#ce ne sarebbe davvero bisogno
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animapunkocchidipeterpan · 3 months ago
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Rich 🤍
com'è tenero e carino 🤍 vederlo mi mette troppa gioia 🩵
dalle storie di ghali.amdouni_fanpage su IG
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magicnightfall · 4 months ago
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IN MY ERAS ERA: LONG LIVE ALL THE MAGIC WE MADE
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Our song is the slamming screen door
Un pomeriggio di circa quindici anni fa ho acceso la tv a caso su MTV e sono rimasta folgorata da una chitarra sbrillucicosa che faceva bella mostra di sé nel video di Our Song. Della proprietaria della chitarra ricordo di aver pensato “Carina ‘sta ragazza”. In quel momento devono essersi ricablati tutti i fili, i cavi e gli ingranaggi del mio cervello, perché Taylor Swift, da quella volta, io non l’ho più mollata.
“You know, it's been thirteen years since I got to see you in Milan..."
Quando ho preso i biglietti per lo Speak Now World Tour, che faceva tappa al forum di Assago il 15 marzo 2011, era febbraio. Altro che gli Hunger Games un anno prima. Eravamo pochi, è vero, soltanto metà palazzetto, ma posso dire che eravamo entusiasti. In fila, prima che aprissero i cancelli, si cantava a squarciagola e persino ci si spintonava. 
To live for the hope of it all
Nonostante ciò (e nonostante Taylor stessa in un’intervista in un programma americano ci avesse definiti fantastici), il Belpaese è stato cancellato dalle mappe. Siamo spariti dai radar come una nave nel triangolo delle Bermude, e di conseguenza abbiamo passato i successivi tredici anni a sperare che tornasse in Italia, a chiedere che tornasse in Italia, un po’ pure a insultarla perché non tornava in Italia. Fast forward al 2023 quando, così de botto senza senso, siamo stati messi di fronte alla più improbabile delle evidenze: sarebbe tornata in Italia, con l’Eras Tour. 
First reaction sciok.
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“Welcome to the Eras Tour”
Il The Eras Tour è figlio, tra le altre cose, di un momento storico peculiare: la pandemia. Il Lover Fest, che avrebbe dovuto fare da supporto all’album Lover, era stato annullato, e negli anni delle restrizioni, Taylor, siccome è so productive, ha sfornato folklore, evermore, Midnights, Fearless Taylor’s Version e Red Taylor’s Version. 
Tornati finalmente alla vita normale, tutto ciò non poteva che tradursi in un tour che riflettesse a pieno, e più di ogni altro, quel bisogno di aggregazione e di condivisione che solo la musica può soddisfare. 
L’Eras Tour, infatti, non nasce per promuovere, come normalmente accade, un album specifico, ma per celebrare un viaggio lungo diciotto anni, in compagnia di chi c’era dall’inizio (it’s me, hi) e di chi si è aggiunto strada facendo. Un effetto farfalla, se vogliamo, nato da circostanze irripetibili, e che ha condotto a un tour irripetibile a sua volta. Sono convinta che non staremmo qui a fare questi esatti discorsi se quattro anni fa le cose fossero andate diversamente. 
Si tratta di una premessa necessaria da fare, perché già questa sola dovrebbe bastare a inquadrare l’Eras Tour e a spiegare le ragioni dell’esaltazione di massa che gli sono ruotate attorno da quando è iniziato, a marzo dell’anno scorso, e gli ruotano attorno tuttora. Insomma, è evidente che sia qualcosa di più di una semplice tournée come ce ne sono sempre state e sempre ce ne saranno (sebbene difficilmente di queste dimensioni colossali), e qualcosa, per noi fan (a maggior ragione per noi italiani, dimenticati per tredici anni), di davvero speciale: di condivisione, di aggregazione, di comunità, di una sorta di “riconoscersi”, e di cui i friendship bracelets, che ormai ne costituiscono il simbolo, non sono che la mera e tangibile estrinsecazione. Nella recensione di TTPD accennavo proprio a questo, a come Taylor sia capace di unire persone di età, genere, etnie, nazionalità le più diverse tra loro, e di creare una bolla in cui ognuno riesce a essere se stesso e a suo agio, e a Milano ho avuto modo di rendermene conto di persona: dalla ragazza col velo e il braccio pieno di braccialetti che ho superato all’uscita della metro a quei ragazzi latini davanti a noi sulla strada del ritorno, alla coppia di Toronto con cui mi sono scambiata i braccialetti alla fine del concerto. E, ovviamente, tutti noi italiani provenienti dall’Alpe a Sicilia.
Ora, su questo tour hanno detto e stanno dicendo di tutto: la maggior parte dei giornalisti si sofferma sull’enorme indotto economico generato; per altri è l’occasione per l’ennesimo, banalissimo, servizio di costume; altri ancora, da profani, cercano di cogliere (e pretendono di spiegare a tavolino) il Taylorismo (spesso e volentieri cannando in scioltezza addirittura i titoli delle canzoni: ho già avuto modo di incrociare “Love Song” e “The Moment You Know”: che siano delle vault track?). E poi ci sono loro, i veri eroi dei nostri tempi: i Gianfranchi e le Patrizie nei loro abiti della domenica che insistono e giurano che proprio non sanno chi cazzo sia (who’s Taylor Swift anyway? Ew). Nel dubbio, comunque gli fa cagare (e si sforzano di ribadirlo con quanta più violenza verbale possibile, tanto verso di lei quanto verso i fan), perché vedi te che degrado culturale questi giovani d’oggi, signora mia, dove andremo mai a finire.
Così sono arrivata a un’incontrovertibile verità: mi sento di dire, con buona approssimazione, che su questa materia l’unica opinione che conta è la mia. La mia, e quella degli altri centotrentamila swiftie che insieme a me hanno fatto esplodere San Siro il 13 e il 14 luglio (per non parlare di quelli fuori nel parcheggio). 
E siccome è mia abitudine fissare qui sul blog le cose che vorrei poter ricordare anche quando sarò vecchia e rinco in casa di riposo, questo è il resoconto delle varie e delle eventuali della seconda serata milanese dell’Eras Tour. 
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Silenced as the soul was leaving
Ora che scrivo queste righe è passata una settimana esatta, e in tutta onestà sembrano trascorsi contemporaneamente sia ottantaquattro anni sia tredici minuti. In realtà è quasi come se non ci fossi stata. Secondo me, ed è un fenomeno che andrebbe studiato dalla scienza, la mia anima ha lasciato il corpo appena Taylor è comparsa sul palco. Allora riguardo i video che ho fatto e sentendomi starnazzare in sottofondo mi dico che sì, non solo c’ero, ma mi sono pure divertita un casino, nonostante adesso mi paia di star facendomi gaslighting da sola.
“Piacere di conoscervi”
In ogni caso, anche se dal secondo anello verde la vedevo alta suppergiù due micron e poco più, averla lì davanti è quanto di più affine alla trascendenza che abbia vissuto in tutta la mia stinfia esistenza: l’energia che emana, la sua mostruosa presenza scenica e l’altrettanto mostruosa padronanza del palco e di ogni singolo istante di spettacolo sono cose che non si vedono tutti i giorni e che non si vedranno ancora per molto tempo, checché ne dica l’ultima strofa di Clara Bow.  Ugualmente, il modo che ha di interagire con la folla rendono quella enorme macchina che è l’Eras Tour qualcosa di intimo e, pur seguendo delle formule prestabilite, qualcosa di unico, come se fosse tagliato a misura di ogni singolo pubblico. 
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Sono convinta, and I’ll die on this hill, che chiunque fosse al concerto non da fan ne sia uscito conquistato, se non proprio convertito. 
Per non parlare, poi, del modo sciolto e disinvolto con cui gestisce i contrattempi.
“You know what — we finally broke it. We have finally broken this thing”
Perché sebbene l’Eras Tour sia un meccanismo dagli ingranaggi perfettamente oliati, non per questo è esente da quei momenti da “bello della diretta” tipici dei live. Sui social e su YouTube è pieno di compilation di video denominati Errors Tour, che comprendono malfunzionamenti vari della strumentazione, inciampi, insetti ingoiati, lyrics dimenticate, problemi coi cambi d’abito, e che a me fanno sempre spisciar dal ridere. La night 2 milanese non è stata da meno, con la tastiera elettronica surriscaldata al punto da smettere di funzionare (un po’ come il mio cervello durante tutte le tre ore, se devo dirvi la verità). E quindi è stato sia divertente sia speciale (e, appunto, in qualche misura intimo) assistere a un blooper.
“Did I choose correctly, Milan?”
Ora, giusto per rendere l’idea di quanto poco il mio cervello funzionasse in quel momento, lì per lì mi ero completamente scordata che doveva ancora arrivare il set acustico e le surprise song (a mia discolpa, è perché non vedevo l’ora di sentire Anti-Hero; sennonché, arrivata poi proprio Anti-Hero, non ne avevo riconosciuto l’intro. Avete presente quando sul cruscotto della macchina si accendono tutte le spie e non funziona niente e non avete la minima idea di cosa stia succedendo? Ecco, benvenuti nella mia testa quel 14 luglio). 
Per quei fan presenti a loro stessi e che quindi si ricordano cosa sta per succedere, le surprise song sono uno tra i momenti più attesi della serata. Noi, anche per merito della folla spettacolare del giorno prima, quella che le ha cantato Sei Bellissima (si può dire una sorta di surprise song all’inverso) e che le ha fatto decidere di ripensare l’intero set, ci siamo beccati delle signore canzoni a sorpresa: Getaway Car — una tra le mie preferite di sempre — in mashup con Out of The Woods al piano, e poi Mr. Perfectly Fine in mashup con Red alla chitarra. Peraltro, e voglio credere che sia voluto, tutte canzoni facenti parti di Ere con le quali non è venuta in tour da noi (reputation, 1989, Fearless e Red). È stato un po’ come ricevere il trattamento da figli preferiti.
