#e un quarto d’ora dopo ‘il mio ragazzo’
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#cioè ho dovuto vivere la seguente situazione#Tizia che fa ‘ma ci sono dottorandi che stanno insieme?👀👀👀’#e un quarto d’ora dopo ‘il mio ragazzo’#okay!#il tutto mentre un’altra collega stava oggettificando un professore che conosco di persona mi pareva stesse parlando di mio zio lol#va beh è stato bellissimo sperare di essere un po’ speciale per tipo tre settimane lol
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“ Vedo Akiko alla mensa, è seduta a un tavolo con due amiche e chiacchiera animatamente. Ha sciolto i capelli che le arrivano a metà schiena, mentre prima, quando è venuta nel mio studio, li aveva legati sulla nuca. Risatine, espressioni di marcato stupore, dinieghi sconcertati, le vivaci reazioni delle tre ragazze lasciano pensare che la conversazione verta su un argomento appassionante: deve trattarsi di qualche vicenda personale, escluderei la possibilità che stiano discutendo di problematiche sociali o grandi questioni esistenziali, considerato lo scarso interesse che le une e le altre riscuotono fra i giovani. Vista al di fuori del contesto formale della classe o del colloquio con me, che sono la sua sensei, la sua insegnante, Akiko mi sembra più disinvolta e rilassata. Ha una gestualità un po’ affettata ma espressiva, un atteggiamento vivace. Tutt’a un tratto entra il suo ragazzo insieme a uno studente che non conosco. Avanzano con i vassoi del pranzo, strascicando i piedi, si guardano intorno, poi vanno a sedersi con aria indolente al tavolo delle ragazze, le quali non si scompongono più di tanto e continuano la loro infervorata conversazione. I due ultimi arrivati ogni tanto interloquiscono, ma ben presto si disinteressano delle ragazze e cominciano a parlare tra di loro. Manca ancora un quarto d’ora all’inizio delle lezioni, ma Akiko e le sue amiche a un certo punto si alzano e se ne vanno, solo lei si attarda ancora un momento accanto al tavolo per dire qualcosa al suo ragazzo, poi raggiunge le altre che sono già sulla porta. Dopo cinque minuti anche i due maschi, che nel frattempo hanno finito di mangiare, se ne vanno. Non fossi stata informata da Akiko poco prima, non avrei mai sospettato in quel gruppo di cinque persone la presenza di una coppia. L’apparente indifferenza dei due non deve però trarre in inganno, potrebbero essere perdutamente innamorati l’uno dell’altra, se non lo dànno a vedere è perché in Giappone non si fa, non si mostrano in pubblico gli affetti privati, tanto meno negli ambienti che si frequentano per studio o per lavoro. Nell’università dove insegno, le storie d’amore fra studenti sono all’ordine del giorno, ma raramente l’atteggiamento esteriore degli interessati le lascia indovinare. Però non se ne fa mistero, e quando se ne presenta l’occasione se ne parla senza falsi pudori. Altre volte ne sono venuta a conoscenza anni dopo, ricevendo un cartoncino che mi annunciava le nozze fra due ex studenti che per quattro anni erano rimasti seduti uno a un angolo della classe e l’altra a quello opposto. Il massimo dell’intimità che le coppie più giovani si concedano davanti a terzi è tenersi per mano. Una volta, tornando dall’Italia, mi sono per caso trovata a viaggiare nello stesso aereo con un mio studente che non vedeva la sua ragazza da due mesi, ed era letteralmente esasperato per un ritardo di un paio d’ore. Ebbene, quando i due si sono finalmente rivisti all’aeroporto, si sono salutati con un mezzo inchino impacciato; morivano palesemente dalla voglia di buttarsi l’uno nelle braccia dell’altra, ma per farlo hanno dovuto aspettare di essere soli. Tanto più appassionate e profonde sono le relazioni affettive, in questo popolo, tanto meno vengono esibite, tanto più intensa è l’emozione, tanto meno le si lascia libero sfogo in pubblico. Mi è successo di assistere all’aeroporto all’incontro di persone che non si vedevano da anni – madre e figlia, o fratello e sorella – e si salutavano con un cenno del capo, un sorriso, una pacca sulla spalla. Belle frasi e grandi dichiarazioni, sia di gioia che di dolore, sono di solito riservate alle relazioni formali e poco sentite. Come in tutti i fenomeni, anche negli affetti in Giappone la facciata è diversa dalla realtà che si cela dietro di essa, e può essere molto fuorviante dedurre la seconda dalla prima. “
Antonietta Pastore, Nel Giappone delle donne, Giulio Einaudi, 2004. [Libro elettronico]
#Antonietta Pastore#Nel Giappone delle donne#giovani#libri#società giapponese#leggere#letture#citazioni#sentimenti#spensieratezza#amicizia#giovinezza#amici#passione#innamoramento#affetti#regole sociali#prescrizioni sociali#educazione#vita privata#vita sociale#discrezione#Asia#intimità#pudore#relazioni affettive#emozioni#tradizioni#gioia#apparenze
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IL RISTORANTE DI ALICE Questa canzone si chiama Il Ristorante di Alice, è su Alice, e sul ristorante, ma “Alice’s Restaurant” non è il nome del ristorante, è solo il nome della canzone ed è per questo che ho chiamato la canzone Il Ristorante di Alice. Puoi avere quel che ti pare al ristorante di Alice, puoi avere quel che ti pare al ristorante di Alice, vacci a piedi e entraci, è giusto là dietro, appena un chilometro dalla ferrovia, puoi avere quel che ti pare al ristorante di Alice Ora, tutto è nato due feste del Ringraziamento fa, è stato due anni fa nel giorno del Ringraziamento, quando io ed il mio amico siamo andati a fare una visitina a Alice al ristorante, ma Alice non vive nel ristorante, vive nella chiesa vicina al ristorante, nel campanile, con suo marito Ray e il cane Fasha. E siccome vivono in quella maniera, nel campanile, hanno un sacco di spazio giù al piano di sotto dove prima ci stavano i banchi da chiesa. E siccome hanno tutto quello spazio e vedendo come hanno portato via tutti i banchi da chiesa, hanno deciso che non dovevano portare fuori la loro spazzatura per un bel po’ di tempo. Siamo saliti là sopra, abbiamo trovato tutta la spazzatura che c’era dentro e abbiamo deciso che sarebbe stato un gesto da amici portare la spazzatura alla discarica cittadina. Così abbiamo preso una mezza tonnellata di spazzatura, l’abbiamo infilata dietro un furgone Volkswagen rosso, abbiamo preso pale, rastrelli e arnesi di distruzione e abbiamo fatto rotta verso la discarica comunale. Beh, siamo arrivati là e c’era un grosso segnale e una catena tutta attorno alla discarica, che diceva “Chiuso il giorno del Ringraziamento”. Non avevamo mai sentito prima di una discarica chiusa il giorno del Ringraziamento, e con le lacrime agli occhi siamo andati via nel tramonto, cercando un altro posto dove buttare la spazzatura. Non ne abbiamo trovato nessuno, finché non siamo arrivati in una stradina laterale, e sul lato della stradina laterale c’era un altro burrone di una decina di metri, e in fondo al burrone c’era un altro mucchio di spazzatura. Abbiamo deciso che un grosso mucchio è meglio di due piccoli mucchi, e piuttosto di portare su quell’altro abbiamo deciso di buttare giù il nostro. Questo è quel che abbiamo fatto, siamo tornati alla chiesa, abbiamo fatto un pranzo di Ringraziamento assolutamente imbattibile, siamo andati a dormire e non ci siamo risvegliati che la mattina dopo, quando abbiamo ricevuto una telefonata dall’agente Obie. Ha detto, “Ragazzo, abbiamo trovato il tuo nome su una busta in fondo a mezza tonnellata di spazzatura, e volevamo giusto sapere se ne sai qualcosa.” Io gli ho risposto: “Sì, signor agente Obie, non posso mentire, ho messo io la busta sotto quella spazzatura.” Dopo aver parlato con Obie per circa tre quarti d’ora al telefono, siamo finalmente arrivati al nocciolo della questione, e lui ha detto che dovevamo scendere laggiù e raccogliere la spazzatura, e che dovevamo anche andare a parlare con lui al commissariato. E così siamo montati sul furgone Volkswagen con le pale, i rastrelli e gli arnesi di distruzione e abbiamo fatto rotta verso il commissariato di polizia. Ora, amici, c’erano solo due cose che Obie avrebbe potuto fare al commissariato, la prima era che avrebbe potuto darci una medaglia per essere stati tanto onesti e coraggiosi al telefono, cosa che non era molto probabile e che non ci aspettavamo, e l’altra era che avrebbe potuto sgridarci e dirci non farci più vedere a portare ancora in giro spazzatura per tutto il circondario, che era quel che ci aspettavamo; ma quando andammo al commissario c’era un’altra possibilità che non avevamo nemmeno preso in considerazione, e insomma fummo tutti e due arrestati. Ammanettati. E io dissi: “Obie, non penso di poter raccattare la spazzatura con queste manette addosso.” E lui: “Zitto, ragazzo. Siediti dietro sulla macchina di pattuglia.” Ed è quel che facemmo, ci mettemmo a sedere dietro sulla macchina di pattuglia e ci recammo sulla (inizio citazione) Scena del delitto (fine citazione). Voglio raccontarvi della città di Stockbridge, Massachusetts, dove tutto questo accadde, avevano tre segnali di stop, due agenti e una macchina della polizia, ma quando ci recammo sulla Scena del Delitto c’erano cinque agenti e tre macchine della polizia, dato che si trattava del peggior crimine degli ultimi cinquant’anni, e tutti volevano andare sul giornale. E stavano pure usando ogni sorta di roba da sbirri che era stata non so quanto a ciondolare inutilizzata al commissariato. Rilevavano le tracce di pneumatici col gesso, le impronte digitali, le tracce coi cani segugi, e presero pure ventisette fotografie a 8/10 colori su carta patinata con cerchetti e freccette, e una dicitura sul retro di ciascuna che spiegava come ognuna di esse avrebbe potuto essere utilizzata come prova contro di noi. Presero fotografie all’arrivo, alla partenza, del settore nord-ovest, del settore sud-ovest, per non parlare della fotografia aerea. Dopo tutto quel patire, tornammo in prigione.Obie disse che che ci avrebbe messo in cella. Disse: “Ragazzo, ti metto in cella, dammi il portafoglio e la cintura.” E io dissi: “Obie, posso anche capire che tu voglia il mio portafoglio, così non avrò soldi da spendere in cella, ma per che cazzo la vuoi, la mia cintura?” E lui disse: “Ragazzo, non vogliamo che tu ti impicchi.” Io dissi: “Obie, pensi che io mi impicchi per sparpagliamento di spazzatura?” Obie disse che voleva essere sicuro, e, amici, lo voleva sul serio perché tirò via pure la ciambella del cesso in modo che io non potessi sbattermela in testa e affogarci, e portò via anche la carta igienica perché non potessi piegare le sbarre, srotolare fuori, insomma srotolare la carta igienica fuori dalla finestra, far scivolare fuori il rotolo e evadere. Obie voleva essere sicuro, e fu quattro o cinque ore più tardi che Alice (vi ricordate di Alice? E’ una canzone su Alice), insomma Alice arrivò e con qualche paroletta un po’ incazzata a Obie ci tirò fuori di galera su cauzione, e tornammo alla chiesa facendoci un altro pranzo di Ringraziamento assolutamente imbattibile, e non ci alzammo fino alla mattina dopo, quando dovevamo tutti quanti andare in tribunale. Entrammo, ci mettemmo a sedere, Obie entrò con le ventisette fotografie a 8/10 colori su carta patinata con i cerchietti e le freccette, ognuna con una dicitura sul retro, e si mise a sedere. Un tizio entrò e disse: “Tutti in piedi.” Tutti ci alzammo in piedi, e Obie si alzò con le ventisette fotografie a 8/10 colori su carta patinata, e il giudice entrò, si mise a sedere con una guardia, si mise a sedere e noi ci mettemmo a sedere. Obie guardò il guardiano. Poi guardò le ventisette fotografie a 8/10 colori su carta patinata con cerchietti e freccette ognuna con una dicitura sul retro, e scoppiò a piangere perché Obie si rese conto che si trattava di un tipico caso di mala giustizia americana, e che non ci poteva fare nulla, e che il giudice non avrebbe guardato le ventisette fotografie a 8/10 colori su carta patinata con i cerchietti e le freccette, ognuna con una dicitura sul retro che spiegava che ciascuna avrebbe potuto essere utilizzata come prova contro di noi. Insomma ci fu appioppata una multa di 50 dollari, e dovemmo ritirare su la spazzatura sotto la neve, ma non è questo che ero venuto a raccontarvi. Ero venuto a parlare della visita di leva. C’era un palazzo giù a New York, si chiama Whitehall Street, dove entri, dove qualcosa ti viene iniettato e poi vieni ispezionato rilevato infettato scartato e selezionato abile-arruolato. Ci andai un giorno per fare la mia visita attitudinale, ed entrai, mi misi a sedere, la sera prima mi ero divertito un mondo e mi ero inciuccato e così mi sentivo al meglio, ed avevo un aspetto al meglio, quando entrai là quella mattina. Perché volevo somigliare a un tipico ragazzo americano di New York, gente, accidenti se lo volevo, volevo sentirmi come un tipico –insomma volevo essere un tipico ragazzo americano di New York, e entrai, mi misi a sedere e fui rivoltato in tutti i modi e tutte le salse, e ogni tipo di cose brutte, meschine e orribili del genere. Entrai, mi misi a sedere, e mi dettero un pezzo di carta che diceva: “Ragazzo, vai dallo psichiatra, stanza 604.” Andai su, e dissi: “Strizzacervelli, voglio uccidere. Cioè, insomma, voglio uccidere. Voglio vedere, voglio vedere sangue, sangue rappreso, visceri e vene da prendere a morsi. Voglio mangiare cadaveri carbonizzati. Voglio dire uccidere, Uccidere, UCCIDERE, UCCIDERE.” E cominciai a saltellare su e giù berciando “UCCIDERE! UCCIDERE!”, e lui cominciò a saltellare su e giù insieme a me berciando “UCCIDERE! UCCIDERE!”. Poi arrivò il sergente, mi appuntò una medaglia, mi rimandò giù nella hall e disse: “Sei quello che fa per noi, ragazzo.” La cosa non mi fece sentire troppo bene. Scesi giù nella hall beccandomi ancora più iniezioni ispezioni rilevazioni scartazioni e ogni sorta di cose che mi stavano facendo in quel posto di merda là, e ci restai due ore, tre ore, quattro ore, ci rimasi a lungo beccandomi ogni sorta di cose brutte stronze bastarde e insomma ci stavo proprio passando un brutto quarto d’ora là, e loro stavano ispezionando e iniezionando ogni mia parte, non lasciavano intatta neanche una parte. Scesi ancora, e quando alla fine arrivai a vedere l’ultima persona, entrai, entrai e mi misi a sedere dopo aver dovuto passare tutta quella roba, entrai e dissi: “Cosa vuoi?”. Lui disse, “Ragazzo, abbiamo solo una domanda da farti. Sei mai stato arrestato?” E io provvidi a raccontargli la storia della Strage al Ristorante di Alice, con tutta l’orchestrazione e partitura armonica in cinque parti e cose del genere e tutto il fenome… -e lui mi stoppò là e mi disse: “Ragazzo, sei mai stato processato?” E io provvidi a raccontargli la storia delle ventisette fotografie a 8/10 colori con i cerchietti e le freccette, ognuna con una dicitura sul retro, e lui mi stoppò là e mi disse: “Ragazzo, voglio che tu ti metta a sedere su quella panca che dice Gruppo W…ORA, ragazzo!!” E insomma io andai a quella panca, a quella panca là, dove c’erano quelli del Gruppo W, dove ti mettono se non hai i requisiti morali necessari per entrare nell’esercito dopo aver commesso un certo crimine, e c’era ogni sorta di gente brutta stronza e bastarda su quella panca. Stupratori di mamme. Accoltellatori di papà. Stupratori di papà! Stupratori di papà che se ne stavano là a sedere su quella panca, accanto a me! Ed erano dei tipi brutti stronzi bastardi orribili e criminali, quelli che stavano là a sedere accanto a me. E il più brutto, più stronzo e più bastardo, lo stupratore di papà più merdoso di tutti, mi si stava avvicinando e era brutto stronzo bastardo orribile e ogni sorta di cose di quel genere, e era seduto accanto a me e diceva: “Ragazzo, cazzo hai fatto?” Io dissi: “Non ho fatto nulla, ho dovuto pagare 50 dollari e raccattare la spazzatura.” Lui disse: “Per cosa ti hanno arrestato, ragazzo?” E io dissi: “Per sparpagliamento di spazzatura:” E tutti allora si scostarono da me sulla panca, e mi fecero degli sguardi torvi e ogni sorta di cose brutte e stronze finché non dissi: “E ho creato un fastidio”. Allora tutti tornarono, mi strinsero le mani, e ci divertimmo un sacco sulla panca, parlando di crimini, di accoltellamenti della mamma, di stupro del papà, e sulla panca parlammo di ogni tipo di quelle cose alla moda. E tutto andava bene, fumavamo sigarette e ogni sorta di roba, finché non entrò il Sergente con dei fogli in mano, li tirò su e disse: “Ragazzi, questo-pezzo-di-carta-ha-47-parole-37-frasi-58-parole-vogliamo-sapere-dettagli-sulla-tempistica- del-crimine-e-ogni-altra-sorta-di-cose-che-potete-dire-attinenti-al-crimine-Voglio-sapere- motivodellarresto-nomedellagente-e-ogni-altra-sorta-di-cose-che-potete-dire”, e parlò per tre quarti d’ora e nessuno capì una parola di quello che diceva, ma ci divertimmo a riempire i formulari e a giocherellare con le matite su quella panca, e io compilai tutta la Strage con partitura armonica in quattro parti, e ce la scrissi proprio com’era, e tutto era a posto e posai la matita, ripiegai il pezzo di carta e là dall’altro lato, nel mezzo dell’altro lato, completamente da una parte sull’altro lato, fra parentesi, in lettere maiuscole, lessi la seguente dicitura: (“RAGAZZO, TI SEI RAVVEDUTO?”) Andai dal Sergente e dissi: “Sergente, certo che ci hai davvero un bel fegato a chiedermi se mi sono ravveduto, dico io, dico io, insomma, sono qui a sedere sullapanca, voglio dire sto qui a sedere sulla panca del Gruppo W perché vuoi sapere se ho i requisiti morali necessari per entrare nell’esercito, bruciare donne, bambini, case e villaggi dopo che sono stato uno sparpagliaspazzatura.” Lui mi guardò e disse: “Ragazzo, non ci piacciono i tipi come e ora mandiamo le tue impronte digitali a Washington.” Amici, da qualche parte a Washington, racchiusa in qualche fascicoletto, c’è un’analisi in bianco e nero delle mie impronte digitali. E il solo motivo per cui vi sto cantando questa canzone, adesso, è perché magari conoscete qualcuno che si trova in una situazione del genere, oppure perché siete in una situazione del genere, e se siete in una situazione del genere c’è solo una cosa che potete fare, entrare e dire: “Strizzacervelli, puoi avere quel che ti pare al Ristorante di Alice.” Poi uscire. Sapete, se uno, magari solo uno fa così, possono pensare che è davvero fuori di testa e non lo prendono. E se lo fanno due persone, magari solo due persone ma assieme, in armonia, possono pensare che sono due finocchi e non prenderanno nessuno dei due. E provate a immaginare se lo fanno tre persone, tre persone che entrano, cantano una riga del Ristorante di Alice e escono. Penseranno che si tratta di un’organizzazione. E ve le immaginate, ve le immaginate cinquanta persone al giorno, dicevo cinquanta persone al giorno che entrano, cantano una riga del Ristorante di Alice e scono? Amici, penseranno che sia un movimento. Ed è quello che è, Il Movimento Antistrage “Ristorante di Alice”, e tutto quello che dovete fare per entrarvi è cantarlo la prossima volta accompagnandovi con la chitarra. Con sentimento. Così aspetteremo che venga sulla chitarra, qui, e lo canteremo quando verrà. Eccolo. Puoi avere quel che ti pare al Ristorante di Alice Puoi avere quel che ti pare al Ristorante di Alice vacci a piedi e entraci, è giusto là dietro, appena un chilometro dalla ferrovia, puoi avere quel che ti pare al ristorante di Alice E’ stato orribile. Se vuoi farla finita con la guerra e cose del genere, devi cantare a alta voce. Sono stato a cantare questa canzone per venticinque minuti. La potrei cantare per altri venticinque minuti. Non ne sono fiero…o stanco. E così aspetteremo che venga fuori un’altra volta, e stavolta con partitura armonica in quattro parti e sentimento. Stiamo giusto aspettando che venga fuori, è quello che facciamo. Tutto OK ora. Puoi avere quel che ti pare al Ristorante di Alice tranne Alice Puoi avere quel che ti pare al Ristorante di Alice vacci a piedi e entraci, è giusto là dietro, appena un chilometro dalla ferrovia, puoi avere quel che ti pare al ristorante di Alice Da da da da da da da dum Al Ristorante di Alice.
