#biografie letterarie
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Pietro Nigro e la sua "Opera Omnia Volume 2 - Prose": un viaggio nella cultura e nella letteratura
La nuova pubblicazione di Guido Miano Editore celebra la poliedricità dello scrittore siciliano
La nuova pubblicazione di Guido Miano Editore celebra la poliedricità dello scrittore siciliano La Guido Miano Editore presenta “Opera Omnia Volume 2 – Prose”, il secondo capitolo della monumentale raccolta delle opere di Pietro Nigro, scrittore e poeta siciliano di grande prestigio. Dopo il primo volume dedicato alla poesia, questa nuova pubblicazione raccoglie il meglio della produzione in…
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“Ogni angelo è tremendo”
«Addio cara lou, Dio lo sa, la tua figura è stata davvero la porta attraverso cui sono giunto per la prima volta all’aperto»
*Rilke a Lou – Castello di Duino presso Nabresina, Costa austriaca, 28 Dicembre 1911*
~Osare tutto e non aver bisogno di niente~
Lascia che tutto ti accada: bellezza e terrore
La vicenda umana è fatta non da uomini, né da donne, ma solo da persone, che con la loro libertà e con la loro sfida alla livella della banalità, rendono effettivamente possibile il progresso
“Pensa come un uomo”, si diceva di lei. “Non conformerò mai la mia vita a dei modelli, e non lo faccio per principio, ma c’è qualcosa dentro di me che brucia, e quel qualcosa sono io”
“Non parlava mai delle sue stesse creazioni poetiche e letterarie (…) Fu una donna straordinaria, di rara modestia e discrezione (…) sapeva bene dove bisogna cercare i veri valori della vita (…) chiunque l’avvicinasse riceveva un’impressione fortissima dell’autenticità e dell’armonia della sua natura e poteva asserire, non senza stupore, che tutte le debolezze femminili, e forse la maggior parte delle debolezze umane, le erano estranee o erano da lei state superate nel corso dell’esistenza”
[#SigmundFreud, Elogio funebre per Lou Andreas Salomè in Lou Andreas Salomé, I miei anni con Freud, Newton Compton Editori, Roma, 1980, p. 30]
Subito dopo la morte di Lou Andreas-Salomè , la Gestapo fece irruzione nella casa di Gottinga per portare via tutti gli scritti, i libri, i documenti che le erano appartenuti. In quanto «propugnatrice della psicoanalisi, scienza giudaica», Salomè doveva considerarsi «nemica dello Stato», e il suo stesso ricordo doveva essere cancellato. Nei 25 anni che quel prezioso materiale rimase chiuso nel seminterrato del palazzo municipale di Gottinga, la memoria di Lou Salomè sarebbe comunque, con prepotenza, riemersa dall’oblio: troppo aveva sparso, durante la sua vita, in termini di parole, sentimenti, opere e incontri. Ma è probabile che la lunga clausura dei suoi scritti - poi ritrovati da Heinz Peters, che resta uno dei suoi biografi più appassionati - abbia contribuito a costruire un’immagine di lei piuttosto parziale.
chi era veramente Lou Andreas-Salomè?
Figlia di un generale dell’esercito imperiale russo, adorata da Friedrich Nietzsche e Paul Rèe, sposa di un accademico con cui non ebbe mai rapporti sessuali (ma a cui restò legata per oltre 30 anni) amante di Rainer Maria Rilke, involontaria seduttrice di quasi tutti gli intellettuali fin de siècle che ebbe modo di incontrare e allieva ascoltatissima da Sigmund Freud...
Il punto d’unione tra Freud e Lou Salomé è #RainerMariaRilke. Lou svela a Rilke la Russia, dove conosce Lev Tolstoj e Leonid Pasternak, il padre di Boris. Di Rilke, Lou percepisce l’altezza e l’abisso (“Queste crisi depressive ravvisavano con estrema evidenza quanto la natura originaria di Rilke anelasse, al di là dell’opera d’arte, anche la più perfetta, all’esperienza vissuta, alla rivelazione della vita come unica fonte di quiete e di pace”) C’è qualcosa di primitivo e di infantile nel desiderio di questi uomini di testa di precipitare nella bocca di Lou, tra le maglie del suo incantesimo?
Nata a Pietroburgo nel 1861, portava la Russia dentro di sé. Si fa fatica a credere che da ragazzina odiasse studiare il russo - a casa sua si parlava in prevalenza tedesco e francese - ma così era, tanto che nei suoi ricordi, la figura dell’amatissimo padre si colora di una ulteriore nota di benevolenza quando lui la dispensò dall’andare avanti con le lezioni, nella convinzione, come disse egli stesso anni dopo, che Lou era un’autodidatta nata, e che la sua intelligenza non aveva limiti. Con sua madre, cattolica tedesca tutta d’un pezzo, i rapporti non furono mai così calorosi.
#Nietzsche e #PaulRèe erano pazzi di lei, adoravano i discorsi, le passeggiate, gli scambi di lettere, ma volevano entrambi possederla - che poi significava sposarla - e su questo Lou era irremovibile: «C’era una volta una soffitta - recitava l’incipit di una fiaba che Lou scrisse qualche anno dopo - Lì gli uomini tenevano prigionieri ogni sorta di animali e con ogni cura cercavano di disabituarli alla loro vita naturale in libertà.
Più di ogni cosa, Lou voleva essere libera, indipendente, slacciata da qualsiasi guinzaglio. La celebre foto che la ritrae su un carretto con Rèe e Nietzsche a guisa di cavalli era stata in realtà architettata da un Nietzsche risentito e rifiutato, che aveva voluto immortalare una Lou-padrona (le mise in mano un frustino) più a incarnare un desiderio, che una realtà. Lei non voleva padroni, né voleva esserlo per alcuno. Ma acconsentì a quello scatto per un misto di arrendevolezza e fragilità: amava quei due come fratelli, e non voleva contrariarli per non perdere il loro favore (vista anche la fermezza con cui, a un certo punto, li rifiutava).
“Pensa come un uomo”, si ripeteva “Ogni amore è sempre, nella sua profonda essenza, una tragedia”, scriveva. Poi abbandonò la letteratura per dedicarsi esclusivamente alla psicoanalisi.
Nel settembre del 1911, la cinquantenne Lou si presenta al primo congresso ufficiale di Psicanalisi che si svolge a Weimar: “Vi giunsi per puro interesse oggettivo, spinta dalla curiosità che nasce dal sentirsi avviata a fare nuove scoperte”. La curiosità. “Cammini nel vento che trasforma il mondo”, le diceva Rilke, e Lou è davvero come il vento che passa e non si ferma. Le teorie enunciate da Freud durante il congresso sono per lei una rivelazione. Rientrata a casa, studia per un anno da autodidatta, poi scrive a Freud chiedendo l’autorizzazione di partecipare alle sue lezioni. Sono poco più che coetanei, lui la conosce di fama, è affascinato dai suoi trascorsi insieme a Nietzsche e Rilke: “Gentile Signora, l’aspetto a Vienna”
Il rapporto con Freud si consolida velocemente, lo psicanalista la incoraggia a scrivere dei saggi e a dare inizio a una carriera di psicoterapeuta, e per darle fiducia le affida l’ultima dei suoi sei figli, Anna, che riteneva essere inibita nei confronti degli uomini a causa di un irrisolto rapporto col padre. Per meglio seguire Anna, Lou si trasferisce in casa Freud per un mese. Inutile dire quanto sia stato importante il legame, proseguito per anni, tra le due donne. La parabola finale di Lou Salomé è consacrata esclusivamente alla pratica della psicanalisi. Non si occuperà più di letteratura. Commentando uno suo saggio sull’erotismo, Freud le scriverà: “Cara Lou, ho letto il tuo studio. Non mi capita spesso di ammirare un lavoro invece di criticarlo, ma questa volta mi tocca farlo. E’ il tuo scritto più bello, la prova involontaria della tua superiorità su noi tutti.
Al femminismo non si interessò mai: niente del suo desiderio di libertà aveva a che fare con una rivendicazione collettiva o un lamento di genere. Lou teorizzava piuttosto un’espansione delle individualità, un narcisismo portato alla sua massima estensione. Freud la rimproverava per questo, ma lei non cedeva: e forse, più che a Narciso la sua vita finì per somigliare allo specchio d’acqua, in cui ciascuno vedeva se stesso, e per rifrazione si innamorava di lei.
L’amore-fratellanza che aveva segnato i primi trent’anni di Lou evolve, nell’incontro con un medico di Vienna che le restò legato per tutta la vita - Friedrich Pineles - in quello che lei stessa definì «l’emancipazione della carne». Una vita erotica, la sua, cominciata relativamente tardi, consumata rigorosamente fuori dall’infelice matrimonio con #FriedrichCarlAndreas e che conobbe il punto di massima maturità nell’incontro con #RainerMariaRilke, all’epoca dieci anni più giovane di lei. Il carteggio tra loro - pietra miliare dell’epistolario amoroso del Novecento - si conclude simbolicamente con la parola «Inferno», pronunciata da Rilke sul letto di morte. La famiglia di lui costrinse Lou a cambiare quel finale - sembrava spudorato e eccessivo - e lei lo fece, per non dover sopportare quelle maldicenze che per tutta la vita avevano accompagnato la sua condotta (in particolare quella della terribile sorella di Nietzsche, Elisabeth)
L ’ascesa del nazismo in Germania fu segnato da un forte attacco in generale e a lei stessa, personalmente. La sorella minore di Nietzsche, Elisabeth, odiava fortemente Lou Salomé la accusò di “aver pervertito gli insegnamenti del grande filosofo” e per essere di origine ebraica.
Ma la testarda Salomé riuscì comunque a far fronte alla sua calunniatrice dimostrando che Elisabeth Nietzsche aveva falsificato molte opere del fratello.
