#comicità e tragedia
Explore tagged Tumblr posts
pier-carlo-universe · 3 days ago
Text
Natale in casa Cupiello: 90 anni di un classico intramontabile al Teatro Menotti. Milano
Un capolavoro di Eduardo De Filippo rivive tra tradizione e innovazione scenica. Un ritorno emozionante sul palcoscenico. Dal 28 gennaio al 2 febbraio 2025, il Teatro Menotti di Milano ospiterà una versione unica e suggestiva di “Natale in casa Cupiello”, l’opera più iconica di Eduardo De Filippo, che celebra quest’anno il suo 90° anniversario. Lo spettacolo, prodotto da Teatri Associati di…
0 notes
queerographies · 10 months ago
Text
[Sorelle Materassi][Aldo Palazzeschi]
“Sorelle Materassi”: Una narrazione agrodolce tra comicità e tragedia Titolo: Sorelle MaterassiScritto da: Aldo PalazzeschiEdito da: MondadoriAnno: 2024Pagine: 324ISBN: 9788804787402 La trama di Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi Nei pressi di Santa Maria a Coverciano, appena fuori Firenze, vivono le sorelle Carolina e Teresa Materassi, monacalmente dedite al loro lavoro di ricamatrici.…
Tumblr media
View On WordPress
0 notes
haidaspicciare · 7 years ago
Photo
Tumblr media
Alan Alda, “Crimes and Misdemeanors” (Woody Allen, 1989).
136 notes · View notes
Text
La versione di Woody
Chi non ha mai citato una battuta di Woody Allen (“Le parole più belle del mondo non sono Ti amo, ma È benigno”, “Sei così bella che fatico a distogliere gli occhi dal tuo viso per guardare il tassametro”, “Finché sono vivo, la morte è qualcosa che riguarda gli altri”, “La vita è piena di miseria, solitudine, sofferenza - e tutto ha fine troppo presto”, “L’uomo sfrutta l’uomo e a volte è il contrario”)? I suoi film sono definitivamente entrati nell’immaginario collettivo, i suoi libri divertenti e ironici sono una manna per i cacciatori di battute (basti pensare a Citarsi addosso, dove si fa la parodia del coro della tragedia greca, come succederà poi, con risultati di irresistibile comicità, in La dea dell’amore, a Saperla lunga, con la prefazione di Umberto Eco, e a Effetti collaterali, curato da Daniele Luttazzi) e ora, a breve distanza dal film del 2019 Una giornata di pioggia a New York, un’uscita tormentata e rallentata da annose polemiche, ecco pubblicata, anch’essa dopo varie difficoltà e tentativi di boicottaggio, e grazie al coraggio degli editori de La nave di Teseo, A proposito di niente, l’autobiografia del grande regista newyorkese.
Tumblr media
“Dedicarsi alla lettura di A proposito di niente, per i seguaci del regista, è come sfogliare le pagine di una storia già nota; il final cut di un vecchio film riportato in sala con aggiunta di scene tagliate e contenuti extra”. Un’opera interessante e ironica (“Se morissi adesso non potrei lamentarmi né lo farebbe un mucchio di altra gente”, p. 344), ma soprattutto un’autodifesa da accuse che si trascinano ormai da trent’anni. Il maestro si rammarica di non aver mai fatto un grande film, ma, dice, ci sta ancora provando: attribuisce il successo più alla fortuna che a reali capacità tecniche (“Come riassumere la mia vita? Tanti stupidi errori compensati dalla fortuna”). Si può certo perdonare il peccato di falsa modestia all’autore di Io e Annie (la cui sceneggiatura è citata nelle antologie scolastiche), Manhattan, Provaci ancora Sam, Crimini e misfatti, Blue Jasmine, al diciannovesimo posto nella classifica stilata da Entertainment Weekly dei cinquanta migliori registi di tutti i tempi, i cui premi e riconoscimenti ormai non si contano più (Oscar, David di Donatello, Golden Globe, Grammy Award, Leone d’oro e moltissimi altri).
Della modestia di Allen parla anche Natalio Grueso in una biografia del 2016, Woody Allen l’ultimo genio. Da questa ‘accusa’ il maestro si schermisce decisamente: “Io un genio? Allora cosa sono Shakespeare, Mozart o Einstein? No, no, sono solo un comico di Brooklyn che nella vita ha avuto molta fortuna”. Grueso ci parla del debutto come ghostwriter e cabarettista, dei grandi autori che ne hanno forgiato la personalità artistica (soprattutto Bergman, Fellini e i maestri del Neorealismo) e delle sue passioni: il jazz, la scrittura e la magia (impossibile dimenticare l’esilarante interpretazione del mago Splendini in Scoop).
Tumblr media
“Nuova variazione jazz sull’immaginario newyorkese, Un giorno di pioggia a New York è una commedia ineffabile come la nascita di un sentimento”. Due giovani innamorati decidono di trascorrere un fine settimana nella grande mela: sulle struggenti note della tromba di Chet Baker il protagonista Gatsby Welles (alter ego di Allen), nome azzeccatissimo per un nostalgico amante dei film in bianco e nero, della musica di Gershwin e Charlie Parker, dei locali old fashioned e della pioggia. Ma il destino è il vero protagonista di un film che non delude i fans di Allen, lasciando un messaggio semplice e positivo, sintesi di un discorso filosofico e psicanalitico che dura da tutta la vita dell’autore, a riprova della legge non scritta che nell’arte la semplicità è sempre una faticosa conquista. A impreziosire il quadro, la partecipazione dell’ottimo Jude Law e la fantastica fotografia di Vittorio Storaro su una città che da sempre è stata una delle muse ispiratrici del regista (ricordate l'esordio di Manhattan?: “New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata”).
youtube
Tumblr media
Riportiamo qui sotto il trailer di Rifkin’s Festival, quarantanovesimo e ultimissimo film scritto e diretto da Allen, appena presentato in anteprima mondiale al Festival di San Sebastian. “La vita è come un film: talvolta è una commedia, talvolta un dramma o un romanzo, ma soprattutto è un mistero”. Allen lavora ormai al ritmo di un film all’anno, nella ricerca quasi ossessiva del grande capolavoro ancora da scrivere.