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Dolcetto o Scherzetto aka la notte del citofono maledetto
Inzomma, ormai mi odierete tutty ma ecco qua, così, un po’ di sano quel-che-mi-è-quasi-successo-ieri e di metamoro. Au con ambientazione bolognese perché sì.
Enjoy
Come ogni anno, i giorni si ripetono, quasi tutti uguali. Lezioni, esami, Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi, ultimo dell’anno organizzato per l’appunto all'ultimo minuto, mare in estate, freddo bolognese in inverno e siamo tutti contenti insomma.
Questo significa che, una volta all’anno, si ripete però anche una delle notti che Ermal Meta più odia al mondo : la notte del 31 Ottobre.
Ah, Halloween.
La notte in cui le strade si riempiono di gente in costume troppo grande per fare stronzate del genere, mentre gli universitari si stipano in discoteche e bar e case a bere.
La notte dove orde di bambini con costumi ridicoli si muove in branco sorvegliata da pattuglie di genitori per suonare campanelli al grido di “dolcetto o scherzetto?” e dove, passeggiando per strada e incontrando i gruppi di adolescenti che si collocano a metà tra le due categorie di adulti e bambini e che quindi non hanno esattamente un passatempo predefinito, sorge spontanea la domanda:
“Ma questi dannati petardi non se li possono infilare nel-eh scusa ti ascolto!”
Ed eccolo lì: telefono appoggiato all’orecchio e sguardo torvo rivolto a un gruppo di suddetti adolescenti, Ermal si aggira per le strade umide della stramaledetta Bologna, cercando il loco designato per la festa.
Festa a cui non voleva andare ma a cui è obbligato a partecipare a causa della perdita di una scommessa con il suo coinquilino.
In costume, peraltro.
In costume, a una festa a cui non voleva andare, organizzata da un tipo che non conosce, per di più.
Buon Halloween, Ermal.
E la cosa migliore di tutte è che si è anche perso perché, in tutto questo, ha finito pure i giga a furia di usare il telefono causa modem rotto che nessuno si è ancora preso la briga di venire a sostituire nonostante le assillanti chiamate e mail.
Come se in quanto universitario a lui non servisse internet eh.
Perciò è da venti minuti al telefono con Marco che, da tutt’altra parte, sta cercando di guidarlo nella direzione giusta.
Ad Ermal stanno venendo i nervi
E parecchio anche.
Il fatto è che, come al solito, gli altri sono andati a sistemarsi per la festa tutti insieme e, come al solito, hanno finito ad essere in ritardo clamoroso.
L’unico più o meno in orario è lui che dopo aver passato un pomeriggio a studiare è tornato a casa, si è fatto la doccia e si è infilato il costume, costituito dal massimo che è stato disposto a mettersi: camicia bianca-ridicola a suo parere, con le maniche a sbuffo e i cordini, ma almeno è una camicia- pantaloni neri, scarpe scure e un mantello nero. La dentiera si è rifiutata di metterla.
“E per il pallore e le occhiaie sei già apposto di tuo!” aveva detto Francesco soddisfatto, guadagnandosi un’occhiataccia che avrebbe potuto ucciderlo e tumularlo seduta stante.
“Senti Dracula, svolta a destra e prova a vedere se c’è la via” si sente dire al telefono ed è sbuffando e rabbrividendo che svolta, sospirando di sollievo quando finalmente il cartello rispecchia la sua destinazione
“Sì, ci sono” afferma, iniziando a camminare “ora ce la faccio. Ci vediamo dopo. E muovetevi” dice, prima di chiudere la chiamata e proseguire a passo di marcia verso il numero 104
Quando ci arriva, si accorge con orrore di non sapere a che campanello suonare.
O meglio, dovrebbe saperlo, ma non se lo ricorda perché non stava prestando attenzione.
Ma, a dire il vero, i campanelli provvisori sono solo due e dato che gli pare di aver capito che gli altri sono tutti fuorisede come loro, è probabile che sia uno di quelli, no?
Li osserva, cercando di decidere cosa fare, fino a che non legge un nome che gli pare di ricordare e suona
Mal che vada, sbaglia
Niente
Nessuno risponde
Irritato, suona di nuovo ed ecco che mezzo minuto dopo una voce risponde “Siiii?” in maniera scazzata mentre una musica in sottofondo quasi copre le sue parole
Ok, musica uguale festa quindi forse ha azzeccato
“Emmmm...” balbetta piano “Sono Ermal?” dice titubante “Sono un amico di Francesco lui-sono qui per la festa” spiega infine
“Si.... cesco..... esta!” risponde la voce, in quello che pensa sia un assenso alle sue parole “certo...ali pure....to piano!”
“Aspetta non ho-” cerca di dire, ma prima che possa dire che non ha capito a che cazzo di piano deve andare il citofono si chiude e il portone scatta, lasciandolo al suo destino.
Sbuffa, infreddolito, spingendolo ed entrando
Di citofonare di nuovo non ne ha voglia e poi, in teoria, non sarà difficile trovare la festa, no?
To piano. Quindi... quarto, quinto o sesto, immagina. Beh, basterà provarli tutti e tre.
Così sale in ascensore e preme il pulsante per il quarto, lanciandosi un’occhiata allo specchio e sbuffando al suo riflesso che trova piuttosto ridicolo così, mentre sembra venuto fuori da un romanzo del milleduecento. Che palle.
Al quarto piano, trova il nulla.
Fortunatamente, quando le porte dell’ascensore si aprono al quinto, sente una musica provenire da li e, sbirciando, trova una porta aperta da cui proviene suddetta musica.
Bene, ecco qua.
Esce sul pianerottolo, titubante, avvicinandosi piano alla porta, non sapendo cosa fare, se entrare o bussare o cosa, ma per fortuna ecco che dopo pochi secondi di stallo in cui si sente un coglione, qualcuno compare sulla soglia
Tale qualcuno è un ragazzo, un poco più grande di lui, le braccia nude ricoperte di tatuaggi e un buffo cappello in testa, che lo guarda, inclinando appena il capo.
Si fissano, in silenzio, prima che lui si illumini con un sorriso enorme “Sei qui per la festa tu, sì?”
Ed Ermal sospira e annuisce, sentendosi appena in imbarazzo
“Si... sono... cioè... un mio amico...io... sono Ermal” si risolve a dire, dandosi dell’idiota perché ha balbettato, tendendo la mano al ragazzo che gli sorride ancora di più mentre gliela stringe e si fa da parte per farlo passare “Fabbbbrizio, entra entra” gli fa cenno, mentre dietro di lui, dalle scale, sbucano altre persone, che sorridono e salutano entrando subito nella casa al suo seguito, Fabrizio che a sua volta ricambia strette di mani e nuovi convenevoli
Ermal si guarda attorno, appena imbarazzato, prendendo il telefono per controllare se gli altri sono in cammino, ma trova solo un messaggio di Marco che lo avvisa che sono super in ritardo. Ecco qua.
“Vieni accomodati” gli dice Fabrizio e lui, appena in imbarazzo, lo segue: guardandosi attorno si rende conto che alla festa sono quasi tutti più grandi di lui, ma non è un problema questo. Solo... non conosce nessuno
La musica suona mentre Fabrizio lo conduce in una stanza, dove sono ammucchiati zaini e cappotti vari
“Lascia pure la giacca qua” gli dice, sorridendo “il padrone di casa si sta a fa’ la doccia, però poi arriva” gli spiega poi mentre Ermal annuisce, posando la giacca
Non ha cuore di dirgli che lui, il padrone di casa, manco lo conosce
Quando ha finito segue Fabrizio in un’altra stanza, dove c’è molta più gente e un tavolo ricolmo di cibo e bevande.
“Serviti pure” raccomanda Fabrizio prima di sparire, rincorrendo un amico che lo richiama con un gesto, senza lasciare la possibilità di chiedere qualcosa
Ed eccolo la, fermo come un coglione in una stanza piena di gente sconosciuta.
Beh, tanto vale aspettare gli altri seduto su una sedia.
Ne adocchia una libera in fondo alla stanza, e ci si dirige.
Qualcuno gli fa un cenno di saluto mentre passa, qualcuno lo ignora.
Comunque, va a schiantarsi sulla sedia e guarda ancora il cellulare, senza trovarvi nulla se non la batteria quasi scarica.
Sospira, preparandosi a una lunga, lunghissima attesa
E infatti, mezz’ora dopo è ancora la, seduto sulla sedia, senza nessuno che gli parli, senza nessuno che conosce
Guarda nervosamente il telefono, con il “Prima o poi arriviamo” di Marco che risale a un quarto d’ora prima e sospira, massaggiandosi piano la base del naso
“Nun te stai a divertì molto eh?”
Alza gli occhi a quella frase, ritrovandosi davanti il ragazzo di prima, Fabrizio, che lo osserva con una birra in mano, che gli tende
“No” ammette piano “Non molto” dice sconsolato, guardandolo sedersi accanto a lui mentre recupera la birra con un “grazie” leggero
“’O vedo” risponde l’altro “non ti sei mosso da qua da quando sei arrivato... com’è che non conosci nessuno?” gli domanda cosa a cui Ermal risponde con uno sbuffo
“I miei amici devono ancora arrivare” spiega, alzando gli occhi al cielo “Sono sempre in ritardo” spiega poi, irritato, mentre la risata di Fabrizio si fa appena sentire, leggera, a quelle parole
“Un classico” dice, prima di voltarsi, per guardarlo meglio “Che dovresti essere tu?” domanda poi, indicando il suo costume
“Dracula, in teoria” replica Ermal, grattandosi appena il collo, che prude per colpa di quella camicia mentre Fabrizio lo guarda annuendo
“Il vampiro. Giusto?” chiede ed Ermal annuisce anche se è un po’ perplesso che ci sia stato bisogno di precisarlo
“E tu?” chiede poi, confuso dal suo abbigliamento: ha addosso un paio di jeans scuri e una maglia con le maniche tagliate, in vita una camicia a scacchi neri e rossi, e quello stupido cappello ancora in testa a nascondere dei ciuffi scuri. Anche sforzandosi, non riesce a capire cosa sia
A parte un gran fregno
“Io so me stesso” ride l’altro, bevendo un sorso di birra “Nun me piace molto Halloween” spiega poi mentre Ermal annuisce entusiasta
“Nemmeno a me” conferma “Mi sono dovuto vestire perché ho perso una scommessa ma sto odiando ogni minuto, credimi” dice, prima di prendere un sorso di birra a sua volta, socchiudendo gli occhi
Almeno ha da bere, ora
Voleva aspettare almeno gli altri ma... a questo punto, tanto vale. Meglio l’alcol che la solitudine.
Mentre beve, si sente lo sguardo di Fabrizio addosso per cui si rivolta per osservarlo meglio, sorridendo
“Che c’è?” chiede, allungando appena una gamba davanti a se con noncuranza, stiracchiandosi
Lo osserva, mordendosi piano il labbro, cercando di valutare le proprie opzioni
Ok forse è decisamente troppo sobrio per iniziare a flirtare pesantemente ma Fabrizio è un bel ragazzo e quantomeno gli sta parlando quindi può tastare un po’ il terreno, no?
Beh, sì.
Mal che vada... chissenefrega
E poi o è parlare con lui o è morire di noia quindi tanto vale tentarla
Anche perché, pensa, Fabrizio non gli avrà offerto una birra per pura e semplice gentilezza giusto?
“Niente” replica l’altro, scrollando le spalle e leccandosi piano le labbra “Allora...tu non sei di qui vero?” gli chiede
E così, Ermal si volta del tutto e inizia a parlare con lui, avendo cura, ogni tanto, di rivolgergli qualche piccolo gesto: leccarsi le labbra, scostarsi piano i ricci, inclinare appena il capo, sorridere.
E Fabrizio, c’è da dirlo, gli da corda.
Parla con lui, sporgendosi appena per ascoltarlo meglio, sorridendogli, il viso che pur nella penombra della stanza si rivela bello, con quella barba appena accennata e le lentiggini
Parlano di tutto: da dove vengono, cosa fanno, cosa gli piace. Di musica, di cinema, di studi e lavori.
Tanto che Ermal, a dire il vero, si dimentica anche che devono arrivare i suoi amici
Il tempo scorre e la birra scende mentre le aspettative di una serata piacevole si alzano sempre di più ed è solo quando si alza per andare in bagno che si accorge che è passata più di un’ora da quando ha guardato il telefono
Perplesso, si guarda attorno.
Nessuno: di Marco o Francesco o qualcuno degli altri non c’è assolutamente traccia.
Corruga la fronte in una ruga di preoccupazione, dirigendosi verso il bagno e tirando fuori il telefono che trova spento.
Sbuffa, irritato: non si dovrebbe preoccupare troppo, eh, ma l’essere ancora solo e la batteria scarica gli hanno rovinato un po’ l’umore che la birra e Fabrizio gli avevano tirato su.
E’ brillo, si, ma non abbastanza da non capire che c’è qualcosa che non va in quasi due ore di ritardo
Perciò, quando torna indietro, si avvicina a Fabrizio e chiede “senti non è che hai una presa?” sventolando il telefono scarico
“Si, vieni” annuisce l’altro, alzandosi, accompagnandolo nella stanza di prima e facendogli un cenno verso il muro
“Grazie” sospira Ermal, attaccando il telefono, chinandosi per farlo “I miei amici non sono ancora arrivati e io-” inizia a dire, interrompendosi però quando si volta
Fabrizio è appoggiato allo stipite della porta ora chiusa, e lo guarda, il viso appena arrossato per l’alcol e un sorriso sottile sulle labbra
Inclina appena il capo Ermal, arrossendo appena di fronte a quello sguardo che non sembra solo vederlo, ma studiarlo e quasi... spogliarlo.
Non che se ne stupisca troppo: è dall’inizio della loro conversazione che stanno giocando a quel gioco e evidentemente ha fatto centro perché se ora sono lì e si osservano in quel modo vuol dire che sono ambedue sulla stessa lunghezza d’onda.
Deglutisce, le dita ancora premute ad accendere il telefono, ma lo sguardo rivolto solo a lui, che lo osserva, indeciso su cosa fare apparentemente
Perciò, si morde piano il labbro, guardandolo intensamente come a dire, vieni avanti dai
Non che non sia più preoccupato ma l’alcol e il modo di Fabrizio di guardarlo gli fanno mettere da parte momentaneamente l’urgenza
Per un paio di minuti... non succede nulla, giusto?
Fabrizio si tira su, iniziando a camminare e posando la birra che ha ancora in mano su una scrivania, mettendosi poi le mani in tasca
“Toglimi una curiosità” dice Fabrizio, avvicinandosi a lui lentamente “Com’è che funzionava con i vampiri? Ti devono mordere per trasformati, giusto?” chiede, cosa che spinge Ermal ad annuire, un ghigno che gli si dipinge piano in faccia a quella domanda
“Perché” chiede piano, leccandosi le labbra quasi senza accorgersene “Hai paura che ti morda?” scherza, guardando Fabrizio farsi sempre più vicino, arretrando più per istinto che per altro
“Mh” risponde solo l’altro, arrivando a mezzo passo da lui, i loro respiri che si mischiano nell’aria immobile e fresca della stanza “Ma che succede se invece un vampiro ti bacia?” chiede, cosa che fa aumentare il ghigno sul viso di Ermal, che si inclina appena mentre si sporge delicatamente verso di lui
“Non saprei” dice, ponderando la cosa come se fosse una domanda seria prima di dire “vuoi scoprirlo?”
