'irritazione che sentivo per tutto e la compassione che provavo nel curarmi delle cose e delle persone
Ma io senza più una sola forza, perchè spesa a non curarmi di un emozione
Che ogni tot usciva, un pò alla volta.
Le crisi che purtroppo nessuno sosteneva, nessuno che non avesse mai vissuto quel dolore.
E quindi sola.
In mezzo a quel fracasso, a tutta quell'azione, mi perdevo quel bellissimo incanto che si ha quando si prova amore
Ero frastornata dalla rabbia, dalla tristezza e dallo sconforto.
E ogni tanto ti vedevo, goderti la vita come meglio credevi
E io che volevo dare tutto quell'affetto a te
E te che mi lanciavi quei segnali
E io che rispondevo
Lui che mi circondava di parole, che non stavo mai a sentire e una sensazione di follia che mi faceva esprimere la mia più grande illuminazione, che finalmente veniva vista da qualcuno
Ma vista come una schizofrenia da qualcuno, che era sicuramente messo peggio di me, ai miei occhi.
Non potevo più tollerare quella persona, quelle idee, quel concetto di vita e quelle ossessioni così tanto vanitose.
Io continuai a ripetergli a chi apparteneva il mio cuore e a chi volevo realmente dare i miei sentimenti, ma qualcosa mi teneva lì fin che mi disse
"se vuoi andare da lui vai, ma vacci adesso"
Mi vennero in mente tutti i limiti che avevo di fronte alla tua porta e avrei voluto piangere
Lo lasciai e pianse, mi rammaricai di aver perso una persona genuina con cui potevo divertirmi ad esprimere la mia genialità, ma alla fine scelsi la solitudine piuttosto che la bugia di qualcosa di forzato e brutto.
Vidi in lui quello che non avrei voluto vedere e percepii il peggior lato dell'uomo in un essere ignaro del suo ego e della sua interiorità più profonda, sentii il suo odio nei miei confronti e capii, di essere sulla strada giusta ritrovando pian piano la mia individualità, che veniva ripetutamente interrotta dalle sue attenzioni, trascinandomi in un vortice di (non so come definire quello stato, non voglio fa schifo) (qui ci vuole un approfondimento, ma qualcuno disse di essere entrato nel mio "cosmo" e di averlo percepito come "stare su una punta di uno spillo"...)
Così mi reclusi, mi feci suora e tornai vergine
Mi purificai dai suoi mali, dalle voci del gergo maschile miserabile e tolsi da me stessa tutto il dna superfluo dal mio.
Riformai la mia personalità e vidi in me quello che volevo essere, ma quello che dovevo diventare e che già ero.
Intanto sentivo te, che chissà cosa facevi.
Lo sentivo e mi faceva piangere.
Ti sentivo e mi faceva piangere
Una volta credo di averti sentito fare sesso con qualcuno e venire, mentre pendavi che ero io.
Ma io odiai quella sensazione.
Iniziai a ritenermi impazzita, sentivo tutto, chiudendo gli occhi veddvo ancora di più, ti vedevo in giro di notte, vedevo il tuo aforzo immane per fare quello che stavi facendo e sentivo un bisogno d'aiuto, che ti volevo dare
Ma limitata da uno schermo scelsi di volare di lì attorno e di portare luce anche nel tuo mondo
Mi svegliavo nel bel mezzo della notte con sensazioni orribili, nausea e la voglia di vomitare. Mi sentivo ubriaca e sola, a vivere la vita di qualcun altro mentre la mia stava ferma perchè non poteva andare avanti fin che sentivo te.
Almeno, questo è quello che mi raccontavo.
Io disprezzavo quello che facevi e ti credevo responsabile di trascurarmi, di tradirmi, di mentirmi e di fingere di amare ragazze, ma questo probabilmente era ciò che facevi a te stesso
Io ero così arrabbiata e nervosa
Avrei voluto distruggere qualcosa mordendoe graffiando come una tigre affamata, avrei voluto uccidere come una madre leopardo che difende i suoi cuccioli
Mi sentii alquanto presa in giro da tutte quelle persone che dicevi care e iniziai a ricevere "informazioni" che mi infastidivano
Come se tutto fosse fatto da te, per farmi sentire sempre peggio così che io rimanessi ben attaccata a te e quelle persone fingendosi alleate o minacciose a dirmi cose, che forse era meglio non sapere.