Fino all’ultimo Lou Salomè non perse quell’andatura fiera di ragazza forte e sola. Quando le ordinarono l’asportazione di una mammella in seguito a un cancro che l’aveva colpita, uscì di casa senza dire a nessuno dove stava andando. Odiava essere compatita. Dopo i postumi dell’operazione sostituì il seno amputato con un’imbottitura e su uno dei suoi quaderni appuntò: «Nietzsche aveva ragione. Adesso ho proprio il seno falso»
Il suo camminare, sicura, nella vita di tanti uomini, con quel suo eros magnetico, sempre idealizzato e spesso sublimato, consegnato a splendide riflessioni sull’amore, sembra voler suggerire che l’oltre-uomo nietzschiano forse, può esprimersi davvero solo nella pienezza di un animo femminile
Lou morì nel sonno, il 5 febbraio 1937
TRATTO DA FB” LA CAMERA DEL MISTERO”
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L'evocatore e altri racconti di Emmanuel Di Tommaso
Un universo imprevedibile L'evocatore e altri racconti di Emmanuel Di Tommaso edito da Infinito Edizioni è una raccolta di tredici storie, tutte ambientate in un possibile futuro, una cornice per raccontare innanzitutto il mondo interiore dei personaggi. Creature di un’altra galassia si impossessano del nuovo mondo e non resta che opporre “resistenza” per sopravvivere. Molti, però, falliranno, perché non si può mai combattere da soli nella vita. L’uomo è un essere sociale e anche i suoi demoni interiori vanno sconfitti con l’aiuto degli altri. Nell'Evocatore e altri racconti di Emmanuel Di Tommaso il lettore può percepire il richiamo a molti grandi scrittori, tra cui, ad esempio, il poeta e saggista cileno Bolaño, al quale Emmanuel si è ispirato per caratterizzare i personaggi nella loro grande umanità. All’interno dei racconti, oltre all’universo delle intere emozioni e contraddizioni umane, c’è anche spazio per temi di grande attualità come l’ecologia, la guerra e la pace. Come di consueto, ringraziamo Emmanuel Di Tommaso per questa bella intervista che ci ha permesso di sviscerare alcuni argomenti del libro e di approfondire il suo rapporto con la scrittura e i generi letterari. L'evocatore e altri racconti di Emmanuel Di Tommaso Salve Emmanuel, domanda di rito per tutti gli scrittori nuovi qui a Cinquecolonne Magazine: ci racconta brevemente cosa fa nella vita e quali sono le sue passioni? In questa fase della mia vita vivo a Bologna dove lavoro per l’Alma Mater Studiorum nella creazione e gestione di progetti di ricerca in ambito umanistico. La mia più grande passione è la letteratura, che vivo nel doppio ruolo di lettore e di scrittore. Leggo di tutto (dai fumetti ai classici della letteratura russa, finanche alle biografie degli artisti), anche se i miei scrittori preferiti restano Ursula K. Le Guin, Margaret Atwood, Dostoevskij e Roberto Bolaño. Scrivo soprattutto racconti e poesie, e in passato mi sono anche dedicato alla critica musicale e di letteratura. Faccio tutto questo con grande passione ma senza prendermi mai troppo sul serio: concepisco la letteratura come un gioco per comprendere il mondo attraverso la riflessione e il sogno. Lei è autore di numerose poesie e racconti ma non si è mai cimentato nel romanzo? Le interessa oppure è un tipo di scrittura che non le è congeniale? Quando scrivo non mi preoccupo minimamente della forma che assumerà il testo su cui sto lavorando. Credo che le distinzioni tra forme di scrittura come la poesia, i racconti e i romanzi siano ormai superate. Si tratta di categorizzazioni imposte dal mercato editoriale perché per vendere un prodotto occorre prima di tutto definirlo. Per me all’origine della scrittura c’è un desiderio primordiale di smarrirsi in sé stessi per giungere attraverso il lavoro sul linguaggio a una visione più nitida delle cose. Partiamo dal titolo del suo libro per incuriosire un po’ i nostri lettori. Perché “L'evocatore”? a cosa si riferisce il termine? “L’evocatore” è il titolo di uno dei racconti che compongono il libro. Ho scelto di inserirlo anche nel titolo del libro perché trovo che sia il racconto più completo e complesso che io abbia mai scritto: è una storia gotica ma con elementi fiabeschi e di realismo magico. L’epicentro da cui parte la narrazione è un paese in Nord Africa in cui gli abitanti hanno improvvisamente smesso di sognare durante il sonno. Si tratta di un’allucinazione collettiva o di un maleficio? E ancora, è solo il piccolo paese di Chefchaouen ad essere minacciato da queste forze oscure o è il mondo intero? In questo racconto la storia e il destino dell’umanità si mescolano alle memorie individuali e collettive, e non è un caso che il protagonista narrante sia uno sconfitto, uno dei tanti marginalizzati costretti a vivere relegati nella sala d’aspetto della Storia. Tutte le vicende narrate hanno al centro l’uomo con le sue emozioni e conflitti. In base alla sua esperienza, cos’è che cattura di più il lettore? Una buona storia o il racconto del turbinio interiore dei personaggi? In questo caso rispondo da lettore e senza alcun dubbio: il turbinio interiore dei personaggi. La dimensione introspettiva, ciò che i personaggi di una storia pensano e sentono, è in fin dei conti ciò che più ci cattura mentre leggiamo perché ci permette di immedesimarci, di porci delle domande, di riflettere sul senso del nostro transitare per il mondo. Le tredici storie dell’Evocatore e altri racconti sono ambientate in un mondo fantastico. E’ la prima volta che sperimenta questo genere? Lo farà ancora? Durante uno dei primi incontri con il pubblico che sto organizzando per promuovere il libro, un amico molto caro mi ha fatto notare come l’universo a cui ho dato vita nell’Evocatore è molto simile a quello del mio primo libro pubblicato 10 anni fa che si intitolava “Il luogo dei teschi”. Non ci avevo fatto caso ma ciò mi ha fatto comprendere come il mio immaginario sia da sempre costituito sì da elementi e temi fantastici ma anche spietatamente reali e credibili. In questo momento sto scrivendo dei nuovi racconti sul tema della cura (o dell’assenza di cura) nei confronti di noi stessi e degli altri e delle cose che ci circondano. Non è facile ma mi piacerebbe elaborare questo tema all’interno di un mondo fantastico. Per il resto non saprei: quando si impugna la penna non si sa mai in che mondi si può sprofondare, ed è questo per me l’aspetto più affascinante della scrittura. Read the full article
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... sono felice del nostro incontro di questa mattina (favorito dagli alberi di viale Varese) ...
carissimi sono felice del nostro incontro di questa mattina (favorito dagli alberi di viale Varese) tengo tantissimo alla vostra e nostra amicizia con voi abbiamo parlato di tante cose (biografie, interessi culturali, letteratura …) e anche di questo straordinario libro (in vendita alla ubik, secondo piano) dedicato alle citazioni letterarie che aiutano le…
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Top Ten dei libri più venduti nel 2023, primo il Principe Harry
In primi 4 mesi di quest’anno. Dati Aie al Salone del Libro (ANSA) – TORINO, 19 MAG – La top ten dei libri più venduti nei primi quattro mesi del 2023, disegna un panorama dove convivono libri-evento come le biografie reali, saggistica di cultura, romance, titoli trainati da trasposizioni cinematografiche e premi letterari, fenomeni social, Tik Tok in particolare. Il peso dei titoli più…
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UNA BOTTA DI PSICHEDELIA
Leggiamo spesso nelle biografie di scrittori, artisti e musicisti, che dopo un viaggio particolarmente significativo, il loro modo di scrivere, dipingere, comporre musica è cambiato. In un certo senso sembrerebbe inevitabile, almeno quando un viaggio non è una semplice vacanza o quando non si è mai fatto nessun viaggio. È capitato a Marco Polo in Cina, a Wolfgang Goethe in Italia, a Eugene Delacroix in Marocco, a Mandelsshon in Gran Bretagna. Non ci crederete, ma è capitato anche al Mariulin. Solo che mentre dopo il suo ritorno dalla Cina, Marco Polo scrisse “Il Milione”, se dopo aver visto la nostra penisola Goethe scrisse “Viaggio in Italia, se quando tornò in Francia Delacroix dipinse lo sconvolgente “Donne di Algeri”, se al suo ritorno dalla Gran Bretagna Mendelsshon mise mano alla “Sinfonia Scozzese”, anche il Mariulin nel suo piccolo, una volta tornato da Londra nell’aprile del 1973, si diede alla “creatività” (che allora non si chiamava così). Quadri? Opere letterarie? Musica? No, diciamo arredamento: misi in croce mia mamma e mio papà per arredare di nuovo la cameretta (dopo che il nonno Giovanni ci aveva lasciati) ed avevo quindi uno spazio tutto per me. Il fulcro di quella decisione fu una cintura che mi comprai a Carnaby Street, dopo il “viaggio” di una settimana a Londra che sconvolse la mia mente. In origine la cintura avrebbe dovuto sostenere i pantaloni, ma quando l’Angelica (mia mamma, che sapeva essere diabolica), la vide me la diede semplicemente sulla testa (dalla parte della fibbia). Lo scandalo della cintura consisteva nel fatto che proprio sotto la fibbia (quella che mi arrivò sulla testa) era riprodotta la bandiera inglese, la famosa “Union Jack” e che ciò mi avrebbe fatto passare, a detta dell’Angelica, per una testa calda o magari per un “hippy”. In poche parole mi ordinò di tenerla, al massimo, nella cameretta. Da quel divieto nacque l’idea di costruire, intorno alla cintura con la “Union Jack”, una mia “confort-zone”. Mi diedi da fare per cercare una gomma di Mini-Morris per farci uno sgabello, e magari una bottiglia di Whiskey vuota. Niente da fare, cose troppo difficili da reperire per me. La mia salvezza venne dalla cartoleria Racchi di Novara (Pianura padana). Il famoso cartolaio novarese, in quegli anni, aveva aperto accanto alla cartoleria tradizionale, un negozio particolare; si chiamava “Idea” e proponeva al pubblico oggetti che potremmo definire pop-psichedelici. Ruppi il salvadanaio (che non era il solito porcellino, ma una scatola da scarpe) e decisi di investire tutti i miei averi nella psichedelia e nella optical-art. Riuscì anche ad estorcere ai miei genitori una scrivania, un letto retraibile e una mezza libreria. Gli acquisti più significativi però furono quelli fatti da “Idea” che vado ad enumerarvi: una lampada “psichedelica” costituita da un cilindro riempito di un liquido oleoso nel quale si muovevano piccoli quadratini di stagnola che producevano riflessi in movimento sulla parete, un poster con il famoso passaggio pedonale di Abbey Road, due cuscini sagomati con le figure di Snoopy e Lucy Van Pelt (anche se figli dello statunitense Schulz erano abbastanza pop), ma soprattutto un’altra lampada con piantana e tre sbarre cromate di sostengo sulle quali erano incastrate tre lampadine di diverso colore, rossa, blu e bianca (il riferimento inconscio al UK era evidente). Proprio su quelle lampada, ad una delle sbarre appesi trionfalmente la mia cintura! Devo dire che anche mio padre, solitamente poco incline ai facili entusiasmi, ebbe una botta di “psichedelia” e tinteggiò le pareti della cameretta di un verde intenso attraversato da una banda arancione. Sul soffitto diede il meglio di sé con una scacchiera composta da quadrati verdi, arancioni e bianchi. Insomma il breve soggiorno londinese trasformò l’appartamento di Sant’Agabio in una succursale di Piccadilly Circus e i vicini di casa non ci parlarono per anni. E poi non dite che il lockdown non stimola i ricordi...
