#complessità dell’anima umana
Explore tagged Tumblr posts
pier-carlo-universe · 2 months ago
Text
"Il Passeggero" di Cormac McCarthy: Un Tuffo nelle Tenebre dell'Anima. Recensione di italianewsmedia.com
Un thriller filosofico che esplora i misteri dell’esistenza e le profondità dell’inconscio
Un thriller filosofico che esplora i misteri dell’esistenza e le profondità dell’inconscio. “Il Passeggero” è l’ultima opera del maestro americano Cormac McCarthy, autore di indimenticabili romanzi come “La strada” e “Non è un paese per vecchi”. Pubblicato da Einaudi il 2 maggio 2023, questo libro rappresenta un’ulteriore esplorazione dell’autore nelle profondità dell’animo umano, attraverso un…
0 notes
personal-reporter · 2 years ago
Text
Luoghi dell’Anima 2023 a Rimini
Tumblr media
Dal 10 al 17 giugno, Santarcangelo di Romagna, Rimini e Pennabilli ospiteranno la quarta edizione del Festival internazionale del cinema sui territori e la bellezza Luoghi dell'anima - Italian Film Festival, ideato in occasione del centenario della nascita del poeta, scrittore e sceneggiatore Tonino Guerra. Ideato da Andrea Guerra, per valorizzare le opere cinematografiche in cui l’ambientazione è protagonista, nell’osmosi tra territorio, memoria, immaginazione e racconto. Scopo del Festival è mettere in evidenza quella perfetta fusione di spirito e materia che i luoghi dell’anima rappresentano e che abita nella complessità e nella diversità delle storie del cinema, attraverso la sperimentazione di nuovi linguaggi e un lavoro di ricerca sui temi della resilienza ambientale e umana, contribuendo così alla riflessione sociale e antropologica, culturale e artistica.  Nel connubio tra Luoghi dell’anima e Musica, tra Cinema e Letteratura saranno presenti molti protagonisti della scena artistica non solo italiana, come Ferzan Ozpetek, Noemi, Pupi Avati, Luigi Lo Cascio, Riccardo Milani, Carmen Yanez Sepùlveda, Caterina Caselli, Noemi, Omar Pedrini, Tosca e Rossana Luttazzi. Saranno 5 titoli a contendersi i premi del Concorso per lungometraggi Opere Prime e Seconde, giudicati dalla Giuria presieduta dal giornalista e sceneggiatore Andrea Purgatori con le registe e sceneggiatrici Elisa Amoruso e Francesca Comencini, e sono rispettivamente Romantiche di Pilar Fogliati, Io vivo altrove di Giuseppe Battiston, Piano piano di Nicola Prosatore, Margini di Niccolò Falsetti, Settembre di Giulia Steigerwalt. Gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Urbino,  insieme ai membri di La valigia dell’attore, centro di cinema e teatro di Santarcangelo di Romagna e le spettatrici e gli spettatori che li visioneranno al Museo Il Mondo di Tonino Guerra, sceglieranno invece i vincitori del Concorso Cortometraggi guidati dal Presidente di giuria il professor Raffaele Milani. Oltre ai Lungometraggi e Corti in competizione, nel ricco cartellone figurano 6 Proiezioni Speciali e 4 film nella sezione internazionale, che sono Terra e polvere di Li Ruijun, Godland-Nella terra di Dio di Hlynur Palmason, La pantera delle nevi di  Marie Amiguet e Vincent Munier, Tempo di viaggio di Andrej Tarkovskij e Tonino Guerra. Momenti speciali sono previsti nelle serate all’Arena Sferisterio di Santarcangelo di Romagna all’insegna di proiezioni, interviste, premiazioni e concerti live e per il gran finale di sabato 17 giugno, dopo l’assegnazione dei riconoscimenti, salirà sul palcoscenico Tosca con la sua band. Uno sguardo ravvicinato è rivolto infine alla selezione Emilia Romagna dedicata al cinema del territorio finanziato dall’Emilia-Romagna Film Commission con  4 lungometraggi e 2 cortili, mentre gli appuntamenti pomeridiani che si terranno nel Cortile del Fellini Museum di Rimini ospiteranno gli autori di recenti monografie editoriali o discografiche. Read the full article
0 notes
latinabiz · 3 years ago
Text
La sesta edizione del Teatro Classico all'area archeologica Caposele di Formia
Tumblr media
Locandina L’amministrazione comunale di Formia, nonostante le difficoltà e complessità organizzative connesse alla nota emergenza Covid-19, ha ritenuto di non interrompere la tradizionale e tanto attesa manifestazione del prestigioso “Festival del Teatro Classico”, con la direzione artistica di Vincenzo Zingaro, confermando, quest’anno, la sua sesta Edizione, seppure in forma ridotta. Questa edizione, che si avvale della partecipazione di straordinari interpreti, vuole essere un segno di rinascita culturale e sociale per la città di Formia, affidandosi alla potenza espressiva delle grandi opere della classicità. Gli spettacoli prenderanno vita, come di consueto, nel meraviglioso scenario dell’area archeologica di Caposele. Il Festival, prodotto dal Comune di Formia, con la collaborazione della Compagnia teatrale “CASTALIA” di Roma è gemellato con il Teatro ARCOBALENO (Centro Stabile del Classico) e con il Festival di Segesta. Primo appuntamento sabato 24 luglio, alle ore 21,30, con AGAMENNONE + COEFORE di Eschilo, adattamento e regia di Cinzia Maccagnano. Le due tragedie fanno parte della trilogia ORESTEA. La prima narra l'omicidio di Agamennone ordito dalla moglie Clitennestra per vendicare il sacrificio della figlia Ifigenia, compiuto dal Agamennone per placare l'ostilità di Artemide e partire per Troia con i venti favorevoli; al ritorno dalla Guerra di Troia, Agamennone viene ucciso dal cugino Egisto, complice e amante di Clitennestra. La seconda narra come Oreste, figlio di Agamennone, tornato dieci anni dopo l'omicidio del padre, lo vendica, uccidendo Egisto e la propria madre Clitennestra. Tutto il racconto dell’AGAMENNONE si svolge come una grande rappresentazione, un rituale che riporta alla memoria i fatti da cui poi muoverà l’azione di Oreste. Nelle COEFORE il registro cambia, si fa più contemporaneo, finisce la rappresentazione, spariscono le maschere, e i giovani, Oreste, Elettra e Pilade, si mostrano così come sono. Anche il ritmo dello spettacolo cambia, precipitando nell’urgenza di liberarsi da un ordine Antico che non trova più riscontro nella Realtà. I giovani detronizzano, sovvertono, uccidono. Orfani di un senso della storia, si ritrovano smarriti in un mondo di cui non riconoscono più il senso del Passato e sperimentano l’incapacità della Ragione di farsi ancora guida sicura. In scena: Cinzia Maccagnano, Marta Cirello, Raffaele Gangale, Dario Garofalo, Luna Marongiu, Cristina Putignano. Maschere Luna Marongiu. Costumi Monica Mancini. Musiche Marco Schiavoni. Martedì 27 luglio, alle ore 21,30 va in scena ÈPOS da ILIADE, ODISSEA, ENEIDE di Omero e Virgilio, diretto ed interpretato da Vincenzo Zingaro, con le musiche di Giovanni Zappalorto. Dopo lo straordinario successo ottenuto a Roma, presso i FORI IMPERIALI, Vincenzo Zingaro riporta in