Fabrizio ride piano a quella cosa, annuendo appena “scopriamolo” dice, ma non fa in tempo a finire di dirlo perché Ermal decide di sporgersi verso di lui
Con tutta la razionalità del mondo eh, non perché Fabrizio è un fregno paura no no
I loro nasi si sfiorano, piano, e poi le loro bocche si incontrano, in maniera dolce, leggera, delicata
Un bacio che sembra quasi fin troppo giusto, naturale, cosa che porta Ermal a sospirare sulla sua bocca, un sorriso che gli si allarga sulle labbra che fa per schiudere per approfondire quel bacio che già non è più abbastanza...
...se non fosse che il telefono che ha in mano inizia a suonare, facendolo sobbalzare dalle spavento ed è a tanto così *gesto delle dita che si toccano* dal lasciarlo cadere di prepotenza
Guarda lo schermo, notando il nome di Marco - ovvio che era lui dato che la suoneria è quella di una sirena di emergenza - e subito guarda Fabrizio con aria di scuse
“Un secondo” gli chiede, facendo cenno di alzare il dito mentre l’altro annuisce
“Sì?” risponde, sussultando di nuovo quando la voce di Marco gli urla nell’orecchio “ERMAL BRUTTA TESTA DI CAZZO MI HAI FATTO PRENDERE UN COLPO”
Sbatte le palpebre, perplesso da quel commento “Scusa, mi si era spento il telefono... ma tanto non siete ancora arrivati, no? Siete voi che avete fatto prendere un colpo a me” ribatte
“Non ancora arrivati? Ma se è mezz’ora che siamo qui e ti cerchiamo! Pensavamo fossi svenuto da qualche parte” ringhia l’altro, cosa che fa inarcare le sopracciglia ad Ermal dallo sdegno e dallo stupore
“Mezz’ora? Ma non dire cazzate! Ho fatto un giro nelle stanze due minuti fa e nessuno di voi c’era!” replica stizzito dall’essere anche preso in giro oltre che interrotto nel corso di un bacio
“Ma che stai dicendo!” sbotta Marco “Ma si può sapere dove cazzo sei?!”
“ALLA FESTA!” sbotta a sua volta, scoccando uno sguardo a Fabrizio che si è messo una mano sulla bocca come a nascondere una risata alla sua esasperazione “In questo stracazzo di vicolo, al numero 104, alla stracazzo di festa di Halloween allo stramaledettissimo quinto piano!” ulula contro al telefono
Sclero a cui segue un minuto di silenzio, pieno, denso, che nemmeno lui osa rompere sentendo che qualcosa di imprevedibile e terribilmente divertente nel suo orrore deve essere accaduta
“Al sesto” dice solo Marco, piano, tanto piano che quasi non lo sente “La festa è al sesto piano”
“Sesto? Ma allora io a che cazzo di festa-” dice prima di interrompersi
Rimane immobile, congelato quasi sul posto, Fabrizio che lo guarda come in cerca di una spiegazione ed è così che mormora “Scusa un secondo” a Marco prima di tirare giù il telefono dall’orecchio per guardarlo “Questo è il quinto piano, vero?” chiede, guardandolo poi annuire “Ok. E la festa è di...?”
“...Roberto?” chiede piano Fabrizio, confuso dal fatto che il ragazzo davanti a lui abbia prima peso poi perso colore e che ora stia tornando di una sfumatura tendente al viola mentre un attacco improvviso di risa lo scuote
“Ho sbagliato piano” ride, nella cornetta, non riuscendo a trattenersi per quanto assurdo sembri “Macco ho sbagliato piano. Sono alla festa sotto di... Roberto, apparentemente” dice, scuotendo la testa, imbarazzato ma anche troppo incredulo per trattenersi
E anche Fabrizio, accanto a lui, ride
Ride forte, lasciandosi andare su una sedia, cosa che lo fa ridere ancora di più a sua volta
“SEI UN COGLIONE MA COME CAZZO PUOI SBAGLIARE PIANO” sbraita Marco dall’altro lato, anche se Ermal può sentire che, in fondo, sta ridendo anche lui “Ci hai fatto morire di paura” spiega prima di dire “Ci raggiungi? Aspetta, ma sei con qualcuno?”
“Succede, se il citofono fa schifo e non si sente nulla” replica prima di guardare Fabrizio alla domanda “Si” dice, scuotendo poi la testa “No. Cioè... si, c’è. E sai cosa? Credo proprio che rimarrò qui” replica, spegnendo pian piano la risata per guardare Fabrizio con malizia “Ci vediamo a casa Macco” dice, chiudendo poi il telefono che abbandona a terra, avvicinandosi di nuovo a Fabrizio che, rosso in viso, è ancora scosso da brevi sprazzi di risata
“E così” gli dice, guardandolo mentre si avvicina “Hai sbagliato piano”
“Già” replica, sorridendo mentre si sistema piano su di lui, inclinando appena il capo “Solo mi chiedo... com’è che c’era la porta aperta?”
Fabrizio scuote la testa a quella domanda, posandogli piano una mano sul fianco e l’altra sulla schiena, andando poi ad affondarla tra i ricci “I ragazzi che sono sbucati dopo di te. Loro hanno suonato. Probabilmente mentre tu salivi loro so arrivati ed è successo” cerca di spiegare, mentre Ermal annuisce
Probabile, sì
“Beh” dice, leccandosi piano le labbra “in fondo, meglio così” sussurra, avvicinandosi piano a lui, un brivido leggero che lo percorre quando sente il suo respiro caldo sul viso “Dove eravamo?” domanda, poi, avvicinandosi appena a lui
“Al cosa succede se baci un vampiro” replica Fabrizio, sorridendogli, guardandolo, per nulla contrario alla svolta degli eventi
“Mh giusto” replica Ermal, sfregando appena il naso contro al suo “Però sappi che questo vampiro potrebbe anche decidere di morderti, prima o poi” lo prende appena in giro, sorridendo quando lo sente ridere appena, una risata bassa e roca che lascia sul suo collo che lui inclina appena indietro per lasciargli spazio
“E se volessi morderti io?” chiede poi, posando piano le labbra sulla sua pelle pallida e accaldata “Cosa succede, mh? Che succede se mordi un vampiro?” domanda
Ermal sospira, rabbrividendo appena mentre socchiude gli occhi, le labbra schiuse in un sorriso e lo sguardo che, rivolto al soffitto, pensa a cosa si sarebbe perso se avesse imbroccato il piano giusto
“Non saprei. Scopriamolo”
Ed ecco va beh è una cazzata ma insomma si abbiamo pensato per un buon periodo di tempo di aver sbagliato piano solo che io e i miei amici eravamo infine alla festa giusta xD
Spero ve lo siate goduto!
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27 novembre 2019
Siamo seduti uno di fronte all’altra sull’autobus. Lui guarda fuori dal finestrino e io guardo lui. Penso che sia bellissimo. Ha un viso diverso dai canoni estetici ma non posso dire altro se non che a me piace così. È ormai un po’ di tempo che gli presto attenzione e mi sembrava che gli sguardi fossero ricambiati, non senza un certo divertimento, forse per la consapevolezza che è assai improbabile che nella vita succeda qualcosa tra noi. A me però piace molto fantasticare e sogno situazioni surreali che lo coinvolgono. Sta sempre in coppia con un amico, da un anno arrivano e si mettono di fronte a me ad aspettare il treno, una presenza silenziosa. Tutto è andato tranquillamente finché, un giorno in cui era solo, il secondo è venuto a parlarmi. All’istante ho pensato che forse fino a quel momento le mie occhiate erano state percepite da quello sbagliato, non era lui la persona a cui le avevo indirizzate, e ho in cuor mio sperato che potesse fare da ponte per conoscere il reale obbiettivo. Dopo quel giorno la vita è continuata come sempre, ma lui non mi guarda più e se capita è come se fosse un caso, un errore, evita la mia direzione. Anche se tutto è sempre stato uno stupido gioco non nego di essere rimasta lievemente delusa, di aver dato la colpa a quel ragazzo di aver rovinato quella cosa. E quella cosa erano degli sguardi che io ritenevo fossero rivolti a me di proposito e mi facevano sentire desiderata da qualcuno. Dal momento in cui la mia autostima è piuttosto calante, mi sembrava la luce di un fiammifero nel buio, poco ma meglio di niente. Ho provato per qualche tempo a capitare “casualmente” nei suoi pressi, ma sto iniziando a rinsavire e oggi mi sono promessa che cercherò di non farlo più. Se mi ero immaginata tutto va bene così, sono fatta in questo modo, con queste fisse. Sarà dura cambiare, ma voglio essere io il mio fuocherello nell’oscurità, sogno che la stima di me sia indipendente dal fatto che qualcuno mi guardi o meno per un quarto d’ora al giorno. Devo continuare il mio cammino, mi accetterò e mi piacerò per davvero. Mi vorrò bene.
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Sto ancora metabolizzando cosa fare in merito al fatto che, durante il viaggio organizzato di questo weekend, l’organizzatore (30 anni) alle 2 di notte mi sia entrato mezzo nudo nel letto (camerata di ostello da 7, eravamo tutte ragazze e lui), svegliandomi di soprassalto, e abbia cercato di fare cose/toccarmi e io lo abbia dovuto scacciare per un quarto d’ora prima che si decidesse ad andarsene. Mi sembra di aver sognato per quanto la situazione era assurda, sono stata presa totalmente in contropiede e tuttora ho addosso una sensazione di irrealtà. Quando il giorno dopo si è “scusato” ero sinceramente estraniata dal momento che stavo vivendo. Come fai a “scusarti” di una cosa così? Ti scusi se urti un piede a un passante, se arrivi in ritardo a un appuntamento, se in un litigio ti arrabbi e dici cose che possono ferire l’altra persona. Ma come fai a scusarti di essere entrato nel letto di un’altra persona, che conosci appena, in piena notte e come un fulmine a ciel sereno, e averle cercato di mettere le mani addosso, dentro al pigiama? Mi sembra surreale.
Non riesco a smettere di pensare, siccome è un’associazione molto conosciuta a Parigi e gli aderenti sono spesso studenti in erasmus, anche più piccoli, matricole di triennale magari, che non masticano sempre bene il francese, cosa fosse successo con una ragazza più piccola di me, che magari non sapendo bene la lingua e subendo lo scarto d’età non avesse avuto il coraggio di respingerlo con fermezza. Appena tornati in città mi sono mossa per avvertire i vertici del gruppo, ma così facendo ho scoperto che il capo più alto è lui, e ora non so bene cosa fare.
Non so come dire, ma mi sento in qualche modo “tradita” da una fiducia che fino ad ora accordavo indefessamente all’altro sesso. Nel mio mondo, nel mondo che in questi 26 anni ho vissuto e conosciuto, è ovvio che un ragazzo rispetti una ragazza. Forse perché ho frequentato persone educate, istruite, selezionate, o forse allora, mi viene da pensare, sono “solo” stata semplicemente fortunata. Non lo so.
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Una storia senza titolo
Quarta parte
“Ero partito di giovedì per risparmiare sul volo” iniziò il ragazzo “perché pensavo di fare una scelta furba. Quando poi mi accorsi che dal sito chiedevano il doppio del costo del biglietto in tasse mi ero sentito un idiota. Però dovevo per forza partire, perché un mio amico si sarebbe laureato in medicina e ci aveva invitati. Io mi sentivo a disagio perché ero l’unico rimasto che doveva ancora laurearsi, sai no, quella sensazione di essere indietro rispetto a tutti quelli che ti circondano?”
“Sì, ho presente” rispose Liz “anche se nel mio caso sono stata io la prima a dare inizio al ciclo delle lauree”
“Ah bene, eri l’amica infame. Il primo a laurearsi è sempre un po’ invidiato e detestato dal gruppo, mi spiace darti questa notizia Liz”
“Lo immaginavo già, caro tizio di cui non conosco il nome perché continua a fare il misterioso” rispose lei “però mi fa piacere che tu ricordi il mio”.
“Mi chiamo Joe” disse lui “ma puoi anche dimenticarlo e chiamarmi come vuoi, tanto non mi fa molta differenza” aggiunse con fare disinvolto e un po’ altezzoso.
“Okay allora procedi, Jennifer” lo sfidò Liz. Se cercava di mostrarsi un uomo al di sopra dei concetti sociali o delle norme del buon costume, stava sbagliano target. Lei era sempre riuscita a cavare sangue da una rapa e a farsi rispettare da tutti, specialmente da coloro che partivano coi peggiori auspici nei suoi confronti.
Joe rise alla risposta della ragazza, apprezzava quel tipo di sarcasmo. “E in cosa ti saresti laureata? Sentiamo”
“Stai insinuando che io stia mentendo? Che motivo avrei di farlo?”
“No no stai serena, non insinuo nulla. Ero solo curioso”
“Ingegneria aerospaziale, al politecnico. Laurea con lode e bacio accademico”
“Veramente?” chiese Joe, strabuzzando gli occhi. Non pensava di avere al suo fianco un genio dell’ingegneria “è per questo che eri così interessata alla storia di mio padre e dei voli?”
“No, assolutamente, io sono una frana in matematica e in analisi. Sono laureata in Lettere classiche con specialistica da bibliotecaria” lo spiazzò Liz. “E comunque volevo sapere di tuo padre solo perché cercavo il nesso col mio computer, cosa che tra l’altro mi aspetto da questa storia della valigia”
Joe era rimasto sconvolto, però era molto divertito “Sei strana...” accennò, poi proseguì. “In pratica avevo messo in valigia i vestiti per la cerimonia di laurea ed ero partito con addosso una maglia e un paio di jeans”
“Che armadio variegato! Indossi i jeans pure ora” lo interruppe Liz “almeno erano jeans diversi?”, ormai si sentiva abbastanza in confidenza.
“No, li ho tenuti sempre addosso per ricordo. Sia mai che una sconosciuta su un volo mi chiedesse questa cosa e io non avessi addosso il mio costume di scena”. La sua risposta rivelava che fosse avvezzo al sarcasmo. “Ad ogni modo” continuò “mi avevano perso la valigia con dentro i vestiti per la cerimonia e io ero andato in crisi. All’inizio non volevo crederci perché queste cose capitano sempre agli altri”
“Capitano sempre a quelli seduti al tuo fianco...”
“Allora mi sa che oggi tocca a te” rispose lui. A quelle parole Liz si fece preoccupata in volto “No aspetta” cercò di rimediare Joe “facciamo oggi che tocca al tipo accanto a me”
“Ma accanto a te non c’è nessuno”
“Appunto, è un giorno fortunato oggi”
“Quindi che è successo? Cioè come l’hai recuperata?”
“Con l’amarezza addosso e con centosettanta euro in meno in tasca”
“Costa così tanto far recuperare una valigia?!”
“No, costa così tanto procurarsi un vestito elegante ed un paio di scarpe per una cerimonia di laurea in Spagna, ecco cosa. E mi sono persino accontentato di un vestito grigio, quando è un colore che considero deprimente e triste. So che è strano, ma in molti abbiamo un colore che odiamo profondamente”
Liz sorrise, pensando al proprio odio per il colore verde. Era strano trovare qualcun altro che la pensasse come lei, solitamente le persone hanno il colore preferito, ma lui era diverso dagli altri e loro due erano fin troppo simili. Un brivido le percosse la schiena, ma lasciò spazio alla curiosità.
“Ecco, il mio arcinemico è il grigio. Che schifezza quel completo, se ci penso avrei preferito che perdessero me in aeroporto anziché i vestiti”
“Ma poi come è andata a finire?”
“Sono riuscito a recuperarla, ma la parte assurda è che dentro mancava una scarpa. Io sono sicurissimo di averla messa, perché ho avvolto le scarpe in due tessuti protettivi separatamente, ma ricordo di averle sistemate con le suole che si toccavano, sotto un asciugamano e accanto al beauty case”
“Viaggi col beauty case? Io lo trovo scomodissimo, come fai?”
“Basta metterlo nella valigia, come fai tu a trovarlo scomodo?”
“Non c’è mai posto, il beauty implica di dover trovare uno spazio fisso perché è grosso”
“E scusa, dove metti le cose che ti servono?”
“In valigia” rispose Liz, esprimendo in volto l’ovvietà della risposta.
“In valigia sparse?”
“No, nelle tasche interne”
“Tasche interne? Ma che valigie usi?”
“Valigie normalissime, che significa che valigie usi? Mica devo avere piccole valigette nella valigia grande, altrimenti mi porto in giro una matriosca, non un bagaglio”
“E come trovi le cose, scusa?”
“Aprendo le cerniere”
“Tu sei strana forte...” disse Joe scuotendo la testa.
“Ah io sono strana? Non tu che imbarchi una scarpa sola?” disse Liz ridendo.
“Ma te l’ho detto, io ho messo il paio in valigia, me ne hanno rubata solo una!”
“E questa sarebbe la storia incredibile?”
“Ti sembra normale che io apra una valigia e ci ritrovi una sola scarpa? Cioè il fermacravatta era ancora lì ma la scarpa no”
“Il fermacravatta?!” esclamò Liz “Ma dove vivi? E soprattutto quando? In che epoca?”
“Nella stessa in cui evidentemente era più appetibile una scarpa sinistra, che ti devo dire?” rispose con voce rassegnata ma divertita.
La voce del comandante avvertì della velocità di volo e della quota. Mancava meno di un quarto d’ora all’arrivo e dovevano prepararsi all’atterraggio.
“Che fortuna, nessuna turbolenza!” esternò una signora dietro di loro.
“Signora stia zitta che qui porta sfiga a tutti” rispose da davanti un uomo, con la voce forte e ben udibile. Ci furono risate generali, qualcuno esclamò “ecco, adesso cadiamo!”, un altro rispose “ma cadesse tua sorella” e in poco tempo si sentì un vociare generale, seguito da urla e fischi.
La ragazza dagli occhi di ghiaccio dovette intervenire per calmare gli animi, spiegando che la situazione fosse più che sicura e che il pilota avesse decennale esperienza,ma qualcuno pensò bene di affidare le sue speranze a chi poteva garantire più salvezza del giovane uomo alla guida: “Padre nostro” iniziò un uomo seduto dietro Joe “che sei nei cieli” aggiunse la moglie al suo fianco; la preghiera continuò nell’alternanza di battute tra i coniugi, come se stessero recitando una parte in un telefilm.