Londra, aprile 1973
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“Ogni scrittura è apocrifa. Sono sbalordita nel vedere tanti romanzi inoffensivi nelle librerie, privi del rischio di ardere”: una lezione di Ingeborg Bachmann
Una lezione di Ingeborg Bachmann (1947), dal titolo originario “La febbre e il limite”, in difesa della scrittura apocrifa, perché sia realmente “questione di vita e di morte trascrivere voci”.
*
Signore e signori,
sono qui ancora una volta a parlarvi di scrittura. Non di commemorazioni, convegni, centenari, bicentenari, genetliaci, riscoperte postume, ma della scrittura.
E allora comincerò a dirvi la mia verità: ogni scrittura è apocrifa. Ogni scrittore, in quanto opera nel segreto del suo spirito, è apokriphos, segreto, e il suo apprendistato si esercita con una lingua scritta e consumata nei secoli da altri scrittori, vissuti prima di lui e alla ricerca della loro anima. Cosa significa tutto questo? Che lo scrittore, proprio perché è autentico, si abbevera alla fonte da cui altri hanno già bevuto. Non vi sembra straordinario e contraddittorio? Una sincerità dell’anima che si basa su una forma di vampirismo? A me sembra splendido e assoluto. Dirò di più: inevitabile.
La scrittura, quando espelle i suoi prodotti letterari, diventa quello che deve essere: un’etica del pensiero, una direzione del sentire: una forza che ci strige lì, nel regno della parola a sperimentare, in modo scandaloso, l’inadeguatezza dei nostri strumenti. Ma ognuno canta con la sua voce, indossa la sua maschera, cammina con il suo passo. Ed è osando il proprio tono e non un altro, preso a prestito dalle tradizioni della letteratura, che la scrittura smette di essere inoffensiva e diventa energia pulsante e trasgressiva, diagramma spezzato di una febbre.
Anche un romanzo di successo, con le sue psicologie logore e i suoi paesaggi dèja vus, è apocrifo perché un autore inventa comunque un personaggio altro da sé: comico è il sussiego con cui le azioni e i pensieri del tronfio protagonista sono descritti dall’occhio vanesio dell’io scrivente come tappe esemplari dello sviluppo di una verità. Divagazioni impressioniste, biografie romanzate, cronache giornalistiche, resoconti storici: stupisce la volgare sicurezza con cui la scrittura pretende di dipanare, risolvere, classificare, con l’Autorità della scrittura.
Ma, dentro questa ridicola autorità si può essere scrittori? Si può realmente evitare, nel momento in cui si dice io, l’identificazione allucinatoria con il personaggio che osa dire io? I veri poeti sentono questa folle adesione a una forma di bellezza e scrivono un’opera poetica sempre coerente, non casuali raccolte di versi.
Sono sbalordita nel vedere tanta scrittura dilapidata nelle librerie, inoffensivi esercizi stilistici, trattati di cucina e di ginnastica, pamphlets sulle regole del benessere, e quanto l’utopia della letteratura, il rischio di ardere delle proprie parole, il gettarsi allo sbaraglio con lo scopo di trasformare, influenzare, mescolare passati e futuri, sia considerata solo un’antiquata retorica da “romantici maledetti”.
Non sto parlando, ovviamente, di trasformazioni linguistiche: con la lingua hanno giocato e sperimentato non solo le avanguardie. Riscopriamo alcuni autori barocchi o medioevali e vedremo che il surrealismo è una rivelazione già preannunciata dalle bibbie dei monaci e dai trattati di oniromanzia.
Ma il gesto – quello che determina la scrittura – dove trovarlo? Lo scrittore apocrifo non gioca con la storia, non divaga con i destini, non costruisce biografie: prende una vita umana, consegnata all’erbario delle storie dell’arte, della poesia e della filosofia, e la provoca, la smaschera, la interroga: le fa rivelare sorprendenti segreti, fantasie più vere della realtà, che fanno esplodere tutte le storie e tutti i cimiteri, riconsegnando alla vita quanto di una vita è stato immaginato vivente.
Ecco di cosa ci parla sempre la scrittura apocrifa: di questa scandalosa, calda, insopprimibile vita. La vita di chi ha vissuto o tentato di vivere con l’etica del suo pensiero è ancora tutta da esplorare. Il suo destino terreno si è concluso ma solo in parte. Bisogna perturbare il passato per scoprire le prospettive nascoste da altri destini: ma il compito è immane perché alle nostre spalle non ci sono solo enciclopedie letterarie o biografie romantiche ma anche tutta quella sterminata popolazione di anime ignote che solo nella folle fantasia dello scrittore apocrifo possono ritrovare la voce. Sarà sempre una voce falsa, come sempre falsa è la scrittura, ma di un falso assolutamente vero, sostenuto da una necessità etica: quella di dare forma all’impossibile e pensiero all’impensabile.
Non saprei concepire migliore utopia: scrivete in questo senso, se volete scrivere. Se invece amate l’ars scribendi, crepate pure nei vostri peccatucci lirici. Io vi consiglio di pensare la scrittura come io penso il mio corpo percorso dal sangue. Non godete delle singole immagini, non rendete l’arte una consolazione da femminucce. Pensate che è vostra, nell’arte, se lavorerete come ossessi, la scelta di una traiettoria e di un destino che non vi consentirà scampo, e questo destino è apocrifo: sia che parli di sé, del fratello, del padre, della madre o di un altro personaggio, lo scrittore è condannato a essere apocrifo, a dire quanto sarebbe indicibile, a parlare di quanto varca i confini della parola.
L’atto di scrivere è apocrifo perché la pagina nata dalla volontà dello scrittore parla della sua alienità dalle forme sociali, del suo scaraventarsi verso il proprio destino, oltre le rassicuranti leggi della grammatica del ‘bello scrivere’, derise in modo implacabile e definitivo dal Bouvard et Pecuchet. Ma nella pagina scritta vibra anche tutta la determinazione del gesto che è stato svelato e non ci sono esercizi, favole, generi e nuore letterarie: solo un fuoco che brucia del suo essere fuoco, che scrive e riscrive l’impulso da cui è generato.
In questo secolo gli scrittori si cercano in chi, per somiglianza di passione e di follia, nei secoli passati, ha cercato ciò che loro vanno cercando: una verità etica, un momento in cui il dire, simile al non-dire, espone con ardore il suo tormento. La maschera dell’apocrifo diventa così la via della scelta, la tensione del proprio destino. L’uccello canta o la pianta fiorisce, ma quell’uccello e quella pianta parlano delle stagioni passate e future che giustificano quella presente come la luce le ombre infinite che l’hanno generata.
Ci sono coincidenze che rendono l’immaginazione un povero riflesso che graffia appena la realtà sommersa. C’è sempre un momento in cui la mano che scrive, mozzata dal corpo, non ha necessità di avere un nome che la definisca, un’identità che la giustifichi.
Io ho sempre cercato una lingua universale, la lingua dei perduti e dei giusti; l’ho cercata nel passato, la cerco nel presente, la cercherò nel futuro: ma in realtà non è una lingua, è un gesto costruito dalle unghie della mano, una carezza modellata dalla carne delle dita, una posizione conquistata, una strategia di difesa. È una lingua del tatto, fatta di lacrime e di voci, con cui la sentinella-vedetta esprime il suo lamento.
L’opera è sangue. Ma costrizioni e fantasmi hanno bloccato il fluire naturale della circolazione sanguigna. Allora, per sopravvivere, abbiamo sviluppato le anastomosi vicine, i circoli collaterali, abbiamo ingigantito vasi fragili e sottili, che non potevano sopportare tutta la pressione del flusso, e tuttavia ne abbiamo fatto il nostro regno assoluto, rischiando sempre l’emorragia del delirio, la rottura della parete. Il non senso della morte. Ma siamo ancora qui, oggi, a conservare questi fragili vasi perché il sangue continui, nonostante gli ostacoli, a scorrere. E non solo nei nostri corpi incompiuti ma anche in altri corpi, che hanno condiviso il nostro stesso destino. Per questo vogliamo la scrittura apocrifa: per trovare corpi fratelli in cui il sangue non è circolato abbastanza, per rimuovere i trombi e gli emboli da quelle arterie, per cercare nuove strade al vecchio sangue che non ha mai pulsato come doveva pulsare.