The crowds in stands went wild
Anche perché siamo stati belli e rumorosi. Mi perdonerà Stanis La Rochelle, ma siamo stati… italiani, ecco. Il fragore della standing ovation prima e dopo champagne problems sarà qualcosa che porterò con me per il resto della vita. Che tra l’altro, e questo le lobby dei proprietari delle palestre non ve lo dicono, un paio di sessioni di applausi così e ti tiri fuori dei bicipiti da supereroe Marvel. Poi vabbè, è toccato smettere quando Taylor è riuscita a riprendere la parola (“Vi amo tutti”), perché si stava facendo ‘na certa.
As the crowd was chanting “More!”
Già da aprile in macchina cantavo I Can Do It With A Broken Heart come se ne andasse della mia vita, e avere l’occasione di cantarne il ritornello a pieni polmoni, con particolare insistenza su quel “More!”, insieme a uno stadio stracolmo di gente che faceva altrettanto è stata l’esperienza più bella, elettrizzante e liberatoria della mia vita. Così come il bridge di Cruel Summer, il “Fuck the patriarchy” di All Too Well (cantata quasi con la mano sul cuore come un inno nazionale), il “1, 2, 3, let’s go bitch” come intermezzo in Delicate, il “What a shame she's fucked in the head” di champagne problems, e poi il ritornello di Who's Afraid Of Little Old Me e il bridge di The Smallest Man Who Ever Lived e, da bimba di Anti-Hero, l'iconico “It’s me, hi”. Per non parlare dei cuori durante Fearless e il battito di mani in You Belong With Me, una tradizione così inveterata che ormai mi viene naturale quanto respirare (pure quando guido: due colpetti sul volante e sto).
Il sovraccarico di emozioni mi avrà pure lasciato coi ricordi annebbiati — mi consola vedere come sia un’esperienza comune a parecchie altre persone — ma ‘sta roba ce l’avrò impressa a fuoco nel cervello in saecula saeculorum. Magari per far spazio a questi ricordi, stante la ram limitata della mia testa, come Peter Griffin dimenticherò come ci si siede, ma ne varrà la pena.
“And I don't even want you back, I just want to know — Aiudade lei per favore — If rusting my sparkling summer was the goal — Aiudar… — And I don't miss what we had, but could someone give — Please, some help over there, please — a message to the smallest man who ever lived?”
Un altro momento degno di nota della night 2 — in uno spettacolo che in fin dei conti è tutto degno di nota — è stato quando, durante The Smallest Man Who Ever Lived, qualcuno nel parterre si è sentito male e Taylor ha attirato l’attenzione della sicurezza chiedendo di intervenire. Non è la prima volta che accade durante l’intero tour, e ogni volta mi colpiscono l’attenzione e la responsabilità che dimostra verso i fan (a Rio de Janeiro il caldo e la gestione criminale degli organizzatori brasiliani hanno portato alla morte di una ragazza, e credo che la cosa un pochino l’abbia segnata), così come il fatto che riesca a portare avanti l’esibizione senza perdere un colpo. Io, che riesco si è no a respirare e contemporaneamente a formulare un pensiero senza perdere un colpo, non posso che guardarla ammirata anche sotto questo aspetto.
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I counted days, I counted miles, to see you there
Mi sono preparata per questo Eras Tour con una cura per il particolare che non ho mai messo e che non intendo mettere in nient’altro nella vita (prossimi concerti di TS esclusi): dal b&b prenotato il giorno stesso dell’acquisto dei biglietti alle Vans con ricamato sul tallone sinistro Anti e sul destro Hero; dalla t-shirt ufficiale che mi sono regalata a Natale alle caramelle per contrastare gli eventuali cali di zuccheri (comprati: quattr’etti — stavano in offerta – mangiate: nessuna); dai palloncini per chiudere la bottiglia in caso di sequestro del tappo al ventaglio (finalmente i matrimoni a cui sono andata sono serviti a qualcosa), e fino alla quantità strabocchevole di friendship bracelets preparati nel corso di sei mesi. Sebbene, ovviamente, l’attesa del concerto non fosse essa stessa il concerto, e un anno è davvero un fracco di tempo da far trascorrere, l’aver avuto qualcosa da progettare e da pianificare ha reso l’intera esperienza ancora più intensa.
Slipped away into a moment in time
Se non fosse, però, che quelle tre ore e un quarto di spettacolo — che pure sono tante — sono volate via in un niente. Un niente, raga, n i e n t e.  Quando, prima di Karma, Taylor ha detto “We had the most amazing time with you, Milan, you have given us so much. Would you possibily give us… one more song? Andiamo!” ho pensato no, fermi tutti, one more song cosa che saran venti minuti appena che è iniziato il concerto, suvvia non facciamo scherzi. A me di ore ne sarebbero servite almeno diciotto, tipo maratona Mentana Swift edition. E che dire delle quarantasei canzoni in scaletta? Sebbene siano oggettivamente un bel po’, per una che è in astinenza da tredici anni quelle quarantasei canzoni sono la quantità minima che userebbe una nonna per farti capire se il concerto è cotto.
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So make the friendship bracelets, take the moment and taste it
Da questo concerto sono tornata con la testa vuota e il cuore pieno. A parte aver visto Taylor, a cui io comunque voglio proprio bene (lo so che è la mia relazione parasociale con lei che parla, ma questo è) ed è sempre un onore e un privilegio poter passare una serata in sua compagnia, le interazioni che ho avuto con tutti gli altri fan sono alcuni dei ricordi più belli che conservo di quei due giorni a Milano. Menzione d’onore all’interazione più improbabile di tutte, con quel “Ma tu sei quella che ha scritto l’articolo su Tumblr?” sparato così de botto senza senso all’ingresso del stadio (ciao Mariano, scusa se in quel momento devo esserti sembrata completamente inabile alla vita ma proprio non me l’aspettavo). Ben più probabile, ma altrettanto appagante, la reunion del gruppo whatsapp composto di amiche vecchie e nuove, provenienti da regioni, province, città diverse e che conosco ognuna per ragioni differenti ma accomunate tutte dall’entusiasmo per Nostra Signora dei Sold Out: è stato anche grazie a loro, con gli scleri e i meme girati nell’etere, che l’anno di attesa in fin dei conti è volato.
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E poi i braccialetti, il cui scambio sembrava un po’ un’edizione di Giochi senza frontiere, visto che li ho regalati a persone provenienti da ogni angolo del globo, a partire dalla ragazza che in zona Duomo mi ha bussato su una spalla e mi ha offerto il suo (“Would've, Could've, Should've”), per passare a quelli scambiati in metro, nel parcheggio dello stadio (dove ho beccato, tra gli altri, un glorioso “Minnesota Soccer Mom” — io ne avevo preparato uno con “This Dang Deer”), sulle gradinate, e poi il giorno dopo in stazione e sul treno del ritorno. 
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You like like Clara Bow
È buffo come, usciti dalla bolla della perfezione dell’Eras Tour, ci siamo dovuti confrontare subito con questo paese di musichette: l’unica metro aperta dopo il concerto guasta, la pula locale che sì, boh, forse, quelli dell’ATM che andate a Cadorna e poi da lì siete nelle mani di Dio (che, ochéi, ho capito l’onnipotenza e tutto, ma pretendere che riesca addirittura a cambiare le sorti del trasporto pubblico italiano mi pare francamente eccessivo. E comunque era scesa dal palco mezz’ora prima, credo avesse altro da fare). 
Io e la mia compare ci siamo quindi ficcate su un tram a caso — e qui c’è da sottolineare per forza il senso di tranquillità che si prova a stare in mezzo agli swiftie all’una di notte inoltrata nella periferia milanese, roba che neanche a casa mia mi sento così scialla — su cui è salita un’anziana signora tanto elegante e distinta quanto scafata. Dopo qualche convenevole e averle detto perché il tram fosse pieno di gente decorata coi glitter (“Ah, il concerto di quella ragazza che canta…” vi prego, proteggete questa signora a tutti i costi) non solo ci ha spiegato le linee, le coincidenze e il senso della vita ma, scesa alla nostra stessa fermata, ha anche aspettato che salissimo sul tram che ci aveva consigliato di prendere e intanto, all’angolo della strada, faceva da palo per vedere se arrivasse prima l’autobus. La sua gentilezza e disponibilità mi hanno commossa al punto che le ho detto di pescare un braccialetto dal sacchetto. “Ma così se ne priva lei…” mi ha risposto. Quando le ho raccontato della tradizione sottesa al concerto, e che per me sarebbe stato solo un piacere potergliene regalare uno, ha tirato fuori quello con scritto “Clara Bow” (attratta dal fatto che fosse nero e oro, che a detta sua conferiva un tocco di eleganza). Ed è stranamente e cosmicamente appropriato: non essendoci presentate e non sapendo come si chiamasse, ad uso e consumo dei miei ricordi lei la chiamerò proprio Clara Bow. (L’aneddoto sarebbe stato un po’ meno poetico se avesse preso il braccialetto con scritto “No its Becky”)
Leaving me bereft and reeling
Lavorando in ragioneria credevo di essere ferratissima sugli argomenti “notte oscura dell’anima” e “morte spirituale”, ma questo era prima di sperimentare il lutto post concerto. Che tragedia incommensurabile essere stati for a moment heavenstruck e poi dover tornare alla vita stinfia di tutti i giorni. Oh, è anche vero che col corpo sarò pur in ufficio, ma con la testa sto ancora al ristorante.