Nel frattempo LIz e Joe cercavano di non ridere, ma erano visibilmente divertiti. Si scambiavano occhiate di complicità e con dei gesti, il più possibile segreti al resto dei viaggiatori, indicavano le persone più assurde che prendevano parola. Un uomo iniziò persino a criticare il governo per le manovre sull’educazione, ma i due erano troppo presi dalle proprie risate per capire da dove quel discorso fosse partito.
“Ma è sempre così viaggiare soli in aereo?” chiese Liz, appena il caos fu placato.
“Che ne so” Joe stava ancora ridendo ”io di solito metto la musica o leggo, è la prima volta che mi ritrovo con le orecchie libere”
“Seriamente hai sempre la musica nelle orecchie?”
“Sì, è una mia deformazione professionale”
“Ma senti come parli, manco fossi un bassista di fama mondiale” iniziò a schernirlo Liz “Un progetto underground, una cosa tra amici. Ma cammina, che ancora un po’ parli solo di musica”. Joe sembrava divertito da quelle parole, lei continuò “e poi, vorrei capire, oltre a giudicare la gente dall’ordine della valigia e ad ascoltare musica cosa fai nella vita?”
“Assolutamente nulla di interessante, dottoressa. Dopo la laurea in economia pensavo di continuare gli studi magistrali in economia bancaria, ma ho lasciato perdere e ho cercato un lavoro”
“Beh ottimo, che lavoro fai?”
“Sono disoccupato, altrimenti non sarei su questo aereo”
Liz non capiva, quindi chiese ulteriori chiarimenti “Cioè siamo tutti disoccupati qui sopra? Mi stai dicendo che siamo stati selezionati per un folle reality show sulla gente che va in crisi in aereo per cose random?” aggiunse, cercando di portare il discorso su un argomento divertente.
“No” rispose lui serio “intendo dire che sto andando a un colloquio di lavoro, perché il mio curriculum sembrava interessante per un’azienda che mi ha selezionato online. Ho passato la selezione, superato i primi step e il colloquio conoscitivo su internet e adesso vogliono vedermi”
“Su internet?”
“Adesso si usano tantissimo le piattaforme, anche per il lavoro”
“Ed eri vestito come adesso? Cioè jeans e maglione sgualcito?”
“No, avevo la giacca. Infatti in valigia ho messo il cambio...”
“Sempre che arrivi tutto a destinazione stavolta” aggiunse Liz.
“Stavolta mi sono fatto furbo e ho legato le scarpe insieme, avvolgendole in un sacchetto di stoffa. Almeno se devono prenderne solo una, avranno vita difficile”
“Il fermacravatta l’hai messo?”
“Spiritosa...”
“No, davvero. Ad un colloquio ha senso, sempre che tu non stia facendo domanda per fare il cuoco o il cameriere, a quel punto tienilo solo come portafortuna in tasca”
“Sicuro con una laurea in economia non mi sposto in aereo per fare un colloquio da cameriere” disse Joe. Poi sospirò e aggiunse “ancora non sono arrivato a tanto e posso permettermi di evitarlo, per ora”.
Il segnale delle cinture si accese e l’aereo iniziò la fase di atterraggio. Erano trascorse oltre due ore, ma sembravano passati pochi minuti talmente il viaggio era stato piacevole. Liz osservò la terraferma dal finestrino, ammirando l’immensità di un lago che ricopriva gran parte del paesaggio, la bellezza dei grattacieli che sembravano piccoli quadrati su una cartina geografica; sentiva il cambiamento di pressione, che le faceva percepire il mondo come ovattato.
Una volta atterrati, i due rimasero seduti e lasciarono defluire la massa. Joe recuperò lo zaino e prese il bagaglio di Liz, aiutandola a uscire dal suo posto in fondo alla fila; furono gli ultimi a scendere dall’aereo. Continuarono a parlare per qualche minuto finché non passarono davanti alla toilette. “Perdonami” disse Liz “ma devo andare assolutamente in bagno e mi sembra scortese dirti di aspettarmi. Direi che ci dobbiamo salutare”.
“Se il tuo problema è farmi aspettare, non preoccuparti; se invece vuoi che ci salutiamo, apprezzo la tua gentilezza nel non mandarmi a quel paese e accetto di buongrado il tuo addio”
“No no figurati” cercò di giustificarsi lei “anzi, mi farebbe piacere fare ancora due chiacchiere. Se non ti sembra assurdo attendere fuori dal bagno, allora ti chiedo qualche minuto di pazienza”
“Allora ne approfitto e vado anche io. Ci vediamo qui fuori a breve”
“Perfetto”
(fine quarta parte)
#una storia senza titolo#parte quattro#liz#aereo#questo pezzo l'ho scritto ascoltando vamos a bailar e pop porno in loop#se le immaginate come colonne sonore sembra quasi un film indipendente#un audiolibro indipendente#che hashtag intelligenti che metto mamma mia#visto che ci sono scrivo che vendo opel corsa#no non è vero al massimo vendo i libri del liceo se qualcuno li vuole#volete il libro di educazione fisica che non ho usato in maturità?#c'è quello di francese che è ancora intonso perché la mia prof era strana e stampava mille fotocopie e il libro era inutile#pop porno#vamos a bailar#esta vida nueva#scusate ora la smetto
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DIOTIMA
Avevo sedici anni, lei venti. Fu al compleanno di Anny che la incontrai. Eravamo in una casa in aperta campagna, una tipica casa contadina divisa su due piani con le scale esterne e sotto la casa si trova un ampio cortile, al centro del quale era cresciuto un grosso albero sotto cui era stata messa una tavolata di liquori di tutti tipi e birre a volontà, vicino al tavolo un’enorme cassa spandeva Metal e cantautorato, e tutti gli uomini ballavano nel giardino, facendo cerchi, come fossimo dei satiri con le birre in mano. Io quella sera ero frenetico ed andavo in giro zompando da tutte le parti, scambiando una parola una volta con uno, una volta con un’altra, ballando, bevendo e fumando il mio sigaro. Fu in un momento in cui la cassa era sguarnita, contro il volere degli altri, misi su un pezzo di Guccini -Quattro stracci-, ed iniziai a cantarla ad alta voce, con gli occhi chiusi, come se tutta la mia vita fosse racchiusa in quella canzone. Non tanto la mia voce, quanto l’insolita musica attirò gli sguardi della gente attorno. Mi allontanarono dalla cassa e si ritornò a mettere su Metal. Finita la canzone Gigio, un ragazzo palestrato, pelato e tatuato alto sul metro e novanta, mi prese sottobraccio, mi chiese se avevo voglia di baciare una ragazza. Io c’ero abituato a quelle richieste stupide spesso fatte da persone crudeli che volevano prendermi per il culo, dato che sono gobbo, ma di lui mi fidavo e a bassa voce gli dissi “Io sono un pezzo di carne masticato e sputato dal mondo. Mi farei anche un muro”. Così lui mi portò da lei, che stava chiacchierando con un paio d’amiche sedute su delle sedie messe vicine ad un fuoco improvvisato sopra una lamiera. Iniziai a provarci, e la cosa funzionò. Ad un certo punto mi disse che il fuoco era troppo caldo, io spostai il pezzo di metallo ardente sopra cui questo scoppiettava e feci finta di scottarmi. Mi alzai e usai la scusa di essermi scottato per allontanarmi da lì, così inciampando e reggendomi a lei la portai lungo una strada ghiaiosa che stava lì vicino. Camminammo per un po’ fino ad arrivare a costeggiare un campo arato, lei disse che gli sarebbe piaciuto andarci, così c'andammo. La scena successiva fu magnifica, la più bella vissuta in tutta la mia vita: c’era la luna piena che si stagliava in un cielo limpido, illuminava di luce fioca il campo, io e lei stavamo sotto le fronde di un ulivo, accovacciati l’uno a fianco all’altra, in una magnifica notte d’estate. Lei continuava a parlare e a rispondere alle mie battute stupide, poi ad un certo punto dissi “ Basta” , e lei continuò a parlare, dissi “ Basta” un’altra volta e le ficcai la lingua in bocca. Restammo lì tutta la serata fino alle tre del mattino, alternando brevi discorsi a lunghe limonate. Lei avrebbe voluto fare sesso, ma lo capii troppo tardi. Il giorno dopo non mi capacitavo di ciò che era successo, non mi pareva vero, eppure era successo. Sapevo che per lei era stata una storia di una notte e basta, ma sapevo anche che sarebbero potuti passare secoli prima che avessi potuto toccare un’altra donna. Le chiesi d’uscire un'altra volta e lei accettò. La prima volta che uscimmo insieme io arrivai in ritardo perché dovevo andare a cambiare il biglietto per uno spettacolo: mi servivano soldi per l'appuntamento. Arrivai sul posto con un quarto d’ora di ritardo, tutto vestito elegante mentre che lei aveva indosso un tuta. Passeggiavamo in giro amabilmente, chiacchierando come fossimo amici, la portai nei punti più belli della cittadina, ma non la baciai finché non fummo al sicuro dentro un parco: vivendo in quel posto avevo paura che la gente le parlasse male dietro. Questa storia di amicizia pomiciona continuò fino alla sera dove mi chiese “Che cosa ne pensi di noi ?” ed io le risposi che potevamo rimanere così finché uno dei due non si sarebbe stufato ( risposta fottutamente matura e non capivo da dove cazzo venisse e infatti poi ) “Ma tu provi niente per me?”, io risposi senza pensarci su troppo “Sei la cosa più bella che mi sia mai capitata”. Dopo una lunga discussione lei decise di lasciarmi in prova finché non avesse iniziato a provare qualcosa per me. Avrebbe finto d'amarmi e quella finzione affogò col mio cuore, ma lo rese per brevi giornate il più felice al mondo. I miei genitori dopo qualche giorno partivano per andare a fare una vacanza, lei voleva parlare con me riguardo la nostra relazione così la invitai a casa mia. Lei accettò. Restammo tutta la notte a chiacchierare e a discutere della situazione cercando un accordo che non trovammo dopodiché ci mettemmo a pomiciare sul divano e poi per terra. Io mi finsi morto di stanchezza per non fare all’amore, che lei evidentemente voleva fare, me lo faceva intuire spegnendo le luci, e strusciandomisi addosso, cercando di andarmi sopra, addirittura una volta fece segno di leccarmi il dito, forse pensava che fossi impotente, ed io le sussurrai grave “ Se ci provi ti ammazzo”. Sono cresciuto in una cultura cristiana cattolica, all’epoca per me il pompino era una cosa malvagia, tipo del demonio. Non giudicate.
Il secondo giorno decisi di parlarle della schiena, di dirgli tutto, di dirli perché ci stavo male. Quando aprì la porta di casa avevo bevuto wodka fino a morirne, avevo un lungo coltello in mano e la casa era completamente sprangata. Avevo chiuso ermeticamente tutte le imposte di casa perché quel giorno era l'anniversario di quando erano entrati i ladri. Lei chiuse la porta del garage e mi guardava con gli occhi sgranati, io le dissi semplicemente di venire con me. La portai sul terrazzino, ficcai il coltello a fianco a me, mi misi di fronte la bottiglia di wodka e inizia a narrare, senza che lei m'interrompesse, intervallando con lunghe sorsate. Le dissi tutta la verità, le raccontai tutto e lei comprese la storia, o almeno l’ascoltò, ascoltò la ballata dell’abisso del dolore ( ndr scrivete scoliosi sul blog e vi farete un’idea di che si tratta). Quando finii e vidi che lei era ancora lì la baciai sulla bocca, l’abbracciai stretta, lei aveva riempito il cielo e l’universo intero per me, e l’avrei penetrata con tutto me stesso se non avessi letto pietà e desiderio nei suoi occhi: per lei ero solo un pezzo di carne da montare, e tutta la wodka del mondo non sarebbe bastata per farmi dimenticare questo. Ma ci rotolammo e baciammo per tutta la casa come dei forsennati in preda al delirio, fino al mattino. Lei sorpresa uscì di casa delusa ancora una volta. Chissà, forse il cuore le era sceso nelle mutandine. Ci fu un’altra puntata del genere, più abitudinaria e meno intensa, poi i miei tornarono dalla loro vacanza. Per quanto avessi pulito tutta la notte, la casa rimaneva sporca per mia madre e mio padre. Quando videro i succhiotti che lei mi aveva lasciato sul collo iniziarono a pensare entrambi che avessimo scopato in casa, mio padre uscì di casa e comprò, disse per sé, un pacco di preservativi da 60. Giuro su quanto mi è di più caro al mondo che un insulto del genere nessun uomo me lo mosse mai più e che se quello non fosse stato mio padre giuro su Dio Onnipotente e di fronte a lei giudice che l’avrei ucciso con lo stesso coltello con cui avevo vegliato la sua dimora: lei era stata per me l’universo intero, o almeno aveva finto di esserlo, per lui invece quelle erano soltanto un paio di bianche gambe flaccide che si aprivano per il figlio. Ci vedemmo un’ultima volta in spiaggia. Lei guidava la macchina, la spiaggia era deserta, illuminata soltanto dai raggi della luna. Lei era stata per parecchio tempo con un camionista con cui aveva avuto una storia di sesso e via: tutte le volte che lui voleva, la chiamava, lei lo raggiungeva in uno spiazzo dell’autostrada e facevano sesso, lei si era innamorata follemente di lui. Dopo quattro mesi venne a sapere che lui andava a mignotte di tanto in tanto, lei lo lasciò, oppure viceversa non ricordo. Fatto sta che lei aveva amato un bastardo che l’aveva mollata, che gli aveva messo dentro il germe del sesso, che ti divora dentro facendoti ardere per un altro corpo, ed ora lei non voleva fare lo stesso con me, così io ci provavo e lei resisteva, poi io resistevo facendo il moralista e lei mi attaccava. Alla fine mi disse che lei non voleva sverginarmi e rimanemmo così per quella notte.Inventai la balla che io avevo un sacco di amiche baby prostitute, io le raccontai dopo un paio di giorni che nottetempo una di loro mi aveva sverginato, lei lo prese come un tradimento ed il giorno di ferragosto mi disse che era meglio se restavamo amici.La dimenticai bevendo litri e litri di alcool , le settimane dopo di lei furono confuse, iniziai a bere davvero molto, non ricordo tanto ora. Furono due anni orrendi quelli che seguirono quel giorno, iniziai ad andare il giro affamato, ad elemosinare fica a tutti i miri amici, a cercare con accanimento, party, feste e balli per riuscire a sentirmi meglio. Ricordo ora una simpatica storia che può far ben intuire il mio umore in quel periodo: Quella sera ero vestito come un coglione, m ‘ero cambiato con una buona camicia e lasciamo perdere che L.M. è un bravo cristo ma è un vero e proprio coglione. Non c’era un’anima con cui parlare, non c’era un solo amico con cui parlare, e l’unico con cui avrei potuto scambiare quattro chiacchiere era impegnato a provarci, con ottimi risultati, col collega, l’altra rappresentante d’istituto. Comunque non avevo nessuno con cui stare e me ne andavo in giro alticcio e ogni tanto facevo uno schiantino di rum. C’era un mio vecchio amico di fianco al bancone, Ayrton. Dio, da piccolo lo chiamavo il mio fratello gemello ed ora passava le giornate ad ubriacarsi e a farsi le canne, non studiava niente: spacciava, fumava e beveva. Era completamente ubriaco seduto con la testa fra le ginocchia e tutto sudato, accaldato per via dell’alcool, gli ho detto “Anche io ci sono passato, e ne sono uscito, dai che ce la farai anche tu” E lui mi ha guardato ridendo. Non era vero. Ayrton io non sono mai stato un alcolista non so come se ne viene fuori, ma ti prego fallo, fallo anche se sono un coglione, fallo comunque e vattene via da quel mondo ovattato e soffice, che porta al nulla e dal nulla non si ritorna. Niente è più importante della libertà. Mi sono messo a girare intorno alla piscina pregando che il dio del tabacco mi desse una sigaretta, meglio ancora un sigaro, ho iniziato a parlare con L.M., mi ha offerto una sigaretta e mentre parlavamo è arrivata la botta. Poi l’oblio. Vuote figure, immagini parziali, come angoli di foto strappate e poi il suo volto sotto le scale, truccata male col vestito bianco, lei urlava, no, parlava urlando, e poi la cicciona che me la strappa via, la via di casa , illuminata da lampioni che sembrano le fiamme del cimitero. E poi il calvario, la strada per casa per purificarsi. Avevo conosciuto una ragazza quella sera, stavamo sotto un albero in bella vista, ma tutti erano talmente ubriachi che non se ne accorsero, almeno in un primo momento. Ridendo e scherzando, decisi d'un botto di volerla prendere il braccio, come fa la Madonna nella pietà di Michelangelo col bambino. Questo potrebbe sembrare strano , ma è una cosa che faccio spesso: con mia sorella o con i miei amici addirittura per me è un gesto d'affetto, ma credo che quella sera mi sia venuto particolarmente male, perché l'amica me la strappò via pensando che volessi trombarmela. Io sapevo che non era vero, non ne sarei mai stato capace né per condizioni fisiche, né per animo. Ma mi sentii lo stesso colpevolizzato, così decisi d'espiare la cosa percorrendo un calvario di 12 km a piedi.Neanche per scherzo sarei stato disposto a sottoporre un altro essere umano al dolore, alla passione mancata che mi stava divorando. L’astinenza da adolescente è un incendio che ti brucia dentro.L’amore è un incrocio fra una droga pesante e un bisogno primario: finché non scopri che cos’è non te ne frega un cazzo, ma appena scopri la meravigliosa sensazione di sentirsi amato tu, solamente tu come persona unica al mondo. L’oggettivazione di ciò è il sesso, anche se è la parte peggiore, una bestia vorace e senza fondo che si ciba incessantemente della tua anima. Ricordo che per calmare i bollenti spiriti giravo ubriaco per Marcelli con la mia birra in mano, bestemmiando alla luna che non mi mollava una fica neanche a tirargli svariati e plurimi contenitori di birra, vuoti, so d’essere felice sotto sotto, di sentirmi libero.È un bel modo per autoconvincersi, cocco, non sarai libero finché non avrai imparato a gestire tutte le tue dipendenze. La giarrettiera chi l’ha vista una volta non la scorda più.Chi ne ha più bisogno non ne ha nemmeno un po’, purtroppo l’amore arriva quando cazzo gli pare a lui. Nel frattempo faccio di tutto pur di sentirmi un po’ meglio, e rimando tutto a domani perché niente mi fa sentire meglio in quei momenti come farmi.Come puoi pensare d’essere amato se stai sempre fuori? Devi prima imparare a sconfiggere i tuoi demoni, tipo il Giudice-faccia-da-culo. Buongiorno dottore, non sono venuto qui per fare un’apologia, ma solo un breve appunto. Lei mi ha tormentando nella buca-camera mia per mesi, insegnandomi quanto sia più bello confondere le idee che chiarirsele, eppure più io sto’ in sua compagnia, più sento che il mondo fugge fra le mie dita come acqua, e mi fa soffrire, chiede ancora, pretende senza capire che io sono fuori come un terrazzo. Bene, il dolore è troppo per portarlo ancora, la lascio. Il Giudice-faccia-da-culo sorrise beatamente e disse “ Affrontare me e le richieste del mondo fuori t’ucciderà, resta con me, troveremo un compromesso col mondo fuori così non dovrai soffrire molto e potrai rimanere per sempre con me. Mi buttai nella vasca ripiena di ghiaccio ed acqua gelida per tentare di uccidere lei, sperando di uscirne semimorto e alleggerito del suo cadavere. Com’è difficile volerti bene, con questa voglia che hai di andartene via per il mondo. Ma lei e la sua immagine scomparvero per sempre in un turbine di alcool, sonno, sigari e acqua ghiacciata.