scena un suo cavallo di battaglia, conducendo il pubblico in un viaggio nell’appassionante mondo dell’EPICA,la più antica e affascinante forma di narrazione della storia dell’uomo. L’Europa, nel cercare le proprie radici culturali, non può esimersi dal riconoscere il patrimonio tramandato dall’eredità classica. I poemi epici rappresentano dei capisaldi a cui attingere valori assoluti, sia per forma che per contenuti. Lo spettatore sarà condotto in un cammino attraverso le gesta immaginarie di celebri eroi che hanno animato da sempre la fantasia di tutti: Ettore, Achille, Ulisse, Enea, uomini in bilico fra ideale e reale, fra sentimento e ragione, fra bene e male, che incarnano aspetti universali delle nostre esistenze, passioni e tormenti che ognuno di noi non può che riconoscere come propri. Uno spettacolo in cui parola e musica si fondono senza soluzione di continuità, dando vita a un grande viaggio dell’anima. In Scena: Vincenzo Zingaro, Annalisa Amodio, Sina Sebastiani, Filippo Velardi. E con: Giovanni Zappalorto (tastiere); Debora Guerrini (tastiere); Francesca Salandri (flauti); Rodolfo Demontis (percussioni). Chiude il Festival, domenica 1 agosto, alle ore 21,30, in Prima Nazionale, lo spettacolo TIESTE di Seneca, adattamento e regia di Giuseppe Argirò, che vede in scena Giuseppe Pambieri e Paolo Graziosi, una straordinaria e inedita coppia di attori, depositari di una prestigiosa tradizione teatrale. E’ l’occasione per assistere ad una tragedia raramente rappresentata, alla quale, per le tue tinte fosche, si ispirò Shakespeare nel Titus Andronicus e nell’Amleto. La tragedia affronta il tema della vendetta e dell’inganno, rappresentando un connubio perfetto tra il potere e il male. La vicenda ruota attorno alla vendetta di Atreo nei confronti del fratello Tieste che, tempo prima, ha cercato con l’inganno di sottrargli il regno e di sedurre la moglie. Il legittimo re riuscirà a sventare le macchinazioni del fratello e a salvaguardare il trono, ma non dimenticherà il tradimento: fingendo una riconciliazione, inviterà Tieste a Palazzo e dopo averne ucciso i figli offrirà al padre un empio banchetto. L’opera di Seneca, l’unica a non avere un modello greco corrispondente, è una tragedia senza catarsi e non offre alcuna redenzione ai personaggi che perdono ogni umanità dimostrando che la violenza e il disprezzo per la vicenda umana è un prodotto culturale determinato dal potere e dalla storia, che si ripete in modo inesorabile, non risparmiando nessuno. In scena: Giuseppe Pambieri, Paolo Graziosi, Sergio Basile, Elisabetta Arosio, Roberto Baldassari, Vinicio Argiro’ Read the full article
0 notes
zohner · 5 years ago
Text
Cosa ti muove? Il cervello umano.
Prima puntata della terza stagione LA CREAZIONE DEL MONDO | Io. La generazione dell'anima umana.
Che cosa bisogna fare per pensare? Questa è la prima domanda che dà inizio alla terza serie “La creazione del mondo - Io. La generazione dell’anima umana”. Il primo a rispondere alle cervellotiche domande di Markus per Radio Petruska è il Prof. Kaelin, che senza esitazione risponde: “Serve il cervello!", che sebbene sia piccolo (il suo peso è di 1,5Kg), è l'organo più complesso di tutti. Basti pensare alla Via Lattea. Nella nostra galassia ci sono 200 miliardi di stelle e nel nostro cervello ci sono 100 miliardi di neuroni”. Quindi, il numero di neuroni in due cervelli equivale alla quantità di stelle in una galassia.
Questa complessità inizia da una cellula fecondata. Nello stadio embrionale si sviluppa gran parte del cervello. Come spiega il Prof. Kaelin, lo sviluppo del cervello si potrebbe paragonare ad un blocco di pietra che nel tempo viene scolpito per crearne una statua. Gran parte della lavorazione avviene nell’embrione e fino ai 5/6 anni. Dopo la nascita continua la perdita di trucioli che permettono alla statua - cervello - di poter prendere la propria struttura.
Da qui prosegue il viaggio all’interno del cervello, partendo dai neuroni, passando per le sue diverse zone, scoprendone la plasticità e svelando la misurazione della sua attività. Parlare di cervello non è affatto semplice, anzi, è tanto complesso quanto lo è il cervello stesso. Ma grazie alla bravura di Markus e del suo ospite Prof. Kaelin, in questo podcast ti potrai avvicinare a questo organo, guidato da un uomo la cui curiosità per il cervello lo ha mosso dalla Svizzera fino al Maryland (USA), per poi tornare a Lugano.
E la prossima volta che, seduto ad un tavolo con una brocca d’acqua e un bicchiere vuoto davanti a te deciderai di versarti l’acqua, prendere il bicchiere e bere, ti renderai conto che a muoverci ci sono tanti neuroni come la metà delle stelle di una galassia.
  Sei seduto a un tavolo. Una brocca di acqua e un bicchiere vuoto davanti a te. Ti versi l’acqua. Prendi il bicchiere, bevi, senti l’acqua fresca scendere. Appoggi il bicchiere. Ti alzi, cammini verso la porta. Apri la porta, esci, la chiudi dietro di te, la chiudi a chiave, e scendi le scale. Chi sei? Chi è questa persona? Come fa quel corpo di ossa, muscoli, pelle e liquidi ad essere mosso, a muoversi? Come funziona il coordinamento tra visione, percezione, tatto con la contrazione di muscoli, per creare azione e movimento nello spazio, per afferrare e spostarsi? Come fa il cervello, da migliaia di impulsi, coordinando e controllando migliaia di muscoli in un equilibrio labile, a creare un’azione concreta, che la fa sembrare conscia?
Ascolta la nuova puntata!
0 notes
radiopetruska · 5 years ago
Text
Cosa ti muove? Il cervello umano.
Prima puntata della terza stagione LA CREAZIONE DEL MONDO | Io. La generazione dell'anima umana.
Che cosa bisogna fare per pensare? Questa è la prima domanda che dà inizio alla terza serie “La creazione del mondo - Io. La generazione dell’anima umana”. Il primo a rispondere alle cervellotiche domande di Markus per Radio Petruska è il Prof. Kaelin, che senza esitazione risponde: “Serve il cervello!", che sebbene sia piccolo (il suo peso è di 1,5Kg), è l'organo più complesso di tutti. Basti pensare alla Via Lattea. Nella nostra galassia ci sono 200 miliardi di stelle e nel nostro cervello ci sono 100 miliardi di neuroni”. Quindi, il numero di neuroni in due cervelli equivale alla quantità di stelle in una galassia.
Questa complessità inizia da una cellula fecondata. Nello stadio embrionale si sviluppa gran parte del cervello. Come spiega il Prof. Kaelin, lo sviluppo del cervello si potrebbe paragonare ad un blocco di pietra che nel tempo viene scolpito per crearne una statua. Gran parte della lavorazione avviene nell’embrione e fino ai 5/6 anni. Dopo la nascita continua la perdita di trucioli che permettono alla statua - cervello - di poter prendere la propria struttura.
