#il guerriero della furia
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Capitolo Bonus La Corte Di Nebbia E Furia Nessian
Avviso: Partendo dal presupposto che non ho studiato per diventare traduttrice, quindi ci saranno SICURAMENTE dei possibili errori di traduzione, grammatica, punteggiatura e/o ortografia, questa è la mia versione tradotta in italiano dei capitoli bonus dei libri di Sarah J. Maas.
Introduzione: Per Cassian, lo sfacciato, bellissimo generale delle armate di guerra Illyrian di Rhysand, avere a che fare con il sesso opposto era sempre stato facile e piacevole. Ma quando venne inviato nel reame umano per mandare un messaggio per conto del suo Signore Supremo, Cassian si trovò contro la tenace sorella maggiore di Feyre, Nesta. Sinceramente, Cassian non vedeva l’ora di avere un altro round contro la bellissima Nesta dal loro primo incontro particolarmente teso di qualche settimana prima, anche se non l’avrebbe mai ammesso a nessuno, tantomeno a sé stesso.
E Cassian non avrebbe sicuramente ammesso di aver finalmente trovato qualcuno che non sarebbe riuscito facilmente a sedurre con uno dei suoi sorrisi smaglianti o la sua costante arroganza.
Continua a leggere per scoprire cosa è successo al secondo incontro privato e perché il generale del Signore Supremo si è rifiutato di divulgare alcun dettaglio di ciò che è accaduto, una volta tornato alla Corte della Notte.
Non è che stesse cercando una zuffa, continuava a dirsi Cassian mentre volava in cerchio per la quinta volta sulla vasta tenuta, nonostante il freddo d’inizio primavera, così brutale da poter togliere il respiro persino al più grande guerriero Illyrian. Rhys aveva chiesto a lui di consegnare la sua ultima lettera alle regine umane, dato che Az era impegnato a cercare un modo per penetrare in qualunque dannata difesa che fosse stata piazzata attorno al loro palazzo, e Mor non voleva mettere piede nel reame umano a meno che non fosse strettamente necessario. Amren, naturalmente, era fuori questione, per il semplice fatto che si trattava di Amren e sarebbe stato come mandare una volpe in un pollaio. Quindi restava lui.
In realtà anche Feyre, ma lei e Rhys erano… impegnati.
E, sinceramente, aveva accettato di andare un po’ troppo velocemente, ma… Cassian osservò la tenuta, il terreno fangoso che si stava scongelando, il villaggio poco lontano e la fitta foresta in gemmazione. Se n’era andato dall’ultimo incontro senza sapere in che posizione fosse o chi avesse il coltello dalla parte del manico. E, che la Madre lo dannasse, nelle ultime settimane, si era ritrovato a pensare ad ogni parola che si era scambiato con Nesta, in continuazione.
Nessuna di esse era stata piacevole, ogni sillaba uscita dalla bocca di lei era stata pungente e crudele e… Cassian sbuffò, caldi viticci che sparirono nel vento. Non riusciva a decidere quale fosse la cosa peggiore: che ci avesse pensato così tanto o il fatto di essere corso fin lì così in fretta. Ed ora stava… bighellonando.
Il pensiero lo fece andare in una veloce, quasi imprudente, picchiata verso la tenuta dal tetto verde, la sua magia di occultamento lo rese poco più di un soffio di vento ed un battito d’ali. I cavalli nelle stalle vicine si agitarono e nitrirono mentre si avvicinava, ma i loro custodi controllarono i dintorni, ma non notarono niente e ritornarono al loro lavoro.
Cassian cercò di non pensare a quanto semplice sarebbe stato, a come quella mancanza di attenzione e di istinto sarebbe costata le loro vite se il muro fosse stato distrutto. Nel caso in cui qualcuno come lui avesse reso quella tenuta un terreno di caccia.
L’aveva visto accadere durante l’ultima guerra, non che ci fossero molti umani abbastanza ricchi da avere una proprietà. Ma aveva visto ciò che era rimasto di interi campi di schiavi quando un Fae decideva di divertirsi un po’. Bastò quel pensiero per fargli serrare la mascella e concentrarsi sulla porta di fronte a lui.
Il giorno prima avevano avvisato sull’orario esatto in cui sarebbe giunto. Quindi, quando bussò, non passò altro che un istante prima che la porta venisse spalancata.
Il brusco movimento gli bastò per capire quale sorella era in attesa del suo arrivo.
Dato che era ancora celato dalla magia, Nesta Archeron, con il suo volto perfetto, non vide altro che qualche chiazza di neve sul prato fangoso ed il vialetto in pendenza che lo attraversava, il pietrisco che luccicava per il ghiaccio che si stava sciogliendo. Aprì con disinvoltura la porta per farlo passare, mentre diceva alla governante maledettamente curiosa che non c’era nessuno alla porta e che il rumore che avevano sentito non era altro che il vento.
Giusto. Se avessero fatto lasciare la casa da tutti i servitori così spesso, avrebbe fatto aumentare i sospetti più del previsto. Soprattutto con l’altra sorella fidanzata con quel coglione di un cacciatore di Fae.
La governante corse nell’atrio immacolato per accertarsi che non ci fosse nessun’altro, ma Nesta le disse solo che sarebbe andata al piano di sopra e che non voleva essere disturbata per un’ora. La donna aprì la bocca per obiettare, ma Nesta con la sua impressionante monotonia ripeté il suo ordine ed iniziò a salire la gradinata coperta da una passatoia.
Gli occhi della governante si assottigliarono mentre guardava la sua giovane padrona andarsene, e Cassian mantenne i suoi passi il più leggeri possibile, mentre superò la vecchia signora e saliva le scale.
Era così concentrato a non fare rumore e a tenere le ali strette al suo corpo affinché non andassero a sbattere contro qualcosa, che notò a malapena il pesante abito viola chiaro, più semplice rispetto agli altri che aveva visto addosso a Nesta, con il corpetto abbastanza stretto da mettere in risalto la vita magra e le maniche aderenti che mostravano le esili braccia. Aveva una corporatura più magra rispetto a Feyre ed Elain, eccetto per i generosi seni che aveva notato quando Nesta aveva raggiunto la cima delle scale ed aveva girato a sinistra.
Non che fosse rimasto a fissarli. Troppo.
Per il resto del mondo Nesta stava solo ciondolando verso la sua stanza, forse un po’ irritata e leggermente barcollante. Ma una volta entrata nella spaziosa stanza da letto, adornata da velluto e sete di varie sfumature di blu e argento, e chiuse la porta di quercia subito dopo, la sua posizione stanca e afflosciata svanì.
E così fece l’occultamento di lui.
Un battito di palpebre fu l’unica reazione di sorpresa da parte di lei, e lui potrebbe o meno aver aperto un po’ le ali mentre lei lo osservava.
«Sei in ritardo di dieci minuti» lei disse solo, spostandosi nell’angolo più lontano della stanza, dove un fuoco bruciava, contrastando il freddo d’inizio primavera. Dove il rumore delle fiamme avrebbe potuto coprire le loro voci. Ragazza intelligente.
«Ho anche altri doveri, sai» rispose lui, tenendo il tono di voce basso e facendole un sorriso.
Tipo girare intorno alla casa perché doveva compilare una lista di insulti da rivolgerle per controbattere a quelli di lei durante una litigata campata per aria. Come un completo idiota.
«Ed io che pensavo» disse Nesta, un pilastro di ghiaccio ed acciaio di fianco al focolare «di averti sentito volare qui attorno per dieci minuti. Deve essere stato un piccione che si è incastrato in uno dei camini.»
Cassian restò a fissarla. E lei fissava lui.
Sentì che stava iniziando ad agitarsi per quelle parole, alla perfezione di lei. Un’arma fatta persona, ecco cos’era.
Sorrise lentamente, in maniera perfida, proprio nel modo in cui aveva capito che le faceva vedere rosso. Un sorriso che aveva subito capito le avrebbe fatto tirare fuori quei suoi begli artigli. «Ciao, Nesta. È bello vederti.»
Nessuna reazione, neanche un cambiamento nel suo odore dopo quel sorriso che solitamente faceva scappare i suoi nemici. Niente, a parte un fremito delle narici. «Come sta mia sorella?»
“Sta guarendo” quasi disse. “Cerca di scappare dal fatto che si sta innamorando di Rhys e sta deliberatamente ignorando il fatto che lui è innamorato di lei da davvero molto tempo. Che tutti i segnali indicano che sono compagni, ma non sono così stupido da dirlo a nessuno dei due.”
Quindi disse solo: «È impegnata.»
La sua gola si mosse leggermente. «Così impegnata da non degnarsi nemmeno di venire a trovarci, a quanto pare.»
«Feyre ha già abbastanza di cui occuparsi, tra la situazione in cui ci troviamo con Hybern e tutto il resto.»
Il fuoco fece risplendere d’oro i capelli di Nesta quando ella inclinò la testa di lato. Un predatore che giudicava un valido avversario. «E quale sarebbe il tuo ruolo in tutta questa storia?»
Cassian allargò i piedi sul pavimento. «Comando le armate di Rhys.»
Gli occhi grigio-azzurro di lei guizzarono verso di lui in un modo tale che avrebbero potuto tagliare le palle ad un maschio inferiore. «Tutte quante?»
«Quelle importanti.»
Lei sbuffò e guardò verso il fuoco. Certamente un modo per sminuirlo.
Cassian si irrigidì. «E cos’è, esattamente, che tu fai che abbia importanza?»
La testa di lei scattò verso l’alto. Oh, aveva colpito il bersaglio.
«Perché dovrei preoccuparmi di difendermi» disse Nesta con un gelo letale «da un maschio che è così gonfiato dal suo senso d’importanza al punto che c’è a malapena spazio nella stanza per la sua enorme testa?»
Fu il turno di lui di sbattere le palpebre, sorpreso.
Poi si trovò a muoversi verso di lei, con lunghe falcate, passando sul tappeto ornato che si trovava tra di loro. Lei non indietreggiò neanche di un passo. Alzò solo il mento per incontrare il suo sguardo mentre torreggiava su di lei, aprendo leggermente le ali, sibilando: «Hai qualche notizia dalle regine?»
Le sue sopracciglia si appiattirono. «Generale delle armate del Signore Supremo, ma rimani comunque un bruto. Non puoi intimidirmi con le parole, quindi cerchi di farlo con la tua imponente corporatura.»
“Imponente…”
«Hai più bisogno di me di quanto io ne abbia di te. Quindi ti consiglio semplicemente di concordare con me, ripiegare quelle ali da pipistrello e chiedere gentilmente.»
Lui non lo fece.
Ma fece un passo in avanti, appoggiando una mano contro il caminetto, avvicinandosi abbastanza da inalare il suo profumo.
Lo colpì con una tale intensità che a malapena riusciva a concentrarsi e gli ci vollero cinquecento anni di addestramento per costringersi a guardarla negli occhi, piuttosto che far roteare i propri all’indietro, per restare fermo invece di nascondere il volto nell’incavo tra il collo e la spalla di lei, per trattenersi dall’avvicinarsi, dal… toccarla.
Le guance di Nesta non si arrossarono alla poca distanza che li divideva, poco più di una spanna tra i loro volti.
Era giovane, ventidue, ventitré anni al massimo. Ma era mai stata con un uomo? Non gli sarebbe dovuto importare, né avrebbe dovuto chiederselo, non faceva differenza, ma… di solito riusciva a capirlo. Ma lei… Cassian non riusciva proprio a decifrarla. Quindi sporse la testa verso di lei, i capelli scuri che gli coprirono le sopracciglia, e mormorò: «Ci sono altri modi in cui posso essere gentile, Nesta Archeron.»
Quel maschio Fae, Cassian, era pericoloso.
Ovviamente era pericoloso nei modi in cui ci si aspetterebbe: alto, muscoloso, esperto con le armi e in guerra. Poi c’erano quelle enormi ali ed il piccolo dettaglio che fosse un letale guerriero Fae ai servigi del più potente Signore Supremo della storia. Un Signore Supremo a cui sua sorella era legata e di cui si stava innamorando, se ci aveva visto giusto. Era chiaro che lui fosse già follemente innamorato di lei.
Ma Cassian era pericoloso per tutt’altra ragione. Non per il bellissimo viso, ma per quegli occhi nocciola… tendevano a valutare tutto e tutti.
Rimase attaccata al caminetto, il fuoco crepitante era incredibilmente caldo sul suo lato sinistro mentre Cassian torreggiava su di lei, abbastanza vicino da condividere la stessa aria. Nesta contò i propri respiri. Resse quello sguardo, decisa a non permettergli di vedere troppo in profondità. Era meglio tenerlo distratto con parole pungenti, allontanandolo completamente.
O con quello. L’offerta che le aveva rivolto, la prova.
Senza dubbio un modo per trovare un’altra debolezza. C’era un modo per superare le sue difese su quel fronte?
Doveva solo essere gentile. Un sorrisetto le incurvò le labbra.
«Se volessi le zampe di un maschio addosso a me» disse Nesta, rifiutandosi di abbassare il mento «andrei direttamente da uno dei nostri segugi.»
Quell’insopportabile sorriso rimase e Cassian puntò dritto alla gola quando chiese: «Sei mai stata con un maschio, Nesta?»
Mentire o dire la verità, cosa le avrebbe portato vantaggio? Quindi disse solo: «E tu?»
Cassian sbuffò e quel respiro le sfioro le labbra. «Te l’ho chiesto prima io, dolcezza.» Inclinò la testa di lato, i capelli scuri come la notte gli scivolarono sulle sopracciglia, come seta. «A meno che tu non preferisca le femmine?»
Non sarebbe stato affatto un insulto se fosse stato così, ma era stato abbastanza una provocazione da portarla ad appoggiare spudoratamente una mano sul petto di lui.
Muscoli scolpiti giacevano sotto le strette pelli da combattimento, il suo calore che irradiava nel suo palmo. Fuoco, le ricordava fuoco reso persona. Premette leggermente sul suo petto, la mano che in qualche modo sembrava ancora più piccola in contrasto all’ampiezza di quel torso.
Un assassino addestrato, nato e cresciuto come un predatore.
Arrogante per natura.
Quando lei osò muovere un passo in avanti, Cassian si raddrizzò, costretto a farlo solo perché se non l’avesse fatto, non ci sarebbe più stato spazio tra le loro bocche. «Non sono affari tuoi chi e cosa preferisco.» disse. «Tantomeno…»
«Non hai risposto alla mia prima domanda. O tutte queste domande sono solo un diversivo?»
«Secondo te?»
«Ed ecco un’altra domanda.» Fece un sorriso presuntuoso.
E facilmente lei la trovò, la risposta che sapeva l’avrebbe attanagliato.
Nesta premette il proprio corpo contro quello di lui, sfiorandolo appena, ma bastò per farlo irrigidire. Per far dilatare le sue pupille al punto che quasi divorarono quelle iridi nocciola. Mormorò: «No, mai.» Era vero. La sua mano spinse contro il petto coperto di pelli. «Perché avrei dovuto? Appena sono maturata mi sono trovata circondata da bruti e bastardi di basso rango. Ho preferito usare la mia mano piuttosto che insudiciarmi con le loro.»
Qualunque divertimento svanì. Avrebbe potuto giurare di sentire la freccia celata nelle sue parole colpire il proprio bersaglio. Aveva capito abbastanza delle sue origini. Quindi gli disse la verità, rivestendola di lame pronte a ferirlo se si fosse soffermato a pensarci su troppo a lungo.
No, non era mai stata con alcun maschio, né Fae né umano. Tomas voleva farlo, e lei… una parte di lei sapeva che non ci sarebbe stato un futuro con lui. Sapeva del suo odioso padre e del fatto che lui non aveva fatto nulla per evitare che quell’uomo picchiasse sua madre. Aveva a malapena lasciato che Tomas la baciasse, ed il giorno in cui lei aveva messo la parola fine alla loro relazione, lui aveva cercato di…
Deglutì, chiudendo fuori il ricordo di ciò che lui aveva detto e fatto. Il rumore del suo abito che si strappava. No, non si era giunti a quel punto, ma… il puro terrore di quei momenti in cui lui ci aveva provato, prima che lei urlasse e si liberasse con le unghie e con i denti. E non lo disse a nessuno.
Qualcosa doveva essere cambiato nella sua espressione, nel suo odore, perché il fastidio di lui svanì, no, mutò. In qualcos’altro, qualcosa… rabbia.
Questo era ciò che si vedeva sul volto di Cassian.
Pura, cocente rabbia.
Le tolse il fiato, cancellando qualunque sentore che avesse lei il coltello dalla parte del manico quando lui tagliò corto «Chi è stato?»
Odiava Tomas, lo odiava al punto che a volte sperava che venisse investito da un carro, ma non avrebbe augurato a nessuno il genere di morte che gli occhi di Cassian promettevano.
«Non so di cosa tu stia parlando» rispose e fece per ritirare la mano.
Lui la afferrò, prima che potesse registrare il movimento, bloccandola lì.
Era come se il suo cuore stesse galoppando, un rimbombante, potente galoppo.
Pericoloso, pericoloso, pericoloso era quel maschio.
Solo per il fatto che la faceva sentire senza controllo. Che non aveva idea di cosa lui, cosa lei, avrebbe fatto se l’avesse trovata vulnerabile per un solo istante.
«Qualcuno ti ha fatto del male» disse, la voce così gutturale che lo comprese a malapena.
L’ira, l’assoluta fermezza in cui si ergeva, era così quando stava per uccidere. Quando voleva uccidere.
Mano contro mano, i calli che la graffiavano.
Lei non gli rispose. «Cambierebbe qualcosa se qualcuno l’avesse fatto? Mi metterebbe in una luce diversa? Mi tratteresti diversamente?»
«Mi farebbe dare la caccia a quella persona per spezzargli ogni osso che ha in corpo.»
Un brivido le percorse la spina dorsale, non per paura di lui, ma per la verità celata in quella promessa. La sincerità.
«Non mi conosci» disse lei. «Perché dovresti preoccupartene?»
Cassian ringhiò, avvicinandosi ulteriormente, la sua mano che stringeva quella di lei, poi si fermò. Come se la domanda stesse penetrando. Come se la realtà stesse penetrando. «Lo farei per chiunque.»
Sapeva che diceva sul serio, che l’avrebbe fatto.
Forse era quello che la snervava, che la portava a volerlo ferire. L’assoluta sincerità. Il fatto che onorava le sue promesse e che non ne faceva alla leggera. Che vedeva e diceva la verità, e quando la vide il primo giorno, giudicò le sue… azioni di quando vivevano nella loro vecchia casa.
La sua codardia, l’egoismo. La rabbia che l’aveva consumata, al punto da portarla a volere tutti tremendamente affamati, solo per vedere se il loro inutile padre si sarebbe degnato di salvarle. E poi la piccola Feyre si era fatta avanti e Nesta l’aveva odiata anche per questo, perché Feyre aveva fatto l’inimmaginabile per mantenerli in vita.
Non sapeva di che farsene, di quella rabbia. Ancora la bruciava, la perseguitava, la faceva voler scattare, ruggire e distruggere tutto fino a fare a pezzi il mondo intero.
Lei sentiva tutto, troppo e profondamente. Odiava e si preoccupava, amava e temeva, più delle altre persone, pensava a volte. Poteva vagliare tutti loro in un istante, come se provasse un nuovo abito, e nessuno se ne accorgeva o non gli importava.
Tranne lui. Lui lo vedeva, lo sentiva.
Quel primo pomeriggio l’aveva guardata, non il viso ed il corpo a cui gli uomini umani puntavano, ma lei, ed aveva visto tutto. Voleva ferirlo per ciò, prima che potesse rivelare quelle cose a chiunque altro, voleva trovare un modo per spezzarlo così che non potesse…
La mano che spingeva la sua contro il suo petto allentò la presa. Il pollice di Cassian accarezzò il dorso della sua mano, il polpastrello ruvido per i calli.
Un ceppo di legno si spostò nel fuoco, schioccando mentre le braci scoppiettavano, illuminando la stanza.
Era rimasta a fissarlo. Lui sbatté le palpebre, la bocca che si aprì appena.
Cassian si inclinò verso di lei, e Nesta si trovò a piegare la testa all’indietro, esponendo il collo, garantendogli ulteriore accesso mentre lui le sfiorò la gola con il naso.
Che la Madre ed il Calderone lo dannassero.
Quella donna.
Nesta.
Cassian non riuscì ad allontanarsi da quella linea che era chiaramente segnata tra loro. Il momento prima avrebbe voluto strozzarla, poi aveva visto il terrore sul suo volto riguardo il suo passato e l’aveva sopraffatto una tale calma omicida che si era spaventato di sé, poi… poi tutto si era fermato, l’occhio del ciclone con loro dentro, e lei era lì.
Ed in quegli occhi grigio-azzurro poteva vedere i pensieri che le giravano per la mente, come fumo in un bicchiere. L’astuta mente al lavoro dietro quel viso, lo stesso che non era riuscito a togliersi dalla testa in quelle settimane.
Quindi, semplicemente, si… mosse.
E poi Nesta aveva alzato il mento, dandogli completo accesso alla sua gola.
Ogni istinto nel suo corpo venne in superficie, così violentemente che li dovette soffocare con una presa salda, altrimenti si sarebbe trovato in ginocchio, implorandola di toccarlo, di fare qualunque cosa.