Mi dissi tu, con la tua voce nella mia mente, di bloccarli, he mi facevano del male e che avrei dovuto allontanarli.
Lo feci e me ne pentii, iniziai a credere che questo fosse il tuo modo per fare sempre di peggio e tenermi allo scuro di tutto, mettendoli contro di me e nascondendomi alla tua vita.
Me ne dimenticai ben presto e iniziai a infischiarmene di tutto quello che non potevo sapere.
Pian piano iniziai a sfogare la mia rabbia di fronte a tutte quelle sensazioni che sentivo di te e iniziai ad esprimere le mie.
(Chissà poi quante persone ho amato o odiato percependo le loro emozioni e credendole mie)
Passarono i giorni e poi gli anni e infine eccomi qua, che mi sento appena uacita di prigione e di non aver detto tutto quello che dovevo a riguardo di questo lungo e profondo ascolto.
Ricordo che una notte mi misi nel letto e sentii la tua anima che veva giocare, ricordo che per un periodo lgni notte ti venivo a trovare e ricordo che una donna che si diceva strega ti faceva le fatture e io non so quante volte l ho uccisa.
E no non so cosa siano le fatture, ma so che non è niente di bene, ma era così mediocre e fastidiosa che non potevo fare a meno di violentarla, ma te che mi davi della malvagia le tenevi la parte.
Così le tesi una trappola, agii pubblicamente e la feci uscire allo scoperto con le sue stesse mati, tu capisti il fatto e non facesti nulla, come se non ti importasse, allora smisi di venire a trovarti.
Poi per un periodo venivi a letto con me, sempre con lo spirito e ti cacciai dopo 5 volte perchè ero stufa di tutta quella magia che non mi lasciava spazio per vivere la vita in maniera fisica.
Scelsi di trovarmi un po di cose da fare all'aria aperta e raccolsi erbe, le misi a essicare e iniziai a collezionare barattoli di erbe secche.
Lì poi ricomparisti pian piano nella mia vita e nel contempo anche le cose peggiori iniziarono a manifestsrsi, ma non ti vedevo più responsabile di nulla, vedevo me fronteggiare con le avversità esterne e le vicende interiori ad esse annesse.
Pensai alle cose del passato e trovai molte risposte per migliorare le cose e nel tuo comparire e scomparire come una lampada intermittente, vedevo la mancanza di serietà e responsabilità
Trovai il modo di rimettere a posto determinati aspetti della mia vita, ma man mano dovenni una persona asociale
Non scelsi di rimanere sola, ma vidi cose che non volevo più continuare a bussare alla mia porta e come un butta fuori respinsi in ogni modo tutto quello che arrivava
Così vidi quello che c'era dentro e trovai il modo di mettere in ordins, sviluppai una nuova tecnica e risvegliai molto del mio potere
Scelsi me stessa. E continuai a farlo tutti i giorni
(se ci sono errori ortografici, portate pazienza, forse li correggerò)
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seoul-italybts · 1 year ago
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[✎ ITA] 032c : Intervista - La rivisitazione di RM | 24.11.2023
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🗞 032c #44 Inverno 2023/24 
La Rivisitazione di RM
__di FIONA BAE
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Quando incontro il rapper, cantautore e produttore K-pop RM, avverto una certa urgenza nel suo modo di fare. È appena uscito dallo studio di registrazione, dove sta ultimando il suo nuovo album solista, il secondo dopo Indigo (2022), prima di dover partire per il servizio militare obbligatorio – che durerà 18 mesi. Da bambino, RM – Kim Namjoon, per gli amici – voleva scrivere poesie e ha iniziato a rappare a 15 anni, in un locale della scena underground di Seoul. In quell'occasione, c'erano solo 18 persone nel pubblico. Oggi, invece, i BTS – il gruppo di cui RM (29 anni) è il leader – sono la band K-pop più nota in Corea – e probabilmente nel mondo. Come menzionato in un articolo di Forbes, i BTS (acronimo che originariamente stava per Bangtan Sonyeondan – Boyscout a prova di proiettile in inglese/italiano, ma che ora significa Beyond the Scene) sono l'unico gruppo nella storia della Billboard Global 200 ad aver guadagnato la pos. n.1 di questa classifica ogni anno fin dalla sua istituzione nel 2020. Il New York Times ha descritto il gruppo – formatosi nel 2010 e attualmente in pausa – come una “potenza mastodontica”.