Da qui prosegue il viaggio all’interno del cervello, partendo dai neuroni, passando per le sue diverse zone, scoprendone la plasticità e svelando la misurazione della sua attività. Parlare di cervello non è affatto semplice, anzi, è tanto complesso quanto lo è il cervello stesso. Ma grazie alla bravura di Markus e del suo ospite Prof. Kaelin, in questo podcast ti potrai avvicinare a questo organo, guidato da un uomo la cui curiosità per il cervello lo ha mosso dalla Svizzera fino al Maryland (USA), per poi tornare a Lugano.
E la prossima volta che, seduto ad un tavolo con una brocca d’acqua e un bicchiere vuoto davanti a te deciderai di versarti l’acqua, prendere il bicchiere e bere, ti renderai conto che a muoverci ci sono tanti neuroni come la metà delle stelle di una galassia.
  Sei seduto a un tavolo. Una brocca di acqua e un bicchiere vuoto davanti a te. Ti versi l’acqua. Prendi il bicchiere, bevi, senti l’acqua fresca scendere. Appoggi il bicchiere. Ti alzi, cammini verso la porta. Apri la porta, esci, la chiudi dietro di te, la chiudi a chiave, e scendi le scale. Chi sei? Chi è questa persona? Come fa quel corpo di ossa, muscoli, pelle e liquidi ad essere mosso, a muoversi? Come funziona il coordinamento tra visione, percezione, tatto con la contrazione di muscoli, per creare azione e movimento nello spazio, per afferrare e spostarsi? Come fa il cervello, da migliaia di impulsi, coordinando e controllando migliaia di muscoli in un equilibrio labile, a creare un’azione concreta, che la fa sembrare conscia?
Ascolta il nuovo episodio!
0 notes
pangeanews · 6 years ago
Text
Compie 40 anni (e torna in sala) “Apocalypse Now”, il più bel film (grazie a Joseph Conrad e a Mistah Kurtz)
Apocalypse Now è uscito 40 anni fa, nel 1979, e ha avuto due riscritture: una ‘Redux’ del 2001, l’altra, ‘Final Cut’ è stata presentata a Bologna, sarà in sala in autunno. I vecchi dicono che non si fanno più film belli come quelli, i cinici che si pagherà per vedere sempre lo stesso film – per ciò che mi riguarda, ho preso da anni a rileggere gli stessi libri. Un film ha avuto tre scritture: vuol dire che ha la stessa complessità di un romanzo. In effetti, Apocalypse Now deve la sua corrusca grandezza a un romanzo, Cuore di tenebra.
*
Cuore di tenebra compie 120 anni, esce per la prima volta sul ‘Blackwood’s Magazine’ nel febbraio del 1899, ed è, a cavallo del secolo, la rivoluzione secolare, la teoria della relatività in letteratura, il romanzo come matrioska di finzioni – mentre il Tamigi s’inabissa nelle mie intimità vi racconto ciò che mi raccontò un giorno un tipo di nome Marlow – la scrittura come regesto dello sfiato onirico, gioco d’equilibrio a lame tra il ‘selvaggio’ e l’ordinario, tra desiderio e atto, indicibile e indecente. “Heart of Darkness è il migliore romanzo breve ch’io conosca e a mio parere l’pera di Conrad più bella e densa. Il racconto è emozionante e profondo, lucido e disorientante… Conrad prefigura i metodi di Kafka e di Beckett”, scrive Cedric Watts.
*
Il primo fu Orson Welles. E, lo ammetto, ancora non dormo sonni sereni pensando alla faccia dell’infernale Quinlan sovrapposta a quella di Kurtz, la più ambigua delle creazioni di Joseph Conrad, qualcosa tra Iago e Stavrogin, tra Achab e il Satana di Milton, «allo stesso tempo Faust e Belzebù e anche Lucifero» (Mario Curreli), non fosse che il gran satanasso non spiccica parola nel libro mastro di mastro Giuseppe e appaia più nella calzamaglia di Adamo appena spodestato dal trono – con spinone della colpa in petto – che scanzonato cobra seduttore di anime belle.
*
Sia chiaro, dal 1979 siamo pacificati: per noi Kurtz non potrebbe avere altro corpaccione che quello di Marlon Brando in Apocalypse Now, immenso, immane, mefistofelico – lui sì, davvero – mentre si deterge il capo, cioè riemerge arcaico da un blasfemo battesimo, e dice a Willard/Martin Sheen – che poi è il miracoloso Marlow di Conrad –, «Ha mai preso in considerazione le vere libertà? Libertà dalle opinioni altrui. Addirittura dalle proprie». Il genio fu, ripeto, l’innesto del romanzo di Conrad sulla quinta vietnamita di Coppola, far sbarcare il Congo/Inferno nel tempio di Angkor Wat. Basato su un testo di Michael Herr, l’autore di Dispacci, fu John Milius a intersecare frammenti di Conrad nel film – così, una pellicola di guerra, allucinata e corrusca, diventa un’opera epica. Nel 2006 le edizioni Alet hanno pubblicato la sceneggiatura originale di Coppola+Milus, Apocalypse Now Redux. Eppure, il Kurtz di Coppola non è quello di Conrad.
*
Con buona pace di Brando, che pure resta l’unico, immortale Kurtz, il demone di Conrad è altissimo e magrissimo, il suo carisma risiede tutto in una presunta capacità oratoria da tenebroso Crisostomo, ma per l’intero periplo del libro non dice nulla. Anzi, potremo pensare che la grandezza di mastro Joseph sia proprio quella di preparare l’evento che non accade. La sua, insomma, è l’arte del levare, del sottrarre, e dunque l’arte dell’enigma. Eppure Cuore di tenebra ci dice tutto ciò che ci occorre sapere di Kurtz: che è la quintessenza dell’uomo occidentale, sommo mirmidone dell’Europa che bracca colonie; umanista e utopista; uomo di lettere, ma anche di musica; sorta di «genio universale». Ci è fornito ogni indizio disponibile, benché in atmosfera nebbiosa, ondivaga, onirica («Mi sembra di cercare di raccontarvi un sogno», dice Marlow al suo uditorio in una frase centrale).
*
Mario Curreli è tra i grandi studiosi di Conrad – ha curato il doppio volume delle opere per Bompiani – ma io resto legato alla versione di Ugo Mursia, devoto conradologo, del 1978, che si intitolava Cuore di tenebre. E mi piace quanto scrive Glauco Cambon: “Per Conrad l’angelo da sconfiggere era anche il demonio… Le avventure di Conrad risalgono un Congo tenebroso che è il tracciato della storia e dell’anima umana, fino alle sue origini intemporali, fino alla purezza di un terrore assoluto attinto, sfiorato e abbandonato”.