Ma si chinò in avanti, passando la punta del naso lungo il lato del suo collo.
Morbida, la sua pelle era così morbida; così delicata. Poteva sentire l’odore del sangue mortale che scorreva nelle vene appena sotto quella pelle. Cassian inalò il suo profumo, che si attaccò a qualche intrinseca parte di lui, radicandosi e facendo sussultare il suo membro.
Nesta, Nesta, Nesta.
Gli occhi di lei si chiusero ed un affannato, piccolo suono uscì dalle sue labbra mentre Cassian spostava le labbra dove poco prima aveva strofinato il naso.
Quasi gli cedettero le gambe quando lei spinse ulteriormente la sua esile mano contro di lui. Cercò di non pensare a come sarebbe stato avere quella mano da qualche altra parte. Afferrandolo, accarezzandolo.
“Di più, di più, di più” implorava il suo corpo.
Inclinò la testa e baciò un altro punto, più vicino alla sua mandibola.
Il suo frenetico battito cardiaco era come le ali di un colibrì, anche se il suo corpo rimase teso, ma sciolto nei punti giusti, un leggero rossore che si espandeva sui suoi meravigliosi seni. Abbastanza grandi da riempirgli le mani, contro cui strofinarsi finché non lei non lo avesse implorato…
Il suo battito cardiaco martellava proprio sotto la sua bocca. La leccò. E fu proprio quel tocco che la fece saltare indietro.
Nesta andò a sbattere contro i pannelli di legno abbastanza forte che la dovette afferrare. Ma lei aveva gli occhi spalancati, furiosa, mentre si portava una mano alla gola.
Cassian la batté sul tempo con un commento velenoso contro quello che lei si stava preparando a sputare, dicendo «Un po’ tesa in questi giorni, Nesta?»
Lei abbassò la mano sibilando «È stata una tua qualche magia da Fae a fare questo?»
Abbaiò una risata. «No. Anche se sono lusingato che tu pensi questo.»
Nesta lo guardò in cagnesco, ma emise una bassa risatina. «Beh» disse, passandogli di fianco, dirigendosi verso la finestra con lenti passi calcolati. «Se un guerriero Fae nato bastardo è in grado di fare questo, non c’è da stupirsi che mia sorella sia così coinvolta con dei Signori Supremi.»
Stronza.
Stronza per l’insulto a lui e a Feyre. «Ti ha infastidita di più il fatto che lo volevi, o che un nessuno nato bastardo ti ha fatto provare certe cose, Nesta?»
«È stato un lungo inverno. I mendicanti non possono essere esigenti, suppongo.» Innalzò muro dopo muro dopo muro, la sua postura che si irrigidiva e…
Che gli importava? Che cosa gli importava? Aveva già abbastanza stronzate di cui doversi preoccupare. Lanciarsi su una mortale che avrebbe avuto qualche altra decade prima che le cose diventassero strane era… stupido. E poi ci sarebbe stato il problema di doverlo spiegare a tutti gli altri.
A Mor. Gli si gelò il sangue.
Non era stupido. Sapeva che lei e Azriel erano… qualunque cosa fossero. Sapeva che Azriel si era innamorato di Mor non appena era entrata nel campo di guerra Illyrian cinque secoli prima. E Cassian ne era stato geloso, dei timidi sguardi di Mor verso Azriel in quelle prime settimane e del fatto che il suo migliore amico e fratello… stesse guardando qualcun altro. Che lei era apparsa ed Azriel era cambiato. Leggermente, ma Cassian sapeva che il suo amico non apparteneva più solo a lui e a Rhys.
Così quando Mor gli chiese di andarci a letto insieme… L’aveva fatto. Uno stupido, geloso coglione, l’aveva fatto e se n’era pentito alla prima spinta, quando aveva sentito la sua verginità cedere sotto di lui, ed aveva realizzato la gravità di ciò che aveva fatto.
Ma poi lei se n’era andata ed Azriel non aveva fatto niente, e… Mor era ancora tra di loro. Da qualche parte tra l’essere amica ed amante. Cara alla sua famiglia, ma… Cassian si era odiato per quello sguardo sul volto di Azriel, successivamente.
E poi per quello che era successo a Mor per mano della sua famiglia.
Aveva avuto delle amanti, alcune solo per una notte, altre per mesi, e a Mor non era mai importato, ma…
Questa donna che stava davanti a lui come un pilastro di acciaio e fiamme… Cassian non voleva dire a Mor di lei. Di come le aveva toccato il collo.
Cassian riuscì a dire «Dato che eri felice di una distrazione, supporrò che le regine non si siano fatte sentire e me ne andrò.» Prima che lei riuscisse a castrarlo completamente. Schioccò le dita, la lettera di Rhys apparse tra di esse. La appoggiò su un basso tavolino lì vicino. «Inviatela alle regine prima che potete.»
Nesta spostò lo sguardo tra la lettera e lui, raddrizzando le spalle. «Dì a mia sorella ed a quel suo nuovo Signore Supremo di mandare qualcun altro la prossima volta.»
Cassian digrignò i denti in un sorriso feroce. «Dì alla tua altra sorella che preferiremmo avere a che fare con lei.»
«Elain resta fuori da questa storia. Meno deve avere a che fare con la tua specie, meglio è.»
«Perché le lasci sposare quel coglione bigotto?» La domanda gli sfuggì.
«Ha buone ragioni per odiare la tua specie. E così ne abbiamo noi.»
«Questa è una stronzata e lo sai benissimo»
«Credevo te ne stessi andando.»
«Hai una maledetta opinione per chiunque altro nel mondo. Perché non dire ad Elain che sta per sposare un mostro?»
«Forse tutti voi maschi siete dei mostri.»
Se qualcuno le avesse fatto del male, non l’avrebbe biasimata affatto per quel pensiero. Ma le sue parole furono comunque taglienti quando disse «Merita qualcuno di migliore.»
«Naturalmente.» Piatta e fredda.
Lui continuò, perché semplicemente non riusciva a fermarsi «E cos’è che tu meriti?»
Un lento sorriso, un felino pronto ad uccidere. Poi «Sicuramente più di un nessuno nato bastardo.»
Stronza. Ma rispose «Che socia carina che sei, Nesta. Ricordami di portare un libro di strategia militare la prossima volta. Allora, magari, avrai qualche possibilità.»
Uno sguardo freddo, piatto.
«È più semplice, non è vero» mormorò Cassian, avvicinandosi nuovamente, non curandosi di chi avrebbe potuto vederli dalla finestra. «Brandire le parole e la freddezza come armatura per impedire agli altri di vedere dove e chi hai deluso e di come non ti è importato finché non è stato troppo tardi.»
Solo l’odio le brillava negli occhi, nessuna traccia di quella lussuria dormiente che gli aveva annebbiato i sensi.
«Beh, io riesco a vederlo, Nesta Archeron. E tutto ciò che vedo è una ragazzina annoiata e viziata…»
Si mosse con un’impressionante velocità per un essere umano, ma fu comunque troppo lenta, permettendogli di bloccarla.
Cassian le afferrò il ginocchio alzato, a pochi pollici dalle sue palle e premette abbastanza forte da farla sibilare.
«Colpo basso» disse con un mezzo sorriso. «Vieni a giocare con me, Nesta, e ti insegnerò modi molto più interessanti per portare un maschio in ginocchio.»
Provò a liberarsi, ma lui non la lasciò. Inciampò all’indietro e lui la afferrò per la vita, tirandola vicino a sé per impedirle di cadere dalla finestra. Diede un’occhiata alle gonne attorno a lui. «Comunque, cosa nascondi sotto tutto questo?»
Nesta si stabilizzò abbastanza da liberare il ginocchio dalla presa di lui. «Esci da casa mia.»
Cassian le fece solo un sorriso.
Era tesa a causa sua.
Credeva che l’avrebbe strangolato, per cui le aveva afferrato il polso, ma…
Le sue mani, fredde e ferme, gli afferrarono i lati del volto. Tirandogli la testa verso di sé.
Il respiro di Cassian divenne irregolare quando gli occhi di lei si posarono sulla sua bocca, quando premette il proprio corpo contro il suo, quei seni cosi morbidi contro di lui. “Stupido, stupido, stupido…”
Non gli importava. Non gliene importava un cazzo mentre lei si sollevò sulla punta delle dita, avvicinando la bocca alla sua…
Il dolore esplose tra le sue gambe, togliendoli il respiro dai polmoni quando quel maledetto ginocchio trovò il suo bersaglio.
Cassian barcollò all’indietro, imprecando. Lei sbuffò, guardandolo cadere contro una poltrona, tenendosi lo stomaco, cercando di riordinare la sua mente…
«Siete tutti uguali.» disse, imperiosa come la notte e fredda come il crepuscolo. «Forse essere immortali vi rende prevedibili.»
«Tu» boccheggiò.
Una bassa risata emerse da quelle labbra, che si era preparato ad assaggiare, a divorare…
«No, le regine non si sono fatte sentire» disse Nesta, avviandosi verso la porta. «Non abbiamo sentito niente da parte loro.»
Cassian costrinse le sue gambe a muoversi, ma il dolore persisteva, immobilizzandogli le ginocchia.
«Invierò la lettera domani mattina.» Nesta si fermò con la mano sulla maniglia e guardò oltre la propria spalla. «Non sai niente di chi io sia, di ciò che abbia fatto e cosa voglio. E già che siamo sull’argomento… Manda qualcun altro, la prossima volta. Se ti vedo sulla soglia di casa mia, urlerò abbastanza forte affinché i servitori accorrano.»
Lui rimase a bocca aperta, il dolore si placò abbastanza da permettergli di rimettersi in piedi.
Ma Nesta se n’era andata, scendendo nell’atrio, dove un qualche domestico la chiamò e lei mormorò una risposta.
Un minuto dopo lui se ne andò. Non per la porta principale, ma passando per la maledetta finestra della camera da letto di lei, come un ladro nella notte. Si lanciò nel cielo prima che qualcuno potesse chiedersi cosa fosse stato quel fruscio e battito d’ali.
Cassian non girò intorno alla casa. Ma poteva comunque sentire l’attenzione di Nesta su di lui mentre si dirigeva verso il muro. Anche se schermato dall’essere visto, poteva sentire quegli occhi grigio-azzurro su di sé.
Quel sentore lo perseguitò fino a Velaris.
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A caccia di farfalle...
Una notte di settembre, mentre rientravo a casa dopo un lungo viaggio in Africa, apro la porta e trovo il mio appartamento sottosopra, nessuno in casa,mi avvicino al tavolo e trovo un biglietto indirizzato proprio a me,il mio nome a lettere cubitali:Aurelia, my love, dalla scrittura sono riuscita a capire chi era,uno dei miei tanti incontri occasionali,il suo nome è Carlos,le gambe cominciano a tremare,dopo un anno di assenza, che non ci siamo visti, il mio appartamento disintegrato,una furia omicida, sulle pareti non è rimasto niente.Apro automaticamente il biglietto e ci trovo scritto sempre a lettere cubitali, Puttana, certo le parole non mi sono piaciute per niente,è stata una di quelle scoppate occasionali,il motivo per il quale per il quale glielo data è perché tra me e lui c'è una conoscenza in comune,un amica di vecchia data,conosciuta ai tempi dell'università, Anna, mi sono fidata e glielo data.E' stato un anno interessante, un estate di fuoco ,praticamente addosso aveva gli straccetti, sono io il genio in tutti i sensi,lavoro più di un negro e sono in grado di amare senza chiederti niente in cambio,ma Carlos è l'eccezione a tutte le regole,mi sono sempre detta qui c'è qualcosa che non va, per me è stata una grande scoppiata,mi sono divertita e ancora adesso ho dei bellissimi ricordi,i miei ex vivono costantemente nel mio pensiero e nel momento del bisogno non manchiamo mai,anche dopo vent'anni,di norma sono sempre io ad avere bisogno di aiuto. Uno sfogo di parole,tanta rabbia che non si capisce il perché, sono semplicemente andata via senza dire niente,mi sembrava tutto normale, ma così pare che non sia.Rimproveri del genere,quale sarà il prossimo che ti farai, parole di cattivo gusto,io vivo la mia vita come meglio credo,tra me e lui ci sono dieci anni di differenza, ci sono altri ragazzi,altri amori,altri pensieri,la lingua per me è il castellano, la fedeltà assoluta, oltre ogni limite,sappiamo soffrire senza pietà, l'eterna speranza della libertà, e così ogni giorno della nostra vita,prendo in mano il biglietto e lo strappo. Mentre la mia memoria ritrova il suo giusto ordine sono seduta al tavolo di casa mia e comincio a prepararmi per un nuovo viaggio,faccio la ricercatrice da oltre dieci anni,l'argomento è un sacerdote guerriero della civiltà precolombiana,la sua scomparsa o meglio la sua morte,di lui sono rimasti soltanto gli abiti,e qualche gingillo qua e là,nella stanza al momento del suo ritrovo nonc'era niente era come se si fosse polverizzato, a distanza di così tanto tempo anche le anime scompaiono, la problematica si pone dal momento che essendo stato un sacerdote di norma vengono mumificati,invece lui no,infatti gli altri sacerdoti sono stati ritrovati,di lui non è rimasta traccia. In totale erano trenta sacerdoti,per la precisione trentaquattro, all'interno del monastero li hanno catalogati tutti quanti,la mia ricerca oramai va avanti da diversi anni,il guerriero era semplicemente uno scribacchino,riportava tutto quanto per iscritto giorno per giorno, è incredibile tutte le informazioni che siamo riusciti a recuperare, dalle azioni quotidiane di tutti i sacerdoti, alla consumazione dei cibi,il lavaggio delle tuniche c'era un procedimento ben preciso per non consumare la stoffa e lo stesso l'asciugamano,il taglio dei capelli avveniva ogni tre mesi esatti,i capelli venivano poi conservati all'interno di un baule,dedicati alle bambine bianche,è una leggenda che narra la storia di una bimba nata senza capelli per la volontà di Dio,i sacerdoti in dono gli hanno sempre dato i propri capelli,si narra quindi che ogni tre mesi i sacerdoti donavano i propri capelli alla bimba e ognuno di loro la pettinava e intrecciava delle splendide trecce,così per l'eternità. La morte dei sacerdoti è avvenuta casualmente, qualcuno di loro a causa di un incidente, altri per malattie rare,oppure degli omicidi, e il mio scribacchino scomparso nel nulla,la cosa strana è che nella sua stanza è stato ritrovato un pettine meraviglioso,in oro puro,delle pietre preziose incastonate nel manico..
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Segnalazione "Il guerriero della furia" Dark Side Vol. 1 di Luca Besia
Segnalazione "Il guerriero della furia" Dark Side Vol. 1 di #LucaBesia
Sinossi
In un futuro lontanissimo, in un mondo regredito a una sorta di nuovo medioevo pervaso da creature sovrannaturali, entità ultraterrene e forze occulte di cui gli umani sono spesso in balia, si snodano le vicende di Kane Hamada detto il “Cacciatore”, un feroce guerriero errante dal passato oscuro che porta dentro di sé un potere tanto devastante quanto incon-trollabile. Kane muove i suoi…
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Thor era intento ad osservare le onde del mare, infrangendosi sulla scogliera della costa norvegese.
Passarono cinque e dolorosi anni: la dipartita di Loki, fu un fardello troppo pesante da portarsi a carico.
Nonostante fosse il Signore dei Fulmini e un valoroso guerriero dell'ormai defunta Asgard...il dolore, la perdita, il rammarico e la vendetta pervasero ogni angolo del suo cuore, pronto a consumarne l'animo.
Non aveva mai dimenticato quel terribile giorno neppure un istante...di recente aveva sconfitto il Macellatore Degli Dei, ma c'era un tassello mancante a cui non smetteva mai di rivolgere i propri pensieri.
Fu proprio quella mattina che accadde qualcosa di assolutamente straordinario...il sole splendeva, portando con sé un nuovo giorno.
I suoi occhi fissarono il cielo di un azzurro così intenso da lasciarlo colmo di ammirazione, a causa della sua bellezza.
Un rumore di passi felpati attraversarono l'erba: la misteriosa figura si avvicinò a costui, poggiandogli una mano sopra la spalla.
Il Tonante sgranò gli occhi per la sorpresa...dinnanzi a lui si trovava Loki in carne ed ossa.
Avrebbe voluto abbracciarlo, ma non riusciva a credere che fosse vivo dopo tutto quel tempo a disperarsi per la sua scomparsa.
Lo aveva ingannato ancora una volta, però si celava una buona ragione per aver compiuto una mossa simile.
Come spiegargli che era rimasto a lungo in esilio su un pianeta remoto dell'Universo? Come spiegargli che ovunque andasse recava dolore, sofferenza e morte?
Togliersi dall'equazione fu una decisone sofferta per il famigerato Dio dell'Inganno...doveva salvarlo dalle grinfie del Titano Folle.
L'altro lo squadrò da capo a piedi: era esattamente come lo ricordava...gli abiti neri, misti ad un verde color bosco e i lunghi capelli corvini scompigliati.
Non indossava più il suo iconico elmo d'oro a fasciargli il capo, ma solo l'aderente tuta sakaariana ormai logora e alcune cicatrici sul volto, tra cui il taglio sul sopracciglio.
Thor provò a lanciargli una lattina per verificare se fosse solo un'illusione provocata dal subconscio, ma non fu così...il minore l'afferrò al volo senza problemi.
Le iridi dell'Ingannatore erano spente: il guizzo brillante e sagace non esisteva più.
il Dio non poté far a meno di notarlo: entrambi avevano condotto una vita triste, basata sulla solitudine.
Inoltre, Thor era stato in giro con i Guardiani Della Galassia a fronteggiare viscidi criminali di mezza tacca, prima di compiere il suo imminente ritorno a Midgard.
Dopo minuti interminabili a fissarsi, Loki proferì parola per primo.
"Comprendo perfettamente cosa stai provando, fratello...ma se sono giunto fin qui è per un'unica ragione."
Thor scosse la testa in un cenno di disappunto: aveva patito un atroce dolore...una terribile tribolazione, lasciandosi andare alle più disparate bassezze.
"Come osi palesarti, dopo ciò che ho passato per tutto questo tempo? Come osi ancora rivolgermi la parola?"
Chiese il Dio del Tuono, aggredendolo in maniera feroce...avrebbe voluto scagliargli Stormbreaker con tutta la furia che possedeva in corpo.
Gli occhi del maggiore presero ad illuminarsi: dai palmi delle proprie mani, fuoriuscirono varie saette...una lacrima gli arenò sul viso.
Lingua D'Argento ebbe la stessa reazione.
"Ti prego, fermati! Posso spiegarti."
Gli supplicò, attivando un campo di forza dai riflessi verdastri.
Il secondo non demorse...anzi continuò imperterrito, provando ad acciuffarlo.
Loki del resto era agile e scaltro...affrontarlo si rivelava sempre un'impresa ardua.
"Ora basta!!!"
Gridò il Fabbro di Menzogne, ormai stanco della faccenda...scatenò il pieno potere del Seiðr, colpendo il fratellastro.
Egli cadde al suolo: ma per sua fortuna non perse i sensi.
Gli corse incontro preoccupato, senza indugiare troppo...si inginocchiò verso di lui, riservandogli un abbraccio.
Thor sfogò le proprie lacrime, ricambiando il gesto.
"Credo sia meglio rientrare...abbiamo molto di cui discutere."
Precisò il primogenito di Odino e Frigga: Loki nel frattempo gli tese la mano per aiutarlo a rialzarsi.
Ma prima di giungere verso casa, Loki pronunciò una frase...una promessa lontana e mantenuta con onore, nonostante le diverse vicissitudini.
Loki rivolse gli occhi al cielo, tornando infine a guardare la vasta distesa d'acqua che si ergeva dinnanzi ai due Asgardiani.
"Avevo ragione, fratello...il sole avrebbe brillato nuovamente su di noi."
Rispose con una nota orgogliosa nella voce.
Questa è la storia di come due divinità alla deriva riuscirono finalmente a ricongiungersi, compiendo una scelta di eterna fratellanza.
Nessun destino avrebbe più spezzato il loro legame.
𝕱𝖎𝖓𝖊
One Shot:
~ The Sun Will Shine On Us Again ~
#loki#mcu loki#thor#mcu thor#mcu#marvel cinematic universe#what if#thor love and thunder#the sun will shine on us again#one shot#fan fiction#wattpad#wattpad italy#fanfiction loki and thor#brothers forever#aesthetic loki#aesthetic thor#my aesthetic#my work#asgardians brothers
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MORE THAN A TRICKSTER - ATTO XX [ITA] - 20/20
Autore: maximeshepard (BeatrixVakarian)
Genere: Mature
Pairing: Loki/Thor
Sommario: questo è il mio personale Ragnarok. Si parte e si finirà alla stessa maniera, alcune scene saranno uguali, altre modificate, altre inedite. Parto subito col precisare che qui troverete un Loki che non ha nulla a che fare con il “rogue/mage” in cui è stato trasformato in Ragnarok, e un Thor che si rifà a ciò che abbiamo visto fino a TDW.
Loki e Thor sono stati da sempre su due vie diverse, ma quando il Ragnarok incomberà inesorabile su Asgard, le cose cambieranno. Molte cose cambieranno.