Mentre mi dirigo al luogo dell'intervista, in una calda giornata di fine agosto, mi imbatto in un gruppetto di giovani fan asiatiche mentre scendono al volo da un van scuro e corrono a mettersi in posa di fronte all'insegna della HYBE, presso il quartier generale della multinazionale di intrattenimento. Originariamente nota come Big Hit Entertainment, la Hybe ha fatto costruire il nuovo edificio a marzo 2021. Il grattacielo, dall'aspetto piuttosto minimalista, è diviso in tre parti – con i suoi 19 piani a vista e 7 interrati: la sezione dedicata “ai dipendenti e al welfare”, corredata di palestra, si trova in cima, poi ci sono 9 piani di uffici e 6 preposti alla produzione musicale e di contenuti.
C'è anche un museo dedicato ai BTS, uno spazio adibito ad attico e tantissima sorveglianza.
Vengo accompagnata in un'ordinata sebbene ordinaria sala riunioni - invece che nell'elegante studio di registrazione mansardato di cui ho tanto letto – ed incontro RM. Ha i capelli corti ed indossa una maglietta estiva marrone dal buffo motivo. RM sembra calmo e cordiale, ma c'è anche quell'urgenza.
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FIONA BAE: Il tuo ultimo album, “Indigo”, era basato sulla ricerca di un'identità. Come sei cambiato e ti sei evoluto negli... 8 mesi successivi al suo rilascio?
RM: Sono successe un sacco di cose. Sia umanamente che professionalmente, ho accusato colpi , sono caduto e poi mi sono rialzato tantissime volte. E ho realizzato che la persona che credevo d'essere in realtà non esiste.
F.B: Come ti descriveresti?
RM: Bella domanda. Non sono un narcisista e mi sono sempre lasciato sopraffare dalle mie insicurezze. Ho talmente tanto sporco, marcio, amore, affetto e considerazione, dentro me, che credo finirei per impazzire, se non li esternassi così candidamente. Se non svelassi questi miei lati al mondo. In un modo o nell'altro. E ci tengo a fare la differenza, a cercare di cambiare le cose, sia che si tratti di me stesso, delle persone attorno a me, dell'industria o del mondo. Credo il mio scopo sia portare un qualche cambiamento e penso di averlo già fatto, in parte, insieme ai BTS.
F.B: Sembra quasi questa sia una missione ed una vocazione, per te.
RM: C'è chi critica e mette in dubbio le mie ragioni per tutto ciò, ma, in fin dei conti, quando il peso di questa “corona” (responsabilità) non grava sulle tue spalle, è difficile capire. Non è una corona e un fardello che ho chiesto io. Ma cerco di essere ottimista e di usare al meglio la mia influenza. Quel che dovrei e voglio fare è prendere ciò che di bello c'è nella mia arte e fare della mia individualità qualcosa di universale. Trovo bellissimo che la gente possa ridere, piangere e commuoversi grazie al lavoro degli artisti, i/le quali sanno come rendere le loro storie personali qualcosa di universale e cosmico. Quando sono andato al concerto di Kim Yuna, la leader della band Jaurim, ho sentito un/a fan, in lacrime, gridare “Se non mi sono toltə la vita, è merito tuo!”. In precedenza, ho già ricevuto anche io diversi bei messaggi su come la mia musica ha avuto effetti positivi sulle persone, ma sentire questa cosa dal vivo, lì vicino a me, mi ha colpito nel profondo. Una volta di più, ho realizzato che la musica può davvero salvare vite. Ed è ciò che voglio fare. Se non avessi questo tipo di vocazione, non sarei potuto sopravvivere nei BTS. Se non avessi uno scopo ed una vocazione in generale, la mia vita non avrebbe senso.