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Bring you peace
Non saprei dire se sono io strana, o se invece sia successo anche a qualcun altro, ma quel che mi ha lasciato questo concerto è stata una sensazione di assoluta serenità e pace interiore. Una roba così zen che Buddha stesso ha detto “Ma famme prende appunti, toh”. Il fatto è che quando in giro leggevo di gente che ha dato fondo a tutte le lacrime, al netto delle iperboli tanto care alle narrazioni internettiane, oppure che è rimasta preda di euforia incontenibile, di quel tipo che pensi che potresti andare a scalare l’Everest senza ossigeno, necessariamente mi veniva da pensare: “Ma è così che dovrebbe essere? Mi sarebbe dovuto venir da piangere — almeno una lacrimuccia — durante marjorie, considerando che quattro anni fa durante il primissimo ascolto mi ci son quasi disidratata? Oppure mi sarei dovuta sentire carica a pallettoni?”. In realtà, più prendevo coscienza, anche nei giorni immediatamente successivi, di quell’inusitata assenza di perturbazioni mentali, più mi rendevo conto che in altre circostanze in quello stesso momento sarei stata attanagliata dalla tachicardia che appare dal nulla, dall’agitazione, dal mio solito cortocircuito di pensieri che spiralizzano fino ad arrivare, puntuali, alle conclusioni più negative nella storia delle conclusioni negative. Perché, davvero, io non mi ricordo mica quando è stata l’ultima volta che ho provato un tale senso di così pura quiete, col cuore che batte a velocità congrue, i pensieri che per una volta non fanno a gara a immaginare gli scenari più catastrofici possibili e nessuna vocina che ti dice che in fin dei conti stai buttando via l’esistenza. In generale non dovrebbe stupirmi, perché la musica di TS ha sempre avuto su di me un effetto rasserenante, eppure mi sono stupita lo stesso, perché a un livello tale di pace non ci ero mai arrivata.
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I hate it here so I will go to secret gardens in my mind
Ora, mi rendo conto che sessioni settimanali di concerti live di Taylor Swift non siano una terapia sostenibile, però già il fatto di poterci tornare con la mente aiuta. Anche il sentirmi starnazzare senza pietà e cannare tutte le note di Anti-Hero, paradossalmente, aiuta. Un po’ imbarazza, ochèi, ma per lo più aiuta. 
Hold on to the memories, they will hold on to you
E allora, cara me del futuro vecchia e rinco in casa di riposo, quando rileggerai questo post (o magari qualche gentile infermiere lo leggerà per te) spero ti sovverrà alla mente che for a moment I knew cosmic love e che, anche se solo per una manciata di ore, il mondo è stato davvero bello.
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vintagebiker43 · 7 days ago
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Com’è possibile che viviamo tutti sullo stesso pianeta, eppure ci sono persone, come noi, che vivono per davvero, e persone, come loro, che sopravvivono solamente?
Mi sveglio all’alba, la mia stanza già assediata dall’afa di un giorno appena abbozzato all’orizzonte. L’aria condizionata non funziona. Non mi sorprende. Sono ai confini del mondo.
Trentaquattro anni fa, Majok, un bambino sud sudanese, si sveglia all’ombra di un albero, nel pascolo in cui sorveglia il bestiame di famiglia, per scoprire il suo villaggio avvolto dalle fiamme.
Mi trovo in Turkana, una delle contee più remote e svantaggiate del Kenya, al confine con il Sud Sudan. Mi preparo ed esco a ritrovare i membri del mio team, Salome e Edwin, che mi assistono in questa missione, e insieme ci dirigiamo verso il cancello principale. Lì ci aspetta un fuoristrada. Nel campo profughi di Kakuma, il terzo più grande del mondo, ci si può muovere solo sotto scorta.
Majok trova la sua famiglia sterminata, i muri di casa carbonizzati, tutto ciò che possedeva depredato. È il 1990, e la Seconda Guerra Civile del Sudan imperversa già da anni, ma lui non aveva mai pensato sarebbe arrivata fino al suo villaggio. Si era sbagliato. E sa che i miliziani torneranno a reclutare i bambini rimasti soli, obbligandoli a combattere nell’esercito dei ribelli. Fugge.
Il fuoristrada si fa largo tra le strade sconnesse e polverose del campo profughi. Non è il primo che vedo nella mia vita. Ma non c’è paragone. Ho fondato Still I Rise nel campo profughi di Samos, in Grecia. Laggiù, 7000 persone erano considerate il punto di rottura di una crisi terribile. Qui ce ne sono più di 290.000. Il 53% sono bambini. Uno su tre non va a scuola. Si vive con 0,04€ al giorno.
Nella disperazione di aver perso tutto, Majok trova conforto nello scoprire di non essere rimasto completamente solo. Proprio come lui, sono più di 20.000 i bambini perduti che, avendo guardato la morte negli occhi, sono fuggiti alla cieca per poi ritrovarsi nella savana e organizzarsi in piccoli gruppi, camminando in fila indiana, alla ricerca di un porto sicuro della cui esistenza non sono minimamente certi. Ma hanno sentito che in Etiopia le cose sono migliori, e così si sono messi in marcia. Majok ha appena 12 anni, eppure si trova a capitanare il suo gruppo. È il più grande.
Il fuoristrada si ferma davanti al cancello della scuola gestita dall’organizzazione che ci fa da spalla qui a Kakuma. Operano nel campo da decenni e fanno del loro meglio, ma mancano i fondi, le loro strutture hanno bisogno di manutenzione e le loro aule accolgono fino a 100 studenti per ogni insegnante. Potrebbe andare peggio: a Kakuma il rapporto insegnante-studenti arriva a 1:180. Ci prepariamo. Questo è un giorno importante per noi. Bambini e genitori ci stanno già aspettando.
Majok e il suo gruppo camminano per più di mille chilometri. Ci mettono mesi. Altri gruppi, anni. Non hanno che i vestiti che indossano. Sopravvivono elemosinando cibo nei villaggi che attraversano. Ma anche lì le risorse scarseggiano. Con il passare del tempo, le loro braccia si assottigliano e le costole emergono appena sotto la pelle. Hanno gli occhi scavati. Dei 20.000 bambini partiti, la metà muore di stenti, di polmonite, di malaria, sbranata dai leoni o uccisa dai miliziani. Molti si arrendono, consegnandosi ai ribelli per diventare bambini soldato. Ma non Majok.
Siamo a Kakuma, uno dei luoghi più inaccessibili del pianeta, per mantenere una promessa fatta ormai quattro anni fa: offrire l’opportunità di studiare in una Scuola d’eccellenza, conseguendo il Baccalaureato Internazionale e, di conseguenza, la libertà, ai bambini più dimenticati del globo. È un momento importantissimo per me. Quando siamo pronti, bambini e genitori entrano nell’aula.
Dopo mesi di cammino, Majok e il suo gruppo arrivano in Etiopia. Eppure nel 1991 la guerra il raggiunge anche lì, e sono costretti a fuggire di nuovo, stavolta verso il Kenya. È qui, in un campo profughi chiamato Kakuma, o “nessun luogo” in swahili, che trovano riparo permanente. Gli esperti sostengono che i Bambini Perduti del Sudan siano i più traumatizzati mai esaminati nella Storia.
Distribuiamo i moduli ai genitori. Molti di loro non sanno leggere. Non fa niente, spieghiamo l’opportunità offerta: lasciare Kakuma per frequentare una Scuola Internazionale gratuita e cambiare per sempre il corso della propria vita. Tutti, nessuno escluso, firmano. Uno di loro si chiama Majok, ha più di quarant’anni, negli occhi le cicatrici di una vita inconcepibile, ma al fianco una bambina dal grande sorriso, dagli occhi brillanti e dai capelli intrecciati con amore e cura.
Siamo arrivati troppi tardi per Majok. Nel 1990 io non ero ancora nato. Ma non è troppo tardi per sua figlia. È per lei che siamo qui. E, attraverso di lei, siamo qui anche per lui. Per forgiare il futuro, cambiare il presente e, in un certo senso, riscrivere il passato. Per spezzare il ciclo dell’ingiustizia.
Saremo i primi al mondo a offrire ai bambini di Kakuma l’opportunità di conseguire il Baccalaureato Internazionale e, cosa ben più importante, la libertà grazie al potere dell’istruzione. Chi è con noi?
P.s. Come da prassi durante le operazioni più delicate, pubblicherò questo resoconto solo dopo il mio ritorno da Kakuma e avendo assicurato la buona riuscita della missione. Per ragioni di privacy, Majok è un nome di fantasia. La sua storia, e quella degli altri Bambini Perduti del Sudan, è reale.
Nicolò Govoni - Fondatore di "Still I rise"
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susieporta · 6 months ago
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"Non riesco a staccare".
Molte persone sono talmente dipendenti dalla dopamina dell'iperattività, che non riescono mai a disconnettersi.
Dal lavoro alla palestra, o dalla produttività in generale.
Appena finiscono un progetto ne ricominciano subito un altro; appena raggiungono un obiettivo hanno subito fame di raggiungerne un altro.
Passano da una attività a un'altra senza soluzione di continuità.
Sono in un incessante flusso di contatto.
In gestalt, quando un ciclo di contatto è finito, c'è una fase successiva che viene chiamata ritiro dal contatto.
È quella fase in cui si stacca da ciò che abbiamo raggiunto o da un bisogno che è stato soddisfatto, e ci si ritira nella propria solitudine, o si sta nella gratificazione successiva al contatto.
Ma alcuni sono talmente drogati di azione, di fare, che non riescono a concedersi una pausa di riposo.
Poi ovviamente si lamentano ogni tre per due di sentirsi stanchi e sopraffatti dalla vita.
Tuttavia la realtà è che il solo pensiero di fermarsi, di staccare, di prendersi una pausa e di godersi un meritato riposo, li manda in ansia.
La paura dietro a tutto questo è di non valere nulla, di non essere nulla, se non si è nell'azione.
Se non si fa.
Molto spesso la radice di tale convinzione tossica risiede nelle dinamiche familiari.
I genitori spesso sono votati allo spirito di sacrificio e al fare a tutti i costi.
Sono legati profondamente all'idea per cui se non produci, se non fai, non vali nulla, e al fatto che l'essere, il valore inconzionato, debba essere svalutato.
È paradossale che le emozioni e i bisogni del bambino, fossero anche quelli di provare piacere o riposarsi, vengano svalutati, e invece venga innalzato a ideale il fare anche a costo di autodistruggersi.
Così da adulti non riusciamo a stare fermi, a goderci un attimo di riposo, un momento di festa, perché ci sembra tempo sprecato.
Ci sentiamo in colpa se lo facciamo.
Ci massacriamo se non facciamo nulla.
