#battaglia della Marna
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Il romanzo moderno nasce (1615) con il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes che per ragioni formali (la prosa anziché i versi come nei romanzi cortesi), narrative (lo studio dei personaggi, l’ironia, l’assenza di motivi didascalici) e contenutistiche (il tramonto dei valori cavallereschi) supera la letteratura precedente, dall’epica dantesca alla novellistica, dalla poesia di Petrarca alla drammaturgia di Shakespeare.
Nel Settecento diventerà - di contro all’epica cavalleresca - la forma letteraria borghese per eccellenza raccontandone l’ascesa, i valori, le aspirazioni nazionalistiche, le contraddizioni fino a venire messa in discussione dalla crisi della Prima Guerra Mondiale da cui deriveranno opere che metteranno in luce l’assurdo, l’alienazione, l’assenza di linearità del flusso di coscienza. La Prima Guerra Mondiale, anticipata dal naufragio del Titanic (1912) rappresenta la fine dell’età dell’innocenza della società europea e il termine di quel periodo che ricade sotto il nome di Belle Epoque, Gilded Age, età umbertina e giolittiana.
Breve cronologia della Prima Guerra Mondiale:
- 28/6/1914: attentato di Sarajevo
- 2/8/1914: invasione tedesca del Belgio. L’Inghilterra dichiara guerra alla Germania
- 12/9/1914: inizia la guerra di trincea sul confine franco-tedesco
- primavera 1915: le truppe anglo-francesi sono sbarcate in Turchia per sconfiggere l’Impero Ottomano e ricongiungersi, attraverso i Dardanelli, all’alleato russo. Sono sconfitte a Gallipoli da Kemal Ataturk
- 24/5/1915: entrata in guerra dell’Italia
- luglio 1915: battaglia del Col di lana
- settembre 1915: i tedeschi hanno la peggio alla battaglia della Marna
- ottobre 1915: occupazione della cengia Martini
- febbraio 1916: guerra di logoramento sul Verdun
- aprile 1916: battaglia del Col di lana
- maggio 1916: Strafexpedition austriaca sull’Altopiano di Asiago
- 10/6/1916: Salandra sostituito da Boselli come primo ministro
- luglio 1916: battaglia della Somme
- 12/7/1916: Cesare Battisti e Filippo Filzi impiccati a Trento
- agosto 1916: conquista di Gorizia
- 7/9/1916: Wilson presidente degli USA
- 21/11/1916: Carlo I succede a Francesco Giuseppe
- aprile 1917: gli Stati Uniti entrano in guerra
- agosto 1917: avanzata della Bainsizza
- 24/10/1917: Caporetto
- 6/11/1917: Rivoluzione d’ottobre
- 8/11/1917: Diaz sostituisce Cadorna
- giugno 1918: battaglia del Piave
- 16/7/1918: lo zar Nicola II ucciso a Ekaterinenburg
- ottobre 1918: Vittorio Veneto
- 2/11/1918: affondamento della Viribus Unitis
- 21/1/1920: Trattato di Versailles
Le tappe fondamentali del romanzo:
1532: Gargantua e Pantagruel (Rabelais)
1554: Lazarillo de Tormes (anonimo), il più noto frai i romanzi picareschi
1615: Don Chisciotte (Cervantes), racconto ironico della fine dell'epoca cavalleresca dopo la battaglia di Lepanto (1571)
i romanzi borghesi e avventurosi:
1719: Robinson Crusoe (Defoe), in viaggio per arricchirsi, non per un'avventura cavalleresca
1722: Moll Flanders (Defoe)
1726: I viaggi di Gulliver (Swift), allegoria del colonialismo inglese
1740: Pamela (Richardson)
1749: Tom Jones (Fielding), trovatello come poi Oliver Twist (Dickens)
1813: Orgoglio e pregiudizio (Austen) la cui protagonista, Elisabeth Bennet, sfida le consuetudini sociali del tempo e intende sposarsi per amore
1847: Cime tempestose (Emily Bronte) con il tenebroso Heathcliff. Della stessa autrice Jane Eyre, orfana che trova l’indipendenza e l’amore
1869: Piccole donne (Alcott)
1887: Capitani coraggiosi (Kipling)
i romanzi romantici:
1796: Wilhelm Meister (Goethe), romanzo di formazione del tipico artista romantico alla ricerca della sua ispirazione e vocazione
i romanzi storici:
1819: Ivanhoe (Walter Scott)
1830: Il rosso e il nero (Stendhal) che segue le ambizioni di Julien Sorel
1836: La figlia del capitano (Puskin)
1839: La Certosa di Parma (Stendhal) in cui Fabrizio Del Dongo vive gli ideali napoleonici nell’Italia della Restaurazione
1842: I promessi sposi (Manzoni)
1844: Il Conte di Montecristo (Dumas) in cui Edmond Dantès, accusato di bonapartismo, consuma la sua vendetta
i romanzi naturalisti:
1838: Oliver Twist (Dickens)
1850: Comedie humaine (Balzac), il cui titolo fa il verso alla Divina Commedia, e David Copperfield (Dickens)
1851: Moby Dick (Melville)
1856: Madame Bovary (Flaubert), storia dei tradimenti di Emma, oppressa dalla vita borghese di provincia, che compie un adulterio e poi si suicida. E' il romanzo realista per eccellenza, in cui l'autore osserva freddamente la materia come nel successivo L'educazione sentimentale (1869).