Capitoli precedenti: Atto I - Atto II - Atto III - Atto IV - Atto V - Atto VI - Atto VII - Atto VIII - Atto IX - Atto X - Atto XI - Atto XII - Atto XIII - Atto XIV - Atto XV - Atto XVI - Atto XVII - Atto XVIII - Atto XIX
@lasimo74allmyworld @piccolaromana @miharu87 @meblokison @mylittlesunshineblog
Nda: Ci siamo. Ecco il finale di questa storia. Questo ultimo capitolo è stato scritto veramente di getto e non ho voluto arzigogolarlo troppo con la revisione. Il ritmo è veramente folle, è lungo, ma davvero... Sarò sincera, l’ho vissuta abbastanza come un calvario perché dovevo stare in determinati binari, ma è stata una mia idea, per cui “chi è causa del suo mal, pianga sé stesso” xD
Non anticipo nulla, ma voglio solo dirvi: GRAZIE. Per avermi supportata, sopportata, tenuto compagnia in questo viaggio. Grazie davvero per le vostre parole, siete stupende.
ps. Arriverà ancora qualcosa, nel prossimo periodo, riguardo a questa storia. wink wink gomitino gomitino
Buona lettura, dolcezze!
- ATTO XX -
Lo sguardo di Brunhilde, quando si ritrovò faccia a faccia con Hela, era qualcosa di davvero incomparabile. Sif aveva visto molte battaglie, aveva combattuto a fianco di Thor, Loki e ai guerrieri più forti di Asgard. Aveva visto Odino in azione, quando era soltanto una bambina e sapeva quanto lo sguardo di quella famiglia potesse incutere timore, come quello di qualsiasi guerriero degno di essere chiamato tale, atto a difendere il fianco dei propri compagni e l’onore di Asgard.
Ma quello sguardo… Quegli occhi la fecero rabbrividire: quello sguardo racchiudeva un odio tale e un desiderio di vendetta, tanto che Sif realizzò di non volersi mai trovare un tumulto del genere nel cuore.
E mentre la Valchiria combatteva, le sue labbra rimanevano serrate alle frasi di scherno di Hela – la quale pareva ora ricordarsi di quella giovane guerriera, ai tempi di quella terrificante battaglia, nella quale le sue compagne caddero una dopo l’altra, inesorabilmente.
Quel tumulto non l’aveva mai visto nel cuore di nessuno. Né compagni, né avversari. E ciò la colpì veramente nel profondo, facendole provare un senso di inadeguatezza come mai aveva provato.
C’era qualcosa di tremendamente diverso in quella determinazione, in ogni colpo scambiato tra le due, in ogni ferita che Brunhilde incassava, senza battere ciglio. E per quanto ciò la destabilizzasse, provava anche una profonda curiosità su quella figura quasi mitologica, davanti ai suoi occhi.
Non passò molto tempo perché Hela sfoderasse la sua ritrovata potenza, dopo essersi ripresa dall’attacco di Thor e intrattenuta con la Valchira. Loki era il più lontano dal gruppo e se ne stava in disparte – il fiato corto e la mano premuta sulla spalla sanguinante. Gungnir lo sorreggeva.
Era esausto e Heimdall lo sapeva. Ma sapeva altrettanto che Loki avrebbe fatto di tutto per non far passare Hela: ciò che dovevano fare loro, era guadagnare il tempo necessario perché Thor attivasse la Fiamma Eterna.
“Pensi che Hulk la possa fermare?” aveva domandato al Principe, il quale parve pensarci per un attimo, ma successivamente mosse il capo in segno di diniego. Hulk era praticamente immortale, ma Banner no. Aveva saggiato la sua furia su sé stesso, anni prima su Midgard, ma Loki non era Hela ed Hela non ragionava come Loki.
Heimdall imbracciò la spada, vedendo il mostro verde scendere in campo per dare manforte a Brunhilde. Thor ci avrebbe impiegato all’incirca cinque, sette minuti a raggiungere la sala dei trofei – fermo restando che l’accesso fosse ancora in piedi.
“Se Surtur sorgerà dalle profondità di Asgard, dovrai tirare Thor fuori da quell’inferno. Lo sai, vero?”
Loki strinse le labbra, annuendo. Il suo seidr fluiva come impazzito, dalle sue dita alla sua cute lacerata e gonfia.
“Credi di potercela fare?” domandò il Guardiano. Era una domanda più che legittima: non si poteva sapere cosa il fuoco di Muspellheim potesse fare a Loki, ma se due più due fa quattro, per un Frost Giant non sarebbe stato piacevole.
“Userò i nodi magici, come ho fatto la volta precedente. Dovrei farcela, se lascio una mia copia qui. Intanto, mi è venuta in mente un’idea…” asserì, riacquistando una postura eretta e prendendo contatto con la reliquia.
Il Casket si appoggiò delicatamente sul palmo della sua mano, illuminandosi. Heimdall sollevò un sopracciglio, quando anche Gungnir cominciò a brillare di luce propria.
“Cosa vuoi fare?”
Loki si fece sfuggire un ghigno compiaciuto.
“Improvvisare”.
*
Quando sia Heimdall che Sif si unirono al combattimento, Hela si accorse che il gruppo stava tramando qualcosa. Si sarebbe aspettata di vedere Thor riapparire in un turbinio di fulmini da qualche parte, ma tutto taceva e quel quattro contro uno non la soddisfaceva per nulla.
Ormai aveva stabilito una sorta di legame morboso con il Principe di Asgard. Quelle persone erano… Perfetti sconosciuti che le danzavano attorno come insetti fastidiosi e rumorosi – quello verde era anche piuttosto coriaceo, ma terribilmente stupido.
Liberandosi del bestione momentaneamente, si voltò verso ciò che rimaneva del palazzo di Asgard e vide Loki avvolto in un globo di luce, all’imbocco del Bifrost. L’aria gelida aveva cominciato nuovamente a fluire tutt’attorno e il ghiaccio si era propagato per tutta l’area circostante.
Di Thor nessuna traccia. E fu in quel momento che Hela capì di aver commesso un grave errore a sottovalutare i suoi fratelli. A credere che non fossero disposti a spingersi così oltre.
Heimdall se ne accorse un istante prima che Hela partisse a tutta velocità verso il palazzo di Asgard.
“LOKI!” urlò, con tutto il fiato che aveva in gola.
Loki aveva una mente incline riguardo determinati dettagli in materia. La magia era parte di lui fin da quando era bambino, insegnatagli da Frigga appena fosse stato cosciente di cosa fosse quella cosa verde che fluiva dalle sue dita sottili.
Aveva passato un millennio e qualche secolo chino sui libri e continuava tutt’ora a farlo. La sua mente era capace di capire determinate connessioni, così come era riuscito a comunicare con il Tesseract, poco a poco.
Quando sentì Gungnir vibrare tra le sue dita, capì subito che l’arma di suo padre potesse fare ben altro oltre a disintegrare qualsiasi cosa il suo raggio trapassasse. Le reliquie erano reliquie, non importava a chi appartenessero. Se le armi erano infuse di una magia potente, ed eri capace a capire quanto quella magia fosse potente e perché lo fosse – cosa animasse quegli oggetti, da dove provenisse quell’antico potere, beh… Partivi con un discreto vantaggio.
Nella luce del suo seidr mischiato allo scintillio di Gungnir e alla luce fredda ed intermittente del Casket of the Ancient Winters, Loki stava recuperando la concentrazione necessaria per tenere Hela lontano da Thor, definitivamente.
La sua mente era sincronizzata con la magia di Asgard e tutto ciò che gravitava attorno a lui. I suoi occhi chiusi vedevano i nodi arancioni, scossi dalla furia della sorella.
Una visione irruppe nella sua mente – gli occhi di Heimdall che si posavano su Thor e lo rendevano partecipe delle immagini. E poi la voce tonante del Guardiano che lo avvisava.
Loki aprì gli occhi, sollevando il Casket che fluttuò nell’aria, abbandonando la sua mano sinistra, anteponendo nel frattempo con la destra Gungnir al suolo, innanzi a lui e facendo sì che il colpo riecheggiasse in tutta Asgard.
Nel momento in cui Hela incrociò la lama nera con la lancia di Odino, il bagliore dorato innescò una profonda esplosione di luce aurea e azzurra, e tutta la zona alle sue spalle venne immediatamente ghiacciata.
Heimdall e Sif persero un battito a quella vista – il Palazzo Reale di Asgard completamente congelato, così come tutto il piazzale alla base di esso e le abitazioni circostanti. Il crepitio dell’elemento irrompeva tra gli archi e i colonnati, a lunghe propaggini, con una velocità impressionante.
Gungnir, invece, era ciò che vibrava con prepotenza, propagando il suo suono metallico, dividendo Loki da Hela.
Thor era arrivato nella stanza delle reliquie, quando sentì le vibrazioni prodotte da Gungnir e il suo eco profondo. Loki stava combattendo contro Hela, pensò. Si affrettò a raggiungere il Teschio di Surtur e il Sacro Braciere, ove porre l’oggetto e dare inizio al Ragnarok.
Chiuse gli occhi, cercando di calmare il suo cuore. Non voleva essere lì. Avrebbe voluto davvero trovarsi su Midgard con gli altri Avengers, a difenderla da qualche minaccia. A credere che Asgard fosse invincibile ed eterna. A credere che ci fosse un modo per smentire ciò che le premonizioni avevano ampiamente illustrato, notte dopo notte.
Il ricordo andò a quelle parole, udite come echi nel buio. Quelle parole erano ciò che, assieme al Teschio di Surtur e la Fiamma Eterna, avrebbero sconfitto Hela. Questo era ciò che doveva ripetersi, per riuscire ad andare fino in fondo a quel gesto così estremo da sembrare assurdo.
L’azzurro del suo occhio si tinse del rosso delle fiamme che danzavano innanzi a lui. Sollevò la Reliquia e la lasciò cadere nel fuoco. Osservò il soffitto della cripta – il nome di suo Padre abbandonò le sue labbra in un sussurro. Un’ ultima volta. Un addio. Una muta richiesta di perdono.
In seguito, le parole risuonarono in quel silenzio agghiacciante.
***
Loki si sentiva schiacciato da una forza immane: la sua mano sinistra era premuta contro il ghiaccio per tentare una maggiore resistenza, ma le sue braccia si stavano piegando alla furia di Hela.
Gungnir vibrava così tanto nella sua mano destra, da fargli male ed era passata solamente una decina di secondi da quando Hela lo aveva ingaggiato.
“Fammi passare!”
Loki la guardava senza proferir parola – a denti stretti, per l’enorme fatica. Hela si era davvero infuriata, questa volta. Aveva smesso di giocare, di combattere per il gusto perverso di farlo. Aveva capito perfettamente cosa stesse per accadere ed era disposta a farlo a pezzi, pur di procedere. A fare a pezzi tutti quanti.
Un’aura nera, quasi palpabile, la circondò e gli occhi di Loki si colmarono di terrore, quando udì chiaramente la lama di Gungnir incrinarsi. Per un istante il panico lo travolse, ma Brunhilde fu pronta a travolgere Hela con l’aiuto di Banner.
Loki si accasciò in ginocchio, mentre Sif gli offriva un appoggio e involontariamente sfiorava quegli strani segni sul suo corpo: i due si scambiarono uno sguardo sorpreso, ma in quell’istante il Ponte Arcobaleno tremò sotto ai loro piedi.
Heimdall, che non aveva perso i contatti con Thor, si voltò verso Loki di scatto. I suoi occhi arancioni vibravano di una luce così intensa da incutere timore a chiunque incrociasse il suo sguardo.
“E’ cominciato”.
Loki si voltò di scatto. Osservò la base del Palazzo di Asgard dapprima gonfiarsi, poi cedere, così come il ghiaccio. Alle sue spalle, Hela si era fermata a constatare la veridicità dei suoi timori per un’istante – il rumore sommesso delle fondamenta di Asgard e il vacillare della sua magia, erano chiaro segno che il Ragnarok era iniziato.
Liberatasi della Valchiria e di Hulk, si preparò nuovamente a fare breccia nel ghiaccio: Loki oppose Gungnir, la quale cedette, in un secco clangore. L’arma di Odino, la leggendaria Lancia del Re di Asgard, esplose in un bagliore, scaraventando a terra i presenti con una potente onda d’urto.
Loki respirò affannosamente nella polvere: dire che fosse stremato sembrava riduttivo, ma non cedette. Non ancora. Come Hela, aveva avvertito la perturbazione nella magia di Asgard, e ciò significava che, se voleva avere una chance di tirare fuori Thor da quello che si sarebbe rivelato un posto peggiore di Hel, avrebbe dovuto fare davvero in fretta.
Congiurò diverse illusioni, per poi aprire il portale. Heimdall si oppose ad Hela con la sua spada, mentre Sif aveva usato Hulk come trampolino, per gettarsi con lo scudo su di lei e sbilanciarla.
“Alla nave!” urlò Loki, prima di dissolversi assieme al portale.
Un sibilo doloroso sfuggì dalle sue labbra, quando l’ultimo nodo si aprì nell’ormai distrutta sala dei trofei. Trovò una lastra di pietra tremendamente calda sul suo cammino – su ciò che era rimasto della scalinata. Loki, ripresa la sua forma Asgardiana, si limitò a distruggerla con un calcio.
In quel momento, il calore diventò insopportabile, colpendolo in pieno viso. Si appoggiò al muro, ma la situazione non migliorò: cercò quindi di aprire gli occhi, cercando suo fratello – che non poteva essere andato molto lontano.
Ci volle qualche secondo, finché non vide una sagoma rotolare fuori dalle macerie roventi. Suo fratello tossì e si accasciò sulle proprie gambe.
“THOR!”
Loki si fece largo come poté, finché la sua mano non raggiunse il braccio di Thor, tirandolo a sé, impiegando diversi tentativi per rimetterlo in piedi. L’aria era irrespirabile e tutto attorno a loro pareva come accartocciarsi.
“Thor. Thor!”
“Che diavolo ci fai qui?” fu la sua riposta – la sua voce appena udibile nel fragore.
“Credevi che ti lasciassi morire?!” replicò secco il fratello, muovendosi verso il portale e letteralmente trascinando Thor di peso.
“Dovevi lasciarmi q-“
“TACI, IDIOTA!” urlò con tutta l’aria che aveva nei polmoni. “Non osare finire quella dannata frase o ti giuro che ti ammazzo con le mie mani!”. E per rimarcare quanto fosse furibondo, prese il mento del fratello con la mano libera, dandogli uno scossone, come per farlo rinsavire.
Thor soffocò una risata triste.
Il gruppo osservava Surtur troneggiare su Asgard – il ghiaccio ora completamente sparito e la distruzione tutta intorno a sé. I motori dello shuttle erano stati accesi, la Valchira alla guida del mezzo. Hela era ai piedi del Bifrost, in preda alla collera – la sua mente atta, febbrilmente, a trovare una soluzione per fermare il Ragnarok e la distruzione che sarebbe susseguita.
Loki e Thor vennero letteralmente sputati fuori dal portale, il quale si dissolse implodendo su sé stesso, poco lontano da Hela. Heimdall si stava sbracciando, per esortarli a correre, ma sarebbe stata una vera sfida per entrambi.
Loki ci provò, incespicando su sé stesso. Thor, appoggiato alla sua spalla, era praticamente un peso morto.
“Hulk, vai a recuperarli!” ordinò Heimdall, montando con Sif sul mezzo. Brunhilde prese quota, comunicando a Rekis di abbandonare la posizione e spostarsi nello spazio aperto.
Banner si mosse con braccia e gambe, incrementando la velocità: inutile descrivere l’espressione sul volto di Loki – tra lo sconcertato e il disgustato. Sarebbe stato il loro passaggio per la salvezza, a patto di giungere integri allo shuttle.
“Per le Sacre Norne, toglimi quelle mani di dosso!” urlò, schiaffeggiandolo in malo modo e guadagnandosi un’occhiataccia e un ringhio da parte del mostro verde. “Prendi mio fratello, io posso correre” aggiunse, rimettendosi in piedi, ma con orrore sentì il Bifrost cedere sotto di lui.
“VIA, VIA!” comandò – non che Hulk eseguisse i suoi ordini, ma anche una stolta e sgraziata creatura come il mostro che, ogni tanto, usciva fuori da Banner, era capace di capire quando la situazione richiedeva un’immediata ritirata.
Corsero. Loki maledisse sé stesso, per aver rifiutato il passaggio di Hulk, ma lo sguardo di Thor – il quale si era aggrappato alla schiena del bestione, gli suggeriva che non avrebbe voluto vedere ciò che quell’occhio stava vedendo.
L’espressione di Thor era la desolazione più nuda e cruda che avesse mai visto sul volto di qualcuno, eccezion fatta per sé stesso.
Quando Banner si voltò e prese Loki per un braccio di sua iniziativa, pronto per raggiungere in salto lo shuttle in movimento, assaggiò la vista di quel mostro infuocato e cornuto di Surtur, scontrarsi con Hela, il Bifrost frantumarsi e l’eco della sua voce distorta e mostruosa, rivolgere parole ingiuriose contro Asgard.
Il riflesso abbagliante del collasso, definitivo, di Asgard, tinse gli occhi di entrambi di un grigio intenso, quasi bianco. Sia Thor, che Loki, dal momento in cui attraccarono all’astronave con il piccolo shuttle – con il quale Thor, Banner e Brunhilde erano scesi precedentemente – avevano preso a correre verso la sala comandi, incuranti dei continui scossoni e delle procedure di sicurezza.
Il Bifrost si era sgretolato letteralmente sotto al mezzo, sotto i loro piedi e la navetta aveva faticato a mantenere la rotta a causa del peso di Banner trasformato in Hulk. L’ultima immagine, impressa nelle loro menti, era Asgard in pezzi, in un mare di fiamme: Surtur, ertosi al centro della città, aveva trovato in Hela il suo obiettivo collaterale.
E come il Bifrost sparì, scomparve anche lei.
Se l’immagine di Asgard in fiamme e completamente distrutta fosse un’immagine insostenibile per entrambi – e per chiunque Asgardiano su quella nave – l’improvviso, ma inesorabile, collasso del pianeta fu come una lancia in pieno petto.
In quel momento, con i palmi delle mani appoggiate al vetro della sala comandi, non udirono le urla e lo sgomento degli Asgardiani superstiti. Non udirono la disperazione di Sif, non videro le lacrime di Heimdall e il volto tirato di Brunhilde.
Videro unicamente quella luce abbagliante, come se una stella fosse letteralmente esplosa in un istante, travolgendoli.
Asgard non esisteva più. Del principale dei Nove Realm, era rimasta unicamente polvere luminescente e un nucleo che, via via, andava a spegnersi.
Asgard non esisteva più. Il Ragnarok era giunto, si era compiuto ed era stato Thor ad innescarlo, sebbene avesse impiegato diversi anni della sua vita ad impedirlo. Lontano era ora il ricordo di quando il primo sogno – le sue visioni – si erano manifestate. Si parlava ormai di secoli. E, lungo quel tempo, se all’inizio potessero essere sogni occasionali, man mano erano diventati più frequenti. Fino a quel giorno.
Non esisteva più nulla, non un trono, non una sala per i banchetti, la biblioteca. La piazza del mercato. Le loro camere. L’arena per l’addestramento. L’Osservatorio. La Sala del Concilio Ristretto. I giardini di Frigga.
Non esisteva più nulla di tutto ciò, solo ricordi. Solo testimonianze. Solo loro, un popolo alla deriva nello spazio, sotto shock.
Non ci sarebbero più stati festeggiamenti, non ci sarebbero più stati ambasciatori, missioni di caccia sulle alture innevate, le lunghe cavalcate nei campi verdeggianti.
Non ci sarebbe stato un degno funerale per i Warriors Three, così come per l’Allfather – notizia, per altro, ancora da dare al popolo.
E fu Thor a cedere per primo alla disperazione, in un lungo grido disperato e roco, che ricordava quello di una bestia ferita, accasciandosi sul pavimento – la fronte appoggiata alla vetrata.
L’intera nave si ammutolì, nessuno osò proferire alcun suono. Nessuno ebbe più le forze per reggere la vista del loro Principe in quelle condizioni: il grande Thor, figlio di Odino, possessore degno di Mjolnir, inginocchiato sul freddo pavimento di metallo, piangere disperatamente. Come forse non aveva mai fatto prima – se non in un’unica occasione, una decina di anni fa.
Loki, dal canto suo, era ancora appoggiato al vetro con le mani e lo sguardo perso in quel vuoto così sbagliato. L’estremo shock l’aveva completamente travolto e reso sordo a tutto ciò che stava accadendo attorno, come se fosse stato chiuso in una campana di vetro, isolato dal mondo esterno.
Sentì mancare l’aria. Il panico l’aveva completamente sconfitto. La sua mente non riusciva a razionalizzare l’evento di qualche istante prima, non voleva accettarlo, non sapeva accettarlo.
Era tutto così sbagliato. Fuori e dentro di lui.
Il bagliore di una saetta scaturita dal corpo del fratello, lo fece voltare alla sua sinistra e solo allora, si accorse di cosa stesse succedendo attorno a lui. L’intero equipaggio si era allontanato da Thor, tranne che per Heimdall, il quale a distanza di sicurezza, si era accosciato e gli stava tendendo una mano, cercando di calmarlo.