E se la scrittura apocrifa, che tutti suppongono vampira, invece di nutrirsi del sangue dei morti nutrisse lei i morti, trasformando antiche scritture ghiacciate e compatte in diagrammi discontinui e convulsi che cercano, azzerando le differenze fra i secoli, quell’enigma indecifrabile, quell’impensabilità dell’arte che si nasconde sotto la greve superficie dei capolavori e dei monumenti? Chiedo che il paradosso della scrittura sia accettato, tollerato, rispettato, e pertanto non risolto. Ciò che in arte chiamiamo imperfezione non fa che rimettere in moto ciò che perfetto non è. Una volta spenti i riflettori e ogni altra forma di illuminazione, la letteratura, lasciata in pace e al buio, risplende di luce propria, e le sue creature vere, commuovendoci ancora oggi, emanano bagliori. Le opere sono punti morti e punti di luce, frammenti in cui si avvera la speranza della lingua intera, che dirà i mutamenti dell’uomo e i mutamenti del mondo: questa lingua, questa koiné dell’arte nei secoli, è il frammento di confessione che non smette di agitare la lingua del morente per l’ultimo respiro. E il morente è l’esegeta, il traduttore, il posseduto, il camaleonte di questo sospiro: abbandonato dai destini che lo avevano invaso, tace e torna a vegliare, in attesa che l’aria vibri ancora e torni questione di vita e di morte trascrivere voci…
Ingeborg Bachmann
A cura di Marco Ercolani
L'articolo “Ogni scrittura è apocrifa. Sono sbalordita nel vedere tanti romanzi inoffensivi nelle librerie, privi del rischio di ardere”: una lezione di Ingeborg Bachmann proviene da Pangea.
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Celestino Cominale (1722-1785), l'uggianese che osò sfidare Newton
di Armando Polito
Isaac Newton in una stampa del XIX secolo (disegno di Joseph Théodore Richomme (1785-1849), incisione di Ephraïm Conquy (1809-1843) e Celestino Cominale in una incisione di P. Iore tratta da Domenico Martuscelli (a cura di), Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, tomo IX, Gervasi, Napoli, 1822.
Probabilmente le giovani generazioni, salentine e non, di Newton (1642-1726) non conoscono nemmeno il famoso aneddoto della mela, e non per colpa loro …
Taglio la testa al toro ricordando solo che Isacco Newton godette ai suoi tempi di tanto prestigio che, riferito a lui, si può benissimo usare l’ipse dixit (l’ha detto lui), che aveva sancito prima l’autorità di Pitagora (VI-V secolo a. C.) e, poi, nel Medioevo, quella di Aristotele (IV secolo a. C.).
Forse, e ripeto forse …, la scienza è l’unico campo in cui il successo non suscita invidia e, con l’invidia, l’antipatia. Tutti, o quasi tutti, si rassegnano all’ipse dixit e si guardano bene dal dire la loro, anche quando, magari, sono attrezzati a farlo.
Con Newton, però, Celestino Cominale non si tirò indietro, attrezzato com’era, anche caratterialmente.
Nato a Uggiano la Chiesa (LE), Aveva iniziato gli studi letterari e filosofici a Lecce nel Collegio dei Padri Gesuiti. Continuò poi con la fisica, la matematica, la botanica, l’astronomia e la medicina, studi che perfezionò a Napoli. Esercitò la professione di medico con maestria tanto da essere chiamato anche a Roma per ragioni professionali. Insegnò nelle Università di Roma, Bologna, Padova e Pisa. Nel 1770 ritornò ad Uggiano continuando i suoi studi fino alla morte.
La poliedricità del suo ingegno e l’ampio spettro degli studi fatti si riflettono nelle sue pubblicazioni:
Anti-newtonianismi in quattro tomi pubblicati da Benedetto Gessari a Napoli nel 1754, nel 1756, nel 1769 e nel 1770.
Historia physico-medica epidemiae neapolitanae anni MDCCLXIV, Francesco Morello, Napoli, 1764
Nel frontespizio della prima, sulla quale torneremo subito, si legge Anti-newtonianismi pars prima, in qua Newtoni de coloribus sistema evertitur, et nova de coloribus theoria luculentissimis experimentis demonstratur opera ac studio Caelestini Cominale m(edicinae) D(octoris) in Regio Archi-gymnasio Neapolitano Philosophiae Professoris (Prima parte dell’Antinewtonianismo, nella quale a Newton in base alla geometria viene demolito a partire dai propri principi il sistema sui colori e una nuova teoria sui colori viene dimostrata con eccellenti esempi dall’opera e dallo studio di Celestino Cominale Dottore di Medicina, Professore di Filosofia nel Regio Archiginnasio napoletano).
In quello della seconda: Historia Phisico-medica e pidemiae neapolitanae an(no) MDCCLXIV opera ac studio Caelestini Cominale in Regio Archi-gymnasio neapolitano Philosophiae, et Matheseos Professoris elucubrata ( Storia fisico-medica dell’epidemia napoletana nell’anno 1764 elaborata ad opera e cura di Celestino Cominale Professore di Filosofia e Matematica nel Regio Archiginnasio napoletano).
Il lettore avrà già capito che connessa col titolo di questo post è la prima opera nella quale già dal titolo traspare una coraggiosa vis polemica nei confronti delle teorie dello scienziato inglese.
L’ugentino appartiene alla ristrettissima schiera di antinewtoniani1, ma è l’unico a dichiararlo senza mezzi termini a partire dal titolo. Dovette vedersela, fra l’altro, anche con un conterraneo, Oronzo Amorosi di Galatone, newtoniano sfegatato, come all’epoca erano, l’ho già detto, i più. Dello scontro tra i due nulla sapremmo, se nel 1821 Vincenzo Lillo non avesse copiato l’autografo del galatonese e se Gabriella Guerrieri non ne avesse curato la pubblicazione (titolo: Gara letteraria inedita tra i signori Oronzo Amorosi di Galatone e Celestino Cominale di Uggiano della Chiesa copiata dall’autografo di esso Amorosi da Vincenzo Lillo, 1821) per i tipi di Conte a Lecce nel 1999.
Bisogna dire, però, che pur nella marea di critiche2 al nostro basate sulla cieca fiducia nell’Anglo che tanta ala vi stese (Ugo Foscolo, Dei sepolcri, 163), si levò qualche voce più prudente, invocando per lui una sorta di beneficio d’inventario.
La più autorevole fu senz’altro quella dell’abate Giovanni Antonio Battarra3 di Rimini in una lettera del 22 luglio 16704: … Vengo in secondo luogo a dirvi, come nel Settembre del 1754 io mi ritrovava una mattina in Cagli presso Monsig. Bertocci Vescovo degnissimo di quella Città, e che, a dirvela senza adulazione, è uno di quei Vescovi , che mi piace, perché oltre molte belle sue doti , ha quella di esser molto portato per la buona letteratura, e stima molto le persone di lettere. Discorrendo pertanto insieme di cose erudite, in compagnia dell’Abate Agostini mio amicissimo, Prevosto di quella Cattedrale, presso del quale io mi trattenni alcuni giorni, esso Monsignore mi comunicò un articolo delle Novelle Letterarie di Venezia5, in cui si dava ragguaglio, che un certo Dottor Celestino Cominale Lettor di Fisica nell’Università di Napoli aveva pubblicato il primo Tomo d’una sua Opera intitolata Anti-Newtonianismi Pars prima, in qua Newtoni de Coloribus systema ex propriis principis geometrice evertitur, et nova de Coloribus historia luculentissimis experimentis demonstratur, etc.
In questo articolo si riferivano tutti i Capitoli dell’opera, dove con mia maraviglia veniva attaccato il Newton nelle dottrine più sode e più sublimi, e corroborate anche colle più decisive sperienze, che ha nell’opere sue. A tale avviso mi voltai a quel Prelato sorridendo e dissi: -Potrebbe il Cominale aver addentato un osso più duro de’ suoi denti? -. Due anni dopo l’Autore pubblicò la seconda Parte di questa sua opera spiritosa, e con un cambio della mia operetta de’Funghi6 feci acquisto fra altri libri anche di quest’opera da me cotanto desiderata. La lessi, e rilessi, con attenzione; e se debbo dirvela schietta, è vero che l’Autore si conosce che è un giovane intraprendente e pien di fuoco, e un po’ troppo Metafisico, che non lascia nemmeno sulle spalle del Newton fermar le mosche; tuttavia vi ho lette molte buone cose, et quidem7 molto ben ragionate, e se si fosse contentato di distruggere soltanto, e di non edificare altrimenti, avrebbe fatto miglior colpo. Io qui mi protesto in quanto al merito della causa di parlare in aria, perciocché, come sapete, io mi trovo in una Città, che è senza presidii di macchine fisiche,e non ho potuto aver il contento di rifar quelle sperienze, che son contrarie alle conclusioni del Newton. Ho tentato di farle rifare nelle più culte Università d’Italia, e toltone una, che a stento mi è riuscito di avere per la parte di Bologna, per cui il Cominale parmi che vada al di sotto, io non ho potuto aver altro. Anzi consultati vari Lettori primari di Fisica di queste più celebri Università d’Italia per opera de’ miei amici, quattro anni dopo che l’opera del Cominale era alle stampe, chi mi facea dire che il Cominale non l’avea incentrata, chi mi dicea che, avendo letto l’uno e l’altro Autore, non cessava d’esser Newtoiiano, e chi perfino ebbe il coraggio di asserire che ancorché le sperienze del Cominale fossero vere, tanto la dottrina del Newton non sarebbe a terra; ma a certi dubbi proposti a questa assertiva, da due anni in qua, ho ancora d’aver risposta.
Ora dico io: la nostra Italia, che è la madre della Letteratura Europea, che bella figura farà presso gli Oltramontani nel lasciar correre quest’opera ingiudicata? Io ho sempre creduto che fosse principalmente dovere de’ Professori delle Università nostre esaminare somiglievol causa, e riconoscendola trattata con imposture, e vaniloqui, castigarne l’Autore con la dovuta censura; e se il Sig. Cominale è veridico nelle sue sperienze, e non sono soggette a critica, perché non inalzarlo all’onor della palma8 sopra un Eroe, le cui dottrine vengono tanto venerate da tutto il mondo letterario? Vedete un poco di risvegliare questa premura in codesti vostri Fisici, che son quasi i soli, che mi restano da stimolare in Italia. Addio.