Tumblr media
Il poster di Rifkin’s Festival è stato disegnato dall’illustratore spagnolo Jordi Labanda.
youtube
Tutti abbiamo nel cassetto una classifica dei nostri film preferiti di Allen, nel mio c’è Manhattan, e in particolare, la scena finale in cui Woody, sdraiato sul divano, registra come idea per un racconto un elenco delle cose per cui vale la pena vivere, e cita, fra gli altri, Groucho Marx, vera icona della sua formazione comica, Joe di Maggio, Mozart, Louis Armstrong, i film svedesi, Marlon Brando, Frank Sinatra, Cézanne, il viso di Tracy…
youtube
Del resto, che senso avrebbe la vita senza la natura, l’armonia in famiglia, una biblioteca ricca e sempre aggiornata…? Siamo sempre, ansiosamente, curiosi di conoscere le vostre opinioni in merito!
13 notes · View notes
gregor-samsung · 5 years ago
Quote
Personalmente considero la comicità la più alta espressione dell'arte. I suoi tripli salti mortali nel nulla, la sua proposta di un universo dalla vitalità tutta fisica, la creaturalità intrinseca di personaggi i cui bisogni si fermano al primo livello (amore, farne, sete) e i cui sogni si bruciano istante dopo istante nell'esistenza spicciola, mi appaiono come la quintessenza del sublime. I comici non sono nevrotici (o lo sono irrimediabilmente), non inseguono utopie, non moraleggiano. Non possiedono altri valori se non la vita che ogni giorno improvvisano. Non nutrono rancori, accettano allegramente il loro destino anche se provano ogni tanto, sempre per divertimento, a vestire panni non loro. La loro sessualità si esaurisce in un bacio. Nelle opere comiche non muore mai nessuno e se la tragedia deve proprio accadere, si può star certi che il funerale si trasformerà in un teatrino per le più grasse e liberatorie risate. Un comico è senza background, non si sa da dove venga né dove vada, e cosa voglia, non ha né moglie né figli, al massimo si porta dietro un cane. Le donne neanche lo vedono, nei poliziotti scatena l'atavico istinto predatore dell'uomo, è disoccupato in eterna ricerca di occupazione. La sua vita di piccole rapine ha foggiato il suo corpo, che ha imparato a correre veloce, a snodarsi, a piegarsi in quattro, a fare la spaccata, a rotolare giù per le discese, a nascondersi alle spalle dello stesso inseguitore. Ripeto, la comicità è l'arte del nulla. Per questo è sublime. Il nulla, il vuoto cosmico da cui proveniamo e in cui tutti andremo a finire è presente nella nostra vita più di quanto crediamo. Il comico gioca con questa atavica, invisibile paura. La esorcizza con la stessa vitalità del neonato che lancia il suo primo urlo a contatto con la luce. Il nulla di cui la comicità si fa portavoce è il mare magnum dentro il quale gli uomini si illudono di vivere in eterno. Allora perché non ridere di tutto? E le disarmanti stupidaggini del comico, vuote parole che raccontano il vuoto, sono una rappresentazione gaia, lontana da ogni rassegnazione, del puro esistere, animale, naturale, creaturale. Sono l'espressione di una vitalità senza scopi, un fenomeno di tarantismo, un pianto rituale per sentirsi vivi, presenti a sé stessi. Ridere è questo. E il comico, uomo ridotto all'osso, pensa solo a far ridere. Un personaggio del genere non può muoversi in una realtà complessa, appesantita dalla storia e dalla cultura: di queste in un'opera comica, rimangono abiti svuotati dai corpi, divise, livree, toghe.
Vincenzo Cerami, Consigli a un giovane scrittore. Narrativa, cinema, teatro, radio, Garzanti, 2002 [1ª ed.ne Einaudi, 1996]; pp. 150-51.
23 notes · View notes
forgottenbones · 5 years ago
Video
youtube
Gilbert Gottfried provò a fare una battuta sull’undici settembre (credo un paio di settimane dopo che era successo), mi sembra al roast di Hugh Hefner. Il pubblico cominciò a rumoreggiare e a fischiare. Un uomo disse “Too soon!” che è un po’ la safe word della comicità. Come sappiamo, tragedia + tempo = comicità, ce l’ha detto Lenny Bruce. Si vede che non ne era passato abbastanza.
Allora il nostro Gottfried (che per chi non lo sapesse, ha prestato la sua voce al pappagallo Iago in Aladdin) cosa fa? Ricorre ad una sua specialità: The Aristocrats joke. C’è chi dice che esista dai tempi del vaudeville, c’è chi dice che sia molto più recente. Resta il fatto che è ormai una tradizione dei comici.
Non c’è sorpresa in questa storia, tutti conoscono la punchline. E non importa nemmeno più se ti fa ridere. Comincia sempre con una famiglia che va da un agente per farsi scritturare per qualche spettacolo, di solito composta da padre, madre, un figlio e una figlia. A volte un cane. Lo svolgimento sta alla fantasia del comico che sta raccontando ed è invariabilmente condito da sesso e violenza e deiezioni. È come una gara con se stessi nel riuscire a creare il quadretto più schifoso possibile.
Non so quale sia il meccanismo che scatta, se si ride per l’imbarazzo di trovarsi in una situazione semiformale e ascoltare una raffica di estreme volgarità. Fatto sta che il pubblico, in quel momento, aveva bisogno di quella disgustosa, grottesca catarsi, di quella scossa elettrica. È stato come quando, dopo che è morto qualcuno che ti è caro, permetti a te stesso di sorridere di nuovo. Non vuol dire che non te ne frega, vuol dire solo che sei umano.
9 notes · View notes
pangeanews · 6 years ago
Text
Pirandello è il “grande frainteso” di cui nessuno conosce il segreto. Andrea Caterini sullo studio radicale di Pietro Mignosi
Cominciamo con la parola dei maestri. Giacomo Debenedetti, nel saggio che dedica a Luigi Pirandello in Verticale del ’37, principia con una presa di posizione e un atto d’accusa. La presa di posizione: «Chi dicesse che Pirandello fu, e rimane, un grande frainteso, passerebbe per uno stravagante, o per uno scandalista a buon mercato. Eppure avrebbe per sé una grossa percentuale di ragione». Poi l’atto d’accusa: «Salvo eccezioni, non lo si inseguì nella profonda, originale zona dell’anima, che si concreta nella parola: cioè là dove vanno esplorati i poeti. […] Critica ancella, però: critica, nel miglior senso, complice. La quale, di fronte all’artista di apparentemente difficile accesso, sentì il bisogno di chiarire più che di capire».