*
Certo, il colpo di genio di Coppola è il finale, il colpo di machete con cui Marlow ammazza Kurtz, mentre si va scannando, ritualmente, il bue. Il finale ipotizzato da Conrad è più raffinato, Marlow lo narra “nella posa di un Budda meditabondo”. Kurtz muore seppellendo il suo segreto – l’uomo che ha scelto di sterminare le proprie convinzioni, dandosi in pasto al selvaggio. Marlow va dalla donna di Kurtz, che lo attende da anni, dopo averne spiato il ritratto – “mi dava l’impressione che fosse bella” – roso dalla curiosità. “Venne avanti, tutta vestita di nero, con una faccia pallida, fluttuando verso di me nel crepuscolo”. Mentre “le tenebre si infittivano”, la donna, di caustica bellezza, dice “era impossibile conoscerlo e non ammirarlo, no?”, e poi scatta, “nessuno lo conosceva meglio di me!”. Mentre la donna, fieramente, implora Marlow – “io l’amavo, l’amavo, l’amavo”, come se amare fosse uccidere – chiedendogli di rivelarle “l’ultima sua parola”, albeggia la bugia, “L’ultima parola che pronunciò fu – il vostro nome”. Lei sospira, si fa di gioia, muta la morte in carisma, “Lo sapevo – ne ero sicura”. Come se orrore e amare fossero la stessa cosa, diremmo, questa è la quota di mistica che ci concediamo.
*
John Malkovich è John Malkovich, che ovvietà, ma nel film di Nicolas Roeg, Heart of Darkness (1994), barbaricamente didascalico – Marlow è interpretato da un credibile Tim Roth – è un Kurtz maniaco a malaticcio, appena reduce da Il tè nel deserto.
*
Ogni singola frase è un gradino che ci conduce a Kurtz, che prelude all’incontro. Ma Kurtz non parlerà, se non pronunciando la parola ambigua e celeberrima, eraclitea, «The horror! The horror!», dietro cui ogni soluzione e nessuna è possibile. Siamo condotti come dentro un imbuto infernale per scontrarci contro quella orrenda risposta. Che riguarda Kurtz o ogni essere eretto? Che è l’assioma che sigilla la nostra esistenza terrena? Ciascuno faccia la propria partita a dadi e giunga a patti con sé e con Kurtz; Conrad, per ciò che gli riguarda, come ogni gigante, ci pone sul ciglio dell’abisso, non costruisce il ponticello per passare dall’altra parte – se poi esiste un’altra parte.
*
Il potere è uccidere se stessi e poetare sul proprio cadavere, danzando con corpo muto e mutevole sguardo, pronti al commercio come al bosco che cresce sulla schiena.
*
Il Kurtz di Conrad parla, o meglio, farnetica, ma non come quello di Coppola. Il quale si prende la briga di leggere Thomas S. Eliot nel momento cruciale del film, e di tenersi sul comodino, oltre a una copia della Bibbia, il libro di Jessie L. Weston, From Ritual to Romance, e quello di James G. Frazer, The Golden Bough, i due libri che, a detta di Eliot, stanno a fondamento della Waste Land. Che poi Eliot amasse mentire come pochi e sviare l’attenzione dei critici occhialuti è un fatto, come è papale l’operazione filologica di Coppola. Che c’entra Eliot con Conrad, a parte il fatto che entrambi sono stranieri – uno è americano, l’altro polacco – catapultati in Inghilterra, e che entrambi hanno cambiato per sempre la storia della letteratura occidentale? Chiamiamola affinità elettiva e riavvolgiamo il nastro.
*
La poesia declamata a sorseggi, come un sermone biblico («Siamo gli uomini vuoti, Siamo gli uomini impagliati/… Figura senza forma, ombra senza colore,/ Forma paralizzata, gesto privo di moto»),  da Brando/Kurtz è The Hollow Man di Eliot, che porta in esergo una frase da Cuore di tenebra (“Mistah Kurtz – he dead”) e ambisce a essere la “scatola nera” di quel romanzo breve, il discorso che Kurtz non ha mai pronunciato. Ma cosa c’entra, pigiamo ancora, la Waste Land? C’entra, perché Eliot avrebbe desiderato posizionare lì, all’ingresso della sua opera più nota, la frase di Conrad, degno ringraziamento al maestro. Fu Pound a sconsigliarglielo (in una lettera del 24 dicembre 1921 gli scrisse netto: «I doubt if Conrad is weighty enough to stand the citation»), Eliot chinò il capo e si rivolse a Petronio. Thomas il grande, però, aveva capito qualcosa che a Ezra sfuggiva, cioè che Cuore di tenebra è la riscrittura del libro XI dell’Odissea e assieme del libro VI dell’Eneide, che è una catabasi nelle viscere dell’animo umano, e che il fiume Congo è una specie di Flegetonte, e che Marlow è un pellegrino dantesco privo di Virgilio e di Beatrice – e che per questo, fisicamente e spiritualmente, si smarrisce – e che Conrad è un antico greco perché sa che il nostro destino è irrisolvibile e immodificabile, ma pure un severo pastore perché sa che c’è un’inestirpabile colpa a minarci il cardio.
*
«Certi brani mi hanno sorpreso. Non sapevo di avere “un cuore di tenebre” e un’anima di “fuorilegge”. L’aveva il signor Kurtz, e io non l’ho trattato con la tranquilla indolenza di un dilettante. Credetemi, nessuno ha mai pagato più caro di me le righe che ho scritto», scrive Conrad all’amico Arthur Symons nell’agosto 1908. Come ogni genio anch’egli “paga” di persona ciò che ha scritto, ne è martoriato, ferito, zappato. Ma c’è di più. Quella scrittura, terminata nel 1899 e durata tre mesi febbrili, ha qualcosa di straordinario anche per Conrad. Egli è letteralmente sopraffatto da quel libro, come noi dopo ogni lettura, come Coppola dopo averlo letto (per comprenderne il rivissuto delirio durante la lavorazione del film si legga il libro della moglie, Eleanor Coppola, Diario dall’Apocalisse. Dietro le quinte del capolavoro di Francis Ford Coppola, minimum fax, Roma 2006, e il “dietro le quinte” documentato da Fax Bahr e George Hickenlooper in Hearts of Darkness: A Filmaker’s Apocalypse, 1992).