Ci fu pure chi stigmatizzò in versi l’audacia di Celestino. Di seguito un sonetto del salentino Leonardo Antonio Forleo9, con cui chiudo questo lavoro.
– L’Anglo paventia – ardito uomb dicea
– che leggi imporre all’universo ardisce:
vedrà, vedrà se il labbro mio mentisce
e il gran valor di mia sublime idea -.
– Ferma! – disse ragion. Ma quei volgea
la penna incauta, che sistemi ordisce;
ma credendo ferir ei non ferisce,
creduto vincitor vinto cadea.
Quest’inutili assalti espose al riso:
segni di suo valor furono allora,
ma d’un valor dalla ragion diviso.
Musac abbenchéd perditore l’onora,
che ad Annibale ugual vinto, e conquisof,
nelle perditeg sue fu grande ancora.
a Newton tema
b Celestino Cominale
c la poesia
d sebbene
e perdente
f conquistato, sconfitto
g sconfitte
__________
1 Prima di lui Giovanni Rizzetti aveva pubblicato il De luminibus affectionibus (Gli stati della luce) per i tipi di Bergamo a Travisio e di Pavino a Venezia nel 1726; dopo di lui Ignazio Gajone il Nuovo sistema fisico universale per i tipi della Stamperia Raimondiana a Napoli nel 1779 e Tommaso Fasano l’Esame della compenetrabilità della luce esposto in dialoghi, per i tipi di Raimondi a Napoli nel 1870. Una recensione dell’opera del Fasano è in Efemeridi letterarie di Roma, tomo IX, Zempel, Roma, 1780, pp. 299-301, dove alla fine si legge: Ci giova sperare che la nuova Reale Accademia delle scienze dissiperà finalmente tutti questi filosofici sogni, de’ quali sembra che siansi un po’ troppo finora pasciuti i belli, e vivaci, ma alcune volte un po’ troppo fervidi ingegni Partenopei, e che farà un po’ meglio rispettare nell’avvenire le sublimi scoperte dell’immortale Newtono (sic), troppo indegnamente state finora attaccate dall’Anti-Newtonianismo del Sig. Cominale, dal Nuovo Sistema Fisico del Sig. Gajone, dalla nuova penetrabilità della luce, e da altrettali filosofiche stravaganze.
Solo il Rizzetti era stato difeso a spada tratta dalla voce isolata di Iacopo Riccati in due sue lunghe lettere (Opere del conte Jacopo Riccati, Rocchi, Lucca, 1765, pp. 109-122).
2 In Storia letteraria d’Italia, Remondini, Modena, 1757, v. X, le pp. 143-153 sono dedicate ad un’analitica recensione dell’opera del Cominale. Fin dall’inizio appare chiara la posizione decisamente newtoniana: Noi ci congratuliamo col dotto Professore del Collegio romano [Carlo Benvenuti, convinto newtoniano, autore di Synopsis physicae generalis, e di De lumine dissertatio physica usciti entrambi per i tipi di Antonio de’ Rossi a Roma nel 1754], a cui però non è ne’ sentimenti a Newton favorevoli conforme un professore di Napoli, il quale, anziché ammirare e seguire il Newton, impugnalo con tutte le forze sue. Seguono gli estremi bibliografici della pubblicazione del Cominale del 1754 e, punto per punto, la contrapposizione tra le tesi del Newton e quelle del Cominale (con prevalenza assoluta delle prime ). Una nota (la 37 alle pp. 152-153), tuttavia, costituisce una sorta di riconoscimento delle potenziali (se indirizzate diversamente …) capacità del nostro: Preghiamo per ultimo il Nostro Autore che non voglia offendersi, se noi con filosofica libertà abbiamo alcune cose nel suo libro notate, e diciamo ingenuamente, essere presso noi di maggior peso le dottrine dei Newtoniani, che le sue impugnazioni, benché non siamo tra quelli, che credono impossibili gli errori del Newton. Se non altro varranno a meglio rischiarare la verità, e a dare al fervido ingegno del Nostro Autore campo d’esercitarsi. E Celestino nella prefazione della terza parte dei suoi Anti-newtonianismi (Morelli, Napoli, 1769) replicò allo Zaccaria (autore della Storia insieme con Leonardo Ximenes, Domenico Troili e Gioacchino Gabardi) dicendo che egli non poteva ergersi a giudice in questa materia e che non aveva letto neppure i titoli delle sue opere.
3 (1714-1789) Naturalista micologo, autore di Fungorum agri Ariminensis historia, Ballante, Faenza, 1755; Pratica agraria distribuita in vari dialoghi,Casaletti, Roma, 1778; Naturalis historiae elementa, Marsonerio, Rimini, 1789.
4 In Novelle letterarie pubblicate in Firenze l’anno MDCCLX, Albizzini, Firenze, 1760, tomo XXI, colonne 570-573.
5 Novelle della repubblica letteraria per l’anno MDCCLV, Occhi, Venezia, 1755, pp. 260-263. Fra l’altro vi si legge: Se tanto romore fece il nuovo sistema Neutoniano circa la luce ed i colori, non minor grido ottener dovrebbe la nuova confutazione data al medesimo dal Sig. Cominale, il quale nulla paventando la gran turba de’ ciechi seguaci dell’Inglese Filosofo, si protesta di atterrar colle stesse macchine o arme Neutoniane il preteso sistema de’ Colori.
6 È la prima opera citata nella nota n. 2.
7 certamente
8 vittoria.
9 Era nato a Francavilla Fontana (BR). Il sonetto è in Vari ritratti poetici storici critici di alcuni moderni uomini di lettere sul gusto di Agatopisto Cromaziano e per servire di prosieguo all’opera del medesimo di Leonardo Antonio Forleo, Raimondi, Napoli, 1816, p. 32. Agatopisto Cromaziano è il nome pastorale del monaco celestino Appiano Bonafede che fu socio dell’accademia romana dell’Arcadia a partire dal 1791. Il Forleo, che era socio dell’Accademia Pontaniana di Napoli, fu autore prolificissimo. Si riportano qui solo alcune delle altre pubblicazioni: Amenità dell’etica, Rusconi, Napoli, 1827; 1827; Ragionamento critico intorno alla moderna comedia, Rusconi, Napoli, 1830; La lira Iapigia, Società Filomatica, Napoli, 1831; I politici, Cataneo, Napoli, 1832; Il manoscritto di Sterne, Cataneo, Napoli, 1832; Manfredi, Rusconi, Napoli, 1833; Certamen ad cathedram archeologiae, poesis Romamaeque eloquentiae in Regio Neapolitano Archigymnasio obtinandam perfectum, Russo, Foggia, 1834; Il Colombo, ovvero l’America ritrovata, Russo, Foggia, 1834; La statua del grande, Russo, Foggia, 1835; Il racconto di una vedova, Agianese, Lecce, 1836; L’arpa cristiana, Agianese, Lecce, 1839; Cause e ragioni che fanno classico il poema di Dante, Cannone, Bari, 1842; Liceo dantesco, Petruzzelli, Bari,1844; Napoli nel XVI secolo. S. Sebastiano, Migliaccio, Cosenza, 1846.
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In Biblioteca puoi scoprire autori e opere che non conoscevi o di cui avevi sentito parlare ma che ancora non avevi avuto modo di leggere. Ed è per questo che abbiamo deciso di dedicare un angolo alla scoperta di questi "tesori nascosti".
Oggi l'opera prescelta è “Elsa” di Angela Bubba.
Mi accade raramente di leggere per puro svago delle biografie. Non ci incappo che per "sbaglio", quasi mai per diletto, eppure, per una strana congiuntura favorevole ho dovuto (senza alcuna fatica né resistenza) ricredermi: tanto le narrazioni di storie e fatti di chiara finzione letteraria, quanto le storie di vite vissute, reali - in una parola "vere" - possono regalare un tempo magico. E così mi sono lasciata "convincere" dalla scrittura di Angela Bubba, autrice di una biografia dedicata alla figura della grande scrittrice, prima donna a vincere nel 1957 il Premio Strega con "L'isola di Arturo", nonché moglie di Alberto Moravia, Elsa Morante. Mi sono lasciata catturare da questo ritratto accurato e onesto che va dalla sua infanzia, trascorsa al Testaccio, alle esperienze, allo stretto e necessario connubio tra vita e letteratura. Elsa viene descritta come una bimba pallida, "una maschera slavata", a dispetto dell'etimo germanico del suo nome che la origina salda, resistente: l'elsa, infatti, è il termine che indica la traversa metallica posta alla base dell'impugnatura delle spade. Con una doppia funzione, l'una di protezione della mano e l'altra di fermo della lama dell'arma bianca contro il fodero...
Eppure Elsa, la futura grande intellettuale, nonostante le premesse poco incoraggianti, la salute non esattamente florida, il carattere particolare e la tempra non comune tra i suoi coetanei, pare, invece, sbalordire per forza e tenacia insospettabili e straordinarie. Con una penna assolutamente magistrale, l'autrice di queste pagine ricalca la vicenda umana della Morante attraverso le tappe principali della sua esistenza, ripercorrendone esperienze dolorose, incontri fortunati, il rapporto con i genitori, gli innamoramenti e le delusioni, i primi esordi letterari, il distacco voluto e necessario dalla famiglia. L'incontro con un nemmeno trentenne Alberto Moravia accade in modo naturale, grazie ad un comune amico pittore e da quel momento in poi ogni cosa assume forma e aspetto nuovi. Elsa considera con smarrimento quell'uomo che la incuriosisce come nessun altro fino ad allora, quel tale dai modi composti e sorriso largo, accogliente, "una creatura lunare", dallo "splendore opalino dei pesci". Abile e affabile interlocutore con l'ammirata passione per la letteratura russa e per Dostoevskij in special riguardo.