La chiave va cercata in quelle due parole messe in contrapposizione: «chiarire» anziché «capire». Nel 1935, a un anno dall’assegnazione del Premio Nobel, Pietro Mignosi, studioso di letteratura e filosofia, con un’attenzione particolare ai temi cristiani, non era stato da meno di Debenedetti, pure se il suo studio non ebbe la fortuna che invece meritava; anche lui, fin dalla prima edizione (poi ampliata e messa a punto due anni dopo, l’anno successivo alla morte di Pirandello) della monografia Il segreto di Pirandello, aveva accusato di «complicità» la critica pirandelliana. Il suo atteggiamento era l’opposto di quello di un’«ancella», l’opposto di un invito alla lettura di. Lo si capisce fin da subito: «Il cosiddetto relativismo pirandelliano ha una origine del tutto diversa da quella del relativismo contemporaneo, che è di natura dialettica e metafisica, cioè di natura formale. Esso invece è un continuo ricercare, oltre il paradosso dell’apparenza fisica e l’errore della persistenza psichica, un sentimento unitario di vita che dia finalmente un ordine ed una consistenza alla tragedia dello scorrere e del relativizzarsi dei fenomeni che la filosofia moderna ha condannato a diventare delle illusioni».
*
Provo a ragionare su una questione. Ho sempre avuto il sospetto che il problema di Pirandello fosse un problema identitario. Che il suo ragionamento sull’identità non fosse che un falso problema. Cioè, il desiderio di spostare l’identità da un “valore” identitario a un altro che ne fosse in qualche misura la rappresentazione.
Ma se pure gli stessi concetti di «identità» e «rappresentazione» non fossero che delle illusioni? Se pure questi concetti, voglio dire, non portassero ad alcuna verità dell’essere ma fossero altri schermi, altre forme, attraverso cui l’uomo imita il vero senza mai però poterlo davvero sostenere? Forse allora la verità in Pirandello è l’impossibile che ha bisogno di «identità» e «rappresentazione» per essere sostenuta. Identità rimanda, più che all’essere, all’essere identico. A qualcosa che si ripete nella stessa forma. Ma se è qualcosa che si ripete nella forma, di conseguenza, non potrà parlarsi di essere, ma di ciò che dell’essere non è che la scorza, come dire la sua esteriorità. Così la rappresentazione ha a che fare con l’imitazione (o l’evocazione), ovvero con il verosimile – qualcosa che la verità la indica pur non riuscendo ad abitarla.
Ecco il punto: una finzione che ne sostituisce un’altra, quasi potenziandola. Non solo, quindi, una società (specie la società borghese) che trova delle forme attraverso cui ingabbiare l’individuo per poterlo riconoscere (e controllare), ma un individuo che nel momento in cui tenta di evadere da una forma prestabilita se ne crea egli stesso una nuova per poter resistere alla verità di ciò che davvero è, o scopre d’essere. Lo stesso Pirandello lo afferma, in un’intervista: «La vita ha pur da consistere in qualche cosa se vuole essere afferrata. Per consistere le occorre una forma, deve darsi una forma. D’altra parte questa forma è la sua morte perché l’arresta, l’imprigiona, le toglie il divenire. Il problema è questo, per la vita: non restar vittima della forma. È qui tutto il tragico dissidio della storia della libertà». È a ben vedere il processo che determina la storia dei Sei personaggi in cerca d’autore (1921), di Così è (se vi pare) (1917), e pure, a pensarci, de Il fu Mattia Pascal (1904). In questo senso Pirandello ci appare ancora come il più moderno degli scrittori italiani del Novecento ma al contempo anche il più vecchio. Cosa significa? Che se fu tra i primi a comprendere che da una finzione mai ci si libera se non a patto di costruirne una differente (da qui anche il principio di comicità, quasi la messa in evidenza della connaturata condizione ridicola di ogni essere umano, schiavo, prima che della società in cui vive, del proprio io), dall’altra quella stessa finzione fa presto a invecchiare, così come invecchiano tutte le maschere comiche, comprese le maschere filosofiche.
*
Ma Mignosi ci mette in guardia. Secondo lui, dietro Pirandello c’è, come abbiamo letto, un «sentimento unitario di vita», che poi significa una ragione morale da difendere e prima ancora da riconoscere: «egli deve mostrare analizzando la vita dell’uomo moderno, come la religione della soggettività, l’istinto dell’azione come fine a sé stesso, la perdita di una coscienza morale come coscienza di rinunzia alla solitudine, alla carne, all’oro, alla gloria, conducano l’uomo a quel complesso di contraddizioni insanabili che solo potrebbero esser guarite o dalla morte volontaria, o dalla pazzia liberatrice». Mignosi alla sostanza sostiene che la pazzia, in Pirandello, è un rimedio all’assenza di leggi che governano la vita. Se i personaggi pirandelliani si sentono perduti perché privi di una riconosciuta unità di vita, quella unità vanno a cercarla o in una morte volontaria che li riconduca all’origine, oppure a qualcosa che li liberi da quella condizione di annichilimento dell’essere (ancora Mignosi in un altro passaggio: «Insomma tutta (e insisto nel tutta) l’opera di Pirandello può aver il valore pedagogico di questa scoperta e condanna: la società moderna che ha perduto Dio, che vive come se Lui non esistesse, che si costruisce delle morali provvisorie, che è fondata sull’economia del puro soggettivo ed individuale, è condannata alla sofferenza, alla perdita della stessa personalità su cui si fonda, all’odio, alla sensualità, all’infedeltà, alla morte, al suicidio»). Ma la follia può davvero portare a un principio di unificazione? A quale unità può mai fare ricorso un pazzo? Per Mignosi, Pirandello ha compreso che per l’uomo non può esserci vita fuori da un creatore che la governi. Deprivato di un creatore, l’uomo non può che fare affidamento sulla propria ragione. Ma la ragione non è capace di sostenere all’infinito l’assurdità della vita. Per questo motivo, dunque, l’uomo si fa pazzo. Come dire, accetta di porsi lì dove la ragione non può più trattenerlo, tentando così, con un gesto di rivolta, in definitiva con un atto volontaristico (ed è in questo atto volontario che, al contrario di Mignosi, a me sembra trattarsi di una illusione liberatrice, di un nuovo stato di falsificazione) di aderire assurdamente alle assurde leggi della vita stabilite da un creatore.