La società capitalistica ovviamente alimenta questo meccanismo, quando invece la strada corretta sarebbe quella di lavorare di meno e aumentare il tempo per divertirsi e rilassarsi.
Di aumentare le pratiche contemplative dedicate al riconoscimento della bellezza, al piacere e al relax.
L'altra conseguenza del non riuscire a staccare, è quella di non poter mettere in primo piano ciò di cui abbiamo davvero bisogno.
Il ritirarsi, dopo aver soddisfatto un bisogno o realizzato un obiettivo, fa sì che ciò che si è appreso nel contatto venga integrato, e dallo sfondo si stacchino nuove figure, nuovi bisogni e obiettivi.
Se ce ne sono, e se c'è l'energia sufficiente per farli emergere.
Ma se si è sempre in azione, sempre alla ricerca famelica del contatto, lo sfondo è talmente confuso e pieno zeppo di roba che l'attenzione viene continuamente catturata da una serie di stimoli, senza soluzione di continuità.
Tutti gli stimoli sono uguali, perché lo sfondo dal quale si stagliano è sempre pieno, non avendo mai potuto svuotarsi tramite il ritiro, e quindi la persona non riesce a concentrarsi su nulla, o peggio ancora non riesce a stare senza fare nulla.
Se gli si propone di ascoltare le proprie viscere o il proprio respiro, va in ansia e comincia a parlare, a muoversi sulla sedia, ad agitarsi.
Il lavoro da fare è quello di decostruire i propri introietti familiari, quelli per cui se non si fa non si è degni di stima, e stabilire dei solidi e al tempo stesso flessibili confini del sé, capaci di aprire al ritiro dal contatto, chiudendo in questo modo ogni singola esperienza appena trascorsa.
Omar Montecchiani
#quandolosentinelcorpodiventareale
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allecram-me · 7 months ago
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Andare a Berlino
Voi non capite, lo dico agli amici, mia madre, anche alla psicologa, adesso che ci sono tornata - ed è servito a convincerla a concedermi almeno un mese di appuntamenti. A volte la frase è tanto banale da riuscire ad arrivare al punto, un punto d’interruzione stanca, che ci dovrebbe vedere ricominciare. Voi continuamente mi sopravvalutate, pensate che quello che mi riesce è ciò che posso fare, ma vi sbagliate! Tutto quello che io faccio, anche esistere, è una deroga, sudore e lacrime, il prezzo di questa presunta naturalezza nel successo è la desolazione del mio paesaggio interiore, la depressione che non volete vedere. Però loro non lo vedono davvero, mentre la mia depressione e la violenza della mia direttrice morale mi portano a dimenticarlo, e allora anche io non capisco, non capisco che loro non mi proteggono perché proprio non lo sanno, mi pensano normale e mi fanno discorsi normali, in cui potrei essere chiunque, potrei fare quasi tutto. Non ci capiamo perché parliamo di due persone diverse.
L’altro ieri ho incontrato la professoressa tedesca, finalmente. Volevo discutere con lei del se fosse una buona idea andare lì in visiting, e lei mi ha risposto solo sul come e quando, e ondeggiava per esprimere la contentezza di avermi lì. Questa donna mi ha spezzato il cuore soltanto chiedendomi tu, tu cosa vuoi fare?, e mi è sembrato che nessuno me lo avesse chiesto mai questo. Non ce l’ho avuta una risposta per lei, ma mi è anche sembrato che mi potesse aiutare. Non vediamo cosa puoi fare per noi affinché ti conceda questa preziosa opportunità, ma come posso aiutarti ad avvicinarti ai tuoi obiettivi? Questo di sicuro non me lo avevano chiesto mai.
Quindi adesso cambio casa qui, spendo un quarto di tutto quello che possiedo per l’ennesima sistemazione, il trasloco e quello che ne consegue, ma nel frattempo vado a Berlino, da sola, a lavorare su quello che voglio, come se fossi una persona normale. Come se fossi semplicemente quella che gli altri vedono senza pagarne il prezzo. Come se avessi dei desideri di carriera, o di vita, o quel che è. Sarebbe proprio bello se avessero ragione. Nella confusione generale, poi, le catene che mi è stato comodo mettermi addosso già tirano un sacco ed il mio cane da guardia si lamenta e morde - non le conviene per niente, e sono troppo indipendente, sono sempre stata troppo ferma sulle suole delle scarpe, e allora attacca, ma gioca da sola. Anche questa, immagino, è una conseguenza di apparire quell’altra me. Sembro una capace di combattere, il ché è assolutamente indesiderabile, ma per essere stata messa in questa arena deve anche assolutamente esserci qualcosa di desiderabile in quella me.
Non ho ancora capito se a una di noi due piaccia davvero la libertà, ma so per certo che ne abbiamo bisogno.
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unwinthehart · 2 months ago
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senti, probabilmente c'hai i guai tuoi ma ho bisogno di parlare con qualcuno. sono mesi, azzarderei anni, che mi sento oppress* in famiglia, incompres*, di troppo, perfino detestat* e non volut*. ho un caratteraccio e una personalità detestabili che ho forgiato piano piano per via di brutte esperienze che ho avuto e che non riesco a soupire anche se ormai sono archiviate. my sibling mi ha dato tanti consigli per migliorare ma non faccio il minimo sforzo per metterle in pratica.
sto sfaldando la mia famiglia se perdo questa sono sol* e non voglio. faccio piangere mia madre che è stanca e non ce la fa più. appena mi alzo sono già discussioni e musi da non dirsi. a volte sono io ma a volte sono loro, parlano tra loro e loro di me manco mi alzo e mi sento frustrat* e mi dicono di non urlare ma non ci riesco, mi sale proprio la frustrazione! poi mi alzo sempre tardi perché la notte non riesco a dormire. sto sempre a scrollare pigramente il cellulare e/o a piangere. piango ogni notte e a volte non so neanche perché. ho pianto perfibo per una stupidaggine per un vip che non ha visto il mio dm ma forse sotto c'era qualcosa di più. mi odio, non mi piaccio, non riesco a spegnere questi flashback del passato che ritornano a galla e non voglio/posso permettermi un* psicolog*. non so più che ca* fare. sto male perché ho 26 anni e non vengono a svegliarmi a letto come quando ne avevo 6 e oggi che gliel'ho detto hanno detto che quello che dico è senza senso. tutto quello che dico per loro è senza senso. non mi capiscono. poi my sibling a volte è opprimente, mi vuole consigliare ma ripete ripete ripete e mi sta addosso. e la cosa mi fa stare peggio, perché mi sento più oppress*, schiacciat*. se perdo la mia famiglia sono sol*. non voglio. e non vogliono più sentirmi parlare si sono rotti. non riescono a capirmi e quando provo a spiegarmi non capiscono che voglio dire come se parlassi una lingua diversa. e io nella mia mente so che certi miei comportamenti fanno peggio, mi ripeto di non partire in quarta ma proprio non riesco a controllarmi e ci ricasco ogni volta. e sono arcistuf* di far piangere mia madre. arcistuf* di tutto questo. e penso che forse l'unico modo per liberarci tutti sarebbe compiere l'insano gesto ma ho paura della m**te. sono stanc* di tutto questo male. aiutami ti prego, non so più cosa fare!!! e non so quanto possa essere rilevante per comprendere la mia psiche ma ho sempre in testa lily of the valley dei queen. visto che ormai c'è questa cosa di cercare significati nascosti belle canzoni che uno ascolta. sai, non hanno fatto/fanno altro che ripetermi che sono pazz* e stupid*. e ho paura che a furia di sentirmelo ripetere a un certo punto lo sia diventat* davvero.
Anon io purtroppo non ho nè le competenze, nè la capacità di aiutarti soprattutto così, a distanza. Ma non mi sento neanche di ignorare questo tuo grido di aiuto. Non sei nè pazz* nè stupid* ma descrivi quella che sembra depressione, o comunque un malessere generale nei confronti della vita. Io non so come aiutarti con la tua famiglia, ma sappi che se ti sembrano frustrati nei tuoi confronti potrebbe essere proprio perchè non sanno come aiutarti. Certamente non voglio farvi i conti in tasca, so bene cosa vuol dire attraversare anni difficili senza potersi permettere un terapista, ma qualcosa devi fare. Innanzitutto so che non vorrai sentirtelo dire, ma dormire poco o avere un ciclo sonno/veglia sballato acuisce e peggiora tutti gli altri sintomi, ti rende paranoico e ti mette in un costante stato d'ansia. Ci sono milioni di rimedi, naturali, per cui non devi spendere un rene oppure rivolgerti ad uno psicologo, puoi parlarne anche solo col tuo medico di base. E esci, non stare tutto il tempo in casa. Anche solo una passeggiata, da sol* con la tua musica, credimi, ti svolta la giornata. So che ti possono sembrare oppressivi, ma probabilmente neanche loro sanno che pesci pigliare e vogliono solo aiutarti. Sappi soprattutto che nulla è irremediabile, a tutto c'è una soluzione, che piacersi e conoscersi e accettarsi è un processo continuo. Che ci saranno giorni peggiori e giorni migliori. Ma soprattutto che niente al mondo vale la pena perdersi le piccole gioie quotidiane. Tieni duro e se ti serve pensa che a tutte le persone nella tua vita mancheresti troppo.
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apropositodime · 10 months ago
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Ho passato mezza vita a chiedere scusa anche quando non ce ne sarebbe stato proprio il bisogno.
E un' altra mezza vita ad aspettare chi doveva davvero scusarsi con me.
Sto smettendo.