Era il 2014 avevo 19 anni
@soulmatesonfire prova a leggerlo
#scrivere#frasi d'amore#primo amore#storie#diotima#siddhartha#scrittori on tumblr#scrittori italiani#scrittori emergenti#scritto da me#testo mio
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Detroit: Become Human e altro che mi passa per la testa.
Il titolo fa paura più per la seconda parte, lo so.
Ho preso appunti per un quarto d’ora di registratore vocale per scrivere ciò e dovreste sentire come mi sono incazzata tra una registrazione e l’altra.
The usual.
Ultimamente leggo tanti post riguardanti accese discussioni su top/bottom, su quanto certi personaggi siano SBAGLIATI messi in certe posizioni e su quanto avere ruoli sotto alle lenzuola sia normale.
Fortunatamente post in cui molte persone rispondono a tono spiegando perché questo modo di vedere le cose sia triste e controproducente.
Vedo anche post in cui ragazzi omosessuali accusano le ficwriters di monopolizzare le relazioni tra uomo e uomo e renderle ciò che non sono per il loro piacere. Quindi in qualche modo trasformano gli omosessuali in feticci da usare a piacimento.
Potrei star qui a parlare per ore di quanto a mio avviso queste accuse non stiano né in cielo né in terra per il semplice fatto che stiamo parlando di personaggi, come sempre, come si spiega ogni santa volta, come dovrebbe essere ormai chiaro a tutti.
I personaggi non sono persone, i personaggi fanno e dicono tutto ciò che vogliono e non riflettono ciò che la persona che scrive pensa o fa nella vita reale.
Prima o poi qualcuno la capirà ‘sta cosa.
Potrei limitarmi a dire questo e dire che no, non scrivo scene di sesso realistiche tra uomini, ovvio. Primo perché non sono un uomo e secondo perché mai vorrei scrivere scene di sesso realistiche nemmeno eterosessuali. Secondo perché scrivo e non scrivo manuali, gente. Se volete lezioni di sesso andate da un sessuologo o leggetevi guide in proposito. Non si impara il sesso in generale, ma non si impara di certo dalle fanfictions o dai libri.
Perché non ditemi che il sesso nei libri ha senso.
Queste le premesse a ciò che vorrei dire partendo da qualcosa che mi ha preso all’istante, quasi quanto mi ha preso Hannibal, ma per motivi diversi.
Come avrete capito dico sempre ciò che penso, no matter what. Sempre.
Il che non ha nulla a che vedere con la gente che legge. La gente che legge può e deve rimanere delle sue idee, questo non cambierà mai il fatto che continuerò ad esprimere le mie. È una mia necessità, una cosa che faccio per me senza aspettarmi che qualcuno ascolti o approvi, ma la mia posizione su certi argomenti la farò presente fino alla fine dei miei giorni.
Chissà che prima o poi ciò che dico non diventi obsoleto e scontato. Insomma, lasciate anche a me la speranza che un giorno il mondo sia un po’ più come lo voglio io. O devono essere felici sempre e solo gli altri?
Mi sono appassionata a questo videogioco, Detroit: Become Human. In che modo?
Tramite fanfictions e fanart, ovviamente. Siamo fratelli e sorelle in questo perché so che capita anche a voi. Il motivo non so per voi, ma per me è che spesso e volentieri ci sono le basi per qualcosa di buono, ma poi non vengono mai utilizzate per creare questo qualcosa di buono che io apprezzerei molto di più di ciò che c’è già.
E allora esistono i fandom che si creano ciò che vogliono per compensare.
Logico, cosa si deve fare?
Esistono giocatori e lettori e spettatori di film e telefilm che accettano tutto ciò che vedono e leggono, sono certa di questo.
Io no, non più.
Provate voi ad essere sempre sempre sempre delusi da tutto ciò che vi passa sotto gli occhi, da tutto ciò che sentite, cazzo, provate.
Provate a non avere una sola, una singola soddisfazione in nessuna storia che leggete, nessuna.
Parlo a tutti coloro che si indignano se si prende un videogioco e lo si trasforma in un altro mondo con personaggi che hanno altre dinamiche, che fanno altre cose. Parlo a chi si indigna se dopo aver visto un telefilm o aver letto un libro o un fumetto certe persone cambiano alcuni dei punti fissi per far andare la storia da un’altra parte e darle un lieto fine.
Parlo a voi che avete la fantasia di un mucchietto di cenere di una sigaretta.
Fatevi gli affari vostri.
La passione per Detroit: Become Human dunque nasce dalle fanfic e solo dopo, per capire meglio, sono andata alla fonte, all’origine di tutto.
Ho guardato su YouTube ore e ore di storia giocata da qualcun altro.
Il responso finale per me è questo.
Hannibal è tutto ciò che ho sempre desiderato in un telefilm portato fino alla quasi totale soddisfazione delle mie aspettative.
Quasi.
Mancava pochissimo. Ma posso conviverci, Hannibal è ancora al top di ciò che potevo desiderare.
Detroit Become Human è potenzialmente la perfezione, perfezione assoluta, anche più di Hannibal… Ma purtroppo non sfiora nemmeno l’accettabile.
Mi spiego e per farlo ritorno al discorso di top/bottom/feticismo delle relazioni omosessuali/eteronormatività.
Sono stufa.
Io non sono una feticista delle relazioni omosessuali, io sono stufa che tutto sia eterosessuale.
Io.
Io per prima.
Ne ho piene le scatole.
Ho piene le scatole di un sesso che mi definisce.
Io non sono definita da ciò che ho in mezzo alle gambe, non me ne frega niente di ciò che c’è lì. Io sono la mia testa e la mia testa mi dice che un sacco di cose non hanno un cazzo di senso e la gente continua a viverci sopra come se fossero le uniche cose giuste e normali.
Ma normale che?
Chi stabilisce che una cosa è normale? La quantità di persone che la fanno? Quindi se domani tutti si mettono ad ammazzare persone ci sarà una normalizzazione dell’omicidio? Così come l’eterosessualità e tutte le regole che detta è adesso ciò su cui tutti si basano per giudicare, creare cose, stabilire dei percorsi da seguire?
Dunque…
Avevano in mano un mondo di androidi che all’improvviso diventano Deviants e cominciano a provare emozioni umane.
Un mondo di creature che non hanno la nostra concezione di corpo, una volta che smettono di seguire ordini e imitare gli esseri umani, delle creature che non concepisco il sesso così come lo concepiamo noi, soprattutto il loro di appartenenza, in teoria non dovrebbero averlo, e men che meno l’accoppiamento in generale, creature che sentono le emozioni umane, ma poi hanno un approccio completamente diverso da noi nell’esternarle e nel viverle.
Ma quale fantasia si sono sprecati ad utilizzare?
Devo vedere l’androide maschio che si innamora della femmina, lei che gli fa gli occhi dolci e che ad un certo punto gli dice che lo ama. Oh, santo cielo, reggetemi perché non posso trattenere l’emozione per questa storia d’amore.
Ma santo cielo, sono androidi che si svegliano e cominciano a vivere… E guarda caso vivono secondo le regole dell’eterosessualità?
Ma chiudetevi da qualche parte con la vostra fantasia inesistente, per favore.
Devo vedere l’androide femmina che si occupa della bambina e la deve proteggere. Che strano eh? Che decisione così fuori dagli schemi.
Devo vedere i Deviants esprimere il loro cambiamento più attraverso cazzate come queste che attraverso vera e propria presa di coscienza di chi sono loro, della loro identità, di ciò che vogliono fare nella vita con la loro libertà di pensiero e di espressione.
Ad un certo punto c’è anche l’opzione che l’androide che guida la rivoluzione, Markus, possa chiedere insieme ai pari diritti anche l’opportunità per gli androidi di riprodursi.
MA CAZZO!
Ma in questo si esprime l’essere diventati delle creature senzienti?
NO!
Questo è essere umani, triste e scontato. I Deviants sono meglio, i Deviants sono qualcos’altro.
Eh, ma il videogioco è creato da esseri umani e fino ad un certo punto ci arrivano, poi si perdono.
Guarda caso l’unica storia d’amore omosessuale è tra due androidi femmina, prima usate come prostitute per il piacere degli umani, che in una possibile svolta degli eventi scappano mano nella mano verso la libertà. Sempre due donne, mai due uomini, ovvio.
Perché?
Perché queste scelte sono operate dai creatori dei videogiochi che sono tutti uomini, eterosessuali, con la fantasia di una mela marcia.
O sono operate come scelte di marketing perché chi gioca in media è un ragazzo eterosessuale con la fantasia di una mela marcia.
Quindi due donne sì, ma due uomini mai.
Che sono androidi, non hanno sesso! Nonostante una volta disattivata la pelle, chissà perché, le tette restano.
Io non so quanti video ci sono in rete di gente che ha giocato tutto DBH, proverò senz’altro a guardarmeli tutti, ma cazzo nel video che ho visto fino ad ora si sono operate le scelte più banali, più noiose, più etero, più squallide che si potessero operare ed io stavo per morire soffocata dalla tristezza.
C’è l’opzione Fai baciare i due androidi SI o NO?
Cosa pensate abbia scelto chi giocava?
Ora, questo è un rant, lo ammetto, perché è ovvio che quel video può essere stato fatto da chi aveva già giocato altre sessanta volte e ha scelto opzioni mai scelte prima. Però proprio quelle doveva registrare e farmi vedere?
Ritorniamo sempre alla MIA sfiga.
MIA.
Non sto dicendo che certe cose sono sbagliate, come al solito sono sbagliate e noiose per me.
E mi tocca stare zitta e ingoiare la merda che mi si propina in continuazione?
Signori per forza scrivo, blatero, mi incazzo e tutto faccio tranne che tacere.
Perché vorrei vedere voi.
Invece non vi vedrò mai.
Non vi vedrò mai dover fare i conti con tutto un gioco basato su cose che non volete vedere, che non volete sentire, non faranno mai un gioco così. Non faranno mai un telefilm così.
Può succedere con un libro, una volta ogni tanto, con un film, una volta ogni tanto, ma sono cose rapide che non fanno successo e vengono accantonate per sempre.
A voi nella media non succederà mai di essere delusi sempre, sistematicamente.
Gioite dunque di essere nella massa e non ve la prendete se noi, da questa parte, ci facciamo le NOSTRE storie, creiamo le NOSTRE dinamiche. Quelle che piacciono A NOI.
Perché siamo pochi, meno degli androidi di Markus, ma abbiamo già fatto tante rivoluzioni. E che importa se la nostra rivoluzione si ferma a pochi siti, poche storie e poche soddisfazioni. Ci prendiamo tutto ciò che viene.
Le potenzialità di Detroit: Become Human dunque sono state piuttosto schiacciate dal videogioco in sé; ma la storia, ragazzi, la storia è favolosa e dà spunto per il mondo. Il MONDO.
Dico io…
In quest’universo gli androidi sono stati creati per aiutare l’uomo e fare ciò che l’uomo non vuole più fare.
Qualche anno dopo la loro invenzione cominciano ad insorgere i primi problemi con la gente che viene licenziata per far posto agli androidi.
La gente con chi se la prende?
Non col governo o con chi ha permesso tutto ciò.
Se la prende con gli androidi.
Androidi che vengono picchiati, seviziati, rotti, torturati.
Io utilizzerei gli androidi per vedere quali sono gli esseri umani da cui guardarsi.
Io non potrei MAI alzare le mani, diventare violenta, contro una creatura che anche se esegue solo i miei ordini è lì per aiutarmi. Se tu hai in casa un androide e ogni due per tre lo porti a far aggiustare perché lo prendi a bastonate, beh, dovrebbe essere sulla tua fedina penale perché non stai bene per niente.
Se vai in un locale a luci rosse e affitti un robot per farci sesso e lo devi prendere a mazzate per eccitarti hai problemi enormi; non importa che quella è una macchina, importa che tu non lo sei.
La Cyberlife produce un modello per portare carichi pesanti ed ha l’aspetto di un grosso uomo di colore?
Ma scusate…
Un coglione alla Cyberlife che si alzasse a dire “Forse questa cosa è un po’ razzista e ci rimanda al periodo della schiavitù, meglio evitarla” non c’era?
Un coglione che si preoccupasse dell’opinione pubblica magari.
O devo pensare che in un futuro come quello l’unica cosa che non si è evoluta è proprio la testa umana?
Sono androidi! Androidi!
Connor è quello assegnato al Tenente Hank Anderson per investigare sui Deviants e si crea un legame tra loro, cazzo, si crea un legame.
Perché non può essere un legame più forte dell’amicizia?
Se non da parte di Hank, perché metteteci quello che volete, è un uomo di una certa età, era sposato con un figlio (per me non significa niente, ma mettiamo anche…) ma da parte di Connor… È un androide e non gliene frega nulla di che sesso è Hank!
Perché si devono immergere nell’eterosessualità anche creature che dovrebbero fregarsene altamente?
Ci sarebbe dovuta essere la storia d’amore tra umano e androide, per completezza, visto che la vostra fantasia ha partorito la storia tra North e Markus (due androidi con fattezze femminile e maschile) come massima espressione del passaggio a Deviant, una storia d’amore interrazziale era anche meglio e doveva essere tra Hank e Connor, l’unica possibilità rimasta.
Quella storia non c’è e quindi ce la facciamo noi.
Punto.
Questo è scrivere fanfictions, questo è creare fanart, questo è usufruire di un bene facendovi l’immenso favore di acquistarlo nonostante sia la metà della metà di quello che ci si aspetta e poi cercare pace con le nostre capacità, cambiando quello che è sempre uguale.
Di che diavolo vi lamentate?
Potrei comprare un videogioco, col prezzo che ha, nonostante non sia come lo vorrei, solo perché ci vedo dentro del potenziale. Vi sto facendo un favore, a voi e all’altra gente che ci gioca e che rompe le palle a quelli come me che ci fantasticano su.
Ma pensate a giocarci e non rompete.
Ho sentito ragazze indignate perché la coppia Hank/Connor è male assortita. Nel senso che Hank l’umano è in là con gli anni, sovrappeso e in generale non il classico figo da copertina. Connor è ovviamente un androide creato con fattezze giovani e perfette che così rimarranno sempre.
Che schifo!
Ho sentito dire.
Ma santo cielo uscite dai vostri schemi mentali patetici e crescete. Non d’età, di mentalità.
Se è di amore che stiamo parlando nel 2018 devo ancora sentire che dopo una certa età e senza rispecchiare certi canoni di bellezza non si può essere amati?
E poi, cazzo, da un androide senziente che dovrebbe essere l’ultima creatura a guardare cazzate del genere.
Fantasia da mele marce, fantasia da cenere di sigaretta e soprattutto mentalità che dovrebbe vedervi chiusi in una stanza da soli, e non in mezzo alla gente a spargere puttanate e dettare regole su amore, sesso ed espressione di se stessi.
Beh, il mio Connor ama Hank moltissimo, in un modo tutto suo e con espressioni tutte sue che non sono le stronzate umane a cui tutti sono abituati. Se avrete voglia e tempo arriveranno anche loro sulle mie pagine AO3; come potevo trattenermi dall’entrare nel mondo dei Deviants così pieno di possibilità, diverso, senza preconcetti (in teoria, nella mia teoria), fuori dagli schemi prestabiliti e meravigliosamente NON umano?
Altri personaggi che come Will e Hannibal rendono più sopportabile questo mondo stupido e pieno di regole su cose che di regole non dovrebbero averne.
Forse dovrei solo scrivere e stare lontana dal resto della gente, mi farei più del bene così.
Oh, mi sono sfogata. Io sono nata Deviant nel significato più puro del termine. Con me non ci sarebbe nemmeno bisogno di svegliarmi, perché sarei lì già da un pezzo ad aspettare tutti gli altri.
Quello è il mio mondo ideale e se fossi un’umana lì in mezzo mi sentirei davvero una merdina, inutile, patetica e con la testa piena di cazzate. Diecimila volte meglio essere un androide.
E se Markus avesse preso Josh e l’avesse baciato, invece di baciare North, gli avrebbero sparato sul posto.
Perfino il presidente Warren avrebbe dato ordine di sparare.
Perché la terra fa schifo.
#Detroit: Become Human#Considerazioni#Pensieri#Lunga incazzatura#Strano eh?#Hank/Connor#Connor#Deviants#Eterosessualità#Omosessualità#Sempre le stesse cose#Noia#Fanfictions#Scrittura#Androidi#Fantasia che si suicida con un colpo di pistola#Che bello avere creature diverse dagli umani e farle agire come umani
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7 luglio 2022
Il tricologo mi ha solo detto di cambiare gocce da mettere sui capelli e di continuare a lavarli 5 gg a week cioè ogni giorno praticamente. yikes.