Ma la novità (ed è una novità ancora oggi, nonostante le sterminate pagine di bibliografia pirandelliana, da Adriano Tielgher a Giovanni Macchia, da Antonio Gramsci a Leonardo Sciascia – per dire nomi particolarmente rappresentativi), direi addirittura la forza dell’intera analisi di Pietro Mignosi, non va cercata nei singoli passaggi, in quelle illuminazioni del pensiero che, pure non mancando, non spiegano l’interezza del ragionamento, ma nell’aver cercato e trovato una architettura cristiana dietro tutta l’opera di Pirandello. Bisogna quindi leggere questo libro prestando realmente fede al suo titolo. Quel segreto è davvero tale perché è ciò che sorregge l’intera impalcatura del discorso. L’accusa di Pirandello alla società moderna, per Mignosi non è altro che una crisi della coscienza; la stessa coscienza dentro cui si annida il peccato. Ed è quello stesso peccato che ci fa temere, quella stessa colpa che ci fa avere paura. Ma paura di cosa? Questo mi sembra il nodo centrale dell’analisi di Mignosi, che rivela la natura tragica di ogni creatura pirandelliana: i personaggi di Pirandello hanno paura della verità, che per il critico non significa altro che timore di Dio e delle sue leggi. In un mondo senza Dio, pare dire Mignosi, è sempre a Dio, al nostro bisogno di interrogarlo, che desideriamo tornare. Ma tornare a Dio è, per il critico, tornare a sentire la vita in tutta la sua pienezza; una pienezza che ha certamente una natura religiosa; una natura che nessuna costruzione filosofica può mai davvero eludere o, peggio, rimuovere.
Andrea Caterini
*Si riproduce qui per gentile concessione il saggio di Andrea Caterini che introduce il libro di Pietro Mignosi, “Il segreto di Pirandello” (CartaCanta, 2019)
L'articolo Pirandello è il “grande frainteso” di cui nessuno conosce il segreto. Andrea Caterini sullo studio radicale di Pietro Mignosi proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2X5yR4Z
1 note · View note
risposte-e-reblog-randagi · 3 years ago
Note
In questo momento della tua vita ti senti più una comparsa o un protagonista?
Buonasera cinefilo anonimo,
e grazie per la domanda, interessante e ben posta.
Comparsa direi di no, nel film della nostra vita, volente o nolente siamo tutti protagonisti.
Purtroppo però, il protagonista, pur essendo sotto i riflettori e lì alla vista di tutti, non è colui che decide quali sono le scene che deve girare e nemmeno se il film sarà una commedia romantica, una tragedia, un horror, o magari un film di comicità demenziale, perché quello lo decidono il regista e lo sceneggiatore, che non conosciamo, così come sempre loro decidono il finale.
Ed il copione, poi, nessuno di noi lo ha letto: si recita a braccio, contando sulla capacità di improvvisare.
1 note · View note
ilciambellano · 4 years ago
Quote
Anche l’era del terrore comincia con lo sberleffo, la battuta insolente, con la barzelletta. La seduta che inaugura il Tribunale speciale per la difesa dello Stato porta alla sbarra un muratore che, informato del fallito attentato a Mussolini, pare abbia esclamato: “Li mortacci sua… ’sto puzzone ancora non l’ha ammazzato nessuno!” Non c’è niente da fare: in Italia non si sfugge alla tirannia del comico, il destino ineluttabile di ogni tragedia nazionale nel Paese dell’opera buffa. Per antifrasi, per sfregio al destino nazionale, Mussolini ha voluto, però, che il suo tribunale personale sia serissimo e solenne. Sì, solenne. Questa la parola. Il Duce ha preteso che ogni aspetto – rito, procedimento, scenografia – dello strumento giuridico che dovrà reprimere e prevenire ogni dissenso, sia solenne come una messa funebre. Il tribunale applicherà il codice penale militare sulla procedura di guerra: arresto obbligatorio, immediata esecutività della sentenza, nessun ricorso. [...] Eppure, nonostante tutti questi espedienti e accorgimenti, il destino della comicità involontaria e involontaria corrode il ferro della macchina repressiva. A contraddire la solennità dell’apparato di morte, a frustrarne le aspettative paludate, generando un umorismo irrevocabile, sta la patetica pochezza dei presunti attentatori alla sicurezza dello Stato. Gli imputati della seduta mattutina sono Giuseppe Piva, stuccatore forlivese iscrittosi quindicenne alla Gioventù socialista e il muratore barese Cataldo D’Oria, sospettato di aver dato del “puzzone” al Duce del fascismo. Due poveracci, entrambi semianalfabeti (Dorio ha scritto una struggente implorazione di clemenza grondante strafalcioni grammaticali). Stremati dalla carcerazione preventiva, mortificati dalla loro inadeguatezza alla solennità della messinscena, prima ancora che spaventati per l’eventuale condanna, incapaci di discolparsi con una frase formulata in un italiano corretto, dalla loro gabbia di animali miti e inoffensivi, i due assistono, timidi e senza dire una parola, al rito celebrato contro di loro da alti ufficiali severi con il petto carico di medaglie e per mezzo di parole grevi di significati a loro ignoti. Alle invocazioni alla “genialità italica”, allo “spirito della nazione”, al “patrimonio di civiltà, di fede e di beni spirituali”, Dorio e Piva rispondono con lo sguardo placido e spento del bovino cui sia toccato, pascolando per caso ai margini di un campo di battaglia, di assistere allo strepito feroce e vano della Storia. Stuccatore e muratore si proclamano entrambi innocenti, entrambi vittime della malignità di un compagno di cantiere da poco licenziato ed entrato per questo nella Milizia. Piva riesce addirittura a portare un teste a discarico. L’avvocato della difesa, Annibale Angelucci, incrina la solennità tanto cara al Duce appellandosi all’umanità, alla clemenza dei magistrati.