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F.B: Come ti approcci e gestisci il tuo status di superstar?
RM: Mi sono messo per tempo a studiare la metacognizione. Cerco di intercettare e decifrare i messaggi e simboli che mi si presentano. Ho imparato a destreggiarmi tra lo stress dell'essere sempre sotto i riflettori ed i lati positivi di tutta questa fama. L'altro giorno, mi è capitato di imbattermi in un post riguardo “Le 4 buone abitudini per essere felici”, su Instagram. Solitamente, detesto quel tipo di contenuti auto-motivazionali. Ma poi mi sono reso conto che io stesso sono già solito dire/pensare tutte e 4 le frasi positive lì menzionate. Forse allora sono felice.
Inoltre, cerco di tagliare fuori il più possibile, e penso d'essere migliorato in questa pratica. Ma la cosa più difficile da gestire è l'atmosfera che si vive e respira nell'industria K-pop. Mi spiace ammetterlo, è piuttosto triste, ma si fa molta attenzione alle apparenze e la gente è sempre concentrata su ciò che fai. Molte persone vedono solo ciò che vogliono vedere. Ma ormai sono in questo settore da 10-11 anni, e credo sia la giusta direzione – la stessa di tuttə coloro che, come me, hanno una certa influenza e decidono di sfruttarla per essere più apertə, onestə. Credo l'onestà, oggigiorno, sia da encomiare.
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F.B: In che modo ti stai svelando, ora?
RM: Il modo migliore, ovviamente, è attraverso un album o altri contenuti. Cerco anche di condividere molto della mia vita su Instagram. In un certo senso, mi rendo vulnerabile. Vengo anche criticato perché certe persone pensano un idol non dovrebbe mostrare così tanto di sé. Ma questo è il mio modo di dire "vi voglio bene". Cioè, per quanto credete io possa ancora tenere la bocca chiusa e parlare solo delle cose positive, nelle interviste? Quando non si fa che accumulare e tenere tutto chiuso, pressato dentro, alla fine non si può che esplodere. Con questo non voglio dire che gli ultimi 10 anni siano stati una menzogna. Semplicemente, la mia vita è stata talmente intensa da non avere neppure il tempo materiale di pensare ad altro, se non all'impegno o progetto successivo.
F.B: Credo che liberandosi dalle norme sociali coreane, opprimentemente tradizionaliste, moltə artistə abbiano ora abbracciato uno stile di vita più deciso e coraggioso, che è particolarmente vicino a moltə giovani, in tutto il mondo, impegnatə ad opporsi al sistema.
RM: Sono sicuro sia così per diversə artistə, ma non direi sia necessariamente il mio caso. Cioè, non ho mai pensato “Devo parlare di libertà e amore attraverso il mio hip-hop perché la vita è dura” o “Che forza lo spirito d'opposizione dell'hip-hop!”. No. Semplicemente, l'ho sempre trovato bello e divertente.
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F.B: Mi piacerebbe parlare un po' con te dell'ascesa della cultura coreana contemporanea, dato che sei l'apogeo della cultura pop di questa nazione. Intervistando vari/e artistə per il mio libro [Make Brake Remix : The Rise of K-style (2022)], sono giunta alla conclusione che la popolarità della cultura coreana a livello globale sia anche merito della sicurezza e spirito di iniziativa con cui questə giovani coreani si sono lanciatə come pionierə con la loro musica, remixando di tutto e di più, con zero inibizioni. Credi esista un approccio o modo di fare caratteristico, qui in Corea, e che sia quello ad aver portato la cultura coreana ad essere così famosa?
RM: L'unico frangente della cultura coreana su cui posso effettivamente esprimermi credo sia quello musicale. Non posso farmi portavoce per altri aspetti della nostra cultura.
Credo ci siano tanti pregiudizi sul nostro conto, come l'idea che i coreani siano stacanovisti all'eccesso. Non dovremmo guardare alle culture straniere attraverso il nostro personale metro di giudizio. Sarebbe bello potessimo guardare le persone, i paesi e le varie culture senza alcun pregiudizio, a mente trasparente.