Rekis era al suo fianco, alla sua destra – una mano sul suo braccio, a stringere il tessuto della sua manica e a chiamarlo, con sguardo e voce allarmata. Tutto ad un tratto il suono esplose nelle sue orecchie: le urla di panico dei presenti, Rekis che chiamava il suo nome e che lo scuoteva, i segnali di allarme del computer di bordo.
Il crepitio dei fulmini. E la disperazione di Thor.
Incrociò lo sguardo terrorizzato con quello teso all’inverosimile di Heimdall, sentì il sangue defluirgli dal viso e un profondo senso di nausea. Le sue ginocchia si piegarono sul suo peso e si accasciò di fronte al fratello, il quale aveva le mani nei capelli ed era chinato su sé stesso.
Thor stava avendo un breakdown. Lo stavano avendo entrambi, ma Thor con i nervi a pezzi era una delle cose più pericolose dell’intero Universo.
Allungò la mano. La allungò con un gesto misurato, lentamente, appoggiandola su quella di Thor.
Pagò il prezzo di quell’azione. Loki venne sbalzato violentemente contro il vetro, ma se lo aspettava – era sempre stato così, quando l’emotività di Thor prendeva il sopravvento, tutto intorno a lui veniva sbalzato via o ridotto in cenere.
Quando impattò la nuca sulla vetrata, la vista lo tradì per diversi istanti. Il buio calò innanzi ai suoi occhi, mentre le mani di Rekis andavano a stringersi attorno alle sue spalle e il respiro agitato e terrorizzato di lei gli invadeva le orecchie.
Sentì il calore del suo sangue corrergli lungo il collo, ma sentì anche il calore della magia dell’aliena. Sentì Brunhilde imprecare e farsi largo a fianco di Heimdall, il quale si era rialzato per bloccare quello scatto di nervi, che non avrebbe portato a nulla di buono.
Quando il buio si diradò, Loki mise a fuoco l’espressione sconvolta di Thor, i suo occhio color del fulmine, le vene rigonfie sul collo e sulle tempie. I suoi denti che mordevano il labbro fino a farlo sanguinare e un dolore, inverosimile dolore, dipinto su quel volto stupendo.
Gli si spezzò il cuore più di quanto non fosse già a pezzi.
Thor si era spinto troppo oltre.
E Thor… Non era Loki. Thor avrebbe retto fino allo sfinimento una battaglia contro il più forte e acerrimo nemico dell’universo, avrebbe retto fino a che le sue ginocchia non avessero ceduto al peso della fatica e del dolore.
Ma contro le emozioni e il senso di colpa… Era andato già oltre in quel freddo e asettico bagno. Ed ora, su quell’altrettanto freddo pavimento della sala controllo, si stava consumando innanzi ai suoi occhi.
Loki si protese di nuovo in avanti, sfilando Rekis di lato – la quale era troppo spaventata per tentare di fermarlo. Allungò nuovamente la mano, questa volta fermandosi a pochi centimetri dal polso del fratello.
Thor lo fissava, espirando velocemente tra i denti. Adocchiò brevemente la mano di Loki e si ritrasse, stringendosi in un abbraccio nervoso, affondando le dita nelle carni, con una forza tale da lasciare lividi.
“Thor”.
Loki, benché la sua spalla, la sua nuca e il suo cuore urlassero, manteneva una voce ferma. In altre circostanze la cosa gli avrebbe causato un moto di isterismo, ma in quel momento doveva apparire agli occhi del fratello come il più calmo possibile.
*
“Qualcuno faccia smettere questi allarmi” sussurrò Loki, spostando brevemente lo sguardo verso Heimdall e la Valchiria, per poi tornare a protrarsi verso Thor, accorciando le distanze con un movimento misurato fino a sfiorare le proprie ginocchia con le sue.
Così inginocchiato, come il fratello, offrì le proprie mani.
“Thor, guardami”.
Il viso di Thor si scostò leggermente dal suo petto, ma non di più. Loki ritentò – le dita si mossero impercettibilmente.
“Guardami. Sono qui… Sono qui davanti a te. E non me ne vado”.
Ad orecchie estranee a loro due, ai mondi esterni al loro, quella frase poteva sembrare fuori contesto. Forse solo Heimdall poteva capire, avendo sbirciato Loki e la sua vita per secoli – fino a quando gliel’aveva permesso, ovviamente.
Le parole di Loki avevano un profondo significato. Sia per suo fratello che per sé stesso, perché per quanto fosse calcolatore, Loki era tutto fuorché estraneo al panico e la fuga, molte volte, non era stata allettante, bensì necessaria. Necessaria per sopravvivere. Necessaria per non impazzire.
Non si trattava di debolezza, si trattava di autoconservazione. Ma l’immagine di Asgard in polvere era ciò che andava oltre quei sentimenti. Era troppo. Era troppo tornare sui soliti binari e fuggire. Ed era fuori discussione restare lontano da Thor, di nuovo: avevano fatto una promessa e, per quanto il futuro lo angosciasse, voleva mantenerla. Voleva provarci, almeno, e pretendere di ricostruire qualcosa da quelle dannate macerie.
L’immagine di Thor a pezzi, chinato su sé stesso, era troppo. Magari, una volta avrebbe pensato addirittura di trarne piacere, ma molto velocemente realizzò che nel vedere Thor così, non gli avrebbe procurato piacere neanche nel più buio dei suoi momenti, nei punti più bassi della sua vita. E, Loki, ben sapeva di averlo già toccato da un po’, il fondo.
*
Thor sollevò il viso, questa volta – le lacrime che gli rigavano le guance. L’intensità dei fulmini cominciava ad affievolirsi e, anche se riluttante, mosse una mano verso quella di suo fratello. Sfiorò le dita con le sue con estrema riluttanza.
Aveva paura di non controllarsi. Aveva paura di fargli del male. Loki sentì ciò che rimaneva del suo cuore, sciogliersi e fu lui a chiudere la presa sulle mani del fratello, stringendole delicatamente e massaggiandogli i palmi con i pollici.
“Sono qui”. La sua voce era un flebile fiato, impercettibile agli altri. I suoi occhi erano umidi – le lacrime trattenute davvero a fatica – e abbozzò un sorriso sincero e disperato.
Fu in quel momento che Thor si spense del tutto: si abbandonò nelle sue braccia come se fosse un peso morto, e pianse. Pianse, pianse fino a che non ebbe più lacrime, con la fronte appoggiata al suo grembo, e Loki lo seguì perdendo lo sguardo su un punto indefinito e le sue mani nei corti e disordinati ciuffi biondi.
“Brunhilde, Sif: occupatevi dei sopravvissuti. Radunate le famiglie e cercate di sistemare la gente su tutta la nave. Io radunerò chi rimane dell’esercito reale, dei curatori e dei maestri” spiegò Heimdall, con estrema calma.
“I Principi devono riposare”.
Thor non provava vergogna per il crollo emotivo che aveva avuto poco prima: da individuo che abbracciava appieno le emozioni, di tutti i tipi, la disperazione e il dolore non erano caratteristiche da nascondere.
Ciò che provava era… Colpa e responsabilità. Era partito tutto da Loki ed era sfociato nello sguardo smarrito della popolazione superstite di Asgard, il suo popolo. La sua gente. Quando suo fratello lo sorresse, attraversando la sala controllo per ritirarsi nelle proprie stanze, non aveva avuto il coraggio di sostenere lo sguardo di quella gente terrorizzata.
Aveva intercettato un paio di visi, ma aveva chinato la testa. Non per vergogna nel mostrare il suo volto rigato dalle lacrime – l’occhio gonfio e arrossato, l’espressione perduta – ma per timore di vedere negli altri la sua stessa disperazione.
Thor era dispiaciuto per loro. Si sentiva in colpa. Per aver portato il Ragnarok, per essere crollato innanzi al suo popolo, essersi abbandonato alla disperazione, quando doveva essere forte.
E per aver chiesto indirettamente a Loki di esserlo per lui.
Loki l’aveva raccolto tra le sue braccia. L’aveva spento come acqua sul fuoco con un paio di parole e un gesto, gli aveva permesso di abbandonarsi al suo dolore, ma Loki era chiaramente spezzato quanto lui. Che diritto aveva di pesare così grevemente sulle spalle di suo fratello minore?
Nuovamente, non gli aveva concesso chances. Nuovamente, l’aveva ferito.
Quando uscì dal bagno, dopo una doccia necessaria, Loki era fermo innanzi alla porta a guardarlo con occhi che tradivano tutt’altro che il suo solito distacco, il suo solito controllo. Quegli occhi verdi erano sgranati, persi, eppure… Suo fratello cercava in tutti i modi di non crollare.
Lo guardava, in silenzio, cercando di comunicare qualcosa che non riusciva ad esprimere a parole – quanto era strano constatare ciò – gli occhi chiari, lucidi, il viso più pallido e tirato del solito.
Thor portò le mani al suo viso, accarezzandogli le guance. Lo sentì tremare sotto al suo tocco, prima di posare un dolce bacio sulla sua fronte.
“Scusami…” sussurrò, prima di cedere il passo, affinché Loki potesse usare la doccia. Loki non disse nulla, lo seguì con lo sguardo fino a che Thor non collassò sul letto, per poi chiudersi la porta del bagno alle spalle.
Loki pianse sotto l’acqua corrente. Si concesse un singhiozzo, per poi lasciare che le lacrime si mescolassero con l’acqua: benché dovessero razionarla, si concesse quel momento da solo. Il nodo alla gola era diventato insopportabile tanto da non riuscire a parlare.
Quando uscì dal bagno, con i capelli bagnati e un asciugamano stretto attorno alla vita, constatò che Thor aveva spento qualsiasi luce e unicamente l’illuminazione esterna della nave, rischiarava la stanza. Suo fratello era coricato supino sul letto, gli avambracci a ricoprirgli il volto.
Rimase per diversi istanti immobile, sperduto, fino a che Thor non sbirciò da sotto le sue braccia e sciogliesse quella posa, osservandolo quel volto pallido.
E lì rivide quel bambino. Quell’irriverente ma delicato bambino che molte volte aveva stretto tra le braccia per svariate ragioni, ma che, crescendo, aveva dimenticato. Come aveva dimenticato il bambino che amava proteggere il suo fratellino, che amava stringerlo tra le sue braccia anche quando lui non fosse dell’umore adatto, anche se avevano appena litigato.
Loki lo guardava con l’acqua che gocciolava dai riccioli appiccicati al suo viso, le braccia lungo i fianchi, la schiena leggermente ricurva.
Thor allungò un braccio verso di lui.
Suo fratello ci mise qualche secondo per reagire, regalandogli uno sguardo confuso, ma Thor si sporse di più, facendo segno con la mano.
“Vieni…”
E Loki appoggiò dapprima un ginocchio, poi entrambe le mani sul materasso. Scivolò vicino a suo fratello, stringendo la sua mano e inginocchiandosi accanto a lui: il suo sguardo scrutò l’espressione di Thor, cercando di capire come si sentisse, mentre la mano del fratello risaliva sul suo braccio, fermandosi sotto alla terribile nuova ferita che Hela gli aveva inferto – proprio accanto alla vecchia.
“Ti fa male?”
Loki chiuse gli occhi, facendo una smorfia. Rekis si era presa cura di lui e lui stesso aveva dato il meglio di sé con il suo seidr stanco e provato, ma sicuramente sarebbero rimaste diverse cicatrici. Al momento il dolore era sotto controllo, ma aveva fatto fatica a lavarsi poco prima.
“Guarirà… Con fatica, ma guarirà…” sussurrò. Fece per proseguire a parlare, ma si fermò. Thor lo osservò in attesa, massaggiandogli il braccio per poi tirarsi su a sedere.
“Sento il rumore dei tuoi pensieri…” commentò ironico, picchiettando delicatamente la fronte di Loki con l’indice della mano sinistra. Suo fratello soppresse una risata.
“Anche io… Il rumore di ingranaggi arrugginiti” fece eco, indicando Thor, il quale, questa volta gli diede una leggera spinta, reagendo a quell’insulto velato, ma scherzoso. Scese nuovamente il silenzio, nuovamente Loki guardò Thor con quegli occhi verdi e lucidi, e Thor cercava di capire cosa Loki avesse così timore di esprimere.
Gli accarezzò la guancia, diminuendo la distanza da lui. L’accarezzò più volte, guardando in lui, mentre Loki tentava di fuggire a quello sguardo indagatore e a quel gesto così intimo e dolce, finché non gli restò altro che arrendersi.
“The pictures tell the story
This life has many shades
I’d wake up every morning and before I’d start each day
I’d take a drag from last nights cigarette
That smoldered in its tray
Down a little something and then be on my way”
“Che cosa facciamo, ora?”
Quelle parole uscirono strozzate più di quanto immaginasse o avrebbe voluto. Vide Thor chiudere gli occhi ed inspirare profondamente, avvicinare la fronte alla sua, mentre la mano continuava gentilmente ad accarezzargli il viso, cercando di calmarlo.
“I traveled far and wide
And laid this head in many ports
I was guided by a compass
I saw beauty to the north
I drew the tales of many lives
And wore the faces of my own
I had these memories all around me
So I wouldn’t be alone”
Era incredibile come Thor entrasse ed uscisse così velocemente da diversi stati emotivi. Fino a quarantacinque minuti fa era sul pavimento della sala controllo in preda alla disperazione, ora, invece… Ora invece pareva stanco, sì, ma calmo. Troppo calmo.
Quando Thor appoggiò la fronte alla sua, Loki non chiuse gli occhi. Guardò giù, si fermò sulle ferite cosparse sul petto e sull’addome del fratello, inferte da Hela. Provò dolore per lui. Però provò anche orgoglio.
Thor deglutì, sfregando in quel tocco un paio di volte. Sentiva il respiro di Loki contro al suo viso, corto, agitato.
“Ci ritroviamo…” sussurrò.
Loki tremò visibilmente a quelle parole: sollevò il viso, per incrociare lo sguardo del fratello ma Thor riprese la posizione. Non spostò la mano dietro al suo collo, questa volta, bensì infilò le braccia attorno al busto di Loki e lo strinse a sé, mantenendo il contatto con la sua fronte.
“Some may be from showing up
Others are from growing up
_Sometimes I was so messed up _
and didn’t have a clue
I ain’t winning no one over
I wear it just for you
I’ve got your name written here
In a rose tattoo
In a rose tattoo
I’ve got your name written here
In a rose tattoo”
“Ci ritroviamo” ribadì “Ci rialziamo. E lo facciamo insieme” proseguì con voce quasi impercettibile, leggera e delicata, come il sussurro del vento primaverile tra le foglie degli alberi.
Insieme. Ritrovarsi… Quelle due semplici parole, quell’abbraccio, quel calore, fecero collassare l’ultimo baluardo di controllo che Loki stava cercando a stento di mantere. Non fermò le lacrime, non fermò i singhiozzi.
“This ones for the mighty sea
Mischief, gold and piracy
This ones for the man that raised me
Taught me sacrifice and bravery
This ones for our favorite game
Black and gold, we wave the flag
This ones for my family name
With pride I wear it to the grave”
In quella camera buia e silenziosa, lontano dagli sguardi della sua gente, Loki crollò tra le braccia di suo fratello. E la mano di Thor, prontamente, era andata ad accarezzargli di nuovo la guancia, esortandolo a sfogarsi con parole appena accennate.
E c’era una cosa che Loki si teneva dentro da quando aveva il palazzo reale crollare su sé stesso, una cosa che lo dilaniava, che lo faceva soffrire come non mai. E doveva dirlo, diversamente quel pensiero l’avrebbe divorato dall’interno.
“Le- Le rose-” pronunciò a fatica tra i singhiozzi, il petto che pareva esplodere.
“Le rose di- Erano l’unico ricordo-“
Le rose del giardino di Frigga. Le rose. Il suo profumo, i suoi colori, la sua dolcezza. Il giardino della loro madre, il luogo in cui Loki tornava tutte le notti, lasciando per qualche minuto la falsa figura di Odino nella stanza reale, riappropriandosi della propria identità, per ricordare quella donna così meravigliosa. Quella donna che lo amava così tanto e con la quale si era lasciato nel peggiore dei modi, perdendola per sempre.
Il giardino, in cui Thor si recava ogni mattina, ricordando quella donna così meravigliosa. Quella donna che l’amava così tanto e che non era riuscito a difendere, perdendola per sempre.
“Some may be from showing up
Others are from growing up
_Sometimes I was so messed up _
and didn't have a clue
I ain't winning no one over
I wear it just for you
I’ve got your name written here
In a rose tattoo”
“Madre-“
Pronunciarono quel nome insieme. Loki sentì le lacrime di Thor bagnargli il viso e chiuse istintivamente le braccia attorno al suo collo, stringendosi a lui. Stringendolo a lui.
Erano rimasti soli. Non avevano più nulla, se non l’un l’altro. Ed era così doloroso, così terribilmente doloroso affrontare quella verità. Quando Loki conobbe la civiltà Midgardiana, pensò a come facessero ad instaurare legami profondi, loro che non arrivavano a vivere neanche a cent’anni, il più delle volte. Loro che erano mortali, fragili, gracili. Nulla di più lontano da un Asgardiano, con i suoi saldi millenni sulle spalle.
All’epoca lì derise. Ora, a fronte di tutto quel dolore, li invidiava. Perché, se avesse dovuto separarsi anche da Thor, ora, non avrebbe retto. Avrebbe preferito morire, piuttosto di aggiungere altro dolore allo stesso dolore della perdita.
“In a rose tattoo
In a rose tattoo
I’ve got your name written here
In a rose tattoo
In a rose tattoo
In a rose tattoo
I’ve got your name written here
In a rose tattoo”
Sfregò la guancia bagnata su quella del fratello, portando le mani al suo viso, scostandolo leggermente da lui per poterlo guardare.
“Non- Non volevo… Non piangere…” gli disse, cercando di asciugargli le lacrime con le dita. “Mi fa male vederti così, ti prego”.
Quelle parole colpirono Thor nel profondo. La figura tra le sue braccia, lo straziò, lo devastò, lo uccise. In quella voce insicura e addolorata, in quei lineamenti contorti dalla commozione, vide l’amore.
Vide Loki.
“This one means the most to me
Stays here for eternity
A ship that always stays the course
An anchor for my every choice
A rose that shines down from above
I signed and sealed these words in blood
I heard them once, sung in a song
It played again and we sang along”
Il Loki che aveva perduto tanto tempo fa, il Loki che si era smarrito, che aveva smarrito. Vide l’amore incondizionato che suo fratello aveva sempre avuto per lui, lo vidi innanzi a lui, dopo un tempo così lungo che non ricordava neanche più che volto avesse.
Ma il volto era sempre stato quello, quello sguardo che Loki regalava solo a lui, quel linguaggio che Loki aveva solo con lui. Era riuscito fuori, era esploso come un vulcano, si era riaffacciato alla superficie della realtà come lava fumante.
“You’ll always be there with me
Even if you’re gone
You’ll always have my love
Our memory will live on”
E, Thor, non poté far altro che stringere quel volto tra le sue mani e portarlo al suo, in un lungo, lunghissimo bacio disperato, perché quel gesto era l’unico modo di esprimere quanto terrore provasse dentro di sé, ora. Quanto e come il sentimento si era trasformato.
Il gesto fu istintivo, rapido, intenso. Le parole che susseguirono, quando le loro labbra si lasciarono, nel silenzio spezzato unicamente dai loro respiri affannati, furono altrettanto sincere, quanto semplici e dirette.
“Ti amo”.
Uscì come un grido disperato, che echeggiò in pieno al tumulto dipinto sul viso di Loki, mentre le mani di Thor continuavano a stringergli il volto, come se fosse l’unico appiglio sul baratro sottostante i suoi piedi.
“Ti amo. Ti amo da morire-“
Quando le labbra di Loki si ricongiunsero, febbrili, disperate, con quelle di Thor, fu quello il momento. Fu quello il momento in cui alle orecchie di entrambi arrivò lo schianto dell’esplosione di Asgard.
Il rumore di tutto ciò che si era spezzato.
“Some may be from showing up
Others are from growing up
Sometimes I was so messed up
_ and didn’t have a clue_
I ain’t winning no one over
I wear it just for you
I’ve got your name written here
In a rose tattoo
In a rose tattoo
In a rose tattoo
I’ve got your name written here
In a rose tattoo”
Dopodiché, il rumore si trasformò in semplice suono.
Il suono di due cuori feriti che battono all’unisono.
“In a rose tattoo
In a rose tattoo
I’ve got your name written here
In a rose tattoo
In a rose tattoo
In a rose tattoo
With pride I’ll wear it to the grave for you
In a rose tattoo
In a rose tattoo
I’ve got your name written here
In a rose tattoo
In a rose tattoo
In a rose tattoo
Signed and sealed in blood I would die for you”
_ _
- Fine -
EDIT: Volevo dargli una grafica decente, ma Tumblr non me lo fa fare. Zero. Come al solito, non funziona mai nulla. Fa pietà la formattazione, abbiate pazienza.