Sola, forte e sofferente, con il suo «senso disperato dell’epica», così la descrive Moravia, e con una scrittura che è sostanza viva e, al tempo stesso, impalpabile, come trapela in questo romanzo biografico che si delinea quasi mappa geografica di rapporti tra Elsa e la famiglia d’origine, il burrascoso legame con la madre Irma, i fratelli, il vero padre Fancesco e Augusto, colui che lei crede suo padre fino a un certo punto della vita, quando la madre le rivela la verità. E da lì in poi tutto cambia. Un momento topico a partire dal quale Elsa decide di indagare la verità, chiedendosi le ragioni del nascere e morire, sebbene «il sangue non si cambia. Accettalo». Così le ripete Alberto Moravia, che lamenta e forse non comprende fino in fondo la scelta rabbiosa di lei di non rivolgere più parola alla madre, o di non confidarsi mai appieno con il marito relegandolo spesso in qualche margine del vivere e del pensiero.
La rabbia della scrittrice si scaglia non solo contro la madre o il consorte, ma assume consistenza di demone sgradevole che la rende sgradita, brusca, in continua ricerca di riconoscimento, nella consapevolezza del suo tempo storico in bilico tra inettitudine e eroismo. Un tempo vissuto nei frequenti traslochi in case vissute come troppo piccole o troppo grandi, nella vorace e costante necessità di far posto tra le stanze prima ai libri che a se stessa. Ne emerge un ritratto, dunque, intenso e "teso", capace di mantenere il lettore vigile e attento, in una danza quasi ipnotica, in questa mappa di relazioni, viaggi, lotta per l'indipendenza e amori lunga un'intera (e fiera) esistenza.
Angela Bubba è nata nel 1989 a Catanzaro. Col suo primo romanzo, La casa (Elliot, 2009), è entrata nella rosa di dodici del Premio Strega. La sua prima opera saggistica, Elsa Morante madre e fanciullo (Carabba,2016), ha vinto il Premio Morante per la critica. Per Bompiani ha pubblicato MaliNati (2012), Via degli Angeli (con Giorgio Ghiotti, 2016) e Preghiera d’acciaio (2017). Suoi scritti sono apparsi su Nazione Indiana e Nuovi Argomenti. Vive a Roma, dove si occupa anche di ricerca nel campo dell’italianistica.
Recensione a cura di Rita Pagliara.
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...una delle più belle biografie che abbia mai letto...è la storia di un uomo unico...prezioso...storia capace di restituire il fascino ombroso della dolorosa giovinezza del ragazzo Pier Paolo, il valore delle piccole conquiste, il faticoso percorso di conoscenza di sé, gli immensi lutti. Leggere la vita di Pasolini scritta da Enzo Siciliano è come andare al mare d'inverno, in una giornata di tempesta, e trovarvi l'acqua plumbea e grigia e le onde arricciate: lo speri, dentro di te te lo aspetti, ed hai la certezza che sia così. Non può tradirti. E non si tratta solo di conoscenza della persona: si tratta di empatia, di cuori che viaggiano incredibilmente all'unisono. L'autore ci prende per mano e ci conduce attraverso tutte le tappe della vita di Pasolini. Lo fa con maestria, permettendo al lettore di approfondire non solo gli aspetti biografici, ma anche quelli poetici, letterari, cinematografici e di critico della società in cui viveva. Fondamentale per comprendere Pasolini.... #libridisecondamano #ravenna #booklovers ##instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #consiglidilettura #librerieaperte #enzosiciliano #pierpaolopasolini (presso Libreria Scattisparsi) https://www.instagram.com/p/CRvNEGoHCZi/?utm_medium=tumblr
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"Van Gogh, l’Uomo": un evento culturale imperdibile a MilanoAlla scoperta dell’uomo dietro il genio: la presentazione del libro di Silvana Ramazzotto Moro
Il 19 dicembre 2024, alle ore 18:00, presso la Casa degli Artisti di Milano, si terrà la presentazione del volume Van Gogh, l’Uomo, un’opera affascinante e inedita di Silvana Ramazzotto Moro, pubblicata da Guido Miano Editore.
Il 19 dicembre 2024, alle ore 18:00, presso la Casa degli Artisti di Milano, si terrà la presentazione del volume Van Gogh, l’Uomo, un’opera affascinante e inedita di Silvana Ramazzotto Moro, pubblicata da Guido Miano Editore. Questo evento rappresenta un’occasione unica per immergersi in una prospettiva intima e autentica della vita del celebre pittore Vincent Van Gogh. Un’opera unica nel suo…
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LUCIANO LANDONI PRESENTA: “LA MIA VITA AI TEMPI DEL CORONAVIRUS”
...paure, timori, speranze, delusioni, angosce, gioie, rabbia.
La vita è tutto questo e parecchio di più. Soprattutto al tempo del Covid-19.
Assessorato alla Cultura della Città di Castellanza e Biblioteca Civica di Castellanza presentano Sabato 17 Ottobre 2020, alle ore17, presso la Sala Conferenze della Biblioteca Civica di Castellanza, il libro di Luciano Landoni “La mia vita al tempo del coronavirus”, TraccePerLaMeta editori.
Presenta la serata Lucia Landoni.
Intervengono gli editori Anna Maria Folchini Stabile e Paola Surano.
La mia vita ai tempi del Coronavirus. L’autore racconta, attraverso un diario quasi quotidiano, le proprie sensazioni a partire da venerdì 21 febbraio: l'inizio, in Lombardia, dell’emergenza sanitaria. Un frammento di vita (i mesi dell’esplosione e dell’evoluzione dell’epidemia), che Luciano Landoni definisce vita sospesa, nel quale in tanti potranno riconoscersi. Pagine ricche di umanità e anche di innumerevoli argute provocazioni, nonché di rigorosi rimandi storici, scientifici, economici e letterari.
Luciano Landoni, giornalista specializzato nell’analisi delle tematiche socio-economiche. Dopo la Laurea in Scienze Politiche (indirizzo Politico Economico), ha approfondito i suoi studi in campo economico e sociale, pubblicando numerosi saggi in materia. Ha ricoperto per diversi anni la funzione di Capo Ufficio Studi di una delle più importanti Associazioni territoriali di Confindustria. Dal 2005 al 2019 ha scritto di economia sulle pagine de l’Inform@zione e de l’Inform@zione-online.
Ha pubblicato una serie di libri incentrati sulle problematiche specifiche del “fare impresa” in Italia e diverse "biografie aziendali” nell’ambito della collana “Romanzi Industriali” -GMC Editore, “Mobilis in mobile – Mobile nell’elemento mobile, fare impresa nella società liquida”, 2017 e “Fatti male”, 2018 per TraccePerLaMeta.
In rispetto alle regole del distanziamento sociale, introdotte per prevenire la diffusione del virus COVID-19, i posti per il pubblico saranno limitati. Gli interessati potranno prenotarsi telefonando al numero della biblioteca 0331503696 o scrivendo alla email: [email protected]
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C’era una volta un alto palazzo nel cuore della città di Utrecht. Questa struttura è stata trasformata in una gigantesca libreria da due street artist olandesi. Se state quindi pensando di organizzare un viaggio nella città dei Paesi Bassi non perdetevi questa opera d’arte. Il Murales realizzato da Jas Is De Man e Deef Feed a Utrecht – Fonte JanIsDeMan Sembra un grandissimo scaffale di una biblioteca, in realtà è un gigantesco murales ideato e realizzato da Jas Is De Man in collaborazione con Deef Feed. I due artisti hanno trasformato quella che era un’anonima facciata di un edificio in centro città in una libreria. Il murales, realizzato con la tecnica trompe l’oeil raffigura gli scaffali di una libreria che conservano alcune delle opere letterarie più belle mai scritte. I titoli dei testi raffiguranti sull’opera d’arte sono stati scelti dai residenti del quartiere. L’idea, i trasformare la parete del palazzo a tre piani è nata dagli inquilini dello stesso edificio, tra questi alcuni amici dell’artista Jas Is De Man. Il progetto iniziale prevedeva una grande faccina sorridente, ma una libreria si adattava decisamente meglio alla forma dell’edificio. Jas Is De Man e Deef Feed, non hanno lasciato nulla al caso. La stessa selezione di opere letterarie che impone il murales è stata meticolosamente pensata rispecchiando il quartiere stesso. Questa parte della città di Utrecht infatti è popolata da comunità di culture diverse, ecco perché nell’enorme libreria appaiono opere di Jane Austen, libri fantasy come quelli di Harry Potter e biografie di uomini illustri. Il Murales realizzato da Jas Is De Man e Deef Feed a Utrecht – Fonte JanIsDeMan Attraverso la selezione di questi libri si è riusciti a mettere insieme più di otto lingue e altrettante tradizioni per celebrare la diversità culturale. Non è mancata poi sullo scaffale, la raffigurazione di un grande mappamondo, simbolo appunto della multiculturalità e multietnicità che contraddistingue la comunità locale. Quella di Utrecht rappresenta sicuramente un’opera unica nel suo genere, non solo per il valore aggiunto estetico che è stato dato all’edificio e al quartiere ma anche e soprattuto per la scelta di rispettare e valorizzare il contesto culturale e sociale attraverso l’arte. Il Murales realizzato da Jas Is De Man e Deef Feed a Utrecht – Fonte JanIsDeMan https://ift.tt/38DZG1v Il Murales di Utrecht trasforma un palazzo in una libreria C’era una volta un alto palazzo nel cuore della città di Utrecht. Questa struttura è stata trasformata in una gigantesca libreria da due street artist olandesi. Se state quindi pensando di organizzare un viaggio nella città dei Paesi Bassi non perdetevi questa opera d’arte. Il Murales realizzato da Jas Is De Man e Deef Feed a Utrecht – Fonte JanIsDeMan Sembra un grandissimo scaffale di una biblioteca, in realtà è un gigantesco murales ideato e realizzato da Jas Is De Man in collaborazione con Deef Feed. I due artisti hanno trasformato quella che era un’anonima facciata di un edificio in centro città in una libreria. Il murales, realizzato con la tecnica trompe l’oeil raffigura gli scaffali di una libreria che conservano alcune delle opere letterarie più belle mai scritte. I titoli dei testi raffiguranti sull’opera d’arte sono stati scelti dai residenti del quartiere. L’idea, i trasformare la parete del palazzo a tre piani è nata dagli inquilini dello stesso edificio, tra questi alcuni amici dell’artista Jas Is De Man. Il progetto iniziale prevedeva una grande faccina sorridente, ma una libreria si adattava decisamente meglio alla forma dell’edificio. Jas Is De Man e Deef Feed, non hanno lasciato nulla al caso. La stessa selezione di opere letterarie che impone il murales è stata meticolosamente pensata rispecchiando il quartiere stesso. Questa parte della città di Utrecht infatti è popolata da comunità di culture diverse, ecco perché nell’enorme libreria appaiono opere di Jane Austen, libri fantasy come quelli di Harry Potter e biografie di uomini illustri. Il Murales realizzato da Jas Is De Man e Deef Feed a Utrecht – Fonte JanIsDeMan Attraverso la selezione di questi libri si è riusciti a mettere insieme più di otto lingue e altrettante tradizioni per celebrare la diversità culturale. Non è mancata poi sullo scaffale, la raffigurazione di un grande mappamondo, simbolo appunto della multiculturalità e multietnicità che contraddistingue la comunità locale. Quella di Utrecht rappresenta sicuramente un’opera unica nel suo genere, non solo per il valore aggiunto estetico che è stato dato all’edificio e al quartiere ma anche e soprattuto per la scelta di rispettare e valorizzare il contesto culturale e sociale attraverso l’arte. Il Murales realizzato da Jas Is De Man e Deef Feed a Utrecht – Fonte JanIsDeMan Nel cuore della città di Utrecht, la facciata di un edificio a tre piani è stata trasformata in una gigantesca libreria. L’opera, a cura di due street artist olandese è bellissima.
