Mi chiamo Marta, mi piace leggere ed esprimere opinioni non richieste, soprattutto sui libri
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L'arminuta, Donatella Di Pietrantonio
Nel tempo ho perso anche quell'idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre
Un’antica leggenda orientale racconta di un bambino e due madri, una “vera”, che lo abbandona per un guardaroba, e una acquisita, che lo cresce e lo educa. Entrambe lo reclamano, e ad un giudice l’onere di scegliere quale sia la madre. Per farlo, il bambino verrà messo al centro di un cerchio di gesso disegnato in terra e la prima che riuscirà a portarlo fuori sarà la madre. Una, quella che lo aveva abbandonato, lo afferra con foga, l’altra, quella che lo aveva curato, rimane ferma, immobile, per il terrore di farle male. La vittoria è ovvia, per il giudice, essa sarà la madre. Ho pensato subito al dramma di Brecht, leggendo L’arminuta. Ne Il cerchio di Gesso del Caucaso c’è, di base, un giudizio. Ne L’arminuta potremmo pensare che ci sia, allo stesso, un giudizio, eppure Di Pietrantonio rimane imparziale, lascia alla ragazzina il compito di essere la giudice. E lo è, giudice. Per lei non ci sono due madri, per lei ci sono due donne: quella “di prima”, già senza nome, che l’ha messa al mondo, aspra, reticente, apparentemente restia ai sentimenti, che semplicemente serba in silenzio e con timidezza, e quella “di mare”, che anche se un nome lo possiede (Adalgisa), perde gradualmente identità nel momento delle due verità, la prima, che riporta l’arminuta al paese senza spiegazioni, la seconda che si scopre solo e soltanto alla fine. Ha un sapore crudo e salato, questa storia. C’è il sale del mare che l’arminuta respira nei ricordi, sempre più sbiaditi, sempre emotivamente più distanti, c’è il sale del sangue che viene versato ogni qual volta che, il naturale bisogno di imporsi dei figli emerge e viene ricomposto sotto le percosse dei genitori. In quel nuovo contesto, l’arminuta, “la ritornata”, perde identità, ma al contempo la ritrova perché la ricostruisce; nel rapporto con la nuova sorella, Adriana, nella scoperta del corpo, un corpo con delle forme che, soprattutto nei primordi dell’adolescenza, risulta estraneo e confuso nelle sensazioni provate, da provare e negli sguardi. Soprattutto quelli di Vincenzo, quel fratello che, nel sangue, ha anche lui il sale che lo porta ogni volta a seguire gli istinti, soprattutto la fuga, ma anche quello più animale. C’è il sale anche nella lingua, continuamente in bilico tra il calore della chiarezza dell’italiano e un nuovo calore, quello antico, quello di un abbruzzese dapprima brullo ed estraneo, nel quale la ragazzina, solo dopo tanto tempo, scopre una nuova lingua, una nuova identità.
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Troppo facile amarti in vacanza, Giacomo Keison Bevilacqua
“Beh, ma è a questo che servono le vacanze, no? Ad andare via per un po' da un posto, e cercare”. “Cercare? Cercare cosa?"
Ho sempre pensato che entrare nel viaggio di qualcun altro, oltre che difficile, sia anche offensivo. È anche vero però come, chi scrive una storia, ci invita a prendere parte ad un viaggio come compagni. Giacomo Bevilacqua ci fa entrare nel viaggio di Linda e del suo cane, Follia, un viaggio da Roma al nord dove si inizia a camminare a pagina 1, ma che inizia a tutti gli effetti a pagina 30. Potrei dire che Troppo facile amarti in vacanza sia un “romanzo illustrato”, più che una graphic novel.
Consiglio: è un libro che va letto due volte, una per seguire la storia di Linda, l'altra (forse la lettura più bella) seguendo il volere di Bevilacqua: ciò che balza subito all'occhio è che ogni capitolo, dieci, sia il titolo di una canzone. In fondo ogni viaggio ha le sue note. Questo è un viaggio particolare che, seppur con la sua musica, ha dei lunghi spazi vòlti al silenzio. Quelle prime trenta pagine solo illustrano ne sono un esempio. In quegli "spazi bianchi" Linda, mentre cammina, riflette.