#loki#thor#fanfiction#thor ragnarok#canon divergence#my personal ragnarok#thorki#brothers in love#sif#heimdall#asgard in a nutshell#valkyrie#bruce banner#final chapter#rose tattoo#dropkick murphys#loki is not just a trickster#he's more than that#loki deserve better#thor deserve better#thor is not stupid
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Di sangue, lame e nuovi nomi
Il sangue venoso era più scuro di quello arterioso. Più calmo, anche, nel suo defluire; pareva scorrere come un fiume, laddove le arterie schizzavano sangue vivo come fontane. Sicilia aveva avuto ampia occasione di osservare dal vivo il sangue umano, e le occasioni erano solo aumentate da quando i cani Normanni avevano mosso guerra contro la sua terra, distrutto tutto quello che toccavano quasi fossero figli del Demonio. Il sangue Moro era più scuro di quello Normanno, rosso su nero e rosso su bianco. Palermo era ridotta a una carneficina. I corpi mori che non erano stati bruciati e dissacrati erano gettati lì dov'erano stati uccisi, con quella febbre di guerra e sangue che sembrava dominare quei pallidi barbari venuti da Nord. E proprio quel sangue circondava la ragazza, inginocchiata in mezzo ai cadaveri delle sue genti, ai corpi figli empi di strage, figli suoi luttuosi che le strappavano lacrime e singhiozzi amari dalla gola; sgorgava dalle ferite ancora aperte di qualche moribondo, gocciolava dai tagli e dagli squarci che la battaglia aveva aperto sulla sua pelle, riluceva sul filo della rossa spada di Normandia, che non contento di aver passato per il filo delle sue spade ogni singolo eretico della città si era trattenuto indietro, lasciando i suoi a razziare la città per spiare il pianto sacro di quella dama che aveva perso ogni sua ragione d'esistenza. S'avvicinò di soppiatto a lei, senza che lei si accorgesse della sua presenza; quasi arrivò a sfiorarla, quando lei si rese conto di essere in compagnia e si voltò, scaraventandolo a terra e puntandogli il pugnale alla gola in quello che parve essere un batter d'occhi. Sangue. Uscì del sangue dal sottile taglio inferto dalla pressione ancora leggera del pugnale sulla sua pelle delicata, ancora quella d'un giovinetto poco più che atto alle armi. Sangue scuro, venoso. Più chiaro del suo, nonostante ciò; il sangue Moro era più scuro di quello Normanno, dopotutto, e lei era a tutti gli effetti una saracena. Normandia trasecolò sotto di lei, senza osare muoversi se non per respirare piano. Zahira lo guardò negli occhi freddi come il ghiaccio, occhi che sperava le fiamme dell'Inferno avrebbero sciolto. "Dovrei ucciderti o lasciarti andare, con tutto quello che mi hai fatto?" Lui scosse la testa, e lei ammorbidì impercettibilmente la stretta per farlo parlare. "Una- una riconquista va sempre festeggiata, Madama," millantò quello, nella speranza di aver salva la testa, "lasciatemi andare, e vi guiderò verso la gloria, vi potrò portare in salvo da questi bruti invasori." Lei premette ancora più forte sul suo collo, facendolo rantolare terrorizzato. "Non ho mai avuto bisogno di essere portata in salvo, men che mai da un vile nordico che ha cara la gloria più della vita stessa." Chinò il volto scuro sul suo, e delle ciocche nere le ricaddero sul volto. Le lunghe trecce che portava in battaglia si erano sfatte, i nastri d'oro che le tenevano legate sciolti e caduti per terra, unico barlume di luce nel profondo rosso di quella tragedia. "Sei fortunato che io non intenda abbassarmi al tuo livello, infame, ucciderti sarebbe uno spreco di sangue, e la tua gente ne ha già versato fin troppo." "Non solo la mia," replicò senza fiato, la presa di lei sul pugnale leggermente allentata, "devo ricordarti io stesso i crimini dei tuoi tanto cari saraceni?" Lei sollevò il volto in un gesto di sfida, assottigliando lo sguardo. "Ogni popolo conquistatore necessariamente uccide i capi di chi li oppone, e loro si sono ampiamente redenti per i loro peccati di sangue. I tuoi possono dire di aver fatto lo stesso?" "Dammi la possibilità di redimermi, allora." "Tu sei Satana, la redenzione non ti appartiene." "Io sono il tuo salvatore, colui che ti libererà dalle fiamme dell'Inferno!" "Le uniche fiamme che vedo sono quelle dei roghi che tu hai acceso." "Li ho accesi per liberarti!" "E questa terra dei cadaveri osi chiamarla liberazione?" Quasi gridò, la voce rotta e le lacrime sul volto. Aveva lasciato involontariamente la presa su Normandia, che si rimise in piedi a fatica. Le porse una mano, come a volerla aiutare ad alzarsi. Lei lo scansò, guardandolo come fosse ardente di fiamme, e si alzò senza lasciarsi aiutare. Fece per allontanarsi, ma Normandia la fermò. "E dove credi di andare, Sicilia?" "Dritto all'inferno."
Sapeva che prima o poi i Normanni l'avrebbero assoggettata, che sarebbe dovuta andare con loro com'era andata con Teodoro e Khalifa, ma pregava in segreto che quel momento non fosse ora; le sue preghiere non erano state udite da alcun Dio, apparentemente, rifletté mentre Normandia le legava le braccia e la portava di fronte al suo re.
Il normanno ordinò ad alcune donne di palazzo che la lavassero e la vestissero alla foggia occidentale, raccomandando loro di prestare particolare attenzione alla sua chioma, affinché il re potesse ammirarla nel suo massimo splendore. Erano ragazze giovani, pallide di viso e di capelli come non se ne vedevano in giro in quelle terre; si chiese se avessero mai servito una saracena, prima di allora, e a giudicare dagli sguardi che le rivolgevano, la risposta era no. La spogliarono e la lavarono con un unguento profumato, raccogliendole i capelli in due trecce sulle spalle, simili alle loro acconciature. Le fecero indossare un abito rosso e un nastro delicato al capo, come una di quelle damine occitane dalla pelle di porcellana di cui le avevano raccontato tempo prima, e la lasciarono sola, per potersi specchiare e aggiustare come desiderasse. Non aveva mai indossato un abito di quella foggia attillata, nemmeno sotto Bisanzio, e la stoffa pesante di cui era fabbricato le faceva rimpiangere le sete delicate e le larghe casacche e pantaloni che aveva indossato fino ad allora. Si chiese se avesse potuto strapparlo, lacerare quella lana fino a ridurla a brandelli, come avrebbe immensamente gradito fare con Normandia in quel momento. Prese un respiro profondo per calmarsi, e solo in quel momento notò un bagliore riflesso nello specchio; sulla sedia dov'erano appoggiati i suoi vecchi abiti, seminascosto dalla pila di indumenti sporchi, c'era il suo pugnale, appena insanguinato, ma nonostante ciò perfettamente utilizzabile. Quell'idiota del normanno aveva scordato di disarmarla, realizzò con divertimento. Lo impugnò con la mano tremante, tornando allo specchio e considerando le sue opzioni. Le balenò davanti agli occhi la regina d'Egitto, la moglie di Antonio Cleopatra, che nella disfatta si era data la morte pur di non cadere nelle madi del nemico; lei, tuttavia, era immortale, a differenza della regina, e conficcarsi un pugnale nel petto o aprirsi le vene le avrebbe solo fatto un male dannato. Guardò i suoi capelli lunghi fino a oltre i fianchi, il suo più grande vanto. Ripensò alla voce suadente dell'uomo, che le raccomandava di prendersene cura, alla rabbia cieca che le dava il suo pensiero, e dopo aver sciolto il bel nastro che le decorava la fronte, tagliò di netto le lunghe trecce appena sotto la mandibola. Caddero a terra, ancora legate. Terminò di sciogliersi i capelli e le raccolse, quella chioma che aveva passato tanto tempo a crescere e di cui era andata tanto fiera. La distruggesse pure il biondo cavaliere, non l'avrebbe mai posseduta, se non nei suoi sogni. Trovò l'uomo e il suo guerriero in quella che era stata la sala del sultano, l'uno in piedi accanto al trono e l'altro sedutovi come un monarca assoluto. Vide il normanno guardarla inorridito, e ricambiò di cuore lo sguardo avvelenato, prima di guardare lo sconosciuto conquistatore. Sorrideva, per qualche ragione a lei ignota, seduto sul trono strappato al suo legittimo sovrano. Le faceva assoluto ribrezzo; aveva imparato col tempo, tuttavia, che era meglio mostrarsi più bendisposta possibile ai sovrani temporali. "Sicilia, venite avanti, prego, vi stavamo aspettando." "Lo immaginavo, vostra grazia." Tenne alto lo sguardo, sentendosi quasi nuda di fronte ai suoi occhi glaciali. "Siete in presenza del Conte di Calabria, Ruggero d'Altavilla," intervenne Normandia, ma quello lo zittì con un gesto della mano, lo sguardo fisso su di lei. "Conte di Sicilia, se lo vorrete." Lei scosse la testa. "Non spetta a me decidere i miei conquistatori, vostra grazia; se così fosse, i vostri cadaveri starebbero facendo compagnia alla fata Morgana." Ruggero rise piano, voltandosi verso il biondo. "È salace la ragazza, me l'avevi descritta come una furia infernale," commentò, e quello sollevò le sopracciglia. Lei inclinò il capo da un lato, fingendo innocenza agli occhi del guerriero. "So esserlo, qualora venga provocata," aggiunse, un sorrisetto poco meno che angelico e poco più che falso sulle sue labbra. "Ho molteplici sfaccettature, scoprirete." "Che nome porta, allora, una creatura così unica?" Una martire, ecco come si sentiva: costretta a patire per qualcosa di più grande di lei. Pensò alle sue belle sante morte per Dio, la vergine a cui avevano strappato gli occhi per evitarle di vedere le sofferenze venture prima di ucciderla. Desiderò di poter essere lei, cieca e benedetta, mentre si consegnava definitivamente al normanno e al suo uomo, Ruggero, il Conte di Sicilia. "Potete chiamarmi Lucia."
#regioniitaliane2019#sicilia#fanfic#// sorry se fa un po' schif almeno ho provato❤#// non temete arriverà anche il pippone sugli arabi
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NELLA LUCE, L’OMBRA DELLA VITA
Quando Jotaro giunse dal Vecchio, la sua speranza di avere una risposta che gli permettesse di decidere oramai costituiva lo spartiacque tra il continuare a vivere e la conclusione della sua esistenza.
Jotaro non sapeva più chi fosse.
Non si riconosceva più nel potente guerriero il cui solo nome metteva in ginocchio i nemici della Giustizia e, anzi, cominciava a credere che tra le persone prostrate a terra ci fossero anche quelle che lui si illudeva di aiutare, più terrorizzate dalla sua furia che grate.
Il giovane giunse dal Vecchio e il Vecchio lo attendeva.
Egli depose la sua spada, l’Indistruttibile Verde Destino delle Purpuree Stelle di Platino, e dopo aver chinato il capo dinnanzi all’eremita, chiese se infine lui si potesse considerare un uomo buono o invero un uomo malvagio coll’illusoria maschera della Bontà.
Questo è facile da dire, Jotaro -- disse il vecchio che, dopo aver indicato la scacchiera intagliata ai suoi piedi, continuò a parlare -- Come vedi su questo Goban ci sono solo due pietre, una bianca e una nera, e io non ti chiedo di batterti a Go con me ma di scegliere la tua e decidere se nel gioco della vita vuoi essere una pedina di luce oppure una pedina di ombra.
La mano di Jotaro saettò con sicurezza verso la pedina bianca ma prima di toccarla con le dita si fermò. Che la scelta sia davvero così semplice -- pensò il guerriero -- da ridursi a una decisione presa sulla china dell’illusorio momento?
Cosa c’è, Jotaro? -- sussurrò il vecchio -- Non sei forse tu dalla parte del Bene che si batte contro l’ingiustizia? Non vuoi dunque portare al collo la Pietra della Luce ed essere riconosciuto come l’Avatar del Bene Incarnato?
Sennin -- disse Jotaro, lasciando cadere il braccio teso -- io ho paura di fare la scelta sbagliata e in realtà sono venuto al tuo cospetto proprio perché tu scegliessi per me. Chi sono io? Ho bisogno di saperlo! Dimmelo!
Il Vecchio, allora, pose il pollice e l’indice di entrambi le mani sulle due pietre e con un gesto fulmineo le voltò, rivelando che la pietra bianca aveva un ventre nero e la pietra nera uno bianco.
Così ti è più facile prendere una decisione?
No! -- esclamò Jotaro -- Io voglio che tu mi dica se agisco per conto del Bene o al servizio del Male!
Il Vecchio allora chiuse gli occhi e con gesti veloci ed eleganti intrecciò intorno a una delle due pietre un cordoncino di seta rossa, dopodiché chiese a Jotaro di avvicinarsi e di chinare il capo.
-- Questa è la Pietra che la Ruota del Karma ti ha dato in dono nell’attimo stesso in cui hai salutato tua madre col tuo primo vagito ed essa parlerà di te al mondo.
Jotaro abbassò lo sguardo sul suo petto e con sollievo vide che era il lato bianco quello ad essere visibile.
Grazie, Sennin... la tua Immortale Saggezza ti ha fatto scegliere bene... non ti deluderò! -- e dopo essersi chinato con fiero orgoglio a raccogliere la spada, si voltò per incamminarsi verso la sconfitta del Male nel mondo.
Aspetta, Jotaro -- disse il Vecchio, indicando il petto del Guerriero.
La pietra, nel chinarsi, si era voltata e adesso mostrava il lato nero.
Jotaro si affrettò con orrore e vergogna a girarla nuovamente ma il Vecchio lo ammonì con un gesto della mano.
-- Ricorda, Jotaro, che puoi passare il resto della vita a voltare la pietra dal lato che è più consono al tuo orgoglio ma nulla cambierà il fatto che in essa coesistano in maniera speculare due realtà e la negazione di quella che credi non essere tua non la renderà di certo meno vera e presente. È l’equilibrio tra il cuore e la mente a rendere salda la visione di te stesso che restituisci al mondo, mentre è l’affanno nel cercare di contrapporti agli altri a confondere gli occhi e le orecchie della mente e del cuore, gli unici che possano veramente udire e comprendere. Non devi scegliere di essere ma non essere quello che l’incomprensione potrebbe farti decidere di diventare.
E fu così che Jotaro, il Possente Guerriero, tornò ad essere per la prima volta Jotaro l’Uomo.
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Capitolo 3
Sif si svegliò con una piacevole sensazione di calore al proprio fianco. Fu un attimo prima di rendersi conto del braccio che possessivamente le cingeva i fianchi per posarsi leggermente sul suo stomaco, e un attimo per trattenere un singulto quando il fiume dei ricordi della notte precedente la invadesse. Girò appena il viso per incontrarne uno che non aveva mai più pensato di vedere. Loki dormiva profondamente. Nel sonno i suoi lineamenti erano rilassati e poteva quasi rivedere in lui il ragazzo che aveva amato da giovane, prima della rabbia, prima dell'inganno.
Come aveva potuto essere così cieca? Come aveva fatto a non accorgersi che dietro il suo re si nascondeva il Dio Imbroglione? Un profondo senso di vergogna si impossessò di lei, tanto che avrebbe voluto prendersi a schiaffi, scappare e non tornare più. E se Heimdall avesse visto tutto? Voleva scomparire. Era caduta nel suo inganno, lei, che si era sempre fatta forte della sua perspicacia, del suo buon senso, che già tanti anni prima aveva capito il suo trucco ed era riuscita ad evitarsi la vergogna. E invece adesso lui l'aveva presa nel suo momento di debolezza, aveva sfruttato i suoi penosi ricordi e sicuramente aveva utilizzato qualche maleficio. Sì, di sicuro doveva essere andata così, no? Il pensiero del contrario la faceva fremere di rabbia e ribrezzo verso se stessa. Stupida, stupida Sif! Non aveva già imparato sulla sua pelle quanto i sentimenti sbagliati fossero nocivi? Su quanto potesse fare male credere a una persona e poi essere tradita? E invece ci era cascata. Coscientemente. Lo aveva voluto. E adesso sarebbe diventata solo una delle sue tante conquiste, un premio in un più da sbattere in faccia a Thor. E nonostante il ribrezzo e la vergogna, l'odio per lui era nulla in confronto a quello per sé stessa. Perché quel braccio sul fianco e il suo respiro sul collo continuavano a metterle i brividi addosso e avrebbe voluto essere in un'altra vita, in circostanze diverse e stare con lui così per tutta la vita.
Ecco, la sua mente divagava di nuovo. Era una guerriera, che aveva giurato di proteggere il suo re. E non lo aveva fatto. E adesso non avrebbe potuto affrontarlo. Non dopo quello che gli aveva dato. Tutta sé stessa, in una maniera che non aveva mai fatto con nessuno. A un certo punto della notte avrebbe giurato di averlo visto talmente perdere il controllo che la sua pelle era diventata bluastra e i suoi occhi rossi. Era stata una svergognata. Non aveva mai avuto un rapporto così intenso, così coinvolgente. Con l'unica persona al mondo per cui avrebbe dato tutto. Per l'unica persona al mondo che l'aveva umiliata e ferita in modo permanente. Trattenne le lacrime. Si meritava tutto, per essere stata così stupida. Con una lentezza esasperante alzò il braccio che la circondava e si liberò dall'abbraccio. In silenzio scese dal letto dalle lenzuola di seta verdi e raccattò i suoi vestiti tra i petali di rosa e le candele. Cercò di non soffermarsi su quei dettagli. Non doveva dargli peso. Si rivestì in fretta e furia, doveva lasciare quella stanza prima che qualcuno la vedesse. Era appena l'alba. Se era fortunata avrebbe potuto andarsene durante il cambio della guardia e nessuno avrebbe mai saputo della sua follia.
Prima di uscire dalla pesante porta si fermò un attimo a guardare Loki che dormiva ancora.
'Sif non sarà mai una vera donna, è solo una ragazzina che gioca a fare il guerriero. Una vulvetta lamentosa che crede a tutto quello che gli dico non merita certo il mio cuore.'
Uscì dalla pesante porta, con una lacrima che impertinente iniziò a scivolarle lentamente sulla guancia. Era tempo di andarsene il più lontano possibile.
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Un mitologico essere mostruoso e molto pericoloso
La chimera tra mitologia greca e Harry Potter. La chimera è uno dei prodotti più spaventosi della fantasia greca. Una bestia formata da diversi animali e da sempre uno dei principali pericoli per l’essere umano. Chimera è un termine che racchiude un mondo dentro di sé: non è solo la leggendaria creatura partorita dalla mitologia greca ma anche un parola che, in senso lato, esprime qualcosa di tremendamente irreale o fantasioso (una concezione legata proprio alla natura della bestia). Oggi siamo qui per parlare del mostro leggendario che affonda le proprie radici nell’apparato mitologico greco, in quello romano e persino in quello etrusco, anche se possibili influenze sulla sua genesi possono essere rintracciate persino presso l’antico Egitto o la civiltà neo-ittita stanziata in quella che ora è l’attuale Siria. Ma andiamo con ordine approfondendo tutto ciò che si sa su questa creatura a partire dalla sua etimologia alle sue caratteristiche fisiche e ai temibili poteri, mettendo l’accento sul suo ruolo anche nella cultura popolare di oggi.
La chimera: etimologia e caratteristiche Prima di addentrarci nel mondo della chimera approfondiamo rapidamente la sua etimologia: cosa significa questo termine? La parola viene dal greco antico Χίμαιρα (pronuncia Chimàira) traducibile letteralmente come “capra”, che altri non è che una delle sue immaginarie componenti zoologiche. La chimera infatti è a tutti gli effetti una creatura che unisce in sé aspetti estetici e caratteristiche di diverse bestie che variano nel corso dei secoli, andando a modificare in maniera più o meno invasiva il suo aspetto. A volte questo mostro viene infatti rappresentato con testa e corpo di leone, una seconda testa di capra che fuoriesce dalla propria schiena e la coda di serpente, altre volte invece con la testa di leone, il corpo di capra, una coda di drago e viene dotata della capacità di sputare fuoco dalle sue fauci. Talvolta la coda della chimera è un serpente vero e proprio dal morso velenosissimo; in alcune rappresentazioni poi appare con una sola testa, mentre in altre è una creatura bicefala o addirittura tricefala. Insomma, come è noto nel mondo della fantasia non esistono limiti e la chimera raccoglie e rappresenta al meglio questo concetto. La chimera nella mitologia Ora che avete (più o meno) capito qual è l’aspetto di una chimera è il momento di approfondire la sua storia nel mito e nelle diverse leggende che la accompagnano. Questa creatura è figlia di Tifone, un essere mostruoso pieno di furia distruttiva e parimenti leggendario noto per una furiosa battaglia contro Zeus e tutti gli dei che termina con la sua sconfitta e la sua prigionia sotto l’Isola della Sicilia solo per mano del Re dell’Olimpo. Dall’unione tra questo essere ed Echidna (altra creatura mitologica in parte bellissima donna ed in parte serpente) nascono una serie di mostri poderosi quali l’Idra di Lerna, la scrofa di Commione, Drago della Colchide, Cerbero, Ortro, la Sfinge, Caribea e appunto Chimera.