Antonio Scurati - M. L’uomo della provvidenza
1 note · View note
elenarmarino · 4 years ago
Text
Ringraziamenti e ansie
Ringrazio moltissimo tutti quelli che mi stanno sostenendo in questa avventura della pubblicazione del mio romanzo “Passeggiata nella notte”… La situazione attuale del crowdfunding è che ho ancora 98 giorni di tempo per raccogliere le prenotazioni del libro previste, e di queste manca ancora il 42 % (cioè 117 copie) all’obiettivo. Mi pare un risultato molto, molto buono. E certo, sono in ansia, ci mancherebbe che non lo fossi. Ma sono anche molto felice del sostegno che in tanti state dando al mio sogno. Se vi raccontassi da quanto tempo ci sto lavorando… non solo a questo specifico romanzo (a questo sono circa 4 anni), ma all’idea di vedere finalmente quella cosa lì: il libro cartaceo stampato, che contiene un punto d’arrivo dopo anni di tentativi… Avrei molti aneddoti da raccontare a proposito del mio percorso fino a qui, con momenti di tragedia e di pura comicità… Sarebbero un romanzo a parte!La scrittura è una via che si può percorrere anche in completa solitudine, una via che in ogni caso si avvicina a una via mistica, a un training teatrale, a una meditazione… Va benissimo anche scrivere tutta la vita e non pubblicare mai, ha il suo perché. Ma il mio romanzo stesso parla della necessità dell’incontro con l’Altro, con il Mondo, con un piano della realtà che faccia da contrappeso ai fantasmi del solo pensiero e della sola parola… Parla dell’evasione dalle stanze chiuse, che siano fisiche o mentali, personali o create dalle manipolazioni insite in taluni rapporti…Proprio per questo, nel mio percorso, ora vorrei uscire dalla mia “stanza” (come la mia protagonista) e toccare con mano quello strano oggetto che è un libro cartaceo condiviso con un pubblico: uno scrigno leggero e apparentemente vuoto, che contiene mondi impossibili da comunicare altrimenti… Un oggetto, solo un oggetto, che però può fare da contrappeso ai fantasmi…Grazie a tutti quelli che mi hanno sostenuto finora e a quanti vorranno iniziare a farlo da questo momento.Il link per sostenere il crowdfunding del libro è questo: 
https://bookabook.it/libri/passeggiata-nella-notte/
0 notes
pier-carlo-universe · 2 months ago
Text
Totò e la paura di invecchiare: L’ironia contro il tempo. Come Totò ha affrontato il tema dell'invecchiamento tra battute e saggezza. A cura di Alessandria today
La leggenda di Totò, il celebre Antonio De Curtis, rappresenta una pietra miliare del cinema e del teatro italiano.
La leggenda di Totò, il celebre Antonio De Curtis, rappresenta una pietra miliare del cinema e del teatro italiano. Conosciuto per il suo inconfondibile stile comico e per l’abilità di catturare il pubblico attraverso un’incredibile ironia, Totò ha saputo parlare anche delle paure umane più profonde, come quella di invecchiare. Il suo approccio leggero e disincantato al passare del tempo è…
0 notes
giancarlonicoli · 4 years ago
Link
23 dic 2020 11:05
“COSA AVEVA GIGI PROIETTI CHE NON ANDAVA BENE PER IL CINEMA ITALIANO? ERA TROPPO BRAVO” - IL BERGAMASCO FELTRI IN GLORIA DEL MATTATORE ROMANO: “IL SUO PERFEZIONISMO ERA INVISO AI REGISTI E SOPRATTUTTO AI PRODUTTORI, DICONO IN MOLTI. LA SUA LIBERTÀ ERA INVISA AL MONDO CINEMATOGRAFICO, CHE SPESSO SI MUOVE IN GREGGE, E QUESTO LO DICO IO. A UNO COSÌ, NEGLI STATI UNITI AVREBBERO REGALATO LE CHIAVI DELLA 'RADIO CITY MUSIC HALL'. INVECE IN ITALIA..." - VIDEO
-
Articolo di Vittorio Feltri per “Arbiter” pubblicato da “Libero quotidiano”
Gigi Proietti una volta mi disse: «Se parlo con uno di destra, mi sento di sinistra, se parlo con uno di sinistra divento subito di destra». La prevalenza del cretino, in ogni schieramento politico, produce, nelle persone brillanti, effetti simili a quelli descritti magnificamente dall' attore romano. Ecco, preciso subito: voglio parlarvi di Proietti, non di partiti. Proietti è morto con uno sberleffo, lo scorso due novembre.
È morto nel giorno dei morti, che per inciso era anche il suo compleanno, a 80 anni spaccati. Una uscita di scena così perfetta da sembrare sceneggiata da Proietti in persona. A Roma, e Gigi era un simbolo della romanità, la tragedia è teatrale, a volte sconfina nella commedia. Lo scetticismo sarcastico dell' Urbe non risparmia nemmeno la nera mietitrice. Anzi, la invoca spesso e volentieri: li mortacci...
Sul palco, Proietti era un mago.
Non aveva bisogno di testi, era sufficiente un canovaccio. Fu il primo in Italia ad affrontare la platea in completa solitudine. Una volta giù dal palco, quel vulcanico istrione diventava umile e disponibile.
A me gli occhi, please, clamoroso successo del 1976, era uno spettacolo complicatamente semplice: un uomo, Proietti, e un baule dal quale estrarre qualche oggetto di scena. Stop.
Nessun testo. Andava a braccio. Da una parte il pubblico oceanico, confermato da una serata senza precedenti allo stadio Olimpico di Roma nel 2000; dall' altra il disincanto con cui la madre lo invitava «a non montarsi la testa» per gli applausi, che arrivavano pubblicamente anche da registi (Federico Fellini), colleghi (Edoardo De Filippo) e presidenti della Repubblica (Sandro Pertini).
Una volta Proietti, ormai una star, chiese alla mamma: «Ti sono piaciuto?». E lei, laconica: «Abbastanza».
Del resto, quando andò a trovare il suo vecchio parroco, certo di fare il pieno di complimenti e abbracci, fu accolto con uno scapaccione da don Parisio, che aggiunse «Ah brutto puzzone, solo adesso te rifai vivo?!». Altro che salamelecchi.