*
Andiamo per gradi. L’editio princeps del testo fu pubblicata il 13 novembre 1902 in Inghilterra dalla Blackwood, nella raccolta Youth: A Narrative, and Two Other Stories. I tre racconti lunghi, procedimento che terrà a mente James Joyce, narrano la vicenda più o meno disperata – ogni romanzo di Conrad è il sunto di un’esperienza “limite” – di un uomo nei diversi stadi della sua esistenza. Youth, manco a dirlo, è la gioventù, Heart of Darkness l’età di mezzo, nel mezzo del cammino – di istigazione dantesca –, The End of Tether, il testo meno risolto, l’età ultima, la vecchiaia. In questi racconti c’è Conrad per intero. Il primo è quello più celebre, è il Conrad di The Nigger of the “Narcissus” e di The Shadow Line; l’ultimo, più lieve e più spudoratamente letterario, quello che compete con la scrittura leggiadra dell’amico Henry James, è il Conrad “laterale” di Chance e degli ultimi romanzi. E poi c’è il bubbone, il grumo di Cuore di tenebra. Che aleggia come un solido spettro nei libri maggiori, in Lord Jim e in Nostromo, in Typhoon come in Victory, in cui la figura del “reietto” – che cospicua differenza con l’“inetto” novecentesco! – viene sbozzata, ma è anche qualcos’altro, qualcosa di distinguibile e perentorio, qualcosa di non più replicabile. E che sta lì, come un’incisione e un suggello sullo stipite del “modernismo”. Esso, con quella scrittura tumorale e torta, è il prototipo di ogni “romanzo limite”, azzardato e infernale. Senza di esso William Faulkner e Malcolm Lowry sarebbero qualcosa d’altro, così come l’Hemingway maggiore – quello eterno di The Snows of Kilimanjaro, ad esempio – e Cormac McCarthy. «Qualcosa di umano è più caro per me che tutta la ricchezza del mondo», è l’inciso, ricavato dai Grimm, con cui Conrad marchia la raccolta Youth. È bene leggervi l’indizio di una poetica. Assieme alla frase che Marlow ricama attorno a Kurtz, ma che vale per ogni uomo e per ogni creazione umana di Conrad, sorta di Euripide biblico, «La sua era una tenebra impenetrabile». Tutto qui, cosa «genuina, completa, cristallina, pura», come direbbe Brando/Kurtz. (Davide Brullo)
L'articolo Compie 40 anni (e torna in sala) “Apocalypse Now”, il più bel film (grazie a Joseph Conrad e a Mistah Kurtz) proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2FIMooG
0 notes
purpleavenuecupcake · 6 years ago
Text
L’arte della cura tra il curare e il prendersi cura attraversando le “terze terre”: terre della creatività e dei valori umanitari
valori umanitari (di Santa Fizzarotti Selvaggi) I processi evolutivi che vanno dal “non-integrato” all’“integrato” sono graduali e complessi, così come sono i processi dell’evoluzione della società.
Tumblr media
D’altra parte questi sono intimamente legati all’Ambiente facilitante e/o interferente, molte volte carente e mancante. Attualmente i processi verso la disintegrazione, come i passaggi verso la regressione, avvengono facilmente, malgrado il terrore della disintegrazione e del caos che tutti conosciamo. Il trauma psichico per esempio rappresenta una ferita per la mente: qualcosa di esterno la invade e ne viola i confini, causando spesso uno stato di estrema sofferenza. A tal uopo si consideri che il trauma, quale rottura dell’esperienza quotidiana e della memoria, rappresenta il dramma dei profughi e degli immigrati, dei bambini usati e abusati, di tutti coloro che esperiscono una qualsivoglia violenza. Si tratta di una ferita che riapre altre piaghe, talvolta invisibili cicatrici che lasciano emergere il rimosso non rappresentabile dalla nostra mente che invece ha bisogno di controllare eventi e fatti all’interno dell’universo simbolico umano. Vi sono anche traumi irrisolvibili! E non si dimentichi che ciascun essere umano ha una sensibilità diversa. Uno degli obiettivi dell’Associazione Crocerossine d’Italia –Onlus, che si ispira alle terre del valori umanitari, in cui la generosità si fa generatività e dunque creatività al servizio di una nuova coscienza, è anche quello di tentare di ricomporre gli affetti, aiutare l’Altro nell’elaborazione delle perdite e dei lutti, sostenere l’infanzia, facilitare il discorso inter e transgenerazionale in cui il fenomeno del cosiddetto “ ageismo” (discriminazione verso una persona di età più avanzata) venga vanificato. E al femminile genitoriale, che comunque dimora in ciascun essere umano, più che mai forse oggi spetta il compito di facilitare l’esperienza solidaristica attraverso modelli di ricomposizione dei frammenti: si tratta di ritrovare il mosaico della propria Identità e di salvaguardare quei principi umanitari che appartengono alla storia dell’umanità intera e non solo a singole associazioni. Ricordo innanzitutto a me stessa e poi al lettore che l’incoerenza dei nostri comportamenti (senza per altro arroccarsi difensivamente su posizioni estreme che potrebbero significare altro, finanche la non accettazione di sé, delle proprie umane debolezze…)  invece è una violenza che infliggiamo agli altri. Ma il lavoro dell’Associazione tende proprio a ritrovare la coerenza che spesso manca tra il dire e il fare… L’inevitabile sofferenza dell’esistere in quanto tale a volte non trova parole che possano consentire la condivisione dell’infelicità: il dolore, infatti, può essere contenuto in maggior misura non solo da un “holding” adeguato ma da quegli strumenti che compongono la grammatica della creatività. Gli strumenti della creatività sono fondamentali per creare i luoghi umanitari, fertile “humus” di attraversamento transculturale e transgenerazionale : mi riferisco ai laboratori e ateliers creativi in cui attraverso la conoscenza reciproca (connaissance) si nasce insieme all’altro in un processo creativo, in un intreccio in cui l’uomo si ritrova ad essere parte dell’altro. Non si confonda dunque la dinamicità della esperienza condivisa con l’assunto fortemente intellettualistico di qualche operatore culturale o circolo o associazione quando questi invocano arte e cultura tout court perché inevitabilmente si rischia di porsi già su un piano di presunta superiorità' nei confronti dell’Altro. Non amo mai ripetere quanto già scritto ma mi rendo conto che spesso necessita la ripetizione di concetti e riflessioni invitando anche coloro che sono motivati a formarsi adeguatamente e a studiare sì da non nuocere ed evitare ulteriori danni. I geni ci rendono uguali se pur nelle infinite ricombinazioni, l’ambiente ci differenzia, gli strumenti della creatività ci fanno evolvere insieme all’Altro nella condivisione di esperienze e affetti. Ci permettono di conoscere sé e l’Altro. Nel villaggio globale assistiamo alla disintegrazione e all’azzeramento della creatività, che è invece uno straordinario strumento di integrazione e trasformazione che può avvalersi dell’azione di coloro che con un atto libero di volontà assolutamente gratuito sentono di porre in atto una maternità sociale consapevole che dalle ferite dell’anima può nascere un Uomo Nuovo. Si tratta, in realtà, dell’Arte della cura, che dovrebbe appartenere a tutti. Un prendersi cura consapevole e amorevole ( come da radice sanscrita del termine) poiché dobbiamo sapere che a volte anche quando si cura si può, se pur involontariamente, danneggiare. Non si sentano narcisisticamente feriti i volontari che si dedicano alla cura degli altri perché essere consapevoli dei propri limiti fa bene a se stessi e a coloro che a noi si affidano. Ed è nella dimensione dell’Arte della cura che si struttura una sorta di Triangolo Umanitario: la Persona, la Volontaria, l’Ambiente - Quadro Sociale. J. Poullion già nel 1970 aveva rilevato la pregnanza del quadro sociale all’interno delle relazioni umane. Spesso si è “costretti” ad incontrare problemi psicologici di coloro che a noi si rivolgono: ansia, desideri, aspettative, illusioni e