Dopo tutto quel tempo a preoccuparmi ile non ha praticamente reagito, oppure si è tenuta cose dentro ed è brava a non farlo vedere e io l’ho sottovalutata. L’ha presa un po’ troppo easy bho vabbè che non è che sia successo niente, però pensavo mi punzecchiasse o facesse qualche battuta e invece niente. Sarà che stava un po’ scocciata oggi, forse il caldo forse il ciclo o forse quella presentazione a cui deve partecipare a fine luglio per cui deve impaginare delle tavole. Oggi non l’ho sentita come al solito.
Daniele pure si è stato zitto, invece pensavo dicesse pure lui qualcosa. Molto meno touchy oggi anche? Dunno. Per lo meno mi ha parlato come al solito e con me ha menzionato il film, ma sempre non facendosi sentire dagli altri. In macchina, mentre mi lasciava in stazione, mi ha pure chiesto se avessi detto a ile che alla fine eravamo andati a vederlo il film e io gli ho detto di si e che ile non se l’era presa (pure lui si aspettava una qualche reazione? Teasing? Lei gli avrà detto qualcosa il giorno del sopralluogo che a me non ha detto? Who knows). Poi è stato di nuovo carino, avevo il treno tra tipo un quarto d’ora ma eravamo già arrivati in stazione con la macchina, al che mi propone di fare due passi sotto i portici mentre aspettiamo il mio treno e lui si fumava una sigaretta nel frattempo. E quindi abbiamo camminato un po’ avanti e indietro mentre parlavamo di libri che stavamo leggendo e di libri che lui ha già letto che mi consigliava, un po’ del film di nuovo e di come ovunque staremo andremo insieme a vedere il prossimo della rassegna. Anche poi di cosa hanno parlato lui e il ragazzo rosso dell’auletta di fronte (ieri ho trovato le due ragazze in bagno a lavare le ciotole mentre io mi lavavo le mani dal caffè che avevo fatto versare (lasciano sempre del caffè nella caffettiera e io me ne scordo e la sposto di forza pensando sia pesante e si versa) e dopo che ho raccontato questo disagio loro mi dicono che hanno da un paio di giorni la macchinetta del caffè rotta. Ile stamattina li ha invitati a prendere un caffè da noi e sono venuti il ragazzo che mi ha complimentato la maglietta e una delle due ragazze incontrata nel bagno, e il ragazzo ha notato il cd player e ha chiesto chi ascolta jpop di noi (c’era il cd inserito ancora) e si sono messi a parlare loro e due). Sto riuscendo a parlare di cose un po’ più facilmente con lui, mi viene più facile fare conversazione e anche parlare di vari argomenti, dalle cose idiote a cose serie. Alla fine della sigaretta ci siamo salutati e l’ho un attimo half hugged e lui mi ha accarezzato la spalla come faceva quando sta touchy. Quindi tutto a posto I think.
Non ho più scritto a Cate, non mi va di mettere pressione a ile che mi ha avvisato che sto weekend non torna nella sua città ma rimane in quella dell’Università, quindi per vederci tutte e tre dovremmo a) vederci nella mia città ma poi si troverebbero a metà strada entrambe e per tornare dovrebbero prendere treni in due direzioni opposte e non ci troveremmo con gli orari e io non voglio fare casini, preferisco spostarmi solo io oppure b) vederci nella città grande e andare tipo a mangiare dal greco ma poi Cate è intollerante al lattosio e non voglio metterle ansia, poi lunedì ha l’esame e ugh. Con ile pure non nel suo solito sunshine mood non ho detto niente. Penso se ne parli settimana prossima se non ci trasferiamo noi.
Il prof continua a essere un giorno interessante (quando ci fa revisione ed esce tutte le sue teorie e idee) ed il giorno dopo un dannato insopportabile (quando dice a noi di cercare qualcuno nel politecnico a cui chiedere un modulo (fatto apposta per noi) per la convenzione tra politecnico e comune della città della tesi e anche il modulo del tirocinio che poi sempre noi gireremo al prof di fisica per farli firmare e che poi invierà lui di nuovo al comune). Se ci chiede ste cose di giovedì, e noi non troviamo nessuno se non una dipendente che ci consiglia di inviare una mail a cui a fine giornata non abbiamo risposta, molto probabilmente non si riusciranno ad avere tutte le carte di lunedì (read: c’è il weekend di mezzo e nessuna di queste persone sopra menzionate lavorerà) e quindi forse non partiamo a luglio? Qualcuno di adulto in posizione di potere può gentilmente organizzarsi? Thanks in advence.
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RACCONTO BREVE: “L’arte del cavarsela”
Vedeva l’Arte in tutto. Nella prima colazione, nella sigaretta che la seguiva, nelle canzoni di Lou Reed suonate attorno al falò della mezzanotte, e anche nelle orme che inevitabilmente si formavano quando attraversava la sua amata East Coast. E io, l’Arte la vedevo in lei. In tutte le sue forme. A partire dai quei suoi disordinati e molto spesso sporchi capelli color corvino, per poi finire nei suoi occhi. Aveva due smeraldi al posto degli occhi. E io ero goffamente imbarazzato anche solo al pensiero di poter essere entrato anche solo una volta nel suo campo visivo. E come molti degli scrittori che conoscevo, anche io ero succube di quello che una giovane musa, potesse ispirarmi: una malsana voglia di vivere e rivivere la vita. Lei era estremamente cocciuta, a volte acida, e anche un po’ stronza. Alla mattina facevo fatica a parlarci, se ne stava sempre in riva al mare, guardando l’orizzonte come se in qualche modo lei sentisse di appartenergli. Nonostante vivessimo assieme, ognuno si era abituato a prendersi i propri spazi. Sapete, lei era giovane e aveva bisogno che qualcuno le garantisse la privacy di fumarsi uno spinello alla finestra, senza che un povero uomo di mezza età la intralciasse. Io allora avevo 49 anni, e una moglie incinta che aveva appena chiesto il divorzio. Una casa nel West Virginia che sicuramente sarebbe spettata a lei, e un amore incondizionato per la scrittura che non riuscivo più a contenere. Sia chiaro, io non ho mai tradito mia moglie, il motivo per cui mi ha lasciato, è perché si sentiva sola, e per qualche assurda ragione lo era. Ma lo ero anch’io. Solo, più solo di lei. La decisione di prendermi del tempo a Coney Island, sulla East, l’ho presa pochi mesi dopo la rottura. Non volevo scappare dai problemi, come molte delle sue amiche le avevano suggerito, inculcandole nel cervello ipotesi malate, ma bensì perché dovevo terminare il romanzo che stavo scrivendo. Purtroppo in quei mesi mi ero preso il virus più comune e temuto da tutti gli scrittori presenti su questo fottutissimo pianeta, avevo il blocco dello scrittore. Ricordo come fosse ieri, la prima volta che scesi dall’aereo e mi feci all’incirca un’ora e trentacinque minuti di viaggio in bus. Appena arrivato toccai con mano un’anonima panchina che dava sull’oceano, era di legno, e sedendomi mi ero anche tagliato a causa di quelle fastidiosissime schegge non levigate abbastanza. Avevo alzato gli occhi al cielo, e poi ero ritornato a fissare un punto della panchina, c’era una scritta in inglese, un po’ dialettale, ci misi un quarto d’ora per capire quello che c’era scritto, e alla fine arrivò lei e ci si sedette sopra incrociando le gambe, e poggiando i suoi grandissimi anfibi sulla ringhiera che ci divideva dalla spiaggia. Fu la prima e l’unica volta che la vidi sotto quella luce. Una grande maleducata che puzzava di alcool, e che di Barbra Streisand non aveva neanche una virgola. Masticava una gomma alla menta che poi aveva sputato davanti a sé. Strabuzzò gli occhi nel vedermi completamente indifferente alla scena e mi disse: «C’è scritto: tutto quello che voglio provare nella mia vita, è oltre a quell’orizzonte laggiù». Me ne innamorai una sera di luglio. Dopo che feci il bagno e mi andai a sdraiare sulla sabbia bollente con in mano un Cosmopolitan e uno dei libri di Murakami, (scusate se non ricordo quale). Lei mi chiamò con il mio nome di battesimo che solo a lei avevo voluto svelare, e poi mi raggiunse. Indossava un minidress nero, degli anfibi e una giacca di jeans oversize. Non era proprio magra, ma andava benissimo così, perché se fosse stata magra non sarebbe stata lei. E mi doleva ammetterlo, ma le sue forme mi piacevano, e mi sentii male al solo pensiero di quello che stavo pensando, non eravamo anagraficamente compatibili. «Sai» mi disse «Adam, o come diamine ti chiami, non sei proprio vuoto come pensavo». Mi guardò dritto negli occhi e non distolse lo sguardo, s’inumidì le labbra e iniziò a mordersele tanto fino a farle sanguinare. Era giovane, ma inconsciamente promiscua e lolita. E aveva una sfilza di uomini, mi correggo, ragazzini, che le giravano intorno. Ma nessuno di loro la soddisfaceva, a tal punto che era costantemente infelice, e a me dispiaceva moltissimo. Quando decidemmo di soggiornare insieme, i primi giorni furono i più duri. Lei era molto sfacciata e libertina nei miei confronti, e in casa girava con solo una maglietta e un paio di slip addosso. Tentai di farglielo capire in tutti i modi possibili che era meglio evitare un certo tipo di abbigliamento quando convivevi con un uomo, e non un uomo omosessuale, ma avevo paura di risultare un porco maniaco ai suoi occhi, così facevo finta di niente. Lennon non studiava, non lavorava e non so che diamine facesse per avere quei pochi soldi di cui aveva bisogno. La casa in cui alloggiavamo era del suo bisnonno, e ci viveva da sola. Ma questo non giustificava tutte le spese che doveva affrontare, so che prendeva dei sussidi dallo stato, ma non sono sicuro che li spendesse per pagare le tasse. Tornava a casa alla mattina presto, perché per lei la notte era più importante del giorno, e ancora strafatta di acidi e cannabis, si rinchiudeva nella veranda a dipingere pensieri astratti. Ecco, una cosa che sapeva fare c’era, aveva un innegabile talento nel dipingere paesaggi e persone morte. Lo so che è una visione un po’ macabra di una diciassettenne appena nata, ma pian piano riuscii ad abituarmi anche ai suoi ritmi e alle sue torture interiori. Una notte tornò a casa prima del previsto, io stavo guardando la finale di stagione degli Yankees con una birra in mano ed ero leggermente brillo. Lei tentennò nel venirmi incontro, ma poi all’ultimo cambiò direzione e mi si buttò sopra; dovetti resistere con tutte le forze che avevo in corpo per non ricambiare il bacio. Ma sapevo che era sbagliato, e avevo paura dell’imbarazzo che un gesto così intimo avrebbe potuto creare. La caricai sulle spalle e la portai a letto, la spogliai, e notai spiacevolmente che era svenuta, così le controllai il battito, ma era tutto a posto, grazie a Dio. Il giorno del mio cinquantesimo compleanno, festeggiai con quarantotto candeline. Mi sentivo più giovane, e non vedevo motivo di evidenziare gli anni che si ostinavano ad avanzare. Di fianco a lei mi sentivo di rivivere ancora i lontani anni ’70 che ogni tanto mi mancavano, e lei di fianco a me si sentiva più intelligente e meno bambina. Mi accorsi dopo che eravamo entrambi irresponsabili e liberi, ma soprattutto liberi. Non ci importava del giudizio della gente, e anche se si andava dicendo che ero un vecchio zio arrivato dalla Virginia per portarle dei soldi, noi ci sentivamo più legati di qualunque altro legame parentale potessimo mai avuto avere. In quei giorni non feci altro che scrivere ininterrottamente. Scrivevo di noi. Di Lennon.
Rose Anne, la mia ex moglie, mi chiamò il mese successivo dicendomi che aveva partorito. La chiamata si concluse dopo cinque minuti e tre secondi di puri insulti, due minuti li passò a piangere, e l’altro minuto e mezzo lo usò per raccontarmi del dolore indescrivibile del travaglio. A quanto pare non era da sola in ospedale, e questo mi rincuorò. Era nata una bambina, due chili e cinquanta grammi, tanti capelli biondi com’erano quelli di sua madre, occhi vispissimi e pianto stridulo. La mia bambina. Avevo bisogno di lei. Il quindici ottobre dissi a Lennon che sarei dovuto ritornare in West Virginia, lei non mi rivolse la parola fino al giorno della partenza. «Tieni. Che le porti fortuna», mi consegnò un acchiappasogni nelle mani, era piccolo e di color rosa, disse che era un regalo per la bambina. «Non mi scorderò di te» furono le ultime parole che sentii dalle sue labbra. L’acchiappasogni non portò fortuna a mia figlia, Elizabeth Lennon H., ma la portò a me. Nei mesi successivi un editore di New York decise di editare e pubblicare il mio romanzo, e da lì a poco, diventai uno scrittore affermato con una discreta fama. Non passai più un solo giorno senza ringraziare Lennon per tutto quello che mi aveva dato, l’Arte di esprimersi e di essere liberi, e quando il mio manager mi organizzò un incontro a Brooklyn sperai di rivederla con tutto il cuore. Firmavo le copie del libro a ogni genere di persona, dalle anziane signore con nipotini per mano, a giovani donne che desideravano immedesimarsi nella protagonista. Salutai l’ultima signora e mi portai una mano alla bocca per non essere scortese e tossii. «Buongiorno» non guardai il viso di quest’ultima, ma mi soffermai sulla rotondità del suo ventre; poteva essere incinta di qualche mese, tre al massimo. «Il nome prego?» azzardai, rigiravo la penna tra le mani assorto nei pensieri più tristi, mi mancava quella ragazza. Non mi disse il suo nome, ma alzando gli occhi, la risposta mi venne più facile di quanto pensassi. Era lei. E chi l’avrebbe immaginato che a distanza di mesi l’avrei rivista con un pancione e vestita di un colore che non fosse il nero. «Lennon» feci vibrare il suo nome tra le mie corde vocali, in silenzio, come fosse un segreto. Provai una pena indescrivibile nel vederla così, a mala pena badava alla sua di vita, come avrebbe potuto badare a quella di un essere che era tanto innocente quanto lo era lei. E il padre? Chi era il padre del futuro nascituro? Spero non il ragazzo pieno di tatuaggi con cui scappava ogni tanto, oppure quello che indossava quegli orribili mocassini color ocra, e no, no, non posso pensare a quello che un giorno trovai nudo nel bagno quasi in overdose. Lei non si meritava altri bambini, oltre a se stessa e a quello che portava in grembo da curare, lei aveva bisogno di essere accudita. Di fianco a lei si presentò un giovane ragazzo con un aspetto formale. Non indossava i mocassini, ma delle normali scarpe da ginnastica, e tutto sommato era ben curato, e indossava anche una bella cravatta. Non sono mai stato invidioso di quei due, quando la vidi andarsene le augurai tutto il bene del mondo, e mi promisi di ritornare a Coney Island, così magari le nostre bambine avrebbero potuto giocare insieme un giorno. Ma l’amai, l’amai tanto. E questo mi venne difficile nasconderlo. La mia vita proseguì nella più completa solitudine, Rose Anne mi lasciò, ma ottenni comunque l’affidamento congiunto di Elizabeth. Comprai la casa del bisnonno di Lennon perché in qualche modo era l’unica cosa concreta che mi era rimasta di lei, e mi ci stabilii. Non ebbi più sue notizie, ma in cuor mio sapevo che stava bene. Ogni notte mi addormentavo con il ricordo di noi due che ballavamo Frank Sinatra illuminati da una luna piena in background, e mi svegliavo sudato sorridendo al ricordo della sua radio sul comodino (dove ora tenevo una foto di mia figlia), che puntualmente alle otto di mattina passava Feeling Good di Nina Simone.
Me la sono cavata con un cuore spezzato e una morte felice. E ci misi anni prima di capire, che l’essere umano è la forma d’Arte più complessa in assoluto.
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Immigrazione incontrollata
Daniele, il mio fidanzato, si rannicchiò sul divano con lo sguardo basso quando vide i cinque ragazzi di colore sconosciuti che avevo portato a casa con me. Sapeva che erano tutti lì per giocare con lui, per il mio divertimento.
Se i ragazzoni neri avevano avuto qualche perplessità quando avevo illustrato loro la mia proposta, uno sguardo al mio fidanzato, nudo sul divano e con lo sguardo terrorizzato, li convinse immediatamente che ero serio.
Non solo stavano per essere pagati, ma avrebbero avuto a completa disposizione un bel culetto bianco tutto da scopare.
Daniele emise un dolce piagnucolio rassegnato mentre i ragazzi gli si avvicinarono, studiandolo. Il più piccolo era un metro e novanta di solida muscolatura, e gli altri erano tutti più alti e grossi di lui. In precedenza aveva già avuto a che fare con uomini simili, quando ero dell’umore giusto per essere intrattenuto.
«Dunque, vi sto pagando un sacco di soldi per andarci giù pesante con il mio ragazzo, intesi? Voglio sentirlo gridare e non mi interessa se non potrà camminare dritto per una settimana.» Il mio cazzo era duro come la roccia stretto nei pantaloni. Non so perché, ma niente mi eccitava come fare davvero male al mio tenero e dolce fidanzato. Era un ragazzo molto sensibile, una femminuccia. All’inizio si era lamentato per i miei modi troppo bruschi durante il sesso. Ma avevo fatto presto in modo che ci facesse l’abitudine, e ormai non protestava più. Quasi mai.
I ragazzi iniziarono a spogliarsi, schernendo il mio ragazzo rannicchiato sul divano. «Ti piace il cazzo nero? Ne hai mai preso uno grosso come una lattina di coca?»
Mi ero assicurato che fossero tutti molto dotati, prima di ingaggiarli. Il più piccolo era venti centimetri, il più grande ventiquattro. Daniele stava per passare un brutto quarto d’ora.