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Libri e beauty routine
Dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei. Avrete già sentito questa frase in molti contesti. Io credo che non sia del tutto vero, ma neppure del tutto falsa, è certo che quello che leggiamo dice molto di noi. Ho letto da poco su una rivista americana un articolo che suggerisce dei trattamenti di bellezza secondo i propri gusti letterari e l’ho trovata un’idea molto carina, perciò ho deciso di tradurlo e di riproporvelo qui.
SE AMATE I LIBRI GIALLI…
Visto che ami le cose inaspettate e i misteri, ti consigliamo un trattamento di bellezza che ti lasci col fiato sospeso. Che ne pensi di provare la microdermoabrasione? Sarai sulle spine per vedere il risultato ottenuto sulla tua pelle!
SE AMATE LE BIOGRAFIE…
Ami conoscere gli altri e sai quanto si può imparare dalle esperienze altrui, ma hai anche bisogno di prenderti cura di te stessa. Prenditi 20 minuti e fatti una maschera depurante, illuminante o idratante.
SE AMATE I ROMANZI STORICI O I ROMANZI D’AMORE…
Si può imparare molto dal passato e dagli antichi rimedi di bellezza. Prendi ad esempio il roller di giada per il viso, che negli ultimi anni è tornato di moda, e che veniva già utilizzato centinaia di anni fa in Cina. Comprane uno anche tu e usalo per applicare una crema o un siero al tuo viso ogni sera.
SE AMATE I LIBRI FANTASY…
A buon libro fantasy ti può trasportare in luoghi che non avevi neppure mai immaginato. Se ami questo genere sei pronta per dei trattamenti che trasportino la tu amente altrove, come ad esempio l’aromaterapia. Prova a sistemare sotto al soffione della tua doccia un sacchetto di foglie macinate di eucalipto, ti garantisco che ti sentirai letteralmente in un altro mondo. g
SE AMATE I ROMANZI D’AZIONE O I THRILLER…
Sei una persona energica a cui piace l’attività fisica, perciò ti consiglio un bello scrub alla caffeina per risvegliare i tuoi sensi e dare una sferzata di energia alla tua carnagione.
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Investigando una vita irripetibile: dialogo con Renato Minore, che ha scritto il libro sull’enigma Rimbaud
Tra sogno e incubo, chi non lo desidera? Essere uno, singolarmente e indubbiamente sé, per ciascuno, in clamorosa corrispondenza. Spezzettati – ma non spezzati – nell’occhio del prossimo, giacere tra i suoi futuri. Arthur Rimbaud ci è riuscito. Rimbaud non è solo il poeta spiazzante, assoluto, che ha cambiato la poesia per rifiutarla, mordendo l’Africa con giaguari nello sguardo. Rimbaud è l’icona della poesia, l’iconoclasta della vita, quello che chiede una intimità fiammata con chi lo legge, il poeta veggente, il “ladro del fuoco”, come scrive a Paul Demeny nel 1871, quello che pratica “commercio d’armi e munizioni” secondo il Signor Fagot (a cui scrive nel 1887), il meraviglioso inquieto (“Mi annoio molto, sempre; anzi, non ho mai conosciuto nessuno che si annoi quanto me”: alla famiglia, nel 1888), il santo, secondo la sorella Isabelle, che tentò di erigerne l’agiografia in contrasto con la vigorosa vulgata – edificata da Paul Verlaine, per cui restò, sempre, il ragazzo “dal volto perfettamente ovale d’angelo in esilio” – del poeta ‘maledetto’, dacché “quelle poesie esprimono idee e sentimenti di cui l’autore fatto uomo, e uomo serio e onesto, provò vergogna e pentimento”, d’altronde, “all’Harar, paese da lui amato appassionatamente, gli indigeni lo chiavano il Santo, per via della sua meravigliosa carità” (così Isabelle a Louis Pieriquin, nel 1891). Insomma, allo stesso tempo, Rimbaud è santo e criminale, volitivo e virtuoso, è voluttà e pietà, è l’estasi di tutte le contraddizioni. “Il commento a Rimbaud è attualmente diventato un genere letterario”, osservava Jean Paulhan: per rendersene conto basta sfogliare una bella antologia curata un tot di tempo fa da Adriano Marchetti, Rapsodia selvaggia. Interpreti francesi di Rimbaud (Marietti, 2008). Lì vi leggiamo i consigli di Victor Segalen (“Non dobbiamo cercare di capire”), le agnizioni di André Gide (“Credo che nella penosa epoca attuale… l’individualismo oltranzista che c’insegna Rimbaud, questo incomparabile fermento, vada tenuto in serbo”) e di Paul Claudel (“fu un mistico allo stato selvaggio”), le orazioni di André Breton (“Trasformare il mondo, ha detto Marx; cambiare la vita, ha detto Rimbaud: queste due parole d’ordine per noi fanno tutt’uno”), gli inni di René Char (“Hai fatto bene a partire Arthur Rimbaud!… Hai avuto ragione ad abbandonare il viale degli oziosi, le osterie dei pisciaversi, per l’inferno delle bestie, per il commercio dei furbi e il buongiorno dei semplici”). Rimbaud sembra l’elettricità della letteratura: ancora nel 2011 Jamie James dedicava a Rimbaud a Giava (in Italia: Melville, 2016) un radioso romanzo-reportage. Anni prima, piuttosto, fu il Rimbaud di Renato Minore a strappare applausi – edito da Mondadori, Premio Campiello nel 1991. Romanzo d’imprevedibile delicatezza – anche in Italia c’è una solida tradizione di esegeti di Rimbaud, dall’Arthur Rimbaud di Ardengo Soffici, siamo nel 1911 – che torna, ora, rivisto, per Bompiani come Rimbaud. La vita assente di un poeta dalle suole di vento. Minore, in effetti, è anche biografo degli specchi, dei messaggi cifrati, delle piste errate, dei Rimbaud rimbambiti dalla contraffazione (la storia del mucchio di versi ‘africani’, “Ma bisogna credere alla luna di Harar? Farebbero comodo quei versi. In fondo risolverebbero l’enigma, e a buon mercato. In Africa, Rimbaud continua a scrivere. Addirittura progetta il ritorno in grande stile nel mondo delle lettere”; o quella del poeta che griffa col suo nome la piramide di Luxor: “Un Rimbaud inciso in pietra, la pietra eterna delle piramidi. È la sua firma lasciata a Luxor, incorniciata a regola d’arte… Tutto semplice. Ma una firma, lasciata come unico segno di un viaggio di cui non si sa nulla, è sospetta. Ne spuntarono fuori altre due nella stessa stele di Luxor: più in basso, di fronte a quella grande. Una abbreviata, semplicemente RIMB, così come il poeta talora firma le lettere nel 1889. Troppe. Si può pensare che siano apocrife, un altro falso per depistare. Sono la prova della ‘stupidità del suo autore’: sentenzia un critico, giudice implacabile. Ma si è proprio stupidi se si deposita sulla pietra un simile prolungamento di sé? Perché giudicare opera da sciocchi quel lampo di bêtise che, folgorando, alimenta un gesto elementare, simile a quello per cui si vede riflessa la propria immagine allo specchio?”). Insomma, Minore va, anche, a caccia di tutti gli ‘altri’ Rimbaud, il poeta dell’Io è un altro, che si è disseminato ovunque, perfino sotto l’amaca della nostra lingua. Così, è inevitabile, per trovare Rimbaud – o l’anatema della sua ombra – andai in cerca di Minore. (d.b.)
Lei ha scritto il romanzo su Rimbaud. E quello su Leopardi. Le immagini di questi due poeti estremi, che hanno rotto codici e forme e formalismi in qualche modo si apparentano, si sovrappongono. Cosa li accomuna, cosa li distanzia?
Forse la protratta condizione “adolescenziale” che li pone di fronte alle grandi domande sulla vita, sull’identità, sul mondo e su queste costruiscono un mirabolante telaio di visioni, sogni, pensieri più o meno ossessivi. Leopardi è più dubbioso, più ragionativo, meno trascinante. Leopardi è Leopardi anche per lo Zibaldone, le Operette Morali: non c’è solo il poeta, c’è un complesso di funzioni e possibilità espressive. Dentro di lui c’è l’assurdo sorriso di chi nella vita non finisce mai di interrogarsi, l’opera – creatura non solo di chi scrive versi, sangue che circola, nervi che captano, cuore che raccoglie, cervello che filtra, spirito che trasforma. Rimbaud no. È il veggente, l’innovatore che stravolge ogni schema. Il poeta come fuoco di conoscenza e verità, trascinante forza di conoscenza e verità. È un segno forte, indelebile dentro la storia culturale e poetica della sua epoca, ma tuttora s’innalza come un faro. Meteora per la brevità dell’azione ma immensa e profonda come durata è la sua influenza.