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unfilodaria · 2 months ago
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No, non sono pronto. Ci sto provando. Seguire i consigli non desiderati di "lasciala andare", ancora non fanno per me. Ho conservato le chiavi di "casa nostra" da sette anni. All'inizio lo abbiamo trovato una cosa pratica: c'erano mille problemucci da risolvere e allora se bisognava scappare, si aveva le chiavi e si andava. Poi ci siamo detti: "no tienile lo stesso, non ho nessuno (non è vero, ci sono le sorelle), se succede qualcosa so che le hai tu e puoi intervenire". E con questo principio le ho tenute nel cassetto finora quasi "dimenticandole", sapendo benissimo, invece, dove stessero. Mesi fa all'ennesimo "fattaccio" (so bene che non devo definirlo così ma sto io a provare da coglione le pene dell'inferno) mi sono ricapitate tra le mani perché dovevo prendere altro. "e mo' che faccio?, che senso avrebbe tenerle ancora?". Non so se adesso le rivorrebbe, probabile che l'abbia dimenticato che io ne posseggo ancora una copia, ma probabilmente all'inizio, se le avessi restituite, l'avrebbe presa a male, conoscendola un po'. Ma giorno dopo giorno, insieme all'idea di mettere insieme in un libretto tutto quello che ho scritto finora, si è fatto spazio anche quella di restituire in via definitiva le chiavi. Non ha alcun senso, se bisogna andare avanti, e sarebbe un segno di vera presa di distanza. Anche se, da immaturo come spesso mi ritrovo, all'inizio ho pensato che potesse essere usato come un segnale per dire "vai a..., sparisci". E invece no, mi convinco che sarebbe un vero gesto di maturità quello di consegnarle, senza nessun sottinteso, ma semplicemente per dire "è finita, ognuno per la sua strada, che questo libro si chiuda definitivamente, almeno per me", perchè restare in questo limbo non mi fa bene. Non è un rinnegare. Non rinnego nulla. Non posso farlo. E' stato il pezzo più importante della mia vita, quello che ha modificato tante cose in me. Tutto mi parla di lei, a casa e fuori, quando sono in auto. Non c'è un giorno che un pensiero non corra a lei, e non è perché ha scelto la sua strada (anche scegliere le giuste parole è complicato) ma perché se una storia deve finire, per convertirsi in altro deve avere il giusto distacco, la giusta "sepoltura". Ed ecco che stamattina ho ripreso il mazzo di chiavi in mano: ce ne sono tante in quel portachiavi, che ha segnato un altro pezzo di percorso della mia vita. Molte non le riconosco, ma quelle essenziali si. Le ho tenute in mano per un po', le ho soppesate, ho pensato come fargliele recapitare senza incontrarla, perché so bene che ci starei una pezza... ma niente, ho avuto un tuffo al cuore, un senso di stordimento, una fitta che sapeva di dolore. Le ho prese e le ho riposate nel cassetto, perché appunto non sono pronto. Quelle chiavi non rappresentano solo lei: quelle chiavi sono il simbolo del nostro progetto di vita insieme fallito miseramente, del non essere mai stai un "noi". Il fatto che lei continui ad abitare in quella casa, oltre ad essere un puro bisogno di comodità, conferma implicitamente che quella non è mai stata casa nostra ma solo sua. Ma io da quel mazzo di chiavi, a cui sono legati sogni, speranze e delusioni, non riesco ancora a staccarmi. Non sono pronto. Ma devo riprovarci, se voglio davvero svoltare. Sarebbe il primo segno di maturità (senile) acquisita sul campo. Farà male, lo so, ma va fatto.
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melanchonica · 1 year ago
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è da un po' che mi frullano in testa dei pensieri un po' slegati che non riesco mai a buttare giù e mettere in ordine, vediamo se stavolta ci riesco.
io credo che ognuno di noi abbia un bagaglio con se. per la precisione uno di quelli senza ruote, lo immagino più come un baule con una maniglia. lo portiamo dovunque andiamo, sempre. negli anni lo riempiamo delle nostre esperienze, positive e negative, e ciò che più di tutto lo rende pesante da trasportare è ciò che ci ha fatto male. questo lascia intendere che c'è chi ha un bagaglio più leggero, e chi ha un bagaglio più pesante. ecco, è come se sentissi che il mio bagaglio è diventato troppo pesante. non mi piace il vittimismo, mi sento sempre quasi in colpa al pensiero di dire ad alta voce tutto questo, infatti lo sto chiamando vittimismo anche se in realtà non credo neanche che lo sia davvero. per essere breve, va a finire che non sono mai queste le cose di cui parlo con le persone, neanche con chi mi è più vicino come alcuni amici o la famiglia. questo bagaglio, questo baule, lo sento più pesante ad ogni passo che faccio, ogni giorno che vivo. si stanno accumulando tante cose al suo interno, tante provocate da persone da cui non me lo sarei neanche aspettata, e questo ne raddoppia il peso. ognuno di noi ha un bagaglio, e alcuni giorni pesa più di altri. poi, credo che se hai qualcuno che ti aiuti a trasportarlo, non sembri neanche più cosi pesante. e forse è proprio questo il punto, forse è trasportarlo continuamente da sola da così tanto tempo, che mi sta sfinendo. ma come si fa a capire di chi fidarsi per trasportarlo assieme? come faccio ad essere sicura che non lo spalanchi davanti a tutti e butti fuori tutto quanto, lasciandomi poi sola di nuovo a rimettere a posto? come faccio ad essere sicura che quella persona non usi proprio quelle cose trovate all'interno del baule per ferirmi? è più facile, se sai dove colpire. ed è più facile, se chi vuoi colpire è già a terra, se è già sanguinante. e ciò che rende il tutto ancora più facile, e disgustoso da fuori, e devastante da dentro, è la consapevolezza che chi è a terra non ti farà nulla neanche dopo che avrai finito, perché ti ha lasciato aprire il suo baule e sarà troppo sofferente e troppo impegnata a rimetterne insieme i pezzi, una volta che l'avrai rivoltato. ecco, a volte quando questo baule non riesco più a portarlo e inizio ad inciampare e cascare a terra piangendo, quasi mi pento di non aver fatto o detto qualcosa dopo, a quelle persone. ma in fondo, cosa avrei potuto fare? a cosa sarebbe servito? poi infatti ci penso meglio, e non mi pento affatto di essere una brava persona, di non aver causato a qualcun altro lo stesso dolore che ha causato a me, e di averle aiutate dopo quando avevano bisogno, fregandomene del prima. l'unica cosa di cui posso pentirmi è di non aver ascoltato quel dolore prima, ai primi oggetti buttati con foga fuori dal baule, posso chiedermi scusa perché oggi avrei vissuto meglio senza tutte quelle scene impresse nella mente. non sono frammenti, io non ho frammenti, ho lungometraggi. ricordo ogni cosa, ogni singolo secondo. potrei chiedermi scusa, si, ma ancora non riesco, non mi sono affatto perdonata, per averlo permesso. per fortuna non sogno quasi mai, almeno sono scene che vedo e rivivo soltanto durante il giorno. e questo bagaglio è pieno zeppo di queste scene, e pesa tantissimo, e con le braccia non ce la faccio più a portarlo, e continuo ad attirare l'attenzione quando passo, che si nota che trasporto qualcosa che pesa più di me e arranco da morire, e mi si legge in faccia, e sono come un'incidente stradale che tutti si fermano a guardare.
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zero0virgola0 · 7 months ago
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Comfort zone delle cose da dire dopo i 30 anni
Arriva, così come arrivarono i brufoli, le mestruazioni, i primi amori, quel momento in cui l'adolescenza finisce e l'età adulta incombe come un avvoltoio. All'improvviso ti trovi a parlare di lavoro, famiglia, figli, insomma tutta una serie di argomenti che fino al giorno prima sentivi solo come rumore di fondo, sull'autobus o in metro. I primi giorni possono essere difficili: non trovare le parole giuste può causare dei momenti di imbarazzo ma salvate questo post, imparate a memoria 3 o 4 frasi e vedrete che riuscirete a cavarvela e a passare come gente "matura"
"i maschi assomigliano sempre più alla madre e le femmine al padre" Questo dogma può togliervi d'impaccio quando vi viene presentato/a il primo figlio di una coppia di vostri amici. Considerando che il 93% dei bambini fino ai 3 mesi è molto brutto, con questa frase inconstestabile potrete uscirne alla grande senza offendere nessuno
"preferisco sempre un bambino sia vivace piuttosto che vederlo incollato al telefonino". Se il pargoletto che i vostri amici vi presentano ha 3 o 4 anni e dimostra già di essere una testa di cazzo, questa frase vi garantisce una figura da signori. Anche se istintivamente avreste voluto mollare una cinquina a mano aperta su quel piccolo coglione che continua a darvi calci e a toccarvi con le mani appiccicose
"se tornassi indietro anche a me sarebbe piaciuto imparare uno strumento o una lingua da piccolo" Questa bugia vi tornerà utile quando i novelli genitori vi stanno frantumando le palle dicendo che stanno pensando di iscrivere il proprio pargolo a scuola di inglese o di musica. Questa malattia è ormai diffusissima, ma spiegare il perchè può richiedere tempo e fatica. In realtà non finirò mai di ringraziare i miei che non mi hanno mai obbligato a passare i pomeriggi in orribili accademie di lingua dove la professoressa, nella più rosea delle opzioni, era un'ex tossica che era fuggita dal Regno Unito negli anni '80.
"alla fine abbiamo sempre questa smania di visitare qualche città europea quando invece dovremmo prima conoscere le bellezze del nostro Paese" Quando la coppia che avete di fronte ha fatto la cazzata di spendere migliaia di euro per sposarsi, altre migliaia di euro per comprare un appartamento piccolo come la mia moralità, altri mille mila euro per iscrivere il figlio alla scuola di inglese (vedi punto 3), per giustificare il fatto che, non avendo più soldi, sono costretti per il terzo anno di fila a passare le uniche due settimane di vacanza in un appartamentino orribile della costa adriatica/ligure/ionica che sia, allora, invece di gridargli "cogliooooni noi ce ne andiamo allo Sziget", fate un sospiro e sciorinate quanto leggete al punto 4. Il successo è garantino e la coppia vi adorerà.
"non vedo molte serie in generale, più che altro perchè altrimenti poi ci vado sotto, ma questa me la segno" Piuttosto che spiegare a due ritardati perchè non vedrete mai l'ennesima serie televisiva di merda prodotta da Netflix, invece che sciorinare ore e ore di spiegazioni sul perchè i film siano nettamente migliori che qualsiasi serie televisiva, del perchè avete visto solo serie tipo Twin Peaks e Boris, meglio tagliare corto e uscirne con stile ed eleganza.