delusioni, emozioni e sentimenti. In molti momenti non c’è bisogno se non di un riconoscimento dell’Altro. Così l’unico rimedio opportuno ed appropriato è quello di saper offrire aiuto e sostegno a problemi emotivi, così come si presentano. Fondamentale è la capacità di preoccuparsi dei processi di cambiamento della società di appartenenza. La sostanza dell’identità volontaristica delle associazioni in genere viene direttamente dal rapporto con la persona, con il suo corpo reale, sofferente ma vivo, fisicamente ed emozionalmente presente, e dalla capacità di affrontare a giusta distanza livelli diversi di complessità umana senza colludere. L’atto volontaristico si fonda sulla consapevole preoccupazione per la Persona che percepisce se il “prendersi cura” è il risultato del dono responsabile che il volontario fa di sé. L’“Arte della cura”, quale tecnica di accudimento materno, appartiene a tutti da sempre. Trattare con l’Altro significa incontrare la Persona nelle sue più profonde ferite, traumi e angosce, nella sua solitudine. Persone che fanno parte di un Ambiente sempre variabile: dal loro caleidoscopico insieme nasce una sorta di mosaico di luce che dà forma alle cose del mondo. Una luce che si incarna nell’“intelligere” proprio dell’essere umano, la cui Identità si struttura sulla Solidarietà, sul non lasciar mai solo l’Altro nel deserto dei sentimenti: la “solitudine fondamentale” (cfr. D. W. Winnicott), che dissolve il mondo intorno a noi e ci fa sentire come bambini inermi dopo la dipartita delle persone care. Coloro che credono davvero nell’atto volontaristico e solidaristico hanno il compito di illuminare le forze inconsce che sottendono la Storia dell’Uomo per facilitare lo sviluppo della Coscienza. È fondamentale, dunque, ricostruire un ponte fra gli eventi della storia e l’humanitas: il terreno fecondo dell’incontro, fra esseri umani, fra un Io e un Tu. La solidarietà, infatti, si nutre di humanitas, dell’humus materno, vale a dire della condivisione, di un fare efficace, del formare, del creare e nascere insieme all’Altro: una “poiesis” tramite le “terze terre” “terre della creatività condivisa” che genera la luce del mondo all’interno della quale ognuno cerca se stesso. Tutto ciò ci permette di andare oltre ed esperire un suggestivo viaggio conoscitivo in grado di percepire l’uomo come un insieme di segni, metafore, simboli e relazioni. Oggi, in un contesto che tende alla deprivazione della capacità di pensare autonomamente, l’uomo si trova ad affrontare il viaggio più difficile la cui meta è la capacità di sentirsi unici e creativi, diverso tra simili. Il processo di omologazione e conseguente vanificazione del pensiero plurale purtroppo necessita di conquistare nuovi terreni e pertanto cinicamente esige, purtroppo, violenza e sangue umano, come osserviamo in molti Paesi del mondo. Oggi, con l’ausilio dei media e del mondo virtuale, si confonde più facilmente l’essere col potere, il soggetto con l’oggetto per cui si congelano difensivamente emozione e sentimento deprivando se stessi della capacità di sentire e di pensare creativamente il mondo. Nella parola “umanità” si cela la storia dell’uomo, la sua natura e le chiavi interpretative e simboliche del mondo. E se la biologia è «un destino», l’esperienza «simbolica dell’umanità» ci consente di accedere ai territori dell’immaginazione e della creatività, del «portare ad esistere» parti di noi (cfr. D. W. Winnicott) in dialogo con la realtà interna ed esterna, Ed è così che dalla sofferenza può nascere la gioia nella certezza che qualcosa cambierà. Vale a dire che il domani non sarà pensato come futurum, cioè come un divenire programmato del presente , come continuità secondo la cosiddetta ragione, ma come adventus … Un’epoca di avvento: l’accadere trasformativo totalmente innovativo. Read the full article
0 notes
persinsala · 7 years ago
Text
Dopo averne ammirato sul palco del Teatro Vascello per Teatri di Vetro i quadri Contemplazione e Il Dono, scopriamo a Santarcangelo Festival l’esito finale del progetto Prometeo firmato da Simona Bertozzi e Nexus, And it burns, burns, burns.
Quello di Prometeo può essere considerato l’antecendente, nonché speculare, versione pagana del mito cristiano del peccato originale, l’analogo racconto di come l’essere umano si fece autocoscienza con l’affermazione del valore della conoscenza.
La téchne, cessando di essere un privilegio divino, divenne patrimonio esclusivo dell’homo sapiens e caratterizzò il dominio razionale sul mondo naturale nel senso del possesso materiale, mentre la primordiale sfida all’autorità e la conseguente punizione coincisero col sorgere nella coscienza di quella distinzione tra bene e male, che l’azione millenaria della Gente del Libro lasciò degenerare nella percezione di una connaturata imperfezione e di un perenne stato di senso di colpa che ogni individuo avrebbe dovuto espiare.
Conseguenza di quel primo atto culturale – che, come fil rouge, lega in un ossimoro la cognizione di Prometeo all’ingenuità di Adamo ed Eva – fu dunque una drammatica consapevolezza: a ogni tentativo di ribellione sarebbe seguita una reazione uguale e contraria da parte di chi avrebbe dovuto proteggere tale supremazia, ieri gli dèi o Dio, oggi le élite e un biopotere impersonale, diffuso e incontestabile.
La mitologia di Prometeo è, allora, una narrazione ben più problematica di quanto possa apparire rispetto alla vulgata che interpreta unilateralmente il Titano – colui che, insegnando agli uomini la tecnica, li rese «da infanti quali erano, razionali e padroni della loro mente» (Prometeo incatenato, Eschilo) – nelle vesti di un rivoluzionario ante litteram.
Nonostante l’arte del corpo sia probabilmente più appropriata di quella del testo, perché supera le problematiche relative al tradimento linguistico affidandosi a una grammatica di gesti e fisicità, tradurre in danza la complessità di un mito fondativo dell’Occidente non è facile, ma Simona Bertozzi in And it burns, burns, burns mantiene splendidamente le originarie intenzioni libertarie di «Prometeo, il dio crocifisso per aver amato troppo gli uomini» (Simone Weil), coreografando un’autentica tragedia sulla quale sarà impossibile meditare senza avvertire di quella disobbedienza tanto un’aura di cupo timor dei quanto la controversa affermazione di un atto di forza necessario per un «uomo che non ha in sé alcuna responsabilità, dato che all’origine dell’errore e del peccato è il suo creatore», «perché, quando ingiuriamo il cielo, lo facciamo in virtù del diritto di colui che porta sulle spalle il fardello di un altro» (Lacrime e santi, Emil Cioran).
E, allora, sofferenza e solitudine, solennità e vitalismo si disvelano nella strenua ricerca di equilibrio di Anna Bottazzi, Arianna Ganassi, Giulio Petrucci, Aristide Rontini e Stefania Tansini, e nel moto perenne che attraversa quadri densi di variazioni sul tema della completezza della circolarità di And it burns, burns, burns, con Prometeo che asseconda il proprio travaglio facendosi uno e trino nell’intreccio narrativo, mentre una tensione vibrante e mai completamente pacificata diventa, infine, speranza e possibile apertura affinché il destino della tecnica non sia necessiariamente quello consegnare alle future generazioni un mondo in macerie.
Simona Bertozzi costruisce il lavoro coreografico senza ingabbiarlo, rendendo continuamente sfuggenti «le traiettorie su cui si innesterà l’intero percorso, scandendo le tappe di un possibile dialogo tra età, intenti e proiezioni», ed esalta la qualità dell’ensemble grazie alla presenza di danzatori adolescenti dalla sconcertante personalità scenica e senza dover ricorrere a strumentali sporcature nella precisione del gesto, ma conservando la dolcezza dei sollevamenti e la bellezza delle figure.