F.B: Ma la gente sembra essere curiosa di capire se c'è effettivamente un qualche tratto o una caratteristica della cultura coreana che le permette di esercitare una tale fascinazione a livello globale. Tu che ne pensi, credi esista qualcosa del genere?
RM: È tanto che mi trovo nell'occhio di questo ciclone [del K-pop, della cultura coreana e del loro successo], e credo di aver fatto più interviste come questa di chiunque altro. La risposta che mi viene più spontanea è “Non lo so e se non lo so io, immagino nessun altro lo sappia”. Se lo sapessi, credo sarebbe un po' come cercare di spiegare perché si ama una persona in un dato momento. Sono talmente calato nella nostra cultura che se qualcuno di estraneo al nostro contesto mi chiedesse cosa significa essere coreano, non saprei come spiegarlo. È innegabile che in Corea ci sia una certa atmosfera, però. Abbiamo quel qualcosa, senza dubbio. Ma non è alla portata di tutti, solo di coloro che sono natə e cresciutə qui. Se cercassimo di definire cos'è che ci rende coreani, finiremmo nell'astratto e metafisico.
Ma se effettivamente esiste un modo di fare e porsi tipicamente coreano, credo Seoul sia il luogo dove è più facile farsene un'idea. Vediamo moltissime cose disintegrarsi e riassemblarsi costantemente, e questo processo è estremamente rapido ed intenso. I coreani sono velocissimi nell'assorbire, digerire e fare proprie le cose. È ciò che mi piace chiamare dinamismo. Ma come hanno detto anche alcunə artistə nel suo libro, Seoul può diventare troppo intensa, alle volte, e soffocante. Talvolta, è troppo anche per me e mi sembra la città mi consumi. Ci sono persone che non ce la fanno e vorrebbero scappare. Ma se si tiene duro, c'è così tanto che questa città così dinamica può tirar fuori dalle persone.
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F.B: Che effetto ha avuto su di te l'essere cresciuto qui in Corea?
RM: Io sono cresciuto in una cittadina relativamente nuova, vicino a Seoul, Ilsan. Dopo tutto il tempo trascorso all'estero, però, ho realizzato che ciò che mi permette di stare a galla sono le mie origini coreane. La nostra infanzia non ci abbandona mai. O si finisce per emularla o si prende la direzione opposta, cercando di distanziarsene. La mia infanzia è stata piuttosto felice. Ho ricevuto tantissimo amore e alcuni dei miei migliori amici sono persone conosciute in quel periodo. L'affetto, la nostalgia ed il senso di attaccamento che nutro per la Corea è qualcosa di essenziale, per me. Il K-Pop è estremamente intenso e dinamico, perché unisce la K (Corea) ed il Pop. E la gente sembra rispondere bene a quest'acceleratore quantico, a quell'energia e fusione. In tutto ciò, io mi sento come un salmone che risale la corrente in senso inverso. È l'unico modo per sopravvivere in questo mondo K-Pop senza impazzire.
F.B: Che cosa ne pensi di quella etichetta, della 'K'? Personalmente, trovo che il governo ed i media coreani ne siano piuttosto ossessionati, perché estremamente fieri di ciò che la nostra piccola nazione ��� schiacciata tra il Giappone e la Cina – è riuscita ad ottenere.
RM: È un'etichetta che arriva principalmente dall'esterno. Per comprendere ciò con cui siamo poco familiari, cerchiamo di trovare definizioni in cui inquadrare la cosa. È un istinto naturale per il genere umano. Alla gente piace pensare ci sia un qualcosa in questo paese che stia portando alla crescita della nostra e di altre culture simili. Però non ho nulla contro quest'etichetta. Anzi, sono molto grato che si stia cercando di dare un nome a ciò che è coreano. Ma capisco anche che moltə creativə non apprezzino essere categorizzatə così. Penso stia ad ogni singolə artista trovare la propria identità. Ma questo processo di individualizzazione e possibile solo grazie a quella 'K'.
F.B: Il K-Pop unisce tanti generi differenti. Credi abbia sviluppato una sua espressività ed un significante sonoro?