La storia della chimera La figura della chimera viene cresciuta sotto la tutela del tranquillo e nobile Amisodaro: tuttavia la bestia sfugge al suo controllo diventando presto un veicolo di panico e paura seminando la distruzione tra i villaggi della Macedonia e dell’antica patria degli Achei. Secondo la Teogonia di Esiodo questa bestia è la personificazione della tempesta, tanto che la sua voce è il rombo del tuono: l’età “adulta” della chimera è intrinsecamente legata al mito di Bellerofonte, un giovane eroe figlio del Dio del Mare che viene presto incaricato da uno dei sovrani locali (il re di Licia Iobate) di porre fine agli orrori seminati dalla creatura. Abbattere la bestia però è tutt’altro che un compito facile per una singola persona e così Bellerofonte decide di avvalersi dell’aiuto di Pegaso, il leggendario cavallo alato. Sulla sua groppa il guerriero riesce a duellare con il nemico prevalendo infine grazie ad uno stratagemma: immergendo la lancia di piombo nella bocca della Chimera fa sì che questa reagisca emettendo il fuoco dalla propria bocca, sciogliendo così il materiale e morendo soffocata.
La chimera nella cultura popolare Come tutte le creature fantastiche e semi-divine, anche la chimera è stata inclusa in diversi prodotti mediatici come libri, film e videogiochi: è ad esempio uno dei personaggi più ricorrenti nella nota saga videoludica God of War ed in particolare nei capitoli Ascension e God Of War III; ha anche un ruolo fondamentale nell’arcade Gauntlet Legends e nell’espansione Gauntlet Dark Legacy. Ma non è finita qui, perché le chimere sono uno dei principali pericoli anche nel mondo di Harry Potter, dove sono molto rare e vengono classificate dall’Ufficio Regolazione e Controllo delle Creature Magiche con un livello XXXXX, ossia come noto AmmazzaMaghi o creatura impossibile da ammaestrare. Nonostante non abbiano un ruolo essenziale nella storia limitandosi ad essere nominate o studiate sui libri sono dunque estremamente temute: visivamente parlando una chimera compare in una scena (successivamente eliminata) dello spin-off Animali fantastici e dove trovarli. Read the full article
#Amisodaro#Animalifantastici#Bellerofonte#Chimera#Ermafrodita#etimologia#fantasiagreca#GodofWar#mitologia#mitologiagreca#mostroleggendario#Olimpo#Pegaso#Χίμαιρα
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"Portava agli orecchi due grevi cerchi d'oro e sul petto la Presentosa: una grande stella di filigrana con al centro due cuori." Gabriele D'Annunzio Quello che contraddistingue le persone della mia terra è che siamo un popolo forte e gentile, siamo in grado di affrontare la parte dura della vita senza perderci mai d'animo, senza uscirne distrutti ma spesso arricchiti. Io non ho vissuto una bella infanzia, anzi a dirla tutta non auguro a nessuno di passare quello che ho vissuto io da quando sono nata fino a 19 anni, ma non mi sono mai persa, sono sempre andata avanti pensando alla persona che volevo diventare e ho portato avanti i miei obiettivi, essendo orgogliosa della persona che con pregi e difetti sono diventata, pensavo ingenuamente che nulla avrebbe potuto scalfire la corazza che in questi anni mi sono costruita e che in mille occasioni mi ha protetta e invece tutta quella forza d'animo del mio dna è stata spezzata esattamente un mese fa, di fronte ai referti di Zero, come quando si colpisce in un punto vitale un grande guerriero e lui cade a terra prima ancora di rendersi conto di essere stato colpito. Mi accorgo, per quanto stia combattendo, che questo dolore sta cambiando la parte più profonda mi me, quella che ho sempre protetto e che niente e nessuno è mai arrivato a scalfire, quella parte che mi faceva alzare tutte le mattine con il sorriso nonostante tutto e che mi faceva trovate mille motivi e pretesti per sorridere, oggi mi accorgo che è un mese esatto che mi alzo e dentro non sorrido, vorrei riprovare quella forza che mi ha sempre accompagnata come fosse un superpotere, mi accorgo che apparire felice e serena esteriormente, cercando di nascondere questo enorme buco che mi porto dentro è più dura e difficile di quello che avrei mai potuto immaginare forse perché non so mentire, sono troppo istintiva per trattenere e non esprimere la furia che mi devasta dentro, vorrei trovare il modo per guarirmi, per tornare ad essere forte per chi amo. #presentosa #gabrieledannunzio #abruzzo https://www.instagram.com/p/Cgun2pqL7Sn/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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Rurik e Aja. Il guerriero delle maree
Uscirà a breve in tutte le librerie il quinto e ultimo libro della serie romantico storica di Fracesca Cani, Gli eredi di Holstein, si intitola Rurik e Aja. Il guerriero delle maree .
Trama: Anno Domini 1101. Aja è l’ultima degli eredi di Holstein e ha vissuto a lungo all’ombra dei fratelli Tristan e Jonas, ma quando incontra sulla spiaggia uno straniero che indossa il kilt ed è bello come un dio pagano se ne invaghisce all’istante. Rurik è il principe di Mann, un giovane dalla chioma di fuoco che ha navigato da solo seguendo una corrente impetuosa, è spregiudicato e disposto a tutto pur di rivederla. L’amore sembra così facile, innocente e puro e ogni incontro una magia; ma il voto di matrimonio che si sono scambiati viene infranto. Due cuori separati, rotti e calpestati scelgono vie inaspettate per continuare a battere. Aja ritorna a essere invisibile, Rurik diventa re di Mann, ma l’isola viene attaccata e lui viene sottomesso. Per volere di Magnus di Norvegia, il grande monarca vichingo conquistatore delle isole, Rurik si tramuta in un Berserker, un guerriero bestia che grazie alle pozioni combatte senza coscienza. Perde la corona e la memoria gli viene cancellata, il suo volto viene sfregiato e per coprirlo indossa una maschera di rame, non è sopravvissuto nulla di umano nello spietato guerriero che chiamano il Rosso. Scarlatto come il sangue, come i peggiori istinti, come la follia, la furia assassina e la passione… Quando il Rosso attacca Holstein la sua missione è uccidere Aja, ma ben presto si accorge che può proteggerla dalla morte, non da sé stesso.
Questo è il finale di una serie di 5 libri da non perdere, ecco qui sotto i volumi precedenti:
Serie Eredi di Holstein
1. Tristan e Doralice un amore ribelle
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Trama: Anno Domini 1076. Sopravvissuta alla strage della sua famiglia, Doralice di Lacus trova ospitalità a Canossa, dove la grancontessa Matilda la accoglie come una figlia. Quando l’orrore per l’assassinio dei suoi genitori sembra aver lasciato posto a una tranquilla quotidianità, i piani di conquista di Enrico IV sconvolgono il suo mondo. Tristan di Holstein, indomito guerriero forgiato da mille battaglie, ha un’ultima missione prima di riconquistare la libertà: deve colpire al cuore Matilda, strappandole quanto ha di più prezioso. La sua preda, che osserva con occhi da demonio, uno azzurro e freddo, l’altro ribollente d’oro fuso, è Doralice. Ma la prova dell’amore si rivelerà la più ardua da superare e lo spingerà a disobbedire al suo re, a sopportare torture e rinunce in nome di una felicità che potrebbe non esistere. Perché forse è proprio lui il responsabile di un crimine che non può essere perdonato...
2. Jonas e Viridiana il cuore d'inverno
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Trama: Anno Domini 1095. Cresciuta all’estremo nord del Sacro Romano Impero, Viridiana è abituata a viaggiare ed esercitare l’arte della guarigione. Fino a quando re Jonas dei Naconidi irrompe nel suo villaggio e la reclama come ostaggio in cambio della pace, ammaliato dalla chioma di fuoco e dallo spirito fiero che la contraddistinguono. Perché proprio a lei è toccato in sorte un simile sacrificio? Jonas è un sovrano arrogante e un guerriero spietato. Non c’è limite alla sua forza, né al suo desiderio di proteggere il figlio Andreas, unico vincolo con il suo perduto amore. Il suo cuore è in silenzio, non sa più amare né provare tenerezza. Eppure, vicino a Viridiana, si sente più vivo che mai. Ma non c’è pace nelle terre di confine, e quando il piccolo Andreas viene rapito dai predoni turchi insieme alla sorella di Viridiana, i due seguiranno la via percorsa da Goffredo di Buglione e dai crociati verso l’Oriente. Il mondo sta cambiando, l’esercito di Dio è partito alla conquista di Gerusalemme e due nemici scopriranno che l’amore più grande divampa dal fuoco di un odio cocente.
3. Andreas e Zoya. Il fiore di pietra
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Trama: Anno Domini 1112. Zoya è convinta che non troverà mai l’amore a causa delle cicatrici che le attraversano il viso come graffi di una fiera. La sua vita è cambiata undici anni prima, quando era ancora una ragazzina innamorata, ma ora è una donna e sa cosa desidera: ricominciare a vivere in un luogo lontano dal passato. Per questo parte per la rocca di Rostock, dove spera di liberarsi dei pensieri che le avvolgono la mente e il cuore... Il castello sul fiordo di Rostock è stato assegnato a uno spietato guerriero, arrogante e violento, che tutti chiamano Der Bär, l’Orso, ma il cui vero nome è Andreas. Proprio in lui Zoya riconosce il suo amico di infanzia e primo segreto amore, tornato dall’Oriente dopo aver affrontato e superato terribili prove. Lei è stata la sola donna che abbia mai toccato lo spirito di Andreas prima che si trasformasse in roccia. L’amore tra i due riemerge con forza, ma a separarli c’è un abisso di segreti che solo il sentimento più potente può colmare. L’Impero vacilla, la corona è contesa, Enrico V e il duca Lotario si affrontano in sanguinosi conflitti… Amore o guerra? La scelta spetta a un cuore di pietra.
4. Filippo e Lucilla. La luce dei Normanni
Link acquisto: https://tinyurl.com/qvqxgz9 Trama: Anno Domini 1069. Filippo di Lacus è l'unico erede di un feudo saccheggiato, l'ultimo rimasto in vita di un'antica famiglia e la sua spada è la sola che può reclamare vendetta. In battaglia lo chiamano il Falco, poiché egli non nutre pietà né emozioni. La forza fisica è la sua sola alleata, finché il destino lo porta a sud. Nella terra di Puglia dove regnano Roberto il Guiscardo e Sichelgaita di Salerno, Filippo incontra una giovane che con la sua luminosa presenza riesce a diradare le sue tenebre. Lucilla d'Altavilla è innocente, sincera e desidera la libertà, ma suo zio vuole per lei un marito potente e i Normanni la destinano proprio al Falco di Lacus. Lucilla che con il suo canto ammalia la corte non sa che sarà consegnata proprio a colui che il suo cuore teme e sogna in egual misura. La giovane viene data in sposa a Filippo, ella è ormai sua e non può opporsi. Appartiene a un soldato che non sa provare amore, diviene signora di un castello in rovina, vittima di un complotto che ha radici profonde. Intanto gli eserciti marciano sulla polvere in cerca di un manoscritto, un leggendario ordine di cavalieri si oppone ai malvagi e Lacus è il centro del mistero. Ma sulle sponde del lago di Garda, dalle ceneri di un uomo, nasce un legame fatto di sguardi e carezze mentre la magia di un'estate rende immortale un sentimento che nemmeno le prove più aspre potranno spezzare.
Il mio preferito della serie ad oggi è Jonas e Viridiana, e il vostro?
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La nascita di un re
[...] "Correva l’anno 1150 C.R. (Calendario Regio) erano tempi bui, il cipollaio delle ombre, chiamato così perché già allora il suo nome era andato perduto, spadroneggiava libero sul mondo. Il suo potere era incontrastato e pochi avventurieri si potevano avvicinare ad un briciolo della sua potenza e ancor meno gli si opponevano dopo che questi aveva corrotto l’antico drago Eikaram, assoggettandola alla sua volontà. La prole di Eikaram, divenuta Saeikir dopo la corruzione, colonizzava ogni libera isola del mondo per conto della madre e del suo padrone. Lo stormo, così veniva chiamato volgarmente, tiranneggiava indisturbato dove non v’erano eroi abbastanza potenti o temerari da opporsi. In questi tempi oscuri, nella capitale nanica di Nargalon, un giovane guerriero ignaro del suo destino, masticava pigramente una spiga di grano e sorseggiava birra osservando il sole calare pigramente. Il suo sguardo venne attirato da un puntino nero nel cielo. Pensò che fosse semplicemente la luce rimasta impressa sulla sua iride; non ci badò molto e tornò a sonnecchiare, quasi ubriaco. Il clima tranquillo e assonnato di quel tardo pomeriggio mutò quasi in un istante, come quando in estate arriva un acquazzone improvviso, la folla fuggiva verso le mura interne della città in cerca di riparo, il regio esercito si mosse verso l’entrata di Nargalon, la città sotto il vulcano e quel frastuono di armature misto alle urla della folla impaurita fece destare il giovane nano. Subito si sporse per osservare le porte della città e notò un’enorme testa che scioccamente gli ricordava le fattezze di un serpente. Tra urla indistinte della folla, qualcuno urlò “Dehizim, è lui che ci sta attaccando”. Subito il nano comprese la gravità di quanto stava accadendo: il primo drago rosso dello stormo di Saeikir stava attaccando la città. Non perse tempo, indossò l’armatura più velocemente che poté, tentò di afferrare l’ascia per ben due volte, ancora sotto l’effetto dei sette malti nanici e alla fine, al terzo tentativo ci riuscì. Si mise in cammino per affrontare la bestia, prima marciò, ma carico di paura per la sorte della sua amata Nargalon, la marcia presto divenne corsa. Stremato si ritrovò di fronte ad uno spettacolo orribile, il drago ferito ma ancora arzillo e il regio esercito quasi del tutto sgominato e tra i cadaveri quasi ormai carbonizzati i suoi occhi notarono anche un corpo quasi irriconoscibile con l’armatura di Gorta Grammartello, suo amico fidato ma anche re di Nargalon. La furia si impossessò di lui e ingaggiò il combattimento sprezzante del pericolo, il drago soffiava, graffiava e mordeva e il nano cercava di colpire le scaglie già indebolite dagli altri guerrieri. Gli sembrarono giorni, l’effetto della birra era finito, ma quello della rabbia no. In uno slancio di eroismo il nano scalò l’enorme corpo del bestio, si avvicinò alle sue orecchie e subito emise un suono rauco e rozzo, che risuonò per tutta la città. Il drago dunque sgranò gli occhi per la sorpresa e quasi per boria aprì anche la seconda palpebra che difende gli occhi dei draghi da frecce e veleni e proprio in quel momento Ghur Gahazud, con un colpo folle e disperato fece esplodere l’occhio prima e poi colpì le cervella del bestio. Stremato si lasciò cadere e riposo accanto al cadavere del suo nemico fatale. Quando si svegliò grida, urla e giubilo furono le cose che udì. Ancora sporco di sangue e cervella del drago, veniva portato in trionfo al castello regio, dove verrà incoronato dopo pochi mesi “Ref oir hotork” ovvero “re di coraggio” nella lingua nanica." [...]
-"I Rèmmali", Quarto Remmo Alabo
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Miura e Berserk - odio e amore o altro?
Ambientato in un cupo medioevo, in Berserk seguiamo le vicende di Gatsu, guerriero maledetto costretto a combattere senza sosta con un nemico al di là delle sue possibilità. L'aspetto che colpisce subito è la cura e la qualità dei disegni: tavole "piene", un orgia di particolari, una qualità che difficilmente si trova nelle produzioni orientali, molto più vicina ad un illustration book che a un manga popolare. Anche nelle tematiche Berserk si allontana dai cliché tipici della cultura giapponese, arrivando ad avere una valenza universale: l'inevitabilità del male o la contrapposizione tra destino e libero arbitrio, tra umano e divino, sono solo alcuni dei leit motiv dell'opera di Miura. Peccato che se ne sia dimenticato: dopo un'inizio eccezionale tutto sangue e horror, il maestro ha deciso di allungare il brodo, annacquandolo con elementi di fantasy classico e siparietti comici che stonano con la formula originale. Sembra quasi che anziché arrivare ad una conclusione, Miura voglia che il lettore si disamori del manga, alleggerendolo dell'onere di scrivere una fine degna per Gatsu e compagni. Dopo oltre 10 anni di fedele attesa per i nuovi numeri, Miura è riuscito nel suo intento: per me, Berserk finisce qui." La tematica fantasy non fa altro che andare a scontrarsi direttamente con quella fortissimamente religiosa che permeava i primi numeri, dove era evidente il clima di fortissimo e profondissimo oscurantismo in cui la chiesa e le credenze religiose avevano piombato l'uomo. L'arrivo della tematica fantasy si scontra con questo scenario palesandosi attraverso il profondo esoterismo che ne permea la componente magica(Qlippoth, i livelli di creazione, un certo modo di intendere la natura ecc...), e di fatto configurandosi come l'aspetto più pienamente maturo dell'opera di Miura, perchè è proprio alla luce di questi numeri che tutta l'opera non si riduce alle appassionanti e commoventi gesta di un gruppo di eroi/amici/amanti, ma diventa l'occhio critico di Miura sul mondo di oggi, dove le istanze spirituali sono sempre più forti e la presa della Chiesa cattolica si fa sempre meno autorevole(anche grazie al crescere spesso sregolato dell'informazione "libera" via rete) per lasciare il posto a quella che odio definire New Age, ma per farmi capire è meglio così. Il mondo rappresentato da Miura è il nostro mondo, e Gatsu è esattamente nel mezzo, lo spadone sollevato con fatica aveva un senso all'inizio, quando il percorso di Gatsu era di crescita e il peso simbolico delle sofferenze la forgia attraverso cui compierlo, ma nel momento stesso in cui lo scenario si modifica e la vena esoterica prima solo sotterranea esplode(come oggi), allora Gatsu sposta il peso dal maneggio della spada, ormai divenuto abitudinario, a quello di se stesso. Non sono più le sofferenze esterne a colpirlo direttamente come la Chiesa colpiva i suoi fedeli con anatemi, presagi di morte e punizioni provenienti da qualche Dio lontano e iracondo(vedi la splendida figura di Farnese, personaggio egregiamente dipinto nel suo primo apparire come immagine esplosiva e araldica di questa situazione), ma è il rapporto con se stesso, con il suo spirito a riguardarlo, esattamente come la componente esoterica e magica elimina ogni intermediario o peso esterno per concentrare l'attenzione su se stessi e sullo sviluppo delle proprie potenzialità interiori per arrivare alla conoscenza di Dio. Grifis raggiunge Dio attraverso lo "spadone"(inteso come mezzo esterno ed avulso dal proprio se'), Gatsu deve necessariamente percorrere la strada inversa, ed ecco allora che tutto volge a questo scopo, dallo spadone si passa all'armatura in forma di bestia(come le fiere che tentano Dante nella selva oscura), qualcosa che ci serpeggia nell'animo, che ci sussurra chi siamo, che ci ricorda la nostra natura, che ci tenta verso l'autodistruzione. Gatsu è un cristo nel deserto in questo momento, e ha a che fare col diavolo, ovvero con la sua natura che lo avvolge e lo penetra ogni volta che combatte, e per raggiungere Dio(non in senso letterale ovviamente) non può che scontrarsi con se stesso e vincere se stesso, non è più lo spadone il protagonista, non è più da lui verso l'esterno(qualunque atto contempli il colpire)ma da fuori verso di lui. E la componente esoterica e assieme umana rappresentate da Silke e gli altri sono li proprio per questo, per portarlo verso lo sviluppo di questa consapevolezza, per aiutarlo a vincere ciò che era stato fino a quel momento. La spiegazione della magia, della natura, dei piani di esistenza è esattamente l'immagine del percorso simbolico compiuto da Gatsu, che dall'orrore cieco dell'odio e del mondo di prima, si sposta verso la riflessione su di se' e verso la ricerca del suo reale scopo. Che ora è dentro, non più fuori... Essi, Silke, Farnese, Serpico ecc, rappresentano dunque la "via buona", al contrario di quella intrapresa dalla nuova squadra dei falchi, che sono invece il modo deteriore di riemergere di questa ventata esoterica, nonostante si ammanti sempre e comunque delle sfavillanti vesti della salvezza e della cavalleria. Se prima la squadra dei falchi era composta da uomini e amici che nessuna influenza avevano sul percorso solitario di Gatsu, tranne alimentarne ulteriormente il dolore al momento del sacrificio, ora la sua nuova squadra è fatta di individui il cui complesso di sogni, desideri e situazioni (Caska) ha il compito di guidare Gatsu verso una risoluzione che potrebbe essere quella di una vita normale e felice accanto alle persone che ami, invece di perseverare verso una vendetta che potrebbe portare solo altro dolore. La lotta da lui intrapresa con l'armatura per vincerne le lusinghe è palese, sono le lusinghe del potere, le stesse che hanno fatto cadere Grifis, il quale è stato disposto a sacrificare i suoi compagni per ottenerlo, mentre Gatsu ovviamente dovrà compiere il percorso opposto, e comprendere di non avere bisogno di più forza o di più potere per poter conquistare ciò che ha perso e di cui vuole vendicarsi, in quanto col tempo capirà di avercelo già, tutto intorno a sè, negli sguardi e nelle risa dei suoi compagni di ventura. In questo senso i siparietti comici hanno un senso importantissimo, perchè creano quell'atmosfera di gioiosa familiarità che dà calore, che cra serenità, e non poche volte, nel fumetto, Gatsu, riposandosi dalle fatiche della battaglia, si è fermato a considerarlo con malinconia, in silenzio e con poche, fugaci vignette... Nonostante la prima serie sia stata sicuramente e profondamente emozionante e viva, questa ne è la naturale evoluzione in termini tematici, il problema è che per averlo ben chiaro bisogna almeno lasciare che si concluda come si è conclusa la precedente, e purtroppo lo stillicidio di uscite e il respiro indubbiamente più ampio non aiutano certo. Io quindi, e parlo per me, sono contentissimo di quella che non è una svolta commerciale, ma la dimostrazione di quanto acuta, attuale ed emozionante sia in realtà la visione di Miura, che non si limita a riproporre le gesta del tenebroso maledetto calcando l'accelleratore sull'emozione facile, ma è in grado anche di sondare i recessi più profondi e quindi anche più difficili da "sentire" dell'animo umano, dandone una rappresentazione che nell'inferno dei sentimenti è cruenta, impietosa e dura nel colpire l'immaginario, ma che nel percorso di risalita verso il paradiso riesce a pizzicarne anche le corde più ineffabili e dolci. E questo è evidente nella presenza in questi ultimi numeri di moltissime tavole che anelano, vogliono fortissimamente che lo sguardo e il pensiero si soffermino su di esse e riflettano, invece di lasciarsi travolgere dalla furia emotiva delle situazioni come in precedenza. Dove la tematica si sposta sull'io, così anche la velocità di lettura rallenta, prediligendo le pause assorte, gli sguardi persi, i momenti di cristallina creazione del vuoto mentale. Miura ci sta facendo percorrere esattamente lo stesso percorso di Gatsu, dal furore al tepore, dall'estroversione della violenza più cieca e paralizzante all'introiezione più profonda, attraverso i piani, attraverso le vite fino al mondo degli spiriti, al mondo dello spirito, dal Dio dei flagelli e dei demoni, a quello dell'Io a contatto con l'essenza dell'universo. Non è detto che piaccia, d'altronde anche per la Divina Commedia, e senza fare paragoni blasfemi, spesso e volentieri la preferenza và all'Inferno, e giammai al Paradiso..." Non metto in dubbio il grande simbolismo di alcuni passaggi ma vi sono dei dubbi sul fatto che Miura sappia metà di quello che sai tu sul suo manga, parlo proprio a livello qualitativo di sviluppo della trama, dialoghi, nuovi personaggi rispetto ai vecchi. Ci sono degli sprazzi interessanti (la parte con la strega , l'armatura-bestia), ma il primo numero di Berserk aveva fatto paura da quanto era cupo (il conte che mangia i bambini interi). Lo stupro di Caska, il genocidio della Squadra dei Falchi, tutti momenti potentissimi. Adesso la violenza è senza significato, abbondante e inoffensiva. Non farmi pensare agli uomini pesce va, al pirata con la nave che si arrampica sulle montagne e lui che fa l'idiota... L’introduzione del concetto di party in Berserk non costituisce tanto un cambiamento dettato dalle mode del momento, quanto una metafora fiabesca, attraverso cui Miura sottolinea simbolicamente la complessa maturazione dei suoi personaggi. Parallelamente alla definizione dei rispettivi ruoli nel gruppo, infatti, i protagonisti cercano di comprendere il proprio significato nel mondo. Questo processo di scoperta personale viene accompagnato da una ricerca corale. Come le differenti individualità interagiscono tra loro in maniera produttiva in seno al party, le varie peculiarità psicologiche di Guts e dei suoi compagni si compenetrano vicendevolmente, per definire una visione comune della vita. Quest’ultima pare fondarsi sull’autodeterminazione, traducendosi nella volontà di scrivere il destino con le proprie mani e nella voglia di scoprire la realtà, sperimentandola con incanto, senza pregiudizi. Un approccio che va in aperta antitesi con quello adottato da Griffith e dai suoi Apostoli, legati ai principi di predestinazione e di aprioristica conoscenza universale. In questo modo, Miura va ad allargare ulteriormente il divario ideologico tra Guts e Griffith (si veda il box Il Dio Perduto), andando a preludere un fragoroso scontro, non solo teorico, tra i loro rispettivi schieramenti. La premura con cui la strega si prende cura dello Spadaccino Nero è un altro aspetto moe legato alla caratterizzazione del personaggio, ma rappresenta anche il canale utilizzato da Miura per trasmettere in maniera pregnante la personalità della ragazza e, più in generale, la filosofia sottesa ai suoi poteri. La magia di Schierke, difatti, nasce dall’intima connessione tra gli strati profondi dell’animo umano e le energie della natura, richiedendo una solida consapevolezza del sé e una forte empatia con il mondo. Tale approccio sposa spiritualità e panteismo naturalistico, dove natura e dio sono sinonimi. Esso risulta diametralmente opposto al radicale trascendentalismo di stampo scolastico medievale, propugnato da Griffith e dai suoi Apostoli. Tant’è vero che il Dio degli Abissi scaturisce da un’idea degli uomini, i quali rinunciano alla conoscenza della natura (inclusa la propria), generando un’entità metafisica capace di dispensare presunte verità assolute e di gestire le sorti degli esseri viventi.