I muscolosi ragazzi neri si erano spogliati completamente, erano sudati e i loro corpi luccicavano. Gli enormi tronchi pulsanti che avevano tra le gambe erano così spessi e pesanti che faticavano a stare dritti, e gocciolavano di presperma denso e trasparente. Ero sicuro che alla fine della festa avrei dovuto portare Daniele dal dottore, se non altro per far mettere i punti al suo buchetto strappato.
«Bene, spero, che gli darete una lezione prima di scoparlo. E non preoccupatevi di fare qualche danno, ho un amico medico che lo scopa ogni settimana. Sentitevi liberi.»
«Sì, ci divertiremo!» Uno dei ragazzi aveva sollevato la testa del mio fidanzato e iniziato a schiaffeggiarlo sul viso con il suo enorme pezzo di carne nera, lasciandosi dietro una serie di scie di presperma. Un altro stava cercando di farsi strada a secco nel suo buchetto posteriore con le dita ruvide e tozze.
«Porca troia, guarda che buchetto rosa.» Ringhiò facendoci affondare brutalmente i pollici. Daniele si irrigidì sul divano e provò a gridare ma la sua bocca fu invasa da una carnosa cappella scura. Io avevo già iniziato a masturbarmi, seduto sulla mia poltrona a poco più di un metro dal gruppetto male assortito.
Il cazzo era troppo grosso e non si adattava bene alla bocca di Daniele, ma il ragazzo nero ne forzò all’interno dieci centimetri fino a quando il mio fidanzato iniziò a gorgogliare soffocando e poi si ritrasse senza riguardi, lasciandosi dietro un filo di saliva e presperma dal labbro inferiore di Daniele alla sua cappella pulsante.
«Sembri così giovane,» disse, poi gli premette le palle contro il naso e la bocca fino a quando Daniele iniziò a leccarne la pelle spessa che avvolgeva i testicoli, massaggiandoli con la lingua. Il tipo con che si prendeva cura del suo buchetto posteriore aveva forzato i pollici in profondità e stava cercando di allargare il muscolo teso. Dalla sua espressione contratta, ero sicuro che per Daniele non fosse piacevole, ma non provò a ribellarsi.
Il ragazzone nero sfilò i pollici e aiutandosi con un poco di saliva lì sostituì immediatamente con la sua gigantesca cappella, senza dargli il tempo di adattarsi alle dimensioni. Daniele si contorse e gridò con forza, e a pieni polmoni, attutito solo dalle palle sulla sua bocca e sul naso.
L’asta d’ebano si fece strada nel suo buchetto a fatica, dolorosamente. Non era certo il primo cazzo che aveva dovuto prendere in quel modo brutale. Lo scopavo ogni giorno e così anche tutti i miei amici, ma questi uccelli erano come enormi arieti che riducevano in poltiglia qualsiasi cosa sulla loro strada.
Il ragazzo davanti a Daniele lo afferrò per i capelli gli voltò le spalle. «Forza frocio, leccami il culo!»
E spinse le natiche nere e muscolose in faccia al mio fidanzato. «Voglio sentire la lingua sul buco, all’istante, o giuro che ti prendo a calci nelle palle.» Gridò, proprio mentre il suo amico iniziava a scoparlo senza pietà. E Daniele obbedì con un lamento sommesso.
Daniele detestava avvicinare la sua lingua a un buco del culo, non importava quanto spesso gli imponessi di farlo, a me o ai miei amici. Non ci si era mai abituato. E conoscevo solo un modo per aiutarlo a superare quella repulsione, fargli leccare più culi possibile.
Il primo ragazzone nero aveva riempito il buchetto posteriore del mio fidanzato con il suo cazzo delle dimensioni di una lattina di coca e aveva iniziato a scoparlo con spinte profonde e veloci, senza risparmiare nulla della sua considerevole forza. Daniele stava impazzendo per il dolore e sembrava che dovesse perdere i sensi da un momento all’altro.
«Non è divertente se sviene. Uno di voi potrebbe pisciargli in faccia per dargli una scossa.» Proposi e subito dopo scoppiai a ridere per quel lampo di genio improvviso.
«Vuoi che pisciamo sul tuo divano?» Chiese uno di loro.
«Chi cazzo se ne frega, il frocetto sarà punito se il divano si rovina. Tu pensa a pisciargli in faccia, è per questo che ti pago!»
Allora, il secondo ragazzo che aveva iniziato a scopare la bocca di Daniele si sfilò dalle sue labbra arrossate e assunse un’espressione concentrata, probabilmente dovette sforzarsi per riuscire a pisciare con il cazzo in piena erezione. Qualche secondo dopo, un debole spruzzo giallino schizzò fuori dalla sua grossa cappella. Il ragazzo nero sorrise, rilassandosi, e il getto prese forza colpendo il mio fidanzato sulla guancia, poco sotto l’occhio. Rischiai seriamente di venire proprio in quel momento.
Daniele si riscosse e ricominciò a strillare, più forte di prima. Il ragazzone sopra di lui ne approfittò per dirigere il forte getto dritto nella sua bocca, e le grida si trasformarono in un lamento soffocato. I ragazzi scoppiarono a ridere e uno di loro lo afferrò, premendogli le sue forti dita sulle guance e costringendolo ad aprire del tutto la bocca.
«Non ingoiare finché non te lo dico.» Gli ordinai dalla poltrona e i suoi occhi si fecero ancora più grandi e supplichevoli.
«Ti piace, vero?! Manda giù, adesso!»
Ero in estasi.
«Porca troia, questo culo è il paradiso!» Grugni all’improvviso il ragazzo che lo stava scopando. Poi si irrigidì, inarcando la schiena, e speronò tutto il suo ariete da demolizione nel buco del culo del mio fidanzato, farcendolo con la prima sborrata della serata. Il suo ringhio animalesco e il grido di Daniele si fusero in un unico assordante lamento di piacere e dolore, fusi inestricabilmente tra loro.
Dopo che tutti si alternarono dentro di lui, scopandolo con forza e senza pietà, il suo buco del culo era arrossato e gonfio e ribolliva di sperma.
«Non mi va che tutta quella sborra vada sprecata,» dissi fintamente preoccupato. I ragazzi neri sorrisero soddisfatti, sudati e ansimanti. «Raccoglila con le dita e lecca via tutto.»
Daniele eseguì senza protestare, e iniziò a raccogliere lo sperma che gocciolava dal suo buco distrutto per poi leccarsi le dita, rassegnato. Stravolto com’era, lo trovavo davvero carino.
Gli sconosciuti con la pelle d’ebano si eccitarono nuovamente guardandolo ingoiare il loro sperma fino all’ultima goccia.
«Perché non fate una gara di sputi?» Suggerii. «Chi centra più volte la bocca vince, poi dovrà ingoiare ovviamente.»
Feci sistemare il mio fidanzato a gambe incrociate sul pavimento, tra le mie ginocchia, mentre i ragazzi si misero in posizione a poca distanza. Non volevamo seriamente che il gioco fosse troppo difficile. E lo tenni stretto mentre si contorceva, senza però osare muovere la testa o chiudere la bocca. Mi fissava dal basso, con la testa leggermente inclinata all’indietro e gli occhi sgranati, mentre tra le sue labbra e sulla sua lingua andava pian piano formandosi un laghetto di saliva spumosa. Quando ci stancammo di quel gioco, i ragazzi erano euforici, nessuno aveva tenuto il conto di chi aveva fatto centro per cui non ci fu un vero vincitore, ma di certo ordinai comunque a Daniele di chiudere la bocca e mandare giù tutto. Baciandolo sulla fronte quando riuscì ad ingoiare con molta difficoltà.
«Grande!» Gli bisbigliai con le labbra a pochi centimetri dalla sua fronte contratta, e lui mi strinse la caviglia con una mano, mentre una lacrima gli scivolava lungo la guancia.
«Qualcuno ha qualcosa che possiamo spingergli dentro il cazzo? Tipo una penna a sfera o qualcosa del genere?» Proposi, contagiato dall’euforia dei ragazzi sconosciuti nel mio soggiorno.
«Che ne dici di provare a mettergli una mano nel culo.» Suggerì uno dei ragazzi.
«Cazzo, si! Ma devi promettermi che alla fine riuscirai a scoparlo con il pugno chiuso.»
Dopo che la situazione ci sfuggi letteralmente di mano, Daniele rimase fuori uso per circa un mese, ma grazie alle cure del mio amico medico tornò più pronto di prima ai nuovi giochi che lo aspettavano per il mio divertimento.
Ovviamente feci in modo che Daniele leccasse il suo sangue e gli ultimi residui di sborra dal pugno del tizio che gli aveva rotto il culo. A fine serata il suo buco era un vero spasso, tutto arrosato, allargato e aperto come la fica di una prostituta cinquantenne.
«Cazzo, devo pisciare!» Aveva gridato uno dei ragazzi subito dopo.
Sorrisi. «Dani, spero che tu abbia sete!»
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Lunedi 16 agosto h.2.00
Wella quanto tempo… Comunque sono le 2:15 di notte e non ho un cono di sonno,Infatti ho pensato che fosse il caso di rimettermi a scrivere qualche cosa giusto per impiegare il tempo e ammazzare la noia.
In realtà non è che siano successe tutte ste cose… ma come da tanto faccio, ho voluto aggiornare un attimo la situazione qua sopra
sempre solo per ammazzare il tempo eh..
Come prima cosa fortunatamente sto cambiando tutti i documenti:sia burocrazia che ospedali o Inps eccetera o chi è, e magari una carta prepagata nuova perché mi serviva un conto diverso x ordinare online, giusto per non farmi truffare altri soldi dalla mia 😅 Comunque anche su questo ci tornerò dopo dato che è successo un casino qualche giorno fa… casini a parte non vedo l’ora di prendere la patente con i documenti rettificati quando avrò finito con tutto il resto e spero sia facile anche perché la prima volta che l’ho fatta camminavo ancora (perché x chi non lo sapesse io sono disabile e non cammino bene quindi uso l’ausilio delle stampelle o addirittura della sedia rotelle quando ho tanta strada da fare) E nulla la patente è andata così, perché non avevo voglia di studiare quindi mi hanno segato ben due volte🤷🏻♂️🤷🏻♂️ vabbè comunque tornando al resto, stavo guardando una serie su Netflix (sempre quello che ho con mio cugino)E continuo a non avere sonno…e nulla..
Facciamo che adesso racconto d com’è andata qualche giorno fa per quel casino che dicevo prima riguardo agli ordini online e al truffare.. Perché sennò poi me lo dimentico e non so più cosa scrivere quando magari avrei voglia di fare ancora un sacco di rigne.
Vabbè, è iniziata che stavo cercando qualche acquirente per la switch che nn uso più o le mie vecchie AirPods idem, e nel mentre ho visto che qualche ragazzo metteva annunci x cercare unaPlayStation 5. Quindi ho pensato di farlo anch’io dato che la cerco da un sacco di tempo e scrivendo anche che potevo dare in cambio con magari un ulteriore somma, la mia switch.
Qualche ora dopo mi scrive un ragazzo che voleva vendermi la sua play5 (ovviamente nuova )solo che purtroppo il mio capitale di base non era molto alto e allora gli ho proposto di aggiungerci la switch. Lui lix li ci ha pensato un po’ ma poi ha acconsentito a 400 € più la switch che ne vale praticamente 200 in questo caso anche seDa sola io l’ho messa a 300/350 Ma questa è un’altra storia.. comunque gli ho detto di sì eche la stessa mattina dato che erano le nove gli avrei fatto il pagamento e lui avrebbe dovuto mandarmi la ricevuta della spedizione appena possibile quindi abbiamo chiusola chiamata dopo poco contenti di quello che ci eravamo appena concordati . In quel momento sfortunatamente ero al supermercato con la mia ragazza quindi non potevo andare in posta a fare il pagamento allora glielo dissi in una chiamata successiva e sembrava subito tranquillo il tizio ma poi ma mano che il tempo passava era sempre più agitato infatti mi disse subito che doveva partire per le ferie qualche ora dopo e che il pagamento dovevo farglielo sul momento o comunque subito, allora mi consiglia una app x mandargli il denaro alla veloce ma essendo che non mi fidavo troppo di mandargli dei soldi attraverso un app allora gli ho detto che gli avrei fatto il bonifico sull’iban ..problema che lui non aveva l’iban quindi dovevo fargli la ricarica sulla postepay e fino a li andava bene, solo che era la postepay del suo amico che aveva un nome non italiano e arrivava dal Senegal(questo lo scoperto dopo ovviamente nn nel ha detto lui), allora subito pensai di non fargli il pagamento ma poi babbo come sono ho ripensato che fossi io lo stupido a non fidarmi quindi gli feci il versamento(non tracciabile ho scoperto dopo perché è su postepay)comunque tra parentesi era pure di 350€ perché 400appubto Non li avevo. Intanto comunque mi sono scordato di dire che tutto questo è successo in poco più di un quarto d’ora sotto il sole nelle vie cittadine tra afa e cose varie posta e supermercati forse neanche perché lui voleva tutto subito dato che sarebbe partito poi all’1:30/2..🤷🏻♂️🤷🏻♂️ quindi è stato tutto molto veloce e ho fatto tipo la figura del burattino, infatti col senno di poi se ci penso forse non l’avrei fatto perché mai dire mai. Arrivato a casa dice che non aveva ancora il codice di spedizione perché era già fuori casa e sua mamma molto probabilmente aveva già spedito la play ma altro non sapeva (e manco io che avrei dovuto pff)quando realtà io prima gli avevo detto di darmi prima ancora un codice con la ricevuta di spedizione e subito dopo il codice di tracciamento… Pt 2 nella prossima page_ =>
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Anima, narri un bel momento con F? Più logorroica sei, più ti adoriamo. Baci😘
Ultimamente stavo pensando a quanto siamo gelosi, grazie a questa tizia che ci sta provando con lui, e soprattutto a quanto diventiamo divertenti quando siamo gelosi.Stavamo insieme da più o meno un mesetto, e sono quei primissimi tempi in cui stare in compagnia è difficile. Ci veniva complicato stare fisicamente separati, e personalmente gli sarei saltata addosso in ogni luogo e in ogni lago, quindi cercavamo di evitare luoghi pubblici e uscite di gruppo.Una sera la sua compagnia decide che è giunta l’ora di fare le “presentazioni ufficiali” e ci invitano a cena in questo pub irlandese. Io mi cago sotto, non conosco nessuno bene se non F, e ci tengo a fare amicizia con i suoi amici. Per lui sono importantissimi, spesso dice che gli hanno salvato la vita.Sono poche le situazioni in cui sono nervosa, se si escludono gli esami, quindi non so gestire la cosa molto bene. F ovviamente se ne accorge perché lo riempio di foto su whatsapp “amo come sto così?” “Dici che è troppo?” “Sembro una zingara?”. All’ennesimo cambio con annessa foto mi scrive (cito testualmente) “Nun te move, stai ferma che te stai a esaurì, mo vengo io”.Il mio personale Enzo Miccio arriva dopo un quarto d’ora (io in totale atteggiamento di rinuncia con la faccia truccata, i capelli fatti, solo l’intimo addosso e arrotolata in una coperta) e mi trascina davanti al mio armadio. I suoi criteri di selezione sono:- “questo no perché Leo sta in fissa con le tette e poi te guarda troppo e io ci devo litigà”- “questo no perché è troppo largo e poi sospettano che una come te sta con me perché t’ho messo incinta”- “questo no perché se te lo metti nun me regolo”e cose del genere. Alla fine F works his magic e mi veste come se fossi una Bratz. Arriviamo al pub e va tutto bene, i suoi amici sono degli imbecilli come lui, solo senza accento romano, Leo non mi fissa le tette, nessuno sospetta che io sia incinta, e lui, baci vari su ogni lembo di pelle che riesce a raggiungere e mani impertinenti a parte, si regola.Ma ovviamente se tutto va bene allora c’è l’inculatura dietro l’angolo. E infatti dopo un’oretta Leo, che è quello che mi conosce meglio essendo il fratello di una mia amica, mi dice di non girarmi perché c’è il mio ex con la sua nuova fidanzata e ovviamente, dato che sono una sfigata cosmica, si avvicinano al nostro tavolo per salutare un ragazzo che va in palestra con lui. Ditemi quante probabilità al mondo ci sono che accada una cosa del genere, eppure eccomi, la ragazza con la sfiga.F diventa di marmo e mi mette un braccio intorno alle spalle. Non è mai stato il tipo di ragazzo che “piscia sull’albero” per marcare il territorio, ma sa quanto il mio ex mi abbia fatto male, e sa quanto io sia in difficoltà. Non mi dice niente se non “stai tranquilla e sii più stronza possibile”.Detto fatto. Il mio ex con una fintissima nonchalance si gira verso di me e mi dice “oh pure tu qui?”. Ora, probabilmente tutto quello che riguarda atteggiamenti della sua ragazza, potrebbe essere stato distorto dal mio schifo nei suoi confronti, perché io non riuscirei mai a sorridere alla ragazza a cui ho soffiato il fidanzato mentre mi struscio su di lui.Fatto sta che lei continua a sorridermi e mi parte la brocca. F se ne accorge e mi accarezza la spalla. Rispondo al mio ex con molta calma e con un sorriso, ma noto che lui sta fissando la mano di F. Tutto quello che F vuole. Continua imperterrito a passare le dita sulla mia spalla, fino a quasi al gomito, e io continuo imperterrita a sorridere al mio ex, che mi chiede come mai non fossi uscita con il mio solito gruppo, se stessero tutti bene.Sempre sorridendo gli rispondo “a volte si cambia. Per il meglio o per il peggio, chi lo sa” e vi giuro che non era mia intenzione, ma finisco la frase sorridendo alla sua ragazza. Mi dispiace pure un po’, perché il mio ex ha fatto di tutto per cercare di chiarirsi con me e di scusarsi, ma sti cazzi, mi ha ucciso. Mi sono sentita cento chili in meno, a volte si vive pure di soddisfazioni.Intanto sento F strozzarsi con la birra per non ridere e sussurrare “che cazzo di tigre” mentre mi guarda tutto orgoglioso.Il mio ex ha pure il coraggio di rispondermi chiedendomi “dipende sempre che intendi per ‘meglio’”, ma non guarda me, guarda F. Al che, il mio ragazzo, senza scomporsi minimamente, lo guarda, gli tende la mano e gli dice “piacere, Federico”.Non c’è bisogno di dirvi che da quel momento i suoi amici ci chiamano “la coppia degli stronzi” (e che quella sera si è sfiorata la rissa).