Nei coccodrilli giornalistici, all' indomani della morte di Gigi, ho letto una cosa che mi ha colpito: a uno così, negli Stati Uniti avrebbero regalato le chiavi della Radio City Music Hall, che è un po' come dire le chiavi dell' Academy di Hollywood. Verissimo. Invece in Italia, perse la direzione del teatro Brancaccio, lo stesso che oggi gli vogliono intitolare. Non fece polemiche, si buttò a capofitto in una impresa unica, la fondazione a Villa Borghese del Globe Theatre, su modello di quello londinese che, secoli fa, vide andare in scena William Shakespeare in persona.
Fu un altro, sorprendente punto a suo favore. E un altro regalo alla sua città, che lo amava alla follia, come forse il solo Alberto Sordi prima di lui. Non a caso, l' orazione funebre di Sordi fu affidata a Proietti. Che sfoderò un sonetto alla Belli, in romanesco, facendo commuovere mezza Italia, e anche un più di mezza.
IN TELEVISIONE Le sue prestazioni televisive non le discuto. Mi limito a osservare un dettaglio (grandissimo, però). Proietti aveva cominciato come interprete "alternativo", doverosamente "con la puzza sotto il naso". Lo raccontava lui stesso, divertito: «Recitavo Sofocle, Brecht, Beckett, Moravia. Quando Garinei e Giovannini mi chiesero di sostituire Domenico Modugno in Alleluja brava gente temevo di vendermi». Pensa troppa cultura che danni può fare...
Per fortuna Proietti non ascoltò la voce dell' intellettualoide, e prese la parte. Però cadde in depressione: «Anziché montarmi la testa, quel successo me la smontò. Non riuscivo a reggerne il peso. Mi chiusi in casa e mi ficcai a letto». Si abituerà.
E ora vengo al punto.
La carriera di Proietti, l' abbiamo visto, va da Sofocle al Maresciallo Rocca, dal Globe a Raiuno. L' attore "alternativo", un po' alla volta, verrà considerato uno di casa dall' intera nazione, il tutto senza perdere un grammo di credibilità artistica. Puoi essere pop o colto. Ma quello che conta è il talento, e Proietti ne aveva da vendere, qualunque cosa facesse.
Vale la pena di ricordare che il Maresciallo Rocca è stata l' unica fiction, insieme al Commissario Montalbano, capace di rivaleggiare, in termini di ascolti, con alcune serate del Festival di Sanremo. Più popolare di così, è impossibile. Che differenza con le sedicenti stelle da filmetto impegnato, da pellicola col timbro ministeriale, da teatro "ribelle" rigorosamente finanziato dallo Stato, da comicità intruppata, da sceneggiatura a tesi.
Il cinema italiano non l' ha mai valorizzato, al di là di qualche ruolo di culto. Eppure, l' anno scorso, l' ho visto giganteggiare nei panni di Mangiafuoco nel Pinocchio di Matteo Garrone. Una parte di pochi minuti in cui Proietti, perfetto, cancellava il resto del cast, pur eccellente. Cosa aveva, Gigi, che non andava bene per il cinema italiano? Il suo perfezionismo, inviso ai registi e soprattutto ai produttori, dicono in molti.
La sua libertà, invisa a un mondo, quello cinematografico, che spesso si muove in gregge, e questo lo dico io.
0 notes
magicnightfall · 7 years ago
Text
IT (WAS A FUCKING NIGHTMARE)
Tumblr media
*spoiler free* Ho visto It al cinema.
È stata l’esperienza più traumatica della mia intera esistenza.
Ma non per il film, eh. Il film è bello. Per la gente che c’era.
Per la gente che c’era e che da bambina ha preso troppe poche botte.
Per la gente che c’era e che da bambina ha preso troppe poche botte e che stavo per restituirgli io con tutti gli interessi del caso.
Perché mentre sullo schermo passavano i Perdenti e Pennywise, tutti intenti a fare le loro cose, io fantasticavo di prendere otto tonnellate di popcorn e usarle per ostruire ogni singolo orifizio di tutta la gente in in sala, per poi guardarla morire soffocata tra atroci spasmi al vago aroma di burro fuso.
Già eravamo partiti malissimo. Nemmeno il tempo di sederci, io e mio fratello, che avevamo capito quale tragedia greca sarebbe stata.
“Fila M, posti 8 e 9. Centralissimi, perfetti”
Toh, che cosa curiosa, nei posti 8 e 9 ci sono già borse e giacche. Poffare. “Questi posti sono occupati” dice lei, dal sedile 10. “Sì, da noi, sono i nostri” dico io.
“Causa del decesso, capocciata sul naso” direbbe il medico legale. “Legittima difesa, il caso per me è chiuso qui” direbbe il poliziotto di un mondo più giusto, perché io già stavo svalicando nel penale.
“Le altre sono in bagno, quando tornano glielo dico” dice lei, dal sedile 10.
“Noi abbiamo i posti fino al 7, 5-6-e-7, è un problema?” dice l’abusiva di ritorno dal bagno.
“Sì, è un problema” dico io.
Enonmenefregauncazzosepoilavostracomitivarestadivisaipostiperfettinontelicedo.
Il film inizia.
La sala rumoreggia. In effetti non ha mai smesso di rumoreggiare. In una scala da 1 a 10 di misurazione del casino, avevamo già raggiunto i 130, nel senso di decibel. Quelli del decollo di un aereo.
Tuttavia in quel momento avrei preferito i 130 nel senso di km/h, ossia la velocità alla quale avrei voluto mettere tutti sotto.
“Puoi fare silenzio?” chiede mio fratello alla tipa del posto 7. “Oh, stai calmo, eh, se me lo chiedi gentilmente...” dice la tipa del posto 7. “Puoi fare silenzio, perrrrfavorrrrre?” insiste mio fratello con occhi di bragia.
Il film prosegue. È praticamente un film muto, tanto non si riesce a sentire una parola. Manca soltanto l’accompagnamento del pianista, come da tradizione, che in questo caso infatti è sostituto da Raffaella Carrà.
Na na
na na na na
na na na na na na na rumore rumore
Al chiacchiericcio incessante si aggiungono i telefoni cellulari. Livello di luminosità degli schermi: “Soli gemelli di Tatooine”. Raffealla Carrà è passata al Tuca Tuca.
Fine primo tempo.