RM: Sì, senza dubbio. Ha sviluppato un'identità sonora piuttosto corposa, e molti paesi stanno cercando di copiarla. Io non sono entrato nei BTS perché volevo fare K-Pop. Inizialmente, i BTS erano un gruppo fondamentalmente hip-hop, come i Run-DMC o i Beastie Boys, e poi ci siamo evoluti in ciò che vedete ora. Mi piacerebbe la gente imparasse a considerare il K-Pop nelle sue tante sfaccettature, nella sua tridimensionalità. Innanzitutto, si tratta fondamentalmente di musica ballabile. Ma il K-Pop non è solo musica, è anche coreografia, video musicali e tanti altri contenuti ad esso collegati. È un pacchetto completo. Ho visto molte persone che disprezzavano il K-Pop, diventare fan dopo averne approfondito la conoscenza. Ciò che vorrei dire alla gente è “Non denigrate il K-Pop, prima di averlo provato”.
F.B: E cosa mi puoi dire delle sotto-culture? Che influenza hanno su di te? Mentre lavoravo al mio libro, mi ha intrigato molto scoprire che la scena underground è strettamente legata a quella K-Pop e alla moda coreana mainstream.
RM: Personalmente, sono sempre circondato da queste sotto-culture e ne sono un grandissimo fan. Sebbene la mia immagine di idol sia estremamente curata, molto più spesso sono attratto da tutto ciò che è grezzo e parossistico.
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F.B: E cosa ne pensi della moda in genere? Bottega Veneta ha saputo riconoscere il tuo impatto a livello culturale e ti ha nominato suo unico ambasciatore a livello globale.
RM: L'idea di diventare ambassador per marchi di lusso, inizialmente, non mi entusiasmava più di tanto. Ma il direttore creativo di Bottega, Matthieu Blazy, mi ha spiegato che gli piacciono i contenuti di stile ed arte che condivido sul mio profilo Instagram. Semplicemente, mi ha detto “Cerchiamo di conoscerci meglio e parliamo di questi tuoi interessi”. Mi è piaciuto il suo approccio, l'ho trovato intrigante e alla fine ho accettato.
La moda è uno dei contenuti più seducenti nella mia vita. Quando ho iniziato a fare musica, ne ero piuttosto ossessionato, e mi piace tutt'ora. Ho attraversato diverse fasi stilistiche, come quando indossavo streetwear, abiti gothic, quando vestivo Rick Owens o Damir Doma. Pensavo fosse fighissimo vestirmi all black. Poi, però, ho pensato mancasse un po' di colore, proprio come è successo nel passaggio dal mio album Mono (2018) ad Indigo (2022). Grazie al mio lavoro, sono sempre sotto i riflettori. C'è questa cosa chiamata airport fashion [*stile da aeroporto]. La gente si aspetta che io indossi sempre qualcosa di nuovo e diverso, quindi volevo trovare qualcosa che non avesse età. Tipo, qualcosa del 2015 che potessi indossare anche nel 2023. Cercavo qualcosa di classico e comodo che non fosse ancora uscito di moda, e ho trovato l'American Casual. Questo era circa 6 anni. Ora mi piacerebbe provare qualcosa di un goccio più kitsch, più stravagante, insolito e bizzarro, perché trovo che la moda sia come lo stato su KakaoTalk [*l'equivalente coreano di Whatsapp]. È il modo più 스근 [*seu-geun: naturale, sottile, non forzato] di esprimere me stesso e come mi sento in un dato giorno. È davvero uno dei modi più indiretti ma attivi per esprimere la mia personalità.
F.B: Ti piacerebbe creare un tuo brand di moda?
RM: Beh, la moda non mi ispira tanto quanto fa l'arte, da quando mi ci sono appassionato.
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F.B: L'arrivo di Frieze Seoul, l'anno scorso, ha elevato il prestigio della Corea, dimostrando che non sono solo il K-Pop o i K-drama, ma anche la scena artistica coreana ad attrarre l'attenzione globale. E la tua visita alla fiera ha generato più entusiasmo di quanto avrebbe potuto fare la stampa da sola. So che hai iniziato a collezionare opere d'arte fin dal 2018, ma sono rimasta comunque molto colpita quando [*il gallerista] Thaddaeus Ropac mi ha detto quanta influenza hai tra i/le giovani collezionistə. Dice che moltə giovani collezionistə coreanə come te hanno abbracciato la causa artistica, spendendo conoscenze e passione a beneficio di una vasta gamma di artistə appartenenti ai periodi più disparati. E ha anche detto che non aveva mai visto nulla del genere in altri paesi.