"i cani sono più affettuosi, i gatti magari di meno, ma forse sono più autonomi" Quando la vostra fantastica coppia di amici vi fa conoscere il gatto/cane che hanno adottato/acquistato per far fronte a una crisi ormonale/generazionale, fate lo sforzo di accarezzarlo ma capisco (davvero) che sia troppo difficile dire "oddiochecarino". Quindi piuttosto che mentire, potete affidarvi a questa sempiterna banalità.
"mi piacerebbe tantissimo avere un animale a casa, ma siccome sono creature che rispetto e che hanno bisogno di tanta cura e amore, ho il timore che non abbia tutto il tempo che queste meravigliosi animale necessitano. Per cui preferisco non avere animali piuttosto che ignorarli" Se la discussione al punto 6 va avanti, certamente vi si chiederà se avete animali a casa o se avete intenzione di prenderne uno. La risposta al punto 7 è davvero incontestabile e vi garantisce un aurea di santone, amante degli animali che neanche Licia Colò
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lonelydarkmountain · 2 years ago
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Oramai scrivo qui sopra perché è più facile, sembra un po’ come se il cerchio si chiudesse, come se la me ragazzina, l’adolescente che non riusciva ad integrarsi, avesse lasciato spazio all’adulta che nonostante tutto arranca ancora, dunque non dovrebbe essere così strano no? Sono qui perché qui ci sono sempre stata…
E forse è per questo che sto per scrivere tutto ciò, forse questo è l’unico posto dove credo che le mie parole restino per davvero, parlarne non ha lo stesso impatto, forse perché le sillabe spariscono alla fine, perché non restano locate da nessuna parte e chi non vuole coglierle lascia solo si che gli scivolino addosso. Qui qualcuno si soffermerà, gli occhi magari indulgeranno ed ecco che il mio pensiero non sarà più solamente mio, ma avrà un non so che di reale. Di concreto.
Mi sono trasferita in una città nuova dopo 23 anni, Roma era meravigliosa, c’erano i miei amici, le persone di una vita che mi conoscevano perché per anni sono sempre andata in determinati posti, passeggiando magari e salutando semplicemente chi lavorava. Roma era la città di mia mamma, ed e forse questo uno dei motivi per la quale sono andata via. Per la quale avevo sviluppato talmente tanto malessere da credere seriamente che quella fosse vita.
Lei è morta quando avevo 16 anni, potrei dire che sono triste, che fa male, ma penso che siano tutte cose che chiunque capirebbe perché sono naturali, perché sono da persona che ha perso qualcuno di importante, ma non c’è solo questo, c’è l’altra faccia della medaglia che le persone come me non dicono perché dirlo a se stesse ed ammetterlo voce alta sarebbe orrendo. L’amore è legato strettamente al bisogno, alla propria salute, quando qualcosa inizia a farci stare male diventa logorante ed era proprio questa la vita con mia mamma.
Quindi parlare di quella parte è semplice, ma nonostante io abbia un vuoto enorme nel petto, quello che ho visto dopo la sua morte è stata solamente che la vita è andata meglio, la vita si è assestata, non fraintendetemi, non sono una stronza per quanto ciò possa sembrare, semplicemente la vita con lei era dura e per quanto mi faccia ribrezzo ammetterlo ho provato una sorta di sollievo nel constatare che non mi sarei più dovuta prendere cura di lei. Mia madre non era una santa, era imperfetta come chiunque, ed è forse per questo che credo che il mio bene nei suoi riguardi non si affievolirà mai, perché lei aveva molti tratti in comune con me, aveva molti difetti che nel tempo mi hanno fatto capire che l’essere umano è una macchina complessa, dotata di una sensibilità tale da farla soffrire se tenuta in isolamento.
Mia madre non aveva dei veri e propri amici, non saprei come dirlo meglio di così, parlava con le persone, era frizzante e in grado di fare commenti sarcastici che sfociavano nel veleno, per farvi capire lei sarebbe stata la ragazza popolare del liceo, quella circondata da altri come lei, peccato che all’effettivo fosse sola. Non ho mai visto nessuno interessarsi a lei per davvero, mollare tutto ed aiutarla nel momento del bisogno. Zero. In quei casi c’eravamo solo io, mia sorella e mio padre.
Io invece ero il suo opposto…eppure avevamo entrambe una solitudine che partiva da dentro, che nessuno capiva, lei come me non ha mai avuto una vera ed effettiva mano che la cercasse di tirare fuori dal buio nella quale era e no, non ditemi la cazzata del - ci sono persone che non vogliono essere salvate - perché se non provate nemmeno non potete saperlo. Non potete sapere se chi avete davanti vuole davvero vivere, se ce la può fare se voi allungaste davvero la mano nella loro direzione. Viviamo di giudizi e nemmeno ce ne rendiamo conto, crediamo di sapere ancor prima che la persona parli la risposta che ci darà ed è una scusa pura e semplice per liberarci dall’impiccio di dover davvero aiutare un altro individuo. Siamo egoisti e ciò vuol dire che cercheremo sempre un modo per non essere noi colui o colei che deve davvero fare qualcosa.
Con mia madre io ci ho provato, dico davvero, ho provato ad aiutarla, a risollevarla da quella spirale oscura nella quale era scivolata e ciò ha portato solamente al vedere me che non riesco all’età di 23 anni a gestire nulla. Non riesco a gestire l’ansia, lo stress, non riesco a gestire semplicemente la mia vita perché è sempre stato tutto troppo.
Mi sono persa cercando di afferrare lei e per quanto rifarei tutto da capo…beh è stato un errore, perché ho smesso di essere una figlia, ho provato a fare la madre, il vigile del fuoco, L’infermiere, ogni cosa pur di avere tutto sotto controllo e salvare una famiglia che non ha provato nemmeno di striscio a salvare me. Mi sono quindi ritrovata qui, in una nuova città dove respiro di nuovo avvertendo acciacchi che non comprendo e trattenendo ancora un ansia dentro di me che non riesce a farmi vivere. Sono circondata dalla mia famigliola felice che non capisce neppure se glielo sbatto in faccia quanto malessere ho dentro.
È incapace di capire che il dolore che provo rimarrà per sempre, che il mio disturbo non è passeggero, che non smetterò e basta di essere triste o di fare fatica o di essere arrabbiata, perché è qualcosa che non controllo, perché fa parte di me ma non è assoggetta alla mia volontà.
Sono stanca di vivere in un mondo che sembra quasi vedermi come un problema, un problema spiccicato a come lo era mia madre.
Questo sfogo probabilmente non ha senso, perché forse non ho concluso nessun discorso, ma non potevo farne a meno, almeno qui non potevo raccontarmi che va tutto bene, qui ho detto la verità per quel che vale
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allecram-me · 9 days ago
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Prospettiva strategica, #1
Ieri ho fatto quella telefonata ed è stata una buona giocata. Sono stata bravissima* ad impacchettare questa opportunità che mi sono ritrovata come un successo del team da cui provengo, è stato estremamente facile. Quando formi bene una persona: queste sono parole sue, io non ho avuto cuore di spingermi a tanto, ma chiaramente non ce n’è stato bisogno. Così adesso va tutto bene tra di noi, mentre io ho la mia nuova vita. La conversazione si è spostata immediatamente sui suoi problemi - chiaramente - su quello che c’è da fare. L’ho lasciata prendere le strade che le piacciono, come sempre in questi casi. Ho già in mente un modo per ottenere ancora di più, nel prossimo futuro - come direbbe Linda, si tratterebbe di prendermi ciò che è già mio, che dovrei avere da tempo. Non so se Linda abbia convinto le mille voci di inadeguatezza che affollano il mio cuore, ma a me adesso importa davvero poco, ed inizio a sperare concretamente che anche le voci trovino la morte, magari come un risarcimento per la perdita di Valerio - ma quanto ancora posso migliorare? La persona che si fregia di avermi formata ha detto che questa mia temporanea permanenza aggiuntiva a Berlino è l’occasione perfetta per venirmi a trovare, per provare ad insediarsi anche lei qui: Io mi sono accorta che negli anni ho trascurato questa cosa dell’estero, ma so che mi ricarica ed allora adesso voglio farlo assolutamente, che importa se non so parlare! Se le volessi bene, le darei ragione. Io però la conosco, e per questo non posso amarla: non c’è autenticità nei suoi intenti, non può essere rassicurata perché non si confronta coi suoi veri punti d’ombra. Ho detto alla tedesca che lei vuole venire, ne abbiamo riso insieme e mi ha abbracciata. Letteralmente. Mi ha abbracciata più lei da quando la conosco di mia madre nell’ultimo anno, o di tutti i miei amici. Quando lo fa di solito non so bene cosa fare col mio corpo, ma è evidente che migliori: questa volta le ho addirittura poggiato una mano sulla schiena.
Adesso dovrei decidere lucidamente cosa fare. Il contratto tedesco, con tutta probabilità, inizierà il primo dicembre. Il contratto di casa (per cui ho già ricevuto disponibilità al rinnovo) scade questo lunedì. In più io ho un biglietto aereo per volare a Napoli quello stesso lunedì sera, e non so se prenderlo. Da un lato mi sembra il momento giusto per fermare un secondo solo la giostra (ora che ho la certezza che non solo ripartirà, ma lo farà anche a delle condizioni che ho già imparato ad amare) e ritornare a fare i conti con l’altra casa, quella che pago regolarmente ed in cui fin ora hanno vissuto solo i gatti, che mi mancano tipo ossigeno e verso i quali mi sento colpevole di abbandono. Se tutto va male, poi, ho una ulteriore scialuppa di salvataggio, perché c’è mio fratello che mi aspetta per ospitarmi a Siviglia, e penso che potrebbe essere cosa buona andarci, quantomeno ad annusare la sua vita e mettere ancora un po’ di carne casuale a cuocere nella mia. Altra cosa che succederà (probabilmente) lunedì, però, è l’arrivo della persona con cui volente o nolente dovrò condividere l’appartamento a Berlino. È una professoressa universitaria, viene dal Brasile e mi hanno detto di lei che è una tipa molto alla mano. Se me ne vado, anche se temporaneamente, credo sia il caso di lasciarle la stanza grande, per ritornare poi in quella piccola - ma soprattutto la cosa che mi farebbe strano è che a quel punto non sarebbe più lei ad insediarmi nel “mio” spazio, ma io nel suo. Se me ne vado lunedì per poi tornare ad inizio dicembre ho però anche il non trascurabile vantaggio di poter far partire il nuovo contratto di affitto tedesco direttamente da quel mese, risparmiando un po’ di soldi che potrebbero iniziare a diventare un po’ un problema a breve, considerato il fatto che per il mese di novembre non percepirò alcuno stipendio (chiederò ovviamente la disoccupazione, che sarà però misera e calcolata solo sugli ultimi 20 giorni di lavoro).