Si accendono le luci. Entra il carrello degli snack e la sala sciama per le scale con l’obiettivo di procacciarsi cibo spazzatura, quello stesso cibo che gli ostruirà le arterie ma gli otto minuti dell’intervallo sono troppo pochi per sperare che all’occlusione del sistema cardiocircolatorio segua anche l’infarto. Raffaella Carrà prende una bottiglia d’acqua così poi è pronta per il suo cavallo di battaglia, Tanti Auguri (che suona un po’ come un’amara constatazione: “Volete godervi il film? Eh, tanti auguri”). “Potete guardarci gli zaini?” chiede la tipa del posto 7. La cosa sta prendendo una piega surreale.
“Scusate per prima”. Ancora più surreale.
“In effetti anche a me disturba la gente che parla a film iniziato”.
Guardo mio fratello. Mio fratello guarda me. Alice guarda i gatti. I gatti guardano nei soli gemelli di Tatooine. René Magritte guarda tutti e dice “Ah, lasciatemi fuori da ‘sta storia che è troppo surreale persino per me”.
Il film riprende. Na na
na na na na
na na na na na na na rumore rumore
(Raffaella Carrà capisce l’andazzo e molla Tanti Auguri per fare un encore di Rumore)
La tipa seduta accanto a me guarda compulsivamente il telefono e di tanto in tanto grida “Giorgio” e “Giorgió”, che potrebbe essere un suo amico della fila davanti o più verosimilmente il suo psicanalista perché alla fine tanto normale non devi essere per fare tutto ‘sto casino.
Il film prosegue. I Perdenti vanno in giro, fanno cose e vedono gente. Pennywise va in giro, fa cose e mangia gente.
Nessuno però che mangi la tipa seduta di fianco a me o il resto delle persone in sala.
Tipo il ragazzo verso le prime file che fa battute idiote a voce alta per rendere partecipe tutto il pubblico convinto che verrà incoronato Re della comicità.
È simpatico quanto un impiegato INPS.
Il film prosegue. La sala salta dalla paura ad ogni jumpscare (tutti peraltro assolutamente prevedibili), applaude a caso, e soprattutto fa domande sulla trama la cui risposta non è nemmeno da ricercarsi nelle 1300 pagine del capolavoro di Stephen King ma nel film proiettato proprio in quell’istante, e che sarebbe stato sufficiente seguire in silenzio per tre minuti e mezzo. (e comunque, anche volendo, secondo me le risposte non avrebbero in ogni caso potute trovarle nel libro: poiché tutti sembravano condividere lo stesso Q.I. del cavolo verza, è già tanto che fossero alfabetizzati abbastanza da aver compreso la lettera della fila in cui dovevano sedersi)
Il film prosegue.
I Perdenti sconfiggono Pennywise.
Pennywise viene inghiottito dal buio oblio senza aver mangiato nessuno della sala.
Il film finisce.
Ora. Limortaccivostri.
Perché spendere i soldi per fare qualcosa che evidentemente non vi interessa, dato che gli avete prestato la stessa attenzione che Virginia Raggi presta all’amministrazione di Roma? Perché rovinare alla gente, che al contrario vostro vorrebbe godersi un film (un bel film, come in questo caso), l’intera serata?
Perché io alla vostra età - dato che sembravate tutti proprio al limite del divieto dei quattordici anni - andavo al cinema con ammirazione reverenziale, mentre voi andate al cinema come andate al cesso?
Perché non sapete stare al mondo?
E soprattutto
perché nessuno vi ha mai menato da piccoli? Siete andati a “vedere” un film su un gruppo di bambini che si definisce “I Perdenti”.
In realtà gli unici veri perdenti siete voi.
11 notes · View notes
gregor-samsung · 5 years ago
Quote
Come sappiamo la tragedia è attica e la comicità è latina. Semplificando, la tragedia appartiene agli stati democratici e la comicità a quelli dal potere forte, centralizzato. In democrazia il cittadino è chiamato a scegliere tra valori diversi, in contrasto tra di loro e talvolta qualitativamente equivalenti. È lui a decidere ciò che è bene e ciò che è male, è lui che deve scoprire quanto di cattivo c'è nel buono e viceversa. Le sue scelte di fondo gli richiedono responsabilità personali non sempre facili da assumere. Solo il fato (il cielo) è più forte di lui, perché capace di condizionare e dettare i suoi gesti. L'errore è spesso una fatalità. Da qui la tragedia. Al contrario, in una società dal potere forte, le scelte individuali sono molto ridotte, i comportamenti e modelli forniti dall'alto. Su leggi scritte e non scritte si trova l'elenco di tutto ciò che è cattivo e di tutto ciò che è buono: chi trasgredisce viene esplicitamente o tacitamente emarginato, la gerarchia sociale a piramide è un'indicazione di percorso che conduce al bene. Di conseguenza i comportamenti tendono a trovare uno standard rassicurante e si moltiplicano uguali nelle varie fasce della società. Allora ecco che militari, preti, commercianti, signorotti, madamigelle, impiegati, poliziotti, politici in doppiopetto eccetera si adeguano a un canone comportamentale ben preciso, fino a diventare vere e proprie caricature. Il comico, che lavora con il senso comune, al contrario di quel che viene da pensare, non descrive il disagio di una esistenza prestabilita, incanalata in una ritualità inconsapevole, ma disegna un personaggio che non riesce suo malgrado ad essere all'altezza dei modelli imposti, a confondersi nel mondo dei «normali». Egli è, paradossalmente, reazionario. Non vuole trasgredire le norme, le vuole assumere. E se alla fine prende un aspetto eversivo è perché, senza volerlo, mette gli spettatori di fronte a uno specchio, si fa complice della loro vitalità repressa. Il comico è il «beato» di Sandro Penna: beato perché diverso essendo egli diverso (ma guai a chi è diverso essendo egli comune).
Vincenzo Cerami, Consigli a un giovane scrittore. Narrativa, cinema, teatro, radio, Garzanti, 2002 [1ª ed.ne Einaudi, 1996]; pp. 156-57.
17 notes · View notes
tmnotizie · 5 years ago
Link
di Tonino Armata (presidente onorario dell’ ssociazione Città dei Bambini).
SAN BENEDETTO – Egregio direttore,
Destra, sovranisti, gilet arancioni, tutti sgangherati. Questa è la loro natura profonda, esattamente come sgangherata è stata la manifestazione di ieri, così come sono sgangherate molte delle uscite sui temi più importanti e com’è la collocazione internazionale dei partiti che ne fanno parte, non a caso privi di credibili punti di riferimento (vedasi alla voce Le Pen), oppure discussi (vedasi alla voce Orban) o incoerenti (il Ppe per Berlusconi) con i partner.