Perché collezioni opere d'arte?
RM:Durante i nostri tour mondiali, ho sviluppato una certa passione per i musei e le opere pittoriche che avevo studiato a scuola. Ma poi ho avuto questa realizzazione: certo, conoscevo Monet e Van Gogh, ma non sapevo nulla degli artisti coreani. Ora amo particolarmente l'arte coreana moderna e contemporanea. Questi artisti erano impegnati a spremere vernice sulle loro tavolozze persino durante l'occupazione giapponese e la guerra di Corea. Mi conforta sapere che le difficoltà e le prove che devo affrontare nella mia vita non sono nulla, rispetto a ciò che hanno vissuto loro. Per loro era questione di vita o di morte.
Ma credo la gente, in un certo senso, abbia una concezione sbagliata di me. Ad esempio, non mi piacciono proprio tutti gli artisti della Dansackhwa [la corrente pittorica monocromatica nata in Corea negli anni '50, nel tentativo di accettare ed incorporare le influenze del modernismo occidentale nella cultura coreana]. Yun Hyong-keun è l'unico che ammiro effettivamente. E non credo sia possibile trovare legami concreti e farli ricadere tutti in una stessa categoria. In un certo senso, la Dansackhwa è un po' come l'etichetta 'K' o il K-Pop.
Sono andato a trovare moltə dei/lle galleristə storici/che e le famiglie degli artisti per capire ed imparare di più. Rispetto il fatto che questi artisti fossero buoni compagni d'arme, tra loro, a dispetto delle differenze che potevano esserci e nonostante fosse considerato ridicolo che dei coreani si dedicassero all'arte astratta d'impronta occidentale, ma ci sono anche stati molti contrasti all'interno della loro cerchia.
F.B: Ho saputo da un/'altrə collezionista che recentemente hai iniziato ad interessarti anche all'arte coreana antica. Come mai?
RM: Mi incuriosiva scoprire quali fossero le influenze degli artisti che ammiro, quindi mi è venuto naturale spostare la mia attenzione sull'arte antica. Il modo più semplice per imparare a conoscere l'arte antica, è spendervi soldi, continuare ad osservarla e toccarla, cercando di capirne la struttura e la forma. Preso dalla cosa, mi è capitato anche di comprare un falso. O almeno credo, me l'hanno detto dei professori e studiosi – che sono ben più esperti del sottoscritto, in questo – Ma anche se è un falso, non importa. Fa sempre parte di questo processo di conoscenza, io pago per imparare. Ormai sono dentro, non posso tirarmi indietro.
Toccando con mano questi oggetti ossidati, queste opere che hanno visto giorni migliori, mi sembra quasi che un po' della loro anima entri a far parte di me.
I pittori più famosi dell'epoca Joseon [1392 – 1897], come Gyeomjae, Danwon, Chusa e Neunghokwan, hanno avuto vite e traiettorie esperienziali piuttosto diverse tra loro. Alcuni erano pittori di corte, altri sono diventati ritrattisti per l'aristocrazia e altri ancora hanno rinunciato a tutto e si sono trasferiti in campagna dove cercavano di dar forma ai loro pensieri, dipingendo pini. Trovo tutto questo così affascinante.. perché sembra quasi ciò che ho di fronte sia la risposta a come dovrei vivere io in quanto artista.
F.B: Cosa puoi dirci del nuovo progetto cui stai lavorando?
RM: Sostanzialmente, ho preso la direzione opposta rispetto ad Indigo. Ma non è solo leggero e divertente. La gente mi vede e pensa che io sia una persona molto seriosa, dolce e garbata, ma non sono solo quello. Ho anche molti lati decisamente meno seri. Mi piace molto far ridere la gente.
⠸ Ita : © Seoul_ItalyBTS | Scan Eng : © jungkkyu ; © loopsofnj
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