1862: I miserabili (Hugo) con la generosità del protagonista, Jean Valjean
1869: Guerra e Pace (Tolstoj) in cui la storia delle guerre napoleoniche fa sfondo alle storie dei protagonisti. La storia, come un pendolo, si muove a prescindere dalla gesta dei singoli individui.
1873: Il ventre di Parigi (Zola), racconto della repressione di un repubblicano nel Secondo Impero di Napoleone III
1877: Anna Karenina (Tolstoj). La protagonista, aristocratica bella e infelice, si perde nell’amore per il conte Vronskij e si suicida.
"Le donne sono la principale pietra d'inciampo nell'attività dell'uomo"
1885: Germinale (Zola) ambientato fra la vita dei minatori. Il romanzo naturalista è frutto del pensiero positivista e della temperie darwiniana di fine XIX sec. L'autore è onnisciente e in modo oggettivo studia la società dei più umili che fino ad allora aveva assunto un ruolo comico e non tragico.
1889: Mastro Don Gesualdo (Verga), parte del ciclo dei vinti
i romanzi decadenti:
1884: Controcorrente (Huysmans) con al centro il disprezzo verso il mondo dell’aristocratico Des Esseintes
1889: Il piacere (D’Annunzio) e l’alter ego dell’autore Andrea Sperelli
1891: Il ritratto di Dorian Gray (Wilde)
1897: Dracula (Stocker)
i romanzi ascrivibili al "realismo simbolico":
1915: La metamorfosi (Kafka). Con la trasformazione di Gregor Samsa in insetto, inizia il realismo magico e l’indagine nella complessità della coscienza umana.
1926: Il Castello (Kafka), scontro fra l’oscura burocrazia e l’agrimensore K
1940: Il deserto dei tartari (Buzzati). Come Calvino e Pavese, Buzzati coniuga una scrittura precisa e dettagliata dei fatti alla volontà di raccontare valori universali.
1949 - La bella estate (Pavese). Nei racconti e nei romanzi di Pavese la campagna diventa il luogo della verità, anche crudele, in contrapposizione della finzione cittadina: si coglie in questa letteratura l'influenza della letteratura americana (Melville, Steinbeck) e della coppia mythos e logos da cui quest'ultima è costituita.
i romanzi modernisti:
1922: Ulisse (Joyce). Leopold Bloom non è l’eroe omerico, ma l’essere umano comune seguito nella sua quotidianità;
1923: La coscienza di Zeno (Svevo), un antieroe alle prese con la difficoltà di smettere di fumare;
1925: La Signora Dalloway (Woolf) con il flusso di coscienza della protagonista che sta organizzando una festa.
1926: Uno, nessuno, centomila (Pirandello)
i romanzi esistenzialisti:
1866: Delitto e castigo (Dostojevskij)
1869: L'idiota (Dostojevskij) il cui protagonista è un nobile decaduto ed inetto di fronte ai drammi della vita
"La bellezza salverà il mondo"
1938: La nausea (Sartre)
1942: Lo straniero (Camus)
1947: La peste (Camus)
altri romanzi del primo dopoguerra:
1924: La montagna incantata (Mann) in cui viene rappresentato, in un lussuoso sanatorio di Davos, il tramonto della Repubblica di Weimar uscita dal Trattato di Versailles. Segue la struttura del romanzo di formazione, ma prelude significativamente non alla pienezza della vita, ma al crogiuolo della Prima Guerra Mondiale.
1925: Il Grande Gatsby (Scott Fitzgerald)
1929: Niente di nuovo sul fronte occidentale (Remarque)
1932: Brave New World (Huxley)
1938: La cripta dei Cappuccini (Philip Roth), elegia della fine dell’impero austroungarico vista da una famiglia della piccola nobiltà slovena. Un anno sull’Altopiano (Lussu).
1939: Furore (Steinbeck), ambientato durante la Grande Depressione del primo dopoguerra
1967: Il Maestro e Margherita (Bulgakov). Pubblicato postumo, rappresenta una metafore della dittatura di Stalin (il diavolo) e della libertà dello scrittore ("i manoscritti non bruciano").