Detto questo chissà come continua questa storia. Chissà come mi sveglierò domattina, o stanotte, chissà la parte funzionale di me che cosa mi riserva. Oramai ho capito che non ha senso non fidarmi di me stessa, anche se a volte penso ancora che sarebbe bello avere qualcuno pronto ad ascoltarmi ed a suggerirmi la via. Servirebbe quantomeno a farmi dedurre dalla mia reazione interiore al consiglio cosa ho già inconsapevolmente deciso di fare.
*N.B. Al 02/11/24, da tempo immemore, questa è ancora la prima parola suggerita dal mio cellulare per continuare a comporre la frase quando scrivo il mio nome. Nessuna idea sul funzionamento del relativo algoritmo. Nessuno sforzo compiuto per scoprirlo, come gesto di resistenza ad un certo tipo di bravura.
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sandnerd · 1 year ago
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Higurashi no naku koro ni - Let's talk about!
Lo so, di anime carini e pucciosi che nascondono un risvolto horror ce ne sono ormai a iosa. Ma nel lontano 2006 non era così. Nel lontano 2006 (ben 17 anni fa, zio Pietro prendimi i sali perchè sono troppo vecchia) se ti ritrovavi un anime con delle ragazze kawaii dagli occhioni sbrilluccicanti, i capelli dai colori vivaci e le voci squillanti (sembra quasi una canzone di Cristina D'Avena), pensavi che fosse solo questo, un anime con ragazze kawaii e tutta la pappardella sopradetta. Dunque, immedesimandoci in questo contesto, e nella mente di uno sprovveduto spettatore, appare chiaro come mai Higurashi no naku koro ni sia un must per tutti gli appassionati del genere horror/creepy/psicologico.
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Il titolo, tradotto in inglese come "When they cry", contiene un simbolo hiragana che da un lato si riferisce ad un pianto se si parla di esseri umani, ed al frinire delle cicale in estate se si parla di versi, un suono molto insistente e che da solo fa da colonna sonora a tutto l'anime. Non sentirò più delle cicale in un anime senza pensare ad Higurashi. E già con un titolo del genere dovrebbero drizzarsi le orecchie allo spettatore di turno, poichè non mi risulta che in un anime con ragazze kawaii e basta si parli di pianti. Di primo acchitto può sembrare un malloppone, siamo davanti a ben 4 stagioni, dalla media di 25 episodi per le prime 3 e 15 episodi per l'ultima, questo volendo evitare tutti gli speciali, che con la storia principale non hanno niente a che fare, ma se vuoi guardare anche quelli ce n'è abbastanza per diventare hikikomori solo con questa serie. E fai rifornimento di acqua, in estate è importante bere! Come dicevo quindi, un bel malloppone, ma risulterà chiarissimo quanto siano scorrevoli gli episodi, non perchè leggeri di per sè, ma talmente coinvolgenti che li addenti uno dopo l'altro, come se fossero smarties, senza nemmeno capire che ti sei finito un'intera stagione in un solo pomeriggio.
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Ma andiamo con ordine. Giugno del 1983, le date sono importanti (wink wink). Keiichi, tipico ragazzo normale degli anime, a causa del lavoro di suo padre, ma ciò non importa mai granchè, si trasferisce in un villaggetto nel bel mezzo del nulla (e te pareva; quando mai sono metropoli?) di duemila anime, animali e piante compresi, e fa amicizia con 4 ragazze, Rena che ha la sua età, Shion che è più grande, Satoko e Rika che sono più piccoline. I bambini/ragazzi vanno tutti nella stessa classe, perchè in tutto il villaggio ce ne sono solo 15, e i più grandi aiutano i più piccoli (un applauso alla maestra, utilissima). Ma ben presto Keiichi scopre alcune voci molto inquietanti che circolano nel villaggio e che riguardano il suo passato ed i suoi abitanti. Questa la premessa, priva di spoiler. Perchè da qui in poi è dura parlare di Higurashi senza spoilerare. E non voglio neanche togliere il divertimento di scoprire la verità che si cela dietro la facciata apparentemente semplice di questa realtà presentata. Leggevo infatti molte testimonianze di persone che evidentemente conoscevano già la storia, e che spronavano gli spettatori incerti o confusi di continuare la visione, perchè ne sarebbe certamente valsa la pena. E che dire, ho seguito il loro consiglio nonostante non avessi bisogno di essere spronata, l'atmosfera dell'anime mi aveva già catturata fin dai primi episodi. E sono stata ricompensata, poichè ciò che ho scoperto via via, episodio dopo episodio, devo dire che mi ha pienamente soddisfatto. Davvero, voglio fermarmi qui perchè non voglio avere sulla coscienza gente che afferra mannaie a caso o mi infila spilli negli onigiri e mi viene a cercare perchè gli ho rovinato il divertimento. Filate a guardare l'anime, da bravi.
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Personalmente trovo che la prima e seconda stagione siano un gioiellino, suspence e momenti ilari sono super calibrati, le scene violente mantengono una semplicità che rafforza l'angoscia del momento, le vicende trasudano di un'inquietudine che non sai nemmeno da dove deriva, ma sai che c'è, lì, aldilà della porta socchiusa, che ti fissa con occhio attento dal corridoio buio. La paranoia cresce man mano che vai avanti, prendi note per non perdere nemmeno un dettaglio, convinta che tu non sei come gli altri, tu la trama la sbroglierai subito, senza capire che stai incappando nella stessa ragnatela in cui sono incappati tutti nessuno escluso prima di te. Noti che ci possono essere dei punti di congiunzione tra alcune vicende raccontate, fai un collegamento, ma subito dopo ti perdi di nuovo, davanti a nuovi elementi che smontano le ipotesi che stavi facendo un momento prima. Insomma, queste due prime stagioni meritano tutta l'attenzione che potete dare loro. Parola di scout.
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Devo invece esprimere qualche dubbio sulle ultime due stagioni. Sarà che sono del 2020-21, mentre le prime due sono del 2006-07, sarà che forse il franchising ha voluto mettere il burro su troppo pane, sarà qualsiasi cosa, ma il mordente delle prime due stagioni a mio parere si perde e viene rimpiazzato da una premessa un po' banale, e nel contempo troppo complessa forse per reggere il paragone con la limpida semplicità iniziale, un background psicologico che invece di maturare regredisce, un insieme di corsi e ricorsi storici, tanti episodi sprecati quando la soluzione al problema era a portata di cervello, se solo si fossero avuti i neuroni necessari. Non so, sarà che sono una nostalgica e per me certe prime volte non si discutono, ma le prime due stagioni non hanno pari e, quanto meno per conoscere un must di questo genere, vanno guardate. Mi dicono che le due ultime stagioni, che appunto non mi hanno pienamente convinto, siano connesse ad Umineko no naku koro ni, un titolo molto simile ad Higurashi ma che purtroppo non è stato sapientemente trasposto in versione animata, quindi se mai avrò la possibilità di leggere la storia di Umineko capirò quanta verità c'è dietro questa diceria.
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Siamo arrivati alla fine, e devo dire che mi merito un applauso perchè sono arrivata fin qui senza spoilerare, mi faccio pat-pat sulla spalla intanto. Vi do appuntamento ai prossimi commenti, grazie per la lettura! A presto, -sand-
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agenteciambella · 1 year ago
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Dolce Morte [Kenny McCormick x reader]
Capitolo 1 - Dolce Sguardo
La neve smise di cadere e il sole si fece spazio in cielo allontanando le nuvole e dando inizio a una nuova giornata di pieno inverno. Arrivai finalmente alla fermata dell'autobus accompagnata dal mio vicino di casa Craig, lo seguivo come per gioco, passando con i piedi sopra le sue impronte segnate sulla neve nel mentre camminava: – C-Craig! – la voce di Tweek interruppe il rigoroso silenzio e attirò l'attenzione di Craig che si avvicinò e gli lasciò un bacio sulla guancia come saluto, – T-temevo non arrivassi più! Aaghh..!– spostai lo sguardo dai due per non disturbarli troppo e aspettai con calma l'arrivo del bus.
Osservai la strada ghiacciata dove ogni tanto passava qualche macchina, mentre durante l'attesa si alzò un lieve venticello che mi raffreddò le guance e le mani, nonostante fossi ben coperta, non vedevo l'ora di riscaldarmi salendo sull'autobus. Al suo arrivo finalmente mi sistemai nei sedili centrali accanto a Bebe come a mio solito e infilai le mani nelle tasche per riscaldarle meglio: – Buongiorno, non hai ancora comprato dei nuovi guanti? –la salutai con un sorriso e scossi la testa – Pensavo che non ce ne fosse bisogno ma purtroppo mi sbagliavo –mi lasciai sfuggire una risata e allungai lo sguardo verso la porta: eravamo giunte alla fermata di Heidi e Wendy. Le due ragazze salirono ma solo una si sedette con noi, l'altra ci salutò e passò oltre raggiungendo Stan agli ultimi posti: – Ieri sera Wendy mi ha detto che sono tornati assieme – sussurrò Heidi sghignazzando divertita, – Stan l'ha raggiunta sotto casa con un mazzo di fiori solo per scusarsi – aggiunse coprendosi un po' la bocca per non farsi sentire troppo dagli altri; tutte e tre ci girammo verso i due cercando di non farci notare troppo, stavano parlando tranquillamente mano nella mano con accanto Kyle che se ne stava appoggiato con la testa al finestrino mezzo addormentato. Penso siano una coppia davvero carina ma dovrebbero comunicare di più, sono due teste calde che si scontrano di continuo, spero davvero che riescano a trovare una loro armonia.