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10 dic 2020 09:43
“MA È VERO CHE ROSSI E CABRINI SONO GAY?” – MARIO SCONCERTI RICORDA LE VOCI DURANTE IL MUNDIAL ’82 DI UNA RELAZIONE TRA "PABLITO" E "IL BELL’ANTONIO": "LUI PRESE COSÌ POCO SUL SERIO QUESTA STORIA CHE 25 ANNI DOPO, AL SUO MATRIMONIO, MI RACCONTÒ RIDENDO CHE…" - LA STORIA DEL CALCIOSCOMMESSE: "LUI SI FECE IN SILENZIO I DUE ANNI DI SQUALIFICA. IO LO ATTACCAI SPESSO IN QUEL PERIODO. QUANDO CI RITROVAMMO A TORINO A PRANZO CERCAI DI SPIEGARE. LUI MI PREGÒ DI STARE ZITTO. “È FINITA. RESTIAMO AMICI” - VIDEO
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Mario Sconcerti per corriere.it
Paolo Rossi era mio amico. Forse è per questo che non riesco a scrivere la sua morte. Non so scegliere tra i ricordi.
Cominciare dai tre gol al Brasile è facile ma non mi sembra corretto. Paolo è stato molto altro, un uomo buono, un eroe dei tempi, leggero come una piuma e disinteressato alla sua bravura. La conosceva, e più passava il tempo e più l’amava. Ma non gli ho mai sentito dire una volta che è stato un grande giocatore.
Prendersi poco sul serio era il suo modo allenarsi, quasi un clandestino dell’area di rigore, aveva imparato a nascondersi perché non aveva il fisico, arrivava come un tradimento, rubava un metro ed era gol. A Madrid, la notte del Mondiale, ne fece uno alla Germania indescrivibile senza moviola. Oriali mise da destra un pallone al centro che non sembrava niente di che. Cabrini, che marcava Kaltz, fu il primo a tuffarsi per andare a prenderlo.
Foerster, un difensore magnifico e scolpito, capì il pericolo e si buttò per anticipare Rossi, ma quando aprì gli occhi, Paolo gli era già sopra le spalle e aveva colpito con la fronte. Era gol. Stavamo diventando campioni del mondo. Dalla tribuna non capimmo niente, si era visto solo un mucchio di uomini accartocciati e la palla in rete due metri più avanti. Ricordo che il grande Schumacher non fece in tempo nemmeno a muoversi. Poi, dalla polvere della terra, si alzarono al cielo le braccia magre di Rossi. Quello era il suo mestiere, rubare il tempo.
Aveva grande tecnica, giocava benissimo a calcio e non aveva mai pensato di essere un centravanti. Ma quando G.B. Fabbri a Vicenza gli disse che il suo ruolo era quello, lui cominciò a studiarlo. Era magro, aveva un’altezza normale, poteva solo contare su controllo e scatto, colpo d’occhio, posizione. Finì per farlo meglio di chiunque altro.
Ci sono stati anni in cui è stato celebre come i Beatles, ambasciatore di qualunque cosa. Lo invitavano dovunque, lo premiavano e lo ascoltavano come un reduce dallo spazio. Un giornalista che seguiva i ministri italiani mi raccontò che in Cina i diplomatici, per rompere il ghiaccio della conversazione ufficiale, parlarono un quarto d’ora di Paolo Rossi. In Brasile per quei tre gol lo hanno odiato, un sentimento reale, sincero, mai nascosto.
Pochi anni dopo il mondiale Paolo fu invitato in Brasile per una partita di beneficienza. Giocò solo un tempo. Ogni volta che si avvicinava alle tribune con la palla gli tiravano di tutto, monete, noccioline, bucce di banana. Raccontava poi che un tassista, quando capì chi era, accostò e voleva imporgli di scendere. Paolo non sapeva arrabbiarsi, riuscì a trovare un compromesso. Il tassista non lo avrebbe portato a destinazione, ma solo riaccompagnato all’hotel da dove erano partiti.
Paolo era soprattutto una bella persona. Diceva di sì a tutti, passava dagli inviti di Stato alle cene di paese. Era un allegro pensieroso, come i toscani furbi, che mandano via la malinconia con la voglia di passare il giorno, uno per volta. Stava dovunque ma era di pochi.
Gli piaceva che tutto finisse a cena, col vino che faceva lui sulla collina di Bucine, sopra la valle dell’Arno, dove aveva preso dei ruderi e la terra e aveva trasformato tutto in un grande agriturismo, una quindicina di villette indipendenti, autosufficienti in tutto. Con intorno una grande piscina e il campo da calciotto. E una signora che faceva da cuoca nella vecchia cucina per chi ne avesse bisogno e solo se erano amici di Paolo. Di fianco la sua casa, quella con Federica, la moglie della maturità, che è riuscita a dargli tre figli in pochi anni facendolo padre quando era già nonno. Era stato un amore profondo Federica, così come il suo bisogno dei figli. A quasi sessant’anni si era abbandonato all’idea di quella deriva paterna. Non si faceva domande, cercava altre vite e le chiudeva nella sua collina fuori dal mondo, senza una casa intorno e col vino più buono da lì a Montalcino.
Ha avuto molte cose in comune con Baggio: la popolarità, il Vicenza e i ginocchi. Paolo si operò tre volte già quando era un ragazzo nella Primavera della Juve. Allora si diceva che si era rotto il menisco, non c’era artroscopia. Per capire davvero dovevi aprire. Ed erano quasi sempre legamenti saltati. I dolori lo hanno accompagnato sempre, diventarono non resistibili. A ventotto anni smise di essere se stesso. A trenta chiuse la carriera. L’ultima prodezza erano stati due gol all’Inter con la maglia del Milan, gli unici due gol di quella stagione. Dopo divenne la memoria di se stesso.
Cercò altre strade, non era uno che buttava via i soldi. Aveva una società a Vicenza con il suo vecchio compagno Salvi, assicurazioni, imprese edili. Aveva un figlio di quarant’anni che dava una mano. Non ha mai pensato di fare l’allenatore, il calcio non lo ha mai cercato troppo. Pesava troppo e non era di nessuno. Con la Juve aveva vinto un campionato segnando 13 gol, ma anche perso una finale di Champions.
E comunque quella era la Juve di Platini, Boniek e Boniperti, non la sua. Non aveva retroterra come ex se non a Vicenza. Così è diventato opinionista, tanti anni a Sky altri alla Rai. Credo non fosse esattamente il suo mestiere, il calcio alla televisione fondamentalmente lo annoiava. Però con quell’aria quasi svogliata tirava sempre fuori un concetto ardito, sorprendente.
Ha avuto un momento molto brutto nel 1980, quando prese due anni di squalifica per il caso delle scommesse clandestine. Lui lo racconta molto bene nei due libri sulla sua vita. Pensava si accennasse a uno di quei pareggi che erano convenienti a tutte e due le squadre. Non restò più di cinque minuti in quella compagnia, portato da un compagno mentre giocava a tombola. La domenica fece due gol, questo lo condannò, fece sembrare il pareggio convenienza. Ma di gol ne aveva fatti tanti anche prima. Il processo penale assolse lui e tutti gli altri giocatori, lui si fece in silenzio i due anni di squalifica. Il secondo lo passò ad allenarsi con la Juve che lo aveva rivoluto.
Io lo attaccai spesso in quel periodo, ero un colpevolista. Quando ci ritrovammo a Torino a pranzo cercai di spiegare. Lui mise l’indice sul naso e mi pregò di stare zitto. «È finita. Restiamo amici». Perché Paolo era così, non voleva complicazioni, accettava tutto. Forse tutti noi non eravamo che piccoli elementi della sua voglia di vivere sereno, non tranquillo ma sereno. Come se un po’ per uno, tutti contribuissimo a difenderlo.
Non si arrabbiò nemmeno quando in tutto il mondo le agenzia di stampa rimbalzarono la storia che lui e Cabrini erano fidanzati, nel senso vero del termine. Erano in camera insieme ai mondiali e amici di sempre. Un giornalista italiano scrisse che nell’ora di libertà Rossi e Cabrini stavano sul balcone mano nella mano come due fidanzatini.
Era una battuta innocente, ma non esiste l’innocenza nella comunicazione di un mondiale. Il giorno dopo, quando andammo a prendere il Brasile all’aeroporto di Barcellona, la prima cosa che disse Socrates fu: «Ma è vero che Rossi e Cabrini sono maricones?». Cioè gay. Lui la prese così poco sul serio che venticinque anni dopo, al suo matrimonio, sulla collina, nel villaggio sopra Bucine, al tavolo con Cabrini, mi raccontò ridendo che a Vigo si erano messi paura: avevano avuto lo stesso fungo su parti opposte del torace, come se uno l’avesse attaccato all’altro. Ridemmo molto e continuammo a bere.
Ciao Paolo, non dimenticarmi.
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Sono passate un paio di settimane dall’arrivo di Sam in casa Harris e la giovane non sembra avere intenzione di lasciare l’appartamento nell'immediato futuro.
Per non parlare del fatto che, ogni volta che Ian si ritrova da solo con lei, l’atmosfera sembra diventare improvvisamente imbarazzante, come se sorellina di Liam fosse in procinto di gettarsi tra le sue braccia ogni volta che apre bocca. Ma forse... Forse è tutto nella testa di Ian. Da quando ha rotto con Tessie le uniche donne con cui ha avuto a che fare sono Joey e sua sorella, avrà di sicuro iniziato a fraintendere i segnali. D'altronde... Conosce Sam da quando aveva cinque anni. Non penserebbe mai a lei in quel modo e immagina che per lei sia lo stesso.
Sam, d’altro canto, fantastica riguardo al ragazzo sin da quando ne ha ricordo. Ian è il primo ragazzo per il quale abbia mai avuto una cotta e il fatto che lui non l’abbia mai vista come qualcosa di diverso da “la sorellina rompiscatole di Liam” non le è mai andato giù. Insomma, la pubertà ha avuto decisamente un buon effetto su di lei, trasformandola in una donna oggettivamente attraente, eppure questo non è servito a togliere i prosciutti dagli occhi del ragazzo.
Ora a distanza di anni, lo vuole addirittura di più. Se c’è qualcosa che ha imparato con l’esperienza è che “Nessuno dice di no a Samantha Smith”, nemmeno il migliore amico di suo fratello.
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Ian è appena tornato dal suo turno di lavoro e il suo più grande desiderio è quello di buttarsi immediatamente sotto la doccia. Dimenticandosi per qualche istante di avere due coinquilini, si dirige in bagno senza preoccuparsi di bussare, cogliendo Samantha in biancheria intima, che evidentemente aveva avuto la stessa idea.
«Merda, scusa. Cazzo.»
Esclama maledicendosi per aver anche solo pensato di poter dare un’ulteriore sbirciatina, richiudendosi immediatamente la porta alle spalle. Non è mai stato così a disagio di fronte ad una donna in biancheria intima, non è decisamente nel suo stile, eppure con la giovane Smith risulta inevitabile.
Detesta il fatto di essere anche solo minimamente attratto da lei e il fatto che ci sia una buona possibilità che lei possa provare lo stesso lo fa entrare nel pallone.
«Scusa, non ti ho sentito entrare!»
Urla Sam in modo da farsi sentire dal ragazzo. Ovviamente quella era una bugia, considerando il fatto che ha iniziato a spogliarsi nell’esatto istante in cui ha sentito le chiavi di Ian infilarsi nella serratura.
«Figurati, scusami tu. Cazzo. Dovremmo stabilire degli orari per la doccia, attaccare degli elastici alla porta o... Insomma, chiuderla a chiave.»
Realizza infine concludendo il suo discorso impacciato, per poi grattarsi la nuca con aria piuttosto nervosa.
Samantha lo ascolta dall'altro capo della stanza tentando di trattenere le risate, per poi infilare i suoi shorts inguinali e raggiungere la porta del bagno.
«Hey, campione! Come sono andati gli allenamenti?»
Esclama Samantha senza preoccuparsi di non avere ancora una maglietta addosso.
«Finisci pure ciò che devi fare in bagno, io... Io posso lavarmi più tardi.»
Risponde Ian tentando di mantenere la calma e, soprattutto, di non abbassare lo sguardo al di sotto del suo viso.
«Penso che dovresti—»
Esordisce distogliendo lo sguardo dal suo viso ma indicando il resto del suo corpo con l’indice della mano destra.
«Questo?»
Domanda indicandosi il seno.
«È tutto push-up, magari avessi delle tette così!»
Esclama alzando gli occhi al cielo, per poi infilarsi la canottiera con tutta la calma del mondo.
«Non mi hai risposto, ti è piaciuto?»
Ian, che fino a poco prima guardava fisso un punto del muro abbastanza distante da Sam, viene distratto dalle parole di quest’ultima.
«Come? Piaciuto cosa?» «L’allenamento. Non eri a lavoro?» «Sì, giusto. L’allenamento. Sì è rotta la doccia dello staff. Per questo sono, insomma...» «Tutto sudato? Beh, lo vedo.» Esclama Sammy scrutando il ragazzo da testa a piedi. I pettorali scolpiti sono messi in risalto dalla canottiera che aderisce perfettamente al suo corpo e Sam non riesce a fare a meno di fissarli. «Già, se hai finito in bagno mi butterei sotto la doccia—»
Senza nemmeno concludere la frase, Ian si fa strada verso il bagno, venendo però bloccato dal braccio della Smith, che si appresta a bloccare la porta con esso.
«Quanta fretta... Hai voglia di farmi un po’ di compagnia?»
«Ci vorrà solo qualche minuto, promesso!»
Esclama Ian tentando nuovamente di varcare la soglia del bagno.
«Ho scoperto che Jeff ha un’altra.»
Confessa infine Samantha, sperando che questa ammissione di vulnerabilità possa aiutarla a raggiungere il suo fine. Ian si ferma esattamente di fronte alla porta aperta, chiudendo gli occhi per qualche secondo. Vorrebbe fingere di non aver sentito ed evitare ulteriori situazioni imbarazzanti, ma l’indole da bravo ragazzo che lo caratterizza lo spinge a fare retro-front.
«Vuoi parlarne?»
[...]
«Non capisco come sia potuto cadere così in basso.»
Esclama Samantha per la milionesima volta, continuando con il teatrino che ormai tiene in piedi da oltre un quarto d’ora.
«Sono più bella di Jessica, questo è evidente. E meno troia, per questo non ci vuole molto.»
«Oh...»
Si limita a commentare Ian nel momento in cui la ragazza dà per nulla velatamente della “poco di buono” all'amante del suo ex.
«La verità è che non me ne è mai importato un granché di lui. È un arrogante, figlio di puttana e... Quando Abby mi ha chiamata per dirmi che Kirby l’ha visto strusciarsi addosso a quella stronza di Tracy,... Te lo confesso, mi sono fatta una bella risata.»
Ammette portando una mano dietro la nuca. «È finita, questa volta per davvero.»
«Posso dire una cosa? Senza che ti arrabbi?»
Domanda Ian quasi intimorito dallo sguardo che Sam gli rivolge non appena apre bocca.
«Ti ascolto...»
Risponde la Smith addolcendosi appena, per poi avvicinarsi di qualche centimetro al ragazzo, seduto sul divano accanto a lei.
«Penso che dovresti lasciar perdere. Non solo lui, ma tutti quei coglioni con la puzza sotto il naso dell’Upper East Side. Vuoi far credere a tutti di essere la tipica figlia di papà superficialotta e senza cervello, ma ti conosco abbastanza da sapere che c’è molto più di questo. E continuare a dare della troia a tutte le ragazze che quel cazzone del tuo ex si scopa... Non ti rende migliore di lui.»
Sam è colta alla sprovvista dalle parole del ragazzo. Non aveva mai visto quella situazione da un punto di vista così... Maturo. Forse le importa di Jeff più di quanto sia disposta ad ammettere e il suo astio nei confronti di ogni ragazza che osa rivolgergli la parola è dettato da una serie di insicurezze che tenta con tutta se stessa di mascherare. Forse tutti quei tentativi disperati di fare colpo su Ian sono dovuti a quella stessa insicurezza, forse... Al diavolo i forse. Il lato più “umano” di Sam viene spazzato via in men che non si dica, non appena la sua attitudine da “donna alpha” pronta all'azione prende nuovamente il sopravvento. Lo scopo del suo infinito sproloquio riguardo alla sua situazione con Jeff era soltanto uno: attirare l’attenzione di Ian e pianificare la prossima mossa.
«Sei molto saggio, sai? Mi piace.»
L’espressione assorta di Sam lascia spazio ad un sorrisetto malizioso, mentre si avvicina ulteriormente alla postazione di Ian, prendendo posto a pochi centimetri da lui.
«Sai, Ian? A volte penso proprio che tu mi conosca come un libro aperto. Voglio dire, ho 22 anni e sono chiaramente più matura dei miei coetanei.»
«No, non è questo che intend—»
«Sì invece, sei stato fin troppo chiaro. Ho bisogno di qualcuno di maturo al mio fianco. Qualcuno di intelligente, sincero, fedele, forte...»
L’atmosfera sembra essersi fatta improvvisamente più “calda”. Il viso di Sam si trova a soli pochi centimetri da quello di Ian, decisamente paonazzo in volto. La giovane Smith sussurra quella lunga serie di aggettivi con una voce incredibilmente sensuale, mentre con lo sguardo cerca le labbra di Ian, sempre più vicine alle sue. Ian, d’altro canto, cerca con tutto sé stesso di non cadere in tentazione.
«Un ragazzo come—»
«Liam!»
Urla il ragazzo letteralmente sulle labbra di Sam, interrompendo dopo meno di un secondo il contatto con quello di lei.
«Mio fratello? Ew.»
«No, Liam. Avevo promesso di accompagnarlo in un posto a.... Comprare una cosa. Dovrei andare a fare quella doccia, spero che tu capisca.»
Esclama il ragazzo avvicinandosi come una scheggia verso il bagno, cogliendo al volo l’occasione per darsela a gambe.
«Bella chiacchierata, eh! A dopo!»
Senza lasciare a Sammy il tempo di reagire, Ian richiude la porta del bagno alle spalle, sentendo improvvisamente l’esigenza di una doccia fredda.
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