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Seconda Battaglia Della Marna: 4 Agosto 1918, respinti dall'offensiva alleata, le truppe tedesche sono costrette a ritirarsi, stabilendo una linea lungo il fiume Vesle che da Reims arriva al fiume Aisne passando per Soissons. Nella foto, soldati tedeschi lungo il fiume Vesle nel Maggio 1918. ENGLISH - Second Battle of the Marne River: 4 August 1918. Harried by the Allied offensive, the German line moves back along the river Vesle, which stretches from Reims to the Aisne river, which runs through Soissons. In the picture, a German MG 08 machine gun detachments crossing the Vesle River in file in May 1918. © IWM (Q 55011)
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“ Abbiamo appena subito un’incredibile sconfitta. Chi ha sbagliato? Il sistema parlamentare, la truppa, gli Inglesi, la quinta colonna, rispondono i nostri generali. Tutti, tranne loro. Quant’era più saggio il vecchio Joffre! «Non so - diceva - se sono stato io ad aver vinto la battaglia della Marna, ma di una cosa sono sicuro: se l’avessimo persa, sarebbe stato per causa mia». E forse, con queste parole, intendeva ricordare che un capo è responsabile di tutto quanto accade sotto il suo comando. Poco importa se non tutte le decisioni siano state prese di sua iniziativa, se non era a conoscenza di ogni mossa. Perché è il capo, ha accettato di esserlo e su di lui, nel bene come nel male, ricade la responsabilità dei risultati. Di questa grande verità, che un uomo semplice esprimeva con tanta semplicità, solo oggi ci pare di cogliere sino in fondo il significato. Alla fine della campagna, non conoscevo ufficiale che ne dubitasse: checché si pensi delle cause profonde della disfatta, la causa diretta - che andrà a sua volta indagata - fu l’incapacità degli organi di comando. “
Marc Bloch, La strana disfatta. Testimonianza del 1940, (traduzione di Raffaella Comaschi, a cura di Silvio Lanaro, Collana Biblioteca studio), Einaudi, 1995. (Libro elettronico)
[ Edizione originale postuma: L'Étrange Défaite. Témoignage écrit en 1940, Éditeur Franc-Tireur, 1946 ]
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“ Un bel giorno, era maggio, l’ufficiale incaricato dell’installazione incontrò per la strada un gruppo di carri armati. Di uno strano colore, però. Ma che! Conosceva forse tutti i modelli in uso nell’esercito francese? La colonna, poi, era impegnata in una manovra quantomeno bizzarra: sfilava verso Cambrai, in direzione opposta a quella del fronte. In una piccola città, dalle vie un po’ tortuose, non può forse capitare che le guide perdano l’orientamento? Il nostro uomo si apprestava a raggiungere il capo del convoglio per indicargli la strada, quando un tizio, più accorto, gridò: «Attento! Sono Tedeschi!» Questa guerra è stata una continua sorpresa. Le conseguenze, sul piano morale, sono state a quanto pare gravissime. So di toccare un argomento delicato, in merito al quale, già lo si è detto, non ho una diretta esperienza. Ma certe cose vanno dette, anche brutalmente. L’uomo può disporre di tutte le sue energie quando si trovi ad affrontare un pericolo previsto sul luogo previsto; ben più difficilmente potrà tollerare di sentirsi minacciato all’angolo di una strada che egli presumeva tranquilla. Ricordo, dopo la battaglia della Marna, una compagnia che era andata valorosamente all’assalto durante un terrificante bombardamento; il giorno successivo, vidi gli stessi uomini in preda al panico quando tre granate, senza provocare feriti, caddero lungo una strada al cui margine erano state ammucchiate le armi durante la corvè dell’acqua. «Siamo partiti perché c’erano i Tedeschi»: tante volte, in maggio e in giugno, mi è capitato di sentire queste parole. Traducete: là dove non li aspettavamo, dove nulla lasciava supporre che avremmo dovuti trovarli. Sicché certi cedimenti, che temo innegabili, hanno avuto origine nel battito troppo lento cui erano stati allenati i cervelli. I nostri soldati sono stati sconfitti, si sono, in qualche misura, lasciati sconfiggere troppo facilmente, innanzitutto perché noi pensavamo in ritardo. “
Marc Bloch, La strana disfatta. Testimonianza del 1940, (traduzione di Raffaella Comaschi, a cura di Silvio Lanaro, Collana Biblioteca studio), Einaudi, 1995. (Libro elettronico)
[ Edizione originale postuma: L'Étrange Défaite. Témoignage écrit en 1940, Éditeur Franc-Tireur, 1946 ]
#Marc Bloch#La strana disfatta#seconda guerra mondiale#Storia Europea del XX secolo#ricordi#L'Étrange Défaite#Storici del XX secolo#Storici del '900#libri#letture#leggere#strana guerra#Sitzkrieg#cSitzkrieg#komischer Krieg#drôle de guerre#dziwna wojna#Francia#invasione nazista della Francia#bore war#phoney war#twilight war#guerra dei coriandoli#guerra fittizia#campagna di Francia#fronte occidentale
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Soldati tedeschi durante la Prima Battaglia della Marna, Settembre 1914 English: German soldiers during the First Battle of the Marne, September 1914
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Primo piano di un poilus - questo il nomignolo affibbiato ai soldati francesi durante la Prima guerra mondiale e traducibile come "peloso". Il soprannome derivava sia dall'uso diffuso di barbe e baffi che anche dall'origine contadina di molti dei soldati francesi. Cosa che accomunava l'esercito francese a quello italiano, composto anch'esso in larga parte di contadini. Il soldato ritratto era parte del 164° Reggimento di Fanteria. Il reggimento, creato nel 1913, prese parte a vari combattimenti nei primi tre anni di guerra, partecipando alla Battaglia della Marna nell'Agosto del 1914 e alla difesa di Verdun e alla battaglia della Somme nel 1916. English: Close up of a poilus - that was the nickname of the French soldiers during the World War I - part of the 164° Infantry Regiment. Poilus means "hairy one" and it was related to the widespread use of moustaches and beard in the French army and also linked to the agricultural background of many soldiers. The 164° Regiment, created in 1913, took part in many battles, from the Battle of the Marne in August 1914 to Verdun and the Somme in 1916.
#Grande Guerra#Esercito francese#poilus#1914#1916#1913#Verdun#Somme#Marna#Great War#WW1#WWI#French army.#col#colourised photos
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“Finché ci resti un uomo d’armi per dare un buon colpo di spada, finché ci resti un solo paesano per dare un buon colpo di falce, bisogna non cedere”. La Giovanna d’Arco di Charles Péguy
Che cos’è poi la patria? Quando ogni cosa intorno a noi sembra crollare e portare via con sé l’immagine del mondo che ci ha fatti, a quale luogo, a quale sangue possiamo afferrarci per difenderci dall’esilio in cui il nascere ci ha messi?
E hai voglia a parlare di sciovinismo, a tacciare come beceri e violenti i moti della carne e dell’istinto, che tra corpo e terra c’è un legame profondo e inscalfibile quanto quello tra corpo e spirito. È il corpo che lega lo spirito alla terra, ed è la cura della terra che fa scoprire al corpo il germoglio dello spirito.
Lo sa bene Charles Péguy (1873-1914), che dell’amore per la terra e per la sua gente si è fatto servitore per tutta una vita, fino a morire con una pallottola in fronte nella battaglia della Marna. E lo sa così bene che proprio vivendo questo amore viscerale, non rinnegandolo ma vivendolo, si incammina su una strada che lo porta dapprima ad abbracciare un ideale di socialismo universale e umanitario, quindi a convertirsi al cattolicesimo. Una conversione che lui descrisse sempre non come un cambio di direzione, ma come un’accelerazione in linea retta della vita condotta fino ad allora.
Sarà per questa linea più retta di quanto appaia che già molti anni prima della conversione – nel 1897, quando lui ne ha poco più di venti – Péguy decide di reincarnarsi nell’icona più cara ai francesi, la pulzella di Orléans, e di riviverne la vocazione, la passione guerriera e la morte nel suo Jeanne D’Arc, play dal sapore medievale da recitarsi in tre giornate. E sarà ancora per questo, per questa intuizione d’eterno, che modellando la giovane Jeanne ne legge con esattezza e profondità il dramma, la sospensione tra una vocazione tanto chiaramente intuita e il desiderio di una vita ordinaria e contraria al proprio destino.
Sarà per questo, infine, che in questi giorni in cui vocazione e destino, malgrado noi, vengono a crepare i piedi d’argilla delle nostre vite e dei nostri piani, la Jeanne sedicenne che parlando con l’amica Hauviette prende coscienza di sé e della sua strada, la Jeanne che si affonda nel legame con la sua terra e con il suo spirito, ci sembra così vicina, così non-eroica, così in fondo ragionevole e umana. (Daniele Gigli)
***
Da Jeanne D’Arc – prima pièce A Domremy, seconda parte, atto I (dialogo tra Hauviette e Jeanne)
J. – E mi dicevi che non c’erano notizie!
H. – Non è una notizia, questa. Quando un malato è in agonia da tre settimane, e vi si annuncia che ormai è come se fosse morto, non è una notizia che vi si dà.
J. – Ma tu non mi hai annunciato la morte della Francia, Hauviette: mi hai solo detto che gli Inglesi metteranno sotto assedio Orléans.
H. – È lo stesso: presa Orléans, è preso tutto; due o trecento