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Il bianco è lo spazio e il nero è il tratto che lo contiene. Potrei dire anche che il bianco è lo spazio e il nero è il limes che ne determina il punto di fuga o la profondità. Nei testi a stampa della contemporanea editoria per bambini si danza attorno a questa semplicità; attorno a questo passo a due tra bianco e nero, si articolano albi meravigliosi e completi, carichi di senso e significanti. Con le ovvie eccezioni.
Passo concitato e trafelato quello del narratore preistorico che stampa in negativo sulla parete rupestre la propria impronta: un confine nero carbone a delimitare lo spazio di un palmo bianco. Non quello dell’esploratore precedente, non quello del guerriero, proprio il suo, a illustrare una storia diversa da ogni altra, in un’unica immagine.
Photo credit: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/f4/SantaCruz-CuevaManos-P2210651b.jpg
Passo molle, cauto, quello che operava invece in una polka di colore. Schiena curva su codici impreziositi d’oro in cui l’immagine apriva le danze, per un testo che occupava gran parte dello spazio a disposizione sulla pagina, con lettere miniate (quindi in un rosso derivato dal piombo) ornate nei minimi dettagli, in cui l’illustrazione, colorata a mano, era imperiosa, rappresentava narrando investita di simboli, facendo da didascalia al testo, essendone corollario.
Photo credit: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bibba_di_borso_d%27este_01.jpg
Con l’invenzione della stampa il passo torna a due e l’immagine diventa dialogante: è il momento delle incisioni, il ritmo con le parole si fa teso, vibrante. Lo diceva Leonardo da Vinci: “La pittura è una poesia muta, e la poesia è una pittura cieca”, si comincia a comprendere l’importanza di una illustrazione che non sia un bene staccato dal contesto o puro ornamento. Immagine e testo cominciano a parlare tra loro in un discorso fitto e ritmato, consapevole.
L’inchiostro è nero seppia, è parola e tratto, è lo stesso, non vira, non sfuma, in due modi del tutto diversi illustra e racconta. Solo che mano a mano che il testo s’arricchisce di dettagli diventa più complesso, mentre l’illustrazione a furia di dettagli esplica: il pensiero leonardiano, così inteso da Bland, che nel suo A History of Book Illustration cita la celebre frase del maestro del XV sec. (Children’s Picturebooks, the art of visual storytelling, Salinsbury, Styles pag. 11), si esplica e ben si compendia con le litografie di Thomas Bewick, con i suoi “tale-pieces”: illustrazioni naturalistiche in cui il bianco e il nero sembrano essere condizione necessaria e sufficiente a dare movimento narrativo all’immagine.
And you who wish to represent by words the form of man and all the aspects of his membrification, relinquish that idea. For the more minutely you describe the more you will confine the mind of the reader, and the more you will keep him from the knowledge of the thing described. And so it is necessary to draw and to describe.[/pullquote] Tra tutte, ne ho scelte due “il cacciatore di volpi” e “il cervo”; sono consapevole che esse non abbiano un legame oggettivo ma mi piace immaginarle speculari. Nascono enciclopediche, come tutte le altre, fanno parte de “La storia naturale dei quadrupedi”, ed esattamente come tutte le altre si scoprono per nulla didascaliche, piuttosto racconti. Un cane da caccia sembra aver fiutato una pista, il suo slancio lascia pensare a un momento di stasi precedente, interrotto da moto istintivo elevato all’ennesima potenza dall’addestramento. Si muove, scatta, su due sfondi: il primo immediatamente dietro di lui, fisso roccioso e imponente, nasconde alla vista un bosco rappresentato alla maniera romantica (siamo alle porte del 1800) in parte rovina, in parte fiorente. Ogni piano è uno stampo a sé stante, che corrisponde a un livello a sé stante, e assieme contribuiscono a dare profondità, con il semplice utilizzo di linee dai versi opposti o speculari. Il nero opera in chiarezza dell’immagine, esse sono vive. Come vivo è l’occhio del cervo (anche qui i livelli sono tre, prima a sé stanti, poi all’unisono) che suggerisce il movimento all’orecchio, il quale sembra aver percepito l’arrivo del cane, del cacciatore, e sembra vibrare, trasferendo nelle linee oblique del manto una tensione pronta alla fuga. Il tronco dell’albero, che poteva dirsi morto e che invece si corona di nuovi e fitti germogli, attira il nostro sguardo su un altro piano narrativo e il cuore s’appesantisce, perché un altro cervo, meno guardingo, corre proprio verso sinistra e, lo temiamo, oltrepasserà il limite della pagina per andare verso la propria fine. L’immagine non si limita a descrivere il dettaglio, ma suggerisce una narrazione – cioè una scansione temporale che permette il ritmo e la nascita della danza tra bianco e nero, tra testo e immagine.
The Fox Hound, A General History of Quadrupeds, Thomas Bewick – credits http://www.bewicksociety.org/galleries/publications/quadrupeds/foxhound800.html
The Fox Hound, A General History of Quadrupeds, Thomas Bewick – credits http://www.bewicksociety.org/galleries/publications/quadrupeds/foxhound800.html
The Fox Hound, A General History of Quadrupeds, Thomas Bewick – credits http://www.bewicksociety.org/galleries/publications/quadrupeds/foxhound800.html
Quando Arthur Rackham illustrava non lesinava nei dettagli: abiti da ballo, e qui il ballo è il valzer, in cui a ben guardare si scoprono i ricami più raffinati, tono su tono di colori tenui in dozzine di varianti e trasparenze; particolari che raccontano e che contribuiscono a rendere l’immagine capace di raccontare, anche se considerata a sé stante, una storia, un’altra storia o proprio quella che illustra. Rackham il colore lo aggiungeva post stampa, a mano. In questo nodo tecnico si innesta lo sguardo autoriale, capace di scioglierlo per tradurlo in una scelta stilistica. Il limite del medium posto da ragioni tecniche o economiche determina la ricerca di soluzioni creative e induce l’autore a plasmare uno stile peculiare, legato al medium o al suo formato. Si parla una lingua che cambia e si trasforma in una variante, un dialetto. E a sentirli, certi dialetti, sono musica.
Per Cenerentola, ma anche per La bella addormentata nel bosco, nell’edizione del 1919, Rackham usa il bianco e nero, fatta eccezione per alcune tavole in tricromia. il nero di china s’adagia sul bianco immortalando movimenti e profondità: gli orli sfrangiati delle povere vesti di Cenerentola, i fili di paglia che pendono dalla sedia consunta; i ritagli si muovono come su di un palcoscenico: un quadro da solo, un’unica silhouette, basta a raccontare la fretta della ragazza mentre abbandona il castello, una scarpetta sì e una no: è tornata alla sua vita di sempre, la magia è terminata. Nel momento della magia fanno capolino degli ocra intensi, dei verdi argentei, dei rossi vittoriani a dare ancora più profondità e risalto agli istanti irripetibili, la magia colora ma è effimera, il bianco e nero suggellano con un inchino e un bacio la realtà dell’eterno amore.
Il Fuso e la scarpetta, La bella addormenta e Cenerentola, Arthur Rackham, Charles Evans – Donzelli Editore, 2009
Il Fuso e la scarpetta, La bella addormenta e Cenerentola, Arthur Rackham, Charles Evans – Donzelli Editore, 2009
Il Fuso e la scarpetta, La bella addormenta e Cenerentola, Arthur Rackham, Charles Evans – Donzelli Editore, 2009
È del 1919 l’italianissima Viperetta di Rubino che si distingue per i suoi tratti vittoriani, per l’art nouveau che serpeggia tra i suoi riccioli. Viperetta non è propriamente una bimba ribelle, è piuttosto simbolo di una fanciullezza che rientra nei canoni dell’epoca ma al contempo li rifugge. Il colore campeggia in tutte le tavole del suo formativo viaggio sulla luna, dal quale rientra matura da capricciosa qual era partita, mentre il bianco e nero è di tutte le 48 vignette al tratto che aprono ogni capitolo e che ne anticipano, in pochissimo spazio, la narrazione. Ciascuna ha una sua pregnanza e talvolta, sono dirompenti, cercano di travalicare lo spazio concesso loro dalla riquadratura a filetto, ci stanno strette. Quella in cui, per esempio, Viperetta fa la linguaccia suggerisce una tensione al futuro, lo spazio bianco cui la linguaccia si rivolge, da affrontare con irriverenza. Nella copertina delle varie edizioni, invece, il bianco e nero convivono con il colore, con un rosso tipografico che marchia i vestiti di Viperetta e la sua bambola, mentre la luna e i suoi abitanti rimangono nel bianco e nero, come a voler sottolineare il carattere tutto terreno della bambina e dei suoi oggetti.
Antonio Rubino Viperetta A cura di Martino Negri, Scalpendi Editore
Antonio Rubino Viperetta A cura di Martino Negri, Scalpendi Editore
Antonio Rubino Viperetta A cura di Martino Negri, Scalpendi Editore
Nel Novecento i bambini entrano nel mercato e ne rappresentano una buona fetta: si rivolgono a loro i caroselli pubblicitari, si pubblicano i celebri giornalini (che divengono strumento di propaganda), sono insomma al centro dell’interesse di molti, editori compresi (I libri per ragazzi che hanno fatto l’Italia a cura di Hamelin). Nel 1920 si dà alle stampe la versione definitiva de Il Giornalino di Gian Burrasca (precedentemente edito a puntate su Il Giornalino della domenica), che nel bianco e nero delle sue illustrazioni rispetta la sua forma e la narrazione diaristica. Le illustrazioni intra e intertestuali supportano il testo e lo incrociano nel linguaggio in numerose occasioni; il gioco del bianco e del nero rinforza il “simulacro” diaristico, il gioco del libro scritto (e disegnato) da un bambino – la mancanza del colore rimanda con più forza a un diario leggero e semplice da realizzare.
“Il giornalino di Gian Burrasca” rivisto, corretto e completato da Vamba Marzocco, Firenze 1953 – 20 settembre
“Il giornalino di Gian Burrasca” rivisto, corretto e completato da Vamba Marzocco, Firenze 1953 – 20 settembre
Il linguaggio di un libro, di un albo illustrato nella fattispecie, può modificarsi, dicevo, per numerose ragioni. Accade spesso (tra gli anni 50 e 60) che per mero risparmio si debbano stampare alcune illustrazioni in bianco e nero. Ci sono autori che subiscono l’esigenza commerciale e semplicemente alternano i blocchetti di testo alla pagina illustrata, laddove sia possibile, altri che, invece, attorno al limite costruiscono un’occasione e inventano un altro linguaggio, una soluzione linguistica alternativa e originale. Ne Il giorno in cui la mucca starnutì (ed. or. 1957) James Flora alterna alle pagine in bianco e nero (doppie pagine), quelle a colori (rosa, arancio, verde e nero), innescando una catena di causa (colori) effetto (bianco e nero) che è un vortice di ritmo, trasmette e comunica con la stessa efficacia sia quando può aggiungere sia quando deve necessariamente togliere senza mai smarrire la propria pista stilistica. (Per un bell’approfondimento sul mock-up rimando a questo articolo)
Il giorno in cui la mucca starnutì, James Flora – Orecchio acerbo, 2011
Verrebbe da dire Fortunatamente, lo stesso accidente capitò a Remy Charlip (ed. or. 1964) che alternando le tavole fortunate a quelle sfortunate permea l’intero albo di un ritmo efficacissimo. La fortuna di Ned, il protagonista, s’accompagna ai colori delle illustrazioni, alla sfortuna, invece, Charlip riserva il bianco e nero. Un’anticipazione di questa scelta sta proprio nelle pagine iniziali dell’albo che apre con due nuvole nere, che lì per lì non fanno molta impressione, fortunatamente, poi, nelle due pagine seguenti, su un letto d’arancione e giallo, risplende un sole sorridente… epperò il colophon trova spazio in un cielo grigio e pesto giacché le nuvole hanno, sfortunatamente, raggiunto e quasi del tutto coperto il sole che, inerme, non può che subirne il buio…
Fortunatamente, Remy Charlip – Orecchio acerbo 2010
Da La biblioteca di Lavoro, sono ormai gli anni ‘70, quindicinale curato dal gruppo sperimentale coordinato da Mario Lodi, sono numerosi gli esempi che potrei trarre per comunicare un utilizzo del bianco e nero che prende le mosse dal condizionante limite tipografico per arrivare a un’utilissima impostazione pratico/didattica. I quaderni di lavoro prevedevano una parte molto attiva da parte del bambino cui spesso era proposto di replicarli in varianti e riletture. Molto più semplice era affrontare l’intero processo senza l’intervento del colore. Lo zoo (nr. 37 del 1975, illustrato da Ivo Sedazzari) è una storia di sole immagini. A sinistra il disegno di un animale in gabbia che, sullo sfondo, malinconico sogna, mentre in primo piano le silhouette degli spettatori umani indicano o rimangono immoti. A destra il pensiero, il ricordo dell’animale in gabbia che è sogno di libertà riportato su carta con un’immagine fotografica ripresa in natura.
Biblioteca di Lavoro nr. 37, Lo zoo, Ivo Sedazzari – 1975
Biblioteca di Lavoro nr. 37, Lo zoo, Ivo Sedazzari – 1975
Così usato, il racconto figurato diventa una lettura del “reale” rappresentato che abitua il bambino a osservare, riflettere, collegare i fatti
Il bianco e nero dei quaderni di lavoro, letti soprattutto nelle scuole, parte dal presupposto che il bambino possa ri-fare, possa continuare quel quaderno con il proprio. È in questo contesto che la mancanza di colore è un invito esplicito al lettore a completare o continuare l’opera; è, ridotto all’osso, il pensiero di Freinet, della scuola del fare, che la attraversa in un rinnovamento pedagogico.
Il periodo di convivenza tra bianco e nero e colore è lunghissimo ma di fatto le soluzioni formali derivate da esigenze di tipo pratico sono state talmente tante e talmente tanto raffinate da riservare al bianco e nero il carattere dell’eleganza, del lineare. Questa convivenza non è ancora finita, è una danza perfetta in cui nulla è superfluo e tutto racconta.
Il Giorno in cui la mucca starnutì, James Flora, Orecchio Acerbo 2011 Viperetta, Antonio Rubino, a cura di Martino Negri, Scalpendi editore Fortunatamente, Remy Charlip – Orecchio acerbo 2010 Biblioteca di Lavoro di Mario Lodi nr. 37, Lo zoo, Ivo Sedazzari – 1975 Il Fuso e la scarpetta, La bella addormenta e Cenerentola, Arthur Rackham, Charles Evans – Donzelli Editore, 2009 Il giornalino di Gian Burrasca, rivisto, corretto e completato da Vamba – Marzocco, Firenze 1953
Pubblicato il 9 dicembre 2015 su Libri calzelunghe
Il bianco e il nero: un dialogo tra spazio e limite Il bianco è lo spazio e il nero è il tratto che lo contiene. Potrei dire anche che il bianco è lo spazio e il nero è il limes che ne determina il punto di fuga o la profondità.
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Netflix, tanti nuovi anime aggiunti alla piattaforma
Disponibili da oggi per gli abbonati Cardcaptor Sakura, Full Metal Panic!, Samura 7, SWord Art Online Alternative e La leggenda di Hokuto!
Di seguito trovate in dettaglio tutte le nuove aggiunte di oggi al catalogo anime italiano di Netflix.
Cardcaptor Sakura
Prima storica serie tratta dal popolare manga “Card Captor Sakura” delle CLAMP, edito in Italia da Star Comics, diretta fra il 1998 e il 2000 da Morio Asaka (Nana, Chiayafuru) presso lo studio Madhouse.