Questa condizione è talmente prevalente da essersi manifestata già di prima mattina nella manifestazione di ieri, appuntamento nel quale tutte le regole di comportamento in chiave Covid-19 sono andate in frantumi in pochi minuti (anche se, per la verità, nemmeno al cimitero di Codogno le persone accorse per salutare il Capo dello Stato erano distanziate secondo le regole).
Ma c’è di più, perché ieri la piazza ha preso nettamente il tono di una dura protesta contro il governo ed il premier, altro che essere un momento di proposta come annunciato dagli organizzatori. Ecco quindi che la condizione di realtà “sgangherata” è emersa assai bene nel corso della giornata, mostrando la destra italiana esattamente per quello che è.
Non sono i disubbidienti, questi: sono gli screanzati. Non sono gli obiettori di coscienza, ma il Partito di chi parcheggia in terza fila. È forte la tentazione di considerare le manifestazioni dei “gilet arancioni” come il dettaglio farsesco che inevitabilmente si palesa all’interno di una tragedia. Ovvero il particolare meschino e ridicolo che sembra sospendere, almeno per un attimo, il senso del dramma collettivo.
In effetti, quando al circo cade il trapezista, si fanno entrare i clown e, d’altra parte, nella storia di tutte le guerre c’è sempre un tratto di comicità involontaria che deforma il sentimento del dolore. Dunque, possiamo classificare i No Mask e i loro gilet simil-Anas come la componente caricaturale all’interno di una rappresentazione corale segnata dal lutto. Ma i “gilet arancioni” non sono solo questo: a motivarli sono tre tendenze proprie del carattere nazionale degli italiani.
Innanzitutto, uno spirito anarcoide privo di qualsiasi ispirazione culturale e ideologica, ma basato su una incoercibile insofferenza per le regole. È l’atteggiamento di chi attraversa con il rosso e butta le cartacce per terra in base a un Assoluto filosofico che si riassume così: e perché non dovrei? Quindi non la contestazione razionale di un provvedimento ritenuto irrazionale e, tantomeno, l’obiezione nei confronti di un ordine ingiusto, bensì l’espressione di una ribalderia esistenziale che si compiace di sottrarsi a qualsiasi vincolo e limite.
Il rifiuto di indossare la mascherina equivale né più né meno che a quello di allacciare la cintura. Una sorta di sovranismo dei comportamenti e dei movimenti come affermazione prepotente dei propri comodi contro ogni richiamo alla corresponsabilità. Il carattere primitivo di questa rivolta del gesto si spiega con la natura altrettanto elementare dell’analisi da cui muove.
All’origine di tutto c’è la Grande Cospirazione. È una variante della sindrome del complotto che, in questo caso, riesce a ricomporre tutti gli elementi della trama universale, riassumendoli in un unico nemico. I Rothschild e i Rockfeller, Bill Gates e George Soros, Big Pharma e le diverse lobby mondialiste: tutti questi soggetti, in genere accusati di speculazioni finanziarie e manipolazioni di Borsa e mercato, oggi vengono ridotti ad agenti di una guerra batteriologica che nascerebbe in un laboratorio della regione cinese di Wuhan. Qui, la paranoia del complotto rassomiglia, piuttosto, alla parodia delle grandi storie di spionaggio, che si trova nel film Casino Royale di John Houston, Peter Sellers e Woody Allen.
Il terzo motivo ispiratore dell’azione dei “gilet arancioni” è costituito dal negazionismo antiscientifico. Chi si toglie la mascherina dice che non crede al Covid 19. Dice che non esiste alcun virus. Ma da dove nasce questo rifiuto della realtà? Il pregiudizio antiscientifico è estremamente diffuso in Italia, risultato in primo luogo di una smaccata ignoranza delle cognizioni essenziali e di quello stesso ribellismo che rifiuta le regole della convivenza sociale. E, di conseguenza, le leggi della scienza e le sue evidenze.
Queste ultime appaiono arbitrarie, non esito di ricerca e sperimentazione, ma mero prodotto del potere. Dunque sottrarsi alle regole della scienza sarebbe un atto di libertà: tanto più che l’autorevolezza delle prescrizioni mediche e delle disposizioni sanitarie vengono lette come articolazioni di un dispotismo politico che piega ai propri voleri le competenze degli esperti, (i virologi e gli epidemiologi, in questo caso).
Ma, si potrebbe obiettare, stiamo parlando di un’irrisoria minoranza. Se non fosse che i “gilet arancioni” potrebbero giovarsi di altre imprevedibili coincidenze. Per il 2 giugno, festa della Repubblica, è prevista una serie di iniziative, promosse da Lega e Fratelli d’Italia. Innanzitutto la richiesta di collocare una corona di fiori sull’Altare della Patria e, poi, numerosi flash mob in varie città.
La somma delle diverse manifestazioni risulta davvero scombiccherata: un’intenzionale offesa a quella idea di unità nazionale e di concordia sociale che, non questo o quel partito o quell’uomo di governo, bensì la permanenza della pandemia esige.
La piena espressione della libertà di critica nei confronti dell’esecutivo non è certo in discussione, ma l’unilateralità di un gesto di omaggio partitico ai caduti di tutte le guerre va ben oltre: e lacera un tessuto di solidarietà che dovrebbe essere patrimonio di tutti.
La destra, se vuole essere all’altezza di questa terribile crisi, deve trovare un suo ruolo e una sua fisionomia, evitando la subalternità nei confronti dei sovversivi da avanspettacolo e la pretesa settaria di rappresentare un’intera società che, oggi ferita e dolente, continua a essere fatta di molte culture e differenti identità.
0 notes
retegenova · 5 years ago
Text
Charles Dickens
Charles Dickens “In altre parole, Dickens si deliziava delle idiosincrasie e delle leziosaggini dei suoi personaggi. Una volta creati continuavano a vivere in lui come altrettanti amici immaginari che aveva il piacere di presentare nelle occasioni più appropriate.” Tragedia e gaiezza, dramma e comicità, denuncia sociale e ricerca di giustizia animano le pagine dei suoi romanzi, indimenticabili […]
View On WordPress
0 notes