In questo And it burns, burns, burns, il fuoco – che accompagna l’articolato sorgere dell’anima umana – e il convincente impianto musicale di Francesco Giomi contribuiscono a comporre con omogeneità i vari quadri, a tradurre la danza in un’idea chiara e coerente in grado di legare intenzione ed esecuzione artistica.
Senza forzare la ricerca in una sterile originalità, l’esito cui Simona Bertozzi giunge è allora superbo con il segno plastico disegnato nello spazio capace di restituire senso figurativo al vuoto, donare alla forma la sostanza del concetto e sublimare il mito a materia di cui è fatta la realtà.
Un risultato espressivo coinvolgente e fisicamente intenso, preciso e poetico senza inutili virtuosismi per rappresentare un genere umano, il cui «orizzonte resta sospeso tra possibilità di caduta o elevazione» (ndr), e che «ha gioito troppo poco: solo questo, fratelli, è il nostro peccato originale» (Così parlò Zarathustra, Friedrich Nietzsche).
#gallery-0-3 { margin: auto; } #gallery-0-3 .gallery-item { float: left; margin-top: 10px; text-align: center; width: 20%; } #gallery-0-3 img { border: 2px solid #cfcfcf; } #gallery-0-3 .gallery-caption { margin-left: 0; } /* see gallery_shortcode() in wp-includes/media.php */
La coreografia è andata in scena all’interno di Santarcangelo Festival ITC Molari via Felice Orsini 19, Santarcangelo di Romagna (RN)
And it burns, burns, burns progetto Simona Bertozzi, Marcello Briguglio ideazione e coreografia Simona Bertozzi interpreti Anna Bottazzi, Arianna Ganassi, Giulio Petrucci, Aristide Rontini, Stefania Tansini musica Francesco Giomi luci Simone Fini costumi Cristiana Suriani organizzazione Beatrice Capitani produzione Nexus 2016 con il contributo di Mibact e Regione Emilia Romagna-Fondo di Sostegno alla produzione e distribuzione della Danza d’Autore Regione Emilia-Romagna 2015/2016 con il sostegno di Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto Centro di Produzione in collaborazione con ATER Circuito Multidisciplinare dell’Emilia Romagna, Armunia Festival Costa degli Etruschi, Santarcangelo dei Teatri
And it burns, burns, burns / Santarcangelo Festival Dopo averne ammirato sul palco del Teatro Vascello per Teatri di Vetro i quadri Contemplazione e…
0 notes
redazionecultura · 8 years ago
Text
sede: Fondazione Luciana Matalon (Milano); cura: Sergio Garbato.
L’arte e la magia di Andrea Pirani traggono ispirazione dal teatro e dalle rappresentazioni più vive dello stesso. Nonostante l’artista abbia iniziato a dipingere in maniera più continuativa solo in età matura, ha ormai prodotto più di trecento opere prevalentemente con tecnica mista e acrilico su carta e tavola. L’esposizione raccoglie una trentina di opere che si configurano come un viaggio, una serie di attraversamenti di mutevoli consapevolezze, dal reale e dai fondamenti della nostra quotidianità ai recessi dello spirito, ai “paesaggi dell’anima”, nella continua ed affascinante ricerca del senso dell’esistenza. Sono infatti l’avvicinamento all’antroposofia e ad autori come Rudolf Steiner ed Helena Blavatsky che portano Pirani a coniugare riflessione filosofica, spiritualità ed espressione artistica. Nella sua arte la figurazione serve all’informale e l’informale ha molto a che fare con la figurazione: è attraverso il colore che l’artista delinea ogni singolo elemento compositivo presente sulla tela fino a creare un’immagine unitaria complessa che spesso racconta tematiche difficili di tipo filosofico esistenziale, dalla complessità del cosmo al mistero dell’esistenza umana. Queste pagine dell’esistere quotidiano sono tracciate con colori quasi sempre vivacissimi, capaci di attirare immediatamente l’attenzione dello spettatore e condurlo a compiere un viaggio attraverso i vari “paesaggi dell’anima”.
Andrea Pirani da sempre manifesta interesse per ogni forma di espressione artistica, in particolare l’arte e la musica. Pur non avendo svolto studi accademici, già negli anni ’70 ha potuto formarsi grazie agli insegnamenti tecnici di Gisella Breseghello; determinante però è stato l’incontro negli anni ’90 con Gabbris Ferrari, con il quale intreccia uno stretto rapporto professionale e di amicizia profonda. Ha ottenuto riconoscimenti in molteplici esposizioni in Italia ed all’estero tra cui: Premio della critica “2014” alla ROA Gallery di Londra; finalista del Premio Gambino “2015” a Venezia; Premio “Miglior artista”, anno 2016, a Roma. Numerose le recensioni critiche e le presenze in riviste d’arte. I suoi lavori “Migranti” e “Il ballo in maschera” sono stati ripresi dal Catalogo di Arte Moderna Mondadori nei n. 51 e 52. Alcune sue opere sono presenti tra le collezioni e i patrimoni artistici di Musei, Pinacoteche e Fondazioni di prestigio tra cui: Pinacoteca dell’Accademia dei Concordi di Rovigo, Museo del Tesoro del Duomo di Vigevano, Pinacoteca di Arte Moderna di Allumiere.
#gallery-0-4 { margin: auto; } #gallery-0-4 .gallery-item { float: left; margin-top: 10px; text-align: center; width: 25%; } #gallery-0-4 img { border: 2px solid #cfcfcf; } #gallery-0-4 .gallery-caption { margin-left: 0; } /* see gallery_shortcode() in wp-includes/media.php */
Andrea Pirani. Paesaggi dell’anima sede: Fondazione Luciana Matalon (Milano); cura: Sergio Garbato. L'arte e la magia di Andrea Pirani traggono ispirazione dal teatro e dalle rappresentazioni più vive dello stesso.
0 notes
pier-carlo-universe · 3 months ago
Text
Anch’io ho Provato a Scrivere d’Amore di Dario Menicucci: La Semplicità e la Profondità del Verso Amorevole. Recensione di Alessandria today
Un’intensa poesia che esplora la complessità dell’amore e delle emozioni umane attraverso la semplicità del linguaggio.
Un’intensa poesia che esplora la complessità dell’amore e delle emozioni umane attraverso la semplicità del linguaggio. La poesia Anch’io ho Provato a Scrivere d’Amore di Dario Menicucci si presenta come un sincero tentativo di tradurre in parole uno dei sentimenti più complessi e universali: l’amore. Con versi brevi e incisivi, l’autore esplora la difficoltà di catturare l’essenza dell’amore e…
0 notes
pangeanews · 6 years ago
Text
“Il nome della rosa”: una fiction a tesi, piena di anticlericalismo altoborghese, soporifera. Ma lo stesso papa che ordì massacri riconobbe il genio di Francesco d’Assisi. L’anima dell’uomo è inafferrabile: raccontate questo!