Ladro del fuoco, veggente, Sommo Sapiente, estremo criminale, colui “che ha in carico tutta l’umanità”: chi è il poeta agli occhi di Rimbaud, che cosa raffigura?
Non esiste altro esempio di poeta così perfetto, sicuro e autorevole con un esordio tanto folgorante che poi scivola nel vuoto assoluto. Un poeta che si fa anche carico di una funzione sociale e sacrale i cui versi vogliono avere un timbro profetico, salvifico. La poesia è spesso un alibi, dici poesia e tocchi (pensi di toccare) un livello a priori di comunicazione superiore, garantita dalla marca. Non è così, ci dice Rimbaud: la poesia come prova, rischio, ricerca costante, continuo riequilibrio del peso specifico della parola è sempre qualcosa che, come la lepre delle favole, puoi continuare a inseguire, puoi anche sfiorarla. E poi, lo sappiamo scompare definitivamente, un fantasma presto dissolto nel nulla. Ma proprio la corsa con cui la insegui ne segna, con il battito del tuo cuore, la necessaria velocità per non perderla di vista.
In una visione romantica sembra che Rimbaud per cinque anni abbia scritto poesie e per il resto abbia vissuto ‘poeticamente’, visitando il ‘mostruoso’ dell’anima, della vita, precipitando nell’ignoto. Lei parla, fin nel titolo, di “vita assente”: cosa intende? Allora la vita. «Il poeta della rivolta, e il massimo», scrisse Camus. Da oltre un secolo si sono accumulate su di lui ciarle d’ogni tipo, rievocazioni scientifiche e fantasiose, biografie romanzate, saggi accademici, film anche mediocri. Il suo abbandono dell’attività poetica alle soglie dei vent’anni ha causato una costernazione più duratura e diffusa di quella determinata dallo scioglimento dei Beatles. Ancora oggi su Internet si diffondono leggende su di lui, uno dei personaggi dall’influenza più distruttiva e liberatoria sulla cultura del secolo che abbiamo alle spalle, e sulla sua carriera. In vita, non solo di poeta con la sua travolgente meteora, ma di esploratore, commerciante, contrabbandiere, cambiavalute, profeta mussulmano. E postuma, come simbolista, surrealista, poeta beat, studente, rivoluzionario, paroliere rock, antesignano gay e tossicodipendente, vagabondo e visionario, Angelo dell’omosessualità, della violazione, della lotta alla borghesia, della ribellione, il primo poeta che seppe ripudiare i miti «dai quali la sua epurazione ancora dipende». L’énfant prodige, il genio ribelle e visionario, il «pederasta assassino» dei Goncourt nella violenta storia d’amore con Verlaine, l’avventuriero, l’uomo d’affari. Sempre in fuga, mai appagato: «Mi annoio molto, sempre. Non ho mai conosciuto nessuno che si annoiasse come me», scrive dall’Africa.
L’interpretazione della vita di Rimbaud (di cui l’opera sarebbe una profezia) e i romanzi su Rimbaud (penso ai libri di Soffici, di Edmund White, di Jamie James, ad esempio) sono diventati dei generi letterari a sé, ciascuno ha il proprio Rimbaud, Rimbaud sembra poter essere di tutti e di nessuno, merito, forse, della sua elusività. Lei in quale posizione si è posto e quale Rimbaud ha scoperto nel suo viaggio verso di lui?
Prendiamo come test le sue lettere. Un epistolario che, in tutta la sua vastità – diviso com’è tra primi attori (Rimbaud e Verlaine) e comprimari, caratteristi e comparse – è la radiografia di una vita chiacchieratissima, esibita e impenetrabile a un tempo, dalle mille sorprese e misteri. Sono sceneggiate le stazioni di un’esistenza, anzi di un’opera-vita da cui provengono misteriosi messaggi spesso contraddittori, in una complessità che, comunque «è pronta ad accogliere ogni aspetto del possibile». Sono i tanti enigmi di un poeta che si fece mercante, cercò ma senza esito di diventare esploratore, vendette armi a Menelik, quelle stesse che furono usate contro gli italiani ad Adua, non fu (al contrario di quanto a lungo si è creduto e scritto) un negriero. Per oltre dieci anni, dal 1880 all’inizio del 1891 quando il tumore al ginocchio lo costrinse a ripartire per Marsiglia, si mosse in uno scenario in cui tutto era davvero possibile: trafficava con l’inconnu tra Aden, Harar, Entotto, cercava di arricchirsi e senza riuscirci, era anche un mercante ingenuo, voleva vendere Bibbie in un paese di analfabetismo totale. Un mito che è anche una trappola infinita di volti, di voci, di specchi e lui stesso ha fatto di tutto per essere duplicato, conteso, frainteso. Non meno carichi di risonanza, e di ambigua luminosità, gli oggetti, le incalzanti reliquie che il Poeta Maledetto ha lasciato: prima fra tutti la valigia dei viaggi in Abissinia, la stampella che accompagnò i suoi ultimi passi, la firma sulle piramidi, le lettere. E poi i disegni, le fotografie chiedendo all’immagine non il segreto che versi e documenti trattengono, ma la ricchezza ammiccante e fissa dell’icona, non solo il presagio di un destino, ma la conferma di un mistero bloccato dal lampo di magnesio e lì rimasto intatto. La leggenda di Rimbaud accomuna le generazioni e, in tutto il mondo, ogni giorno ci sono giovani che scoprono le sue poesie e desiderano possederne una copia. Un dato per tutti: il Mercure de France, che nel 1912 ha pubblicato l’opera completa delle sue poesie, ha venduto fino alla fine dello scorso millennio ben trentadue copie al giorno di quella edizione. Praticamente per molti anni la casa editrice è vissuta dei proventi di quel libro.
Guardo a Rimbaud e viene da pensare che la poesia è tale perché è tesa fino alla rinuncia, al silenzio, alla fuga, al menefreghismo, all’oblio. È così? Cos’è la poesia, di cui Rimbaud è la sfrenata (ormai sfigurata dagli interpreti) icona?
Proprio per rispondere ad una domanda come questa, raccontando Rimbaud non ho cercato la verità di Rimbaud ma la verità in Rimbaud, la verità che un poeta sa illuminare e diffondere, tracciando un percorso nell’invisibile, in quella zona verso cui guardò Arthur, figlio di contadini che disegna la silente e incorporea costellazione che seppe rilevare dal nulla. “Inventarne la storia per ritrovarne il filo”, scrive Artaud. Come qualcosa di diverso, la fatica di conoscere, la dannazione di conoscere, con il file rouge del romanzo che sta nella ricerca indiziaria, nell’investigazione di un’esistenza irripetibile; come un giallo che alla fine non ha soluzione, ma solo la nudità del problema e che in ogni momento corre il rischio di vedere il suo oggetto svaporare nell’ovvietà dello stereotipo, oppure resistere a ogni tentativo di scasso.
*In copertina: Arthur Rimbaud ad Harar, 1883
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Alpini in 500mila a MIlano il 12 maggio per il centenario
Lo storico Vincenzo Di Michele: “Il corpo degli alpini ha qualcosa di più, perché ti entrano dentro e si tramandano nel tempo di padre in figlio” L’Associazione Nazionale Alpini, fondata l’8 luglio 1919, compie cent’anni e festeggia con l’Adunata del Centenario proprio a Milano, dove è stata fondata e dove tuttora ha sede. Le giornate del 10-11-12 maggio 2019 sono un omaggio al territorio che le ospita e, nello spirito di tutte le adunate, coloreranno la città con fanfare, sfilate e bicchieri di vino oltre al gusto tipico degli Alpini di stare insieme. Un evento di festa per tutti, anche per i non alpini.
Saranno più di 500mila gli alpini che sfileranno domenica 12 maggio a Milano, in occasione del centenario della fondazione del loro glorioso corpo d’armata. Cento anni di storia, di sconfitte e vittorie, di gioie e sofferenze e soprattutto nell’impegno sociale per la comunità a cominciare dalla ricostruzione della città de L’ Aquila, tanto per citarne una tra le tante. Romanzi, diari, memorie e biografie per ricordare la storia degli alpini e nei libri che hanno descritto le loro imprese, come non ricordare alcune opere letterarie di grande rilevanza storica : “ Centomila Gavette di Ghiaccio “ di Giulio Bedeschi; “ Quota Albania” di Mario Rigoni Stern; “ Cristo con gli alpini” di Don Carlo Gnocchi e “ Io prigioniero in Russia di Vincenzo Di Michele con la storia di un giovane alpino di vent’anni mandato a combattere in prima linea sul fronte russo e che fu fatto prigioniero.
Commenta lo storico Di Michele “Dal campo di concentramento di Tambov all’ospedale di Bravoja, fino ai campi di lavoro del cotone di Taškent in Kazakistan, è riassunta la sofferenza di questo giovane alpino e di migliaia di altri prigionieri” . Le storie delle penne nere non tramonteranno mai – conclude Di Michele- perché il corpo degli alpini ha qualcosa di più, perché ti entrano dentro e “di padre in figlio” si tramandano nel tempo. Tutte queste opere letterarie sono state inserite “ nella biblioteca degli alpini “ una collana curata dal Gruppo Gedi che raccoglie le pagine più celebrate e quelle meno note, ma altrettanto fondamentali, per entrare nel cuore dell’esperienza umana delle penne nere. Libri questi, che hanno rappresentato un pezzo fondamentale della storia del nostro Paese . Saranno oltre a La Repubblica, La Stampa e Il Secolo XIX, PRP Channel e più di 15 i quotidiani locali a mantenere ferma la memoria degli alpini: un Corpo temerario che ha fatto di valori come solidarietà, fratellanza e difesa dell’ambiente la sua bandiera. Read the full article
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