Riflette sul perché sia così arrabbiata . La sua è una rabbia giovanile, un comune sentimento della nostra generazione. D'altronde il viaggio, qui, è una evidente critica al sistema che vede molti giovani lasciare il nostro Paese, alla ricerca di condizioni migliori, soprattutto lavorative. Questa sua rabbia si riflette nel paesaggio che la circonda, un'Italia post-apocalittica deserta, dove la natura si riprende il suo spazio (altra critica alla crisi ambientale che sta vivendo il nostro pianeta), e dove gli unici sopravvissuti non sono volti confortanti , ma individui grotteschi, stereotipati, incattiviti dall'esistenza.
Linda ha paura di loro, non lo nasconde, ma fa parte del gioco, cioè del viaggio. Lapsus ha voluto, in quanto l'incontro con queste figure è concepito, dall'autore, come una sorta di duello finale di un videogioco dove si vince la vita, e il viaggio non è altro che la missione di tutto il gioco. I paesaggi da lei attraversati, a livello grafico, hanno un impatto fortissimo, con intere tavole realizzate in campo lungo, dai colori che ricordano quelli di alcuni titoli famosi come Kingdom Hearts o Life Is Strange.
Colori cupi ma al contempo vivaci.
Questo è un contrasto voluto, d'altronde Linda stessa è animata da sensazioni contrastanti, che troveranno pace solo nell'incontro con Aman , un ragazzo più grande di lei nel quale la rabbia si è mutata in aspra dolcezza, dovuta alle dure prove allle quali la vita lo ha sottoposto: in lui, fabula e intreccio dell'intera storia si ricongiungono, facendoci capire il vero senso della storia.
Come nel migliore dei bildungsromance, il viaggio qui è a tutti gli effetti personaggio, anzi, proprio il compagno “di viaggio” di Linda, che arriva alla sua destinazione (forse, perchè in effetti, se sia arrivata o meno, rimane il mistero dei misteri) diversamente da come è partita, e proprio in questo viaggio, accompagnata nelle ultime pagine dalle note di Resistere de La Rappresentante di lista, capirà che la vita implica il dover imparare a convivere con la rabbia interiore, che può diventare capacità di resistere alle avversità della vita.
#giacomo keison bevilacqua#graphic novel#troppo facile amarti in vacanza#a panda piace#bookstagram#libri#letteratura italiana
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La spiaggia, Cesare Pavese
"La notte, quando rientravo, mi mettevo alla finestra a fumare. Uno s'illude di favorire in questo modo la meditazione, ma la verità è che fumando disperde i pensieri come nebbia, e tutt'al più fantastica, cosa molto diversa dal pensare. Le trovate, le scoperte, vengono invece inaspettate: a tavola, nuotando in mare, discorrendo di tutt'altro".
Pavese , come per i grandi autori e le grandi autrici, è senza mezze misure: una volta letto, o lo si ama alla follia, o lo si evita. Nel mio caso, posso dire che sia stato un amore a prima vista della mia prima gioventù, nato attraverso la lettura, tra le lacrime, prima delle sue poesie, poi, in età adulta, della prosa — di molte penne mi sono innamorata così, passando prima per la poesia che per la prosa. Non mi sono mai trovata d'accordo, infatti, con il buon Pasolini, che in una famosa intervista afferma come Pavese, per lui, non sia altro che uno scrittore mediocre. Mediocre ovviamente se si concepisce la scrittura come finalizzata all'impegno. Non che Pavese non lo faccia, al contrario: fine conoscitore dell'animo umano e delle sue passioni, tra le righe della sua scrittura, anche nei punti apparentemente più leggeri o frivoli, aleggia un costante senso di inadeguatezza; ai tempi, ma anche e soprattutto nei confronti delle persone. “L'esule in patria”, qualcuno l'ha definito: mai completamente parte di un tutto, troppo costretto nel tutto di quei rapporti umani deturpati da ipocrisia e perbenismo. Per questo è scappato, soprattutto dalla vita — e non solo dal Belpaese per inseguire, prima dei tempi, un istrionico sogno americano. Anche se, onestamente, nessuno possa dire cosa spinge una mente a lasciare la vita. Ce lo avrebbe dovuto dire lui. Quello che possiamo fare è provare a cercare risposte tra le pagine dei suoi libri, delle sue memorie, dei suoi schizzi poetici.
Per quanto sia a tutti gli effetti un bozzetto che sembra ricalcare le atmosfere de La bella estate , La spiaggia contiene, in piccolo, tutto questo. In piccolo perché si tratta di un racconto lungo che avrebbe potuto arricchire la raccolta, appunto, de La bella estate o di Feria d'agosto . Proprio per questo, la storia è semplice e assente di uno sviluppo o di qualche colpo di scena: un quadretto estivo che ritrae la villeggiatura del protagonista, professore di italiano in un liceo torinese, del quale non sappiamo il nome; Doro , suo amico d'infanzia, e Clelia, la moglie di quest'ultimo. Sullo sfondo, si alternano bagni al tramonto, quando la spiaggia è ormai quasi vuota e gli ombrelloni ormai quasi tutti chiusi, e cene con gli amici di una vita tra risate, ricordi delle stupidaggini commesse in giovinezza e pettegolezzi. Una fiera delle vanità versione riviera ligure. Lo sciabordio della risacca sembra nascondere le confidenze oggetto delle conversazioni tra i bagnanti che individuano il protagonista, un uomo pragmatico che sembra nascondere, dietro un certo distacco, un bisogno profondo di caloreumano. Per quanto sempre parte delle conversazioni o partecipe di ogni situazione mondana, se ne taglia sempre fuori con quell'occhio vigile “alla Pavese”, ovvero lo sguardo di chi coglie più i non detti e le parole sparse, che le parole retoriche e vuote. È quello che fa osservando Clelia e Doro. Coppia di novelli sposi, per lui non sembrano amarsi. Non ricorda, infatti, che tra loro ci sia mai stato l'amore vero. I due sembrano animati da una profonda individualità , dalla quale però sembrano non poter scappare. O non voler scappare. Con la schiettezza più semplice, il protagonista lo chiede, a Clelia, se siano innamorati, se abbiano litigato. Clelia lo guarda e sembra non capire. È la sorte degli animi sensibili, non essere compresi.
Quello tra i due, il protagonista e Clelia, è un rapporto che, nella sua semplicità , sembra essere autentico e non intaccato dall'ipocrisia sociale che tiene in piedi tutti gli altri rapporti di contorno di questa vacanza. A dirla tutta, il tempo sembra quasi cristallizzarsi , nei loro discorsi. È ciò che Pavese fa in ogni sua scrittura: cristallizza l'affetto per preservarlo ed evitare che si assottigli a mera cordialità. Sotto ogni loro dialogo si nasconde — e nenche troppo — un'arguta, e al contempo aspra, critica sociale: il matrimonio visto come la tomba di ogni passione, le donne come frivole e prive di spirito critico, i corteggiamenti come ragazzate.
Lo sa Berti , uno studente del protagonista, anche lui in villeggiatura in riviera ligure e invaghito di Clelia. Questo interesse rimarrà tale, non avrà un seguito, anche se sembra non spengersi, neanche a seguito di un evento che cambierà per sempre la vita dei due coniugi. È un romanzo piano , e ciò che colpisce non sono i dialoghi o la storia, ma ciò che rende, a mio modesto parere, Pavese un grande, ovvero la sua capacità di ritirare in ballo una sorta di romanticismo decadente , vale a dire una natura , quella del mare, in grado di farsi espressione del pensiero intimo dei suoi attori. Qui il mare è cosa ben diversa dalla spiaggia, perché la spiaggia non è altro che il palcoscenico della mondanità, dove si mettono in scena i giochi della socialità dei prossimi anni '50, il mare è, come si suol dire, la cosa giusta al momento giusto, l'unica entità , quasi dotata di pensiero anch'esso, dove i protagonisti si spogliano delle loro maschere e riescono ad essere liberi dalle convenzioni.
Lo dice anche Clelia: il mare è l'unico posto suo, dove si sente libera, dove vuole essere libera.
Dove può esserlo.
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