Arrivammo al capolinea e scendemmo tutti dal bus per avviarci verso la scuola, il vento si era fatto più forte e riuscivo a sentire come se il freddo si stesse infilando tra i miei vestiti, mi fermai per sistemarmi meglio la sciarpa per coprirmi anche il naso ma venni improvvisamente spinta avanti e caddi a terra con le mani sulla neve gelida. Voltai subito la testa per vedere chi fosse stato il colpevole e notai Kenny allontanarsi e iniziare a mettere le mani addosso a Cartman urlando cercando di fermare le risate dell'altro.
Mi alzai con fatica spolverandomi via la neve da dosso e raggiunsi le mie amiche, arrivate davanti all'entrata decisi di voltarmi ancora una volta per dare un'ulteriore occhiata non sentendo più litigare: gli occhi di Kenny si spostarono subito non appena incrociarono i miei e lui si voltò con essi. Da quanto tempo mi stava fissando? Forse voleva scusarsi per avermi fatto cadere, sembrerebbe un tipo timido all'apparenza ma fa sempre un sacco di casino, non è possibile che non abbia preso iniziativa... forse semplicemente non gli interessava ma non ciò non spiegherebbe il motivo di quello sguardo. Mi strinsi le mani tra di loro e ricominciai a camminare verso il mio armadietto per recuperare i libri per la lezione di oggi e mi diressi dopodiché in classe.
Le prime ore di lezione passarono abbastanza in fretta ma non riuscii a concentrarmi del tutto: nel mentre che mi giravo a sistemare le cose nella borsa, notavo con la coda dell'occhio lo sguardo di Kenny rivolto verso di me dal banco in fondo alla classe. Durante la ricreazione feci finta non fosse successo nulla per tutto il tempo e rimasi ad ascoltare i vari pettegolezzi delle mie amiche.
Questa strana situazione mi confondeva le idee e mi faceva battere il cuore allo stesso tempo, ero ansiosa di sapere se si sarebbe limitato a guardarmi o cos'altro volesse da me. Lo vidi da lontano restate tranquillo e in silenzio ad ascoltare il suo gruppo: restai ad osservarlo da lontano continuando a pormi domande. Nel mezzo dei miei pensieri mi riportò sulla terra uno schiocco di dita di Heidi davanti ai miei occhi: – Ehi, che dici? Saresti d'accordo? – non avevo minimamente seguito il discorso ma annuii intuendo si trattasse si una solita discussione incentrata sul decidere se andare al centro commerciale o a qualche evento al quale partecipare questo fine settimana – Ottimo, siamo tutte quante d'accordo, possiamo vederci alle quattro al solito posto e fare poi un giro – Wendy concluse il discorso confermando così le mie ipotesi e tornammo tutte in classe per attendere le ultime lezioni per poi tornare a casa e prepararci per l'uscita. Poggiai la tracolla sul letto e mi tolsi le scarpe, mi spogliai e mi preparai per andare a fare una doccia in modo da rilassarmi per la strana mattinata.
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fayesdiary · 2 years ago
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for the Echoes ask game, 7, 23, 26 & 31!
Speak Your Language Day Asks 🇮🇹
7) What stuck with you after finishing the game?
Oltre ad Heritors of Arcadia, vuoi dire?
Un sacco, la musica, i personaggi, il fantastico doppiaggio... E' quasi difficile da spiegare, diciamo che è più il pacco completo di Echoes che ha reso giocarlo per la prima volta davvero speciale.
23) Name a change from Gaiden you didn't like.
*Sigh*
Lo so che continuo a ripeterlo ma... Conrad.
Non ho un problema con l'aggiunta di un fratello per Celica e la sua personalità è ok ma... esiste letteralmente solo per salvare Celica da situazioni in cui non aveva bisogno di essere salvata in Gaiden.
Non avrei avuto un problema se avesse assunto solo un ruolo di guida o cacchio, anche solo che si fosse limitato ad aiutare Celica come nel loro primo incontro invece di continuare a salvarla (e lo schiaffo, non scordiamoci dello schiaffo...), ma il suo ruolo nella storia mi dà un fastidio tremendo perchè non è per nulla necessario e detrae dalla libertà di scelta di Celica nella sua stessa storia.
Puoi scusare il sessismo di Echoes quanto vuoi con "è un remake di un vecchio gioco di Kaga", ma stronzate come questa sono originali.
26) Talk a bit about the game's themes!
Ho già fatto un word dump riguardo al classismo in Echoes, quindi parlo un attimo dell'altro tema principale.
Funziona bene ed è semplice ed efficace, ma avrei davvero voluto avere più dettagli sulla filosofia di Mila e Duma prima che andasse tutto allo sfacelo, e la conclusione funziona bene...
Anche se ammetto di essere di più dalla parte di Mila, e diciamo che avrei preferito un altro problema con la sua ideologia che non sia "non possiamo dare a tutti da mangiare e vivere senza lavorare e soffrire perchè poi diventano piiiiiigri!". Ugh.
31) Which characters do you think should have had a support together? (Characters from other routes are fine too!)
ALM E CELICA PERCHE' NON HANNO UN SUPPORTO ASSIEME
Oltre a loro due, Faye/Clair sarebbe stato divertente, Luthier/Kliff per amicizia tra due nerd associali, Silque/Jesse per il loro Memory Prism assieme e Faye/Celica e Kliff/Celica visto che sono reclutabili nella sua route :D
Questi sono quelli che mi vengono in mente al momento, ma sicuramente ce ne sono molti altri che sarebbero molto belli da vedere e che ho il leggero sospettano esistano in Sacred Echoes wink wink ;)
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pertesoltanto · 2 years ago
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Non so da dove cominciare. Nonostante tutto avrei voluto dirti tante cose, belle e che credevo volessi sentire, ma a quanto pare "avevi paura" di incontrarmi, come se in 10 e più anni di conoscenza ti avessi mai sfiorato un capello. "Paura" di cosa esattamente? In realtà di nulla... Ma come ti ho già detto, ho già vissuto tutto questo e riesco a darmi da solo una risposta.
C'è stato un momento a partire dal quale tutto è svanito, e forse tu non ci hai fatto caso ma io l'ho sentito bene. Non che prima ci fosse qualcosa di grande, ma la differenza è stata palese.
Purtroppo non vedo più il senso di parlarti come volevo, adesso in me ci sono soltanto rabbia e tanta tristezza. Tanta delusione anche, ma questo è un problema mio perché forse da te mi aspettavo un atteggiamento diverso questa volta.
Fatto sta che ad un certo punto non ce l'ho fatta più ed ho dovuto sfogarmi con qualcuno. In risposta mi è stato detto che la situazione non era facile e che se doveva andare bisognava ripartire da zero. E così volevo fare io, forse, se ne avessi avuto la possibilità. Ma lo hai fatto anche tu e, probabilmente, mi hai messo fin troppo al pari di qualsiasi altra persona e hai voluto lasciarti altre possibilità. Possibilità che io invece ho bloccato dal primo momento. "Aveva il terrore di perderti, perciò ha fatto così" mi è stato detto dopo. Sarà davvero questo il motivo? Per tutto questo rimarrò per sempre col dubbio.
Il mio problema è che, diciamocelo, ti sono sempre stato sotto. Nel senso che, nonostante qualsiasi gesto o parola, lasciavo scorrere tutto e rimanevo. E il giorno, la settimana o il mese dopo ti volevo come prima. E tu, anche nelle situazioni per te più brutte, hai sempre provato a girare la frittata. Qualche volta ci sei riuscita, qualche volta sono stato in silenzio ma dentro di me sapevo come stavano realmente le cose.
Mi dispiace perché pensavo che questa volta sarebbe stata quella buona. Ho creduto che il fatto che io non abbia sentito nessuno per tutto questo tempo significasse qualcosa. Lo sentivo, mi bastava davvero così poco per provare tanto. Ma tra le tue scelte io non ci sono mai. Forse è per entrambi meglio così? Un altro grande dubbio. Eppure posso prendermela solo con me stesso. Lo hai detto anche tu che non sono nessuno e tu sei libera di fare qualsiasi cosa. Lo penso anche io. È solo che mi aspettavo un minimo di riguardo in più, la metà della metà di quello che io avevo per te.
Ora è andata come è andata. Di cazzate e bugie me ne hai dette tante, ammettilo. Vorrei dire a me stesso che questa volta sarà quella definitiva. La realtà, però, è che ovunque io possa andare tu ci sarai sempre dentro di me. Ti basta apparire per un secondo per potermi avere di nuovo. E lo dico perché non pensavo fosse possibile, ma ne ho avuto la conferma. Ero disposto ad aspettarti davvero, a darti questi pochi mesi di cui avevi bisogno per essere libera... E forse, nonostante tutto, lo sono ancora. Con tanta rabbia ti dico che per me è finita qui. E con molto più affetto ti dico che quasi sicuramente a "maggio" ci riproverei. Non sarò così buono e dovrai guadagnarti tutta la mia fiducia da zero. Ma ci riproverei. Vivrò inevitabilmente nella speranza che accada qualcosa. Ma non se se avrà molto senso ormai...
Ora sono qui a scrivere tutto questo su tumblr. Con la possibilità che non lo leggerai mai. O con la possibilità che, se prima o poi lo farai, tutto questo non ti farà pensare affatto. Se lo leggerai, ti prego di non chiedermi troppe spiegazioni. Sentiti libera e vivi la tua vita come meglio credi. Ma comunque andranno le cose... lo sai già, ti voglio tanto bene. Ti mando un bacino, mi mancherai. Mi manchi già.
Ciao bellina 💛
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