Avevo sette anni e mio padre non mi aveva mai portato al cinema. Particolarmente eccitabile, quel giorno mi costrinse a vedere Il nome della rosa. Le gambe del monaco che sbucano dal pentolone, la bava del vecchio cieco e la vigorosa nudità della poveretta che s’avvolge al corpo di Christian Slater mi turbarono per giorni. La fiction firmata da Giacomo Battiato, ovviamente, non mi ha fatto lo stesso effetto, anzi, m’è parsa particolarmente soporifera. Nessuna invenzione registica, prodotto laccato, destinato a essere visto e dimenticato. I cliché fanno rissa: i buoni sono anche belli – l’occitana sopravvissuta allo sterminio della famiglia ordita dai cattivi fedeli al papa è la folgorante Antonia Fotaras – mentre i cattivi hanno la faccia da pervertiti dementi. D’altronde, ogni eresia, per quanto efferata e astrusa, è preferibile alla baronia ecclesiale, perché la Chiesa – cioè: ogni autorità – è ricca, crudele, feroce.
*
Umberto Eco è stato un genio della comunicazione, in quel tempo – micidiale – in cui i superprof speculavano sui mass media. Già sapientone in Bompiani, Eco parlava di Tommaso d’Aquino come di Mike Bongiorno, divulgava sui giornali e discettava in università, perché tutto è uno, nessuno e centomila, Topolino o Snoopy equivalgono Guglielmo di Ockham e James Joyce, tutto è segno – o sogno, è uguale. Il nome della rosa, in questo senso – o segno –, è straordinario: il patchwork – romanzo d’impianto ottocentesco che usa le ragioni del ‘giallo’ alternate al saggio, con mistero divino e critica al potere costituito – ha il sapore di una zuppa venefica, ma di successo. D’altronde, la letteratura è un gioco, una sofisticheria intellettuale, senza sfociare in altro che nel liquore della trama.
*
Come si sa, Il nome della rosa ottiene il Premio Strega nel 1981. In effetti, non aveva grandi competitori. Più bello del libro di Eco è senza dubbio Dicerie dell’untore di Gesualdo Bufalino, che otterrà lo Strega qualche anno dopo, con Le menzogne della notte. Ha una corrusca bellezza anche il libro di Enzo Siciliano, La principessa e l’antiquario (pure lui dovrà attendere: lo Strega gli capiterà tre lustri dopo, con I bei momenti). Curiosi, per gli storici della letteratura, Il primo libro di Li Po di Vittorio Saltini e I giorni del mondo di Guido Artom; poi c’è il solito Alain Elkann (con Il tuffo) e Fabrizia Ramondino, con il primo libro importante, Althénopis.
*
Rispetto al romanzo ‘a tesi’ di Eco, è molto più bello, narrativamente, Il quinto evangelio di Mario Pomilio – che vincerà lo Strega nel 1983 con il raffinato romanzo breve Il Natale del 1833, dedicato a sondare aspetti reconditi della vita letteraria e familiare del Manzoni. In quel caso, la ricerca del ‘vangelo assoluto’, del ‘vangelo che non c’è’, del ‘testo dei testi’, la deve compiere il lettore, perché Pomilio, su una impalcatura romanzesca leggerissima, allinea una sfilza di testi fittizi. Troppa fatica.
*
Ascolto su Radio Rai 3 una rapida intervista a Giacomo Battiato, che pur avendo una formazione – dice – da storico, allinea una filiera di luoghi comuni. Il Medioevo, dice, non è un’epoca buia ma piena di fermento intellettuale – e chi non lo sa. Poi c’è la parentesi sulla ferocia della Chiesa nel reprimere le eresie, dipinte come una ‘comune’ sessantottina. Indubbiamente, orrore, schifo e vergogna ci sono stati. Ma discettare di ‘povertà della Chiesa’ ricchi di fama e sufficientemente abbienti è ridicolo.
*
Quando si parla di uomini, intendo, e ne vuoi narrare le gesta non puoi essere manicheo né figlio di ideologie di latta. Quando Battiato cita papa Innocenzo III come emblema della Chiesa violenta ha ragione, che scoperta. Innocenzo III proclama la crociata contro gli albigesi, i catari (“il primo genocidio della storia” dice Battiato), che abitavano il sud della Francia, per impedire che si propagassero, proclamando verità ostili alla Chiesa. Intorno al 1220, in un virulento pamphlet antiereticale, Cesario di Heisterbach, abate cistercense, firma il Dialogus miraculorum in cui descrive le efferatezze degli eretici in questo modo: “Uno tra i potenti della città di Tolosa… defecò presso l’altare della chiesa cattedrale, lordando con le stesse cose immonde la pala dell’altare. Altri, aggiungendo furore a furore, posero una prostituta sopra il sacro altare, ivi abusando di lei davanti al crocifisso”. L’immaginazione dell’abate, che fa esplodere la propaganda anticatara, è degna di un Marchese de Sade, ci sarebbe da scriverci un libro.
*
Nel 1209 si compie l’eccidio di Bézier, in cui Simone IV di Montfort, in favore del papa, stermina quasi 20mila persone – senza fare differenza tra catari e cattolici, che paradosso, perché “essendo a conoscenza che i cattolici erano mescolati con gli eretici”, racconta ancora l’abate, “Uccideteli tutti, Dio infatti conosce coloro che sono i suoi”, pare abbia detto Arnaldo Amalrico, padre generale dei cistercensi e futuro arcivescovo di Narbona. Orrore. Nello stesso anno in cui papa Innocenzo III ammette l’eccidio degli albigesi, riconosce e approva lo stile di vita di Francesco d’Assisi e dei suoi ‘frati’. Il francescano Guglielmo da Baskerville, il buono del Nome della rosa, è francescano, sponsor della povertà di Mamma Chiesa. Ma non viene arso al rogo. L’etica francescana, infatti, impone l’obbedienza al superiore: “Rinuncia a tutto, rinuncia al tuo corpo, consegnati all’obbedienza del superiore”, è scritto nella prima regola, la più autentica, di Francesco. “Se il superiore impone qualcosa contro l’anima, è lecito non obbedire, ma non abbandonare. E se questo procura persecuzioni, che si ami il persecutore, per amore di Dio… C’è chi pensa di essere superiore ai propri superiori, guarda indietro e si rimette nel vomito della propria volontà: questi sono omicidi”. Francesco non diceva Messa, non era sacerdote, si inchinava al sacerdote della Chiesa. D’altronde, il primo papa francescano, Niccolò IV, tra le azioni in cui si impegna maggiormente vi sono l’organizzazione dell’ennesima Crociata contro ‘gli infedeli’, in Terrasanta, quella bandita contro il re d’Ungheria Ladislao IV – che culmina nel suo assassinio – e lo sforzo per reprimere le eresie. Tali atti non sono in discordia con il desiderio di pace e di povertà pronunciato dal papa francescano.
*
Una narrazione non dovrebbe appiattirsi sul pregiudizio, ma dare spazio alla complessità – perversa, gloriosa – dell’anima umana. L’uomo non è piatto, non è a senso unico, ma il film tratto dal romanzo di Eco, invece, è un piattume. (d.b.)
L'articolo “Il nome della rosa”: una fiction a tesi, piena di anticlericalismo altoborghese, soporifera. Ma lo stesso papa che ordì massacri riconobbe il genio di Francesco d’Assisi. L’anima dell’uomo è inafferrabile: raccontate questo! proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2HeseEx
0 notes