Nei tempi antichi un rinomato stregone di nome Clow Read ha creato delle potenti carte magiche, le Clow Card. Data l'estensione dei loro poteri, dopo la scomparsa del loro artefice esse sono state sigillate in un libro al fine di evitare l'avvento del caos nel mondo. In seguito a secoli di inattività, però, il sigillo si scioglie e le carte si disperdono. Recuperarle è compito di Sakura, investita del titolo di cardcaptor da Kero-chan, buffo animale parlante un tempo servitore di Clow Read e custode del sigillo del libro. Ad accompagnarla nella sua impresa ci sono l'amica Tomoyo, il fratello maggiore Touya, dotato di poteri sensoriali, e il migliore amico di quest'ultimo, Yukito. Egli nasconde in sé Yue, a sua volta antico servitore di Clow Read e responsabile del giudizio finale, tramite il quale conferirà a Sakura la proprietà delle carte.
In catalogo trovate tutte e due le stagioni per un totale di 70 puntate,in lingua originale con sottotitoli in italiano.
Full Metal Panic!
Prima stagione della serie animata basata sull’omonima saga di romanzi, scritta da Shoji Gatoh (Amagi Brilliant Park, Cop Craft), prodotta nel 2002 dallo studio Gonzo e diretta da Kouichi Chigira (Last Exile, Luck & Logic).
Equipaggiata con armi di alto livello e truppe specializzate, un'organizzazione militare non governativa chiamata “Mithril" lotta per sradicare le minacce terroriste dal mondo. Di questo gruppo fa parte il sergente appena diciassettenne Sousuke Sagara, cresciuto sui campi di battaglia fin dalle guerre in Medio Oriente. Mithril incarica Sousuke di un compito insolito: fare da guardia del corpo a una bella studentessa, Kaname Chidori. Dovrà starle appiccicato a scuola come nella vita quotidiana e il compito sarà reso difficile da due fattori: Kaname stessa e l'incapacità di Sousuke nel comportarsi da adolescente (con tutte le conseguenze esilaranti del caso).
Le di 24 puntate sono disponibili sia doppiate che sottotitolate in italiano.
Ken il Guerriero - La leggenda di Hokuto
Primo di cinque lungometraggi realizzati fra il 2006 e il 2008 che ripercorrono le vicende della storica serie televisiva, raccontando in maniera alternativa alcuni eventi e svelando al contempo dei retroscena inediti sia per l’anime che per il leggendario manga di Tetsuo Hara e Buronson, edito nel nostro paese da Planet Manga.
Le guerre nucleari hanno devastato il pianeta, uccidendo ogni forma di vita al di fuori di quella umana. I sopravvissuti vivono in lande aspre e desolate, cercano di nascondersi dalla furia del malvagio Sauzer, sacro imperatore della scuola di Nanto, e pregano che arrivi un nuovo salvatore, che riporti la pace nel mondo e metta fine alla paura. A proteggere i poveri e gli indifesi è Kenshiro, erede della tecnica di combattimento millenaria della “Divina scuola di Hokuto”, mentre suo fratello Toki usa quel sapere per guarire i bisognosi e il maggiore dei tre, Raoul, sfrutta gli stessi insegnamenti per soddisfare la sua sete di potere. I tre fratelli si ritroveranno uniti per sconfiggere Sauzer, ma solo Kenshiro sarà chiamato allo scontro finale…
Il film è disponibile sia doppiato che sottotitolato in italiano.
Sword Art Online: Gun Gale Online
Serie animata del 2018 tratta dall’omonimo romanzo di Keiichi Sigsawa (Kino’s Journey), spin off del più famoso “Sword Art Online” di Reki Kawahara (edito in Italia da J-POP). Il progetto è stato diretto da Masayuki Sakoi (Sora no Method, Soushin Shoujo Matoi) presso studio 3Hz.
Gun Gale Online è un gioco a realtà virtuale, ambientato in mondo devastato e dominato dalle armi da fuoco. Karen, una ragazza piena di complessi per la sua eccessiva altezza, inizia a giocarci solo perché in quel mondo può impersonare un avatar molto carino e alto solo 1 metro e 50 di nome LLENN. Ben presto diventa molto brava e scopre quanto le dia soddisfazione dare la caccia e uccidere gli altri giocatori, diventando così famosa col soprannome di “diavolo rosa”. Un giorno incontra un’altra misteriosa e bellissima giocatrice, Pitohui, che la convince a partecipare ad un torneo a squadre chiamato Squad Jam. Insieme ad M, suo compagno di squadra, LLENN scoprirà scontro dopo scontro che la posta in palio è più alta di quel che pensava.
Le 12 puntate sono disponibili sia doppiate che sottotitolate in italiano.
Samurai 7
Serie originale del 2004 e ispirata al celebre film “I sette samurai” di Akira Kurosawa, di cui ha voluto celebrare i cinquant'anni dalla realizzazione. Il progetto è stato diretto da Toshifumi Takizawa presso lo studio Gonzo.
Un villaggio di contadini è ogni anno depredato dai banditi, dotati di tecnologia avanzata e con i quali non possono competere. Inoltre, ogni anno pretendono di più e ormai gli abitanti sono ridotti allo stremo delle forze. Decidono per cui di combattere, ma l’unica possibilità per farlo è quella di ingaggiare abili samurai in grado di sconfiggere i banditi. La sacerdotessa del villaggio, dotata di poteri divinatori, la sua sorellina e un giovane, partono per la città nella speranza di assoldare le persone in grado di garantire alla loro gente un futuro migliore.
Le 26 puntate sono disponibili sia doppiate che sottotitolate in italiano.
SilenziO)))
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Difende i buoni e sa cos’è l’amore
Il lottatore mascherato conosciuto come Uomo Tigre pratica il catch, sport del quale non si sente più parlare da anni, sostituito ormai dal wrestling. La serie che lo vede protagonista s’intitola L’Uomo Tigre, il campione (vale a dire, Tiger Mask) ed è composta da 105 episodi datati 1971. Sembra che gli autori abbiano preso spunto dai lottatori della “scuola messicana”, tutti mascherati e capaci di pirotecniche acrobazie (Rey Mysterio ne è un buon esempio contemporaneo). Dietro la sua maschera si nasconde Naoto Date. È ricco, o quanto meno benestante. Indossa vestiti eleganti e guida un’auto di quelle che costano soldi. Manco a farlo apposta, è solo. Non ha genitori, né fratelli. Ha trascorso l’infanzia in un orfanotrofio del Giappone insieme alla piccola Ruriko. Galeotta fu una visita allo zoo. Vedendo una tigre in gabbia, il ragazzino si mette in testa di diventare “forte come una tigre”. Detto fatto. Scappa dall’orfanotrofio e viene assoldato dall’organizzazione criminale chiamata Tana delle Tigri. Grazie a essa, intende migliorare la propria condizione sociale. La sede, situata nelle Alpi Bavaresi, è piuttosto suggestiva: un’impervia montagna in cima alla quale spicca la statua di una gigantesca tigre alata. Vi si addestrano lottatori sadici e scorretti, temprati da allenamenti tanto sovrumani quanto assurdi. Intanto che si fa massacrare per bene, stringe amicizia con un certo Daimon. L’esame finale, se vogliamo chiamarlo così, consiste nel combattere contro una belva feroce. Naoto sceglie una tigre. La uccide e diventa un lottatore mascherato professionista, con l’obbligo di versare a Tana delle Tigri la metà del compenso vinto in ogni incontro disputato. Tornato in Giappone, si presenta sul ring come Uomo Tigre. Pubblico e avversari non lo amano. Combatte con ferocia, senza lesinare i colpi bassi. Tanto è vero che spedisce all’ospedale parecchi suoi colleghi. Si guadagna ben presto il nomignolo di “Diavolo Giallo”. Ma a lui non interessa. Almeno fino a quando non va a fare visita a Ruriko. La ragazza, ora, gestisce, insieme al fratello Wakatsuki, l’orfanotrofio nel quale è cresciuta insieme a Naoto. Però non se la passa bene. Si è indebitata con un boss della yakuza, e se non riesce a restituire i soldi, dovrà chiudere bottega. Per aiutarla, Naoto smette di passare a Tana delle Tigri la metà dei soldi che guadagna. Il che innervosisce l’organizzazione. Ma non basta. Tra gli ospiti dell’orfanotrofio c’è un ragazzino di nome Kenta. Soggetto difficile. Irruento e ribelle, disprezza Naoto che considera un damerino. Adora, invece, l’Uomo Tigre e vorrebbe diventare anche lui un lottatore spietato. Quando il protagonista viene a saperlo (glielo dice Ruriko, che ha capito chi si nasconde dietro la maschera), volta pagina. Decide di essere un modello positivo per tutti i ragazzi che lo seguono. Smette di combattere slealmente durante il combattimento contro un certo Pitone Nero. I proventi degli incontri saranno inoltre utilizzati per aiutare gli orfani meno fortunati di lui (se la sua è fortuna, allora la sfiga cos’è?). La reazione di Tana delle Tigri non si fa attendere. L’Uomo Tigre è un traditore e deve morire. L’esecuzione della sentenza viene affidata a Mr. X, un uomo alto e magro dalla pelle color lilla. Oltre a portare con una certa eleganza monocolo e bastone, indossa cappello a cilindro, smoking e mantello. È lui che recluta tutti i lottatori malvagi incaricati di uccidere il lottatore redento, organizzando una serie di pseudo-incontri. Il suo passato è avvolto dal più impenetrabile mistero. Muore verso la fine della serie, in maniera abbastanza idiota: rimane coinvolto in un incidente stradale mentre cerca di eliminare personalmente Naoto. All’inizio, pubblico e lottatori non si fidano. Uno come lui, pensano, non può cambiare dall’oggi al domani. Scorretto era e scorretto rimarrà. Invece, poco per volta, Naoto convince gli scettici. Tanto è vero che si guadagna la fiducia di Mr. Baba e Antonio Inoki, i quali si convincono del cambiamento e lo accettano nella Federazione di Lotta Giapponese. Apriamo una parentesi. Baba, Inoki e l’Uomo Tigre sono realmente esistiti. Del primo non possiedo notizie precise, mentre so che il secondo era un vero e proprio idolo, per gli spettatori giapponesi. Per quanto riguarda il terzo, è uno di quei casi in cui la realtà s’ispira alla finzione. Nel 1981, infatti, in omaggio alla serie di cui stiamo parlando, nasce Tiger Mask, al secolo Satoru Sayama, che si ritira nel 1985. Era possibile ammirarne l’abilità sul circuito televisivo Odeon. Era capace di cose che sembravano impossibili. Il suo avversario “storico” era l’americano Dinamite Kid. Memorabili gli incontri disputati contro il pittoresco Villano III, altro agilissimo lottatore mascherato. Sayama viene esiliato dal mondo del catch per avere dichiarato in un libro che tutti i match sono combinati. Intanto salta fuori Tiger Mask II, alias Mitsuharu Misawa, smascherato nel 1990. Segue Tiger Mask III, Koji Kanemoto, sconfitto dal lottatore mascherato Jushin “Thunder” Riger. Dopo di che, torna in campo il primo Tiger Mask, con il nome di Tiger King. Contemporaneamente, lancia Tiger Mask IV, sulla cui reale identità non ho trovato alcuna notizia. Parentesi chiusa. Torniamo all’anime. Nell’economia della vicenda, Baba riveste una maggiore importanza rispetto a Inoki, che diventa amico dell’Uomo Tigre dopo averlo sconfitto. C’è un avvenimento che funziona un po’ da spartiacque, nella serie. Mr. X propone a Naoto di partecipare al “Torneo dei lottatori mascherati”. Si tratta ovviamente di una trappola. I partecipanti sono lì per ucciderlo. Lui, però, accetta. Vuole utilizzare i soldi in palio per fare operare una bambina cieca. Inoki e Baba si oppongono, ma il secondo lo aiuterà, travestendosi e assumendo l’identità di Grande Zebra. Inutile dire che il piano di Mr. X fallisce. Il torneo non è stata una passeggiata. Uomo Tigre ne esce malconcio, consapevole di dover sviluppare una mossa finale tutta sua, che gli permetta di assestare il colpo di grazia agli avversari. S’inventa, così, la Super Caduta Tigre. Grazie a questa tecnica, può partecipare come rappresentante del Giappone ai Campionati di Lotta Asiatici. Vince, guadagnando il titolo di campione Continentale, ma neutralizzano la Super Caduta. Riesce, comunque, a elaborare un altro attacco: una roba un po’ macchinosa che consiste nel coricarsi di schiena e lanciare un paio di volte in aria l’altro lottatore. Sembra un periodo molto positivo, per Naoto. Il suo passato è ormai storia vecchia. Il pubblico lo ama. I lottatori lo rispettano. È un campione. E non combatte più da solo. Al suo fianco ci sono altri due “traditori” di Tana delle Tigri. Il primo è Daimon, conosciuto come Mister Fudo. La sua maschera rappresenta il Dio giapponese del Fuoco. Il secondo è il giovane Ken Takaoka. A 15 anni si iscrive a Tana delle Tigri per garantire un futuro migliore alla propria famiglia. Lo convincono che la madre sia morta per colpa dell’Uomo Tigre, nei confronti del quale sviluppa un odio inimmaginabile. Lo affronta nei panni del Demone Giallo, durante un incontro all’ultimo sangue. Fortunatamente capisce da che parte stanno i buoni. Verso la conclusione, l’anime subisce un’improvvisa accelerazione verso il dramma. Il capo di Tana delle Tigri è stanco dei continui fallimenti. Decide di far scendere in campo i tre lottatori più forti dell’organizzazione: Grande Tigre, Grossa Tigre e Tigre Nera. Il primo ferisce gravemente Ken, che però riesce a salvarsi. Gli altri due combattono in coppia contro Naoto/Uomo Tigre e Daimon/Fudo. Quest’ultimo uccide i due sicari, ma muore per le ferite riportate, dopo essere stato in coma. Per il protagonista è un colpo durissimo. Ma non c’è tempo. La Resa dei Conti è a due passi. L’incontro finale dura due episodi, e vede di fronte l’Uomo Tigre e Grande Tigre, il capo supremo di Tana delle Tigri. Il suo corpo è bianco, come pure la maschera che indossa. Non scherza. È uno che sa il fatto suo. La svolta del match avviene quando strappa la maschera a Naoto, mostrando il suo vero volto. Da quel momento, il protagonista perde il controllo delle proprie azioni. Manda a quel paese regole e principi, e diventa una furia. Appende l’avversario alle luci poste sopra il ring, gli si avvinghia con le gambe al collo e gli colpisce violentemente la testa con il gong. A un certo punto, cade tutto. Naoto riesce a spostarsi, ma Grande Tigre muore schiacciato. La sua organizzazione è distrutta. L’Uomo Tigre, sconvolto per quello che ha fatto, corre all’aeroporto. Deve andarsene. Non può sopportare di avere appena contraddetto ciò che ha insegnato ai suoi piccoli tifosi. Promette, però, di ritornare. L’Uomo Tigre, il campione presenta un’animazione scarna e disegni un po’ rozzi. I personaggi sono tracciati quasi con l’accetta, dal punto di vista grafico. La trama è semplice e lineare, incentrata sull’evoluzione spirituale di un uomo, più che sui vari incontri di catch. Racconta la storia di una redenzione. Naoto deve riscattare gli errori commessi come lottatore malvagio, e lo fa per amore dei bambini. Riesce a convincere tutti del proprio cambiamento. Non è una creatura perfetta. Il coraggio e la determinazione non lo mettono al sicuro da dubbi, ripensamenti e paure. Nonostante tutto, l’Uomo Tigre è solo. Perché solitaria è la Via. Come ogni guerriero che si rispetti, ha scelto il cammino più difficile, quello che lo ha messo in condizioni di superare i propri limiti. Ha dovuto davvero sconfiggere se stesso, prima di qualunque altro avversario. Dover tradire gli ideali che lo avevano guidato nella lotta contro Tana delle Tigri è stato un autentico trauma. La vicenda dell’Uomo Tigre non si esaurisce qui. Prosegue con L’Uomo Tigre II (vale a dire Tiger Mask nisei), anime del 1981. Le differenze rispetto alla prima serie sono evidenti. Intanto è più breve: appena 31 episodi. Disegni e animazione sono nettamente superiori, ma non sembrano supportati in maniera adeguata dalla storia. Mancano pathos e drammaticità. Non che qui ci siano soltanto rose e fiori, ma il protagonista, Tommy Aku (nome spudoratamente inventato dalla distribuzione italiana), non ha certo il carisma di Naoto Date, e tanto meno quei dubbi e quelle incertezze che lo rendevano umano, oltre che credibile. Sono passati nove anni dalla fuga del primo Uomo Tigre. Anche il secondo è ricco. Viaggia a bordo di una ridicola auto trasformabile (da bolide rosso diventa una macchina-tigre), ha stabilito la sua base all’interno di una piramide mimetizzata nella foresta e ha come fedele compagna una tigre con tanto di armatura. Come copertura, svolge la professione di giornalista sportivo, nella quale si dimostra imbranato e svogliato. Al suo fianco, troviamo Midori, una collega che – vedi caso – ha un debole per lui. Già, ma che fine ha fatto Naoto? Lo scopriamo all’inizio della serie. Coerentemente con i propri principi, è morto per salvare una bambina da un incidente stradale. Ma si tratta di un decesso “in differita”. Ce ne parlano, senza mostrare nulla. (Pare, invece, che nel fumetto muoia insieme a Grande Tigre). Nel frattempo, qualche cambiamento c’è stato. Mr. Baba è scomparso. E non sappiamo che fine abbia fatto. È morto, oppure si è ritirato per raggiunti limiti d’età? Mistero. Però c’è ancora Antonio Inoki. E ha molto più spazio, mentre prima era un semplice comprimario di lusso. Viene sfidato dalla Federazione di Lotta Spaziale, una nuova organizzazione in perfetto stile Tana delle Tigri. L’Uomo Tigre Secondo offre la propria collaborazione. Insieme, i due formano una coppia imbattibile. In fondo, il passato di Tommy non è problematico e tormentato quanto quello di Naoto. Sebbene non compaia nella prima serie, era anche lui ospite dell’orfanotrofio gestito da Ruriko, e conosceva dunque il suo predecessore. Però non è Kenta, come hanno ipotizzato all’epoca della messa in onda. Alla morte del primo Uomo Tigre, decide di diventare un lottatore professionista. Entra a far parte della rinata Tana delle Tigri, che non verrà più nominata e della quale, quindi, non sappiamo altro. Raggiunto il proprio obiettivo, il ragazzo lascia l’organizzazione senza che nessuno cerchi (stranamente) d’impedirglielo. A quanto sembra non è malvagio. Viaggia per il mondo, imparando svariate tecniche di combattimento. In Egitto conquista l’ambitissima Cintura Delle Piramidi, destinata al vincitore di un torneo segreto che si tiene ogni quattro anni. La metterà in palio nel corso della vicenda. Torna in Giappone, dove scopre una Piramide. La ribattezza Piramide Delle Tigri e la trasforma nella propria base. In essa crea una scuola per lottatori, della cui esistenza metterà a parte Inoki, ricevendone tutto l’appoggio possibile. Così nasce Uomo Tigre Secondo, che indossa una maschera e un costume notevolmente meno rozzi e più elaborati rispetto a quelli di Naoto. Anche la sua entrata in scena è piuttosto spettacolare. Si presenta avvolto da un ampio mantello che lancia sempre in aria. Per nascondere la propria identità, s’inventa un alter ego goffo e impacciato, sotto i cui vestiti nessuno sospetterebbe l’esistenza d’invidiabili addominali a tartaruga. Sembra non abbia particolari mosse segrete, ma è fortissimo. Le prende e le dà. Il nemico, come detto, è la Federazione di Lotta Spaziale, a capo della quale troviamo Mister Hassan, ricchissimo petroliere e tiranno di un imprecisato paese arabo. Non si capisce, quindi, cosa c’entri lo spazio in tutto questo. Certo, il primo avversario di Tommy è un ex astronauta, ma il legame sembra finire lì. La storia procede senza grandi sussulti. Tommy si muove su due fronti. Combatte sul ring, spesso al fianco di Inoki. Numerosi (e spesso inverosimili) gli avversari. Ne segnaliamo uno solo: Abdullah The Butcher, un grassone di colore realmente esistito, che nell’anime appare meno antipatico e meno goffo. In più, fornisce il proprio sostegno ai ribelli intenzionati a rovesciare il regime di Hassan. Nel frattempo, Midori scopre la vera identità dell’Uomo Tigre Secondo. Il finale è drammatico, se vogliamo, ma non certo tragico come quello di L’Uomo Tigre, il campione. Tende più al malinconico. L’ultimo avversario è il lottatore mascherato Joe Forte, che si batte lealmente. Una volta sconfitto, rivela di essere niente po’ po’ di meno che Mister Hassan. A quel punto, anche Uomo Tigre Secondo si toglie la maschera. Visto che il capo della Federazione ha ammesso la propria disfatta, la sua missione può dirsi compiuta. Tutti rimangono a bocca aperta. Mai più avrebbero pensato che il loro idolo potesse essere il timido e impacciato giornalista Tommy Aku. Ma l’incontro non è finito: Hassan chiede e ottiene di poter proseguire a oltranza. Muore per un attacco cardiaco proprio nello stesso momento in cui la sua dittatura crolla. Conclusione sotto la neve. Tommy prende sotto braccio Midori, che si è innamorata di lui, e le promette che non sarà mai più sola. E lei piange. Si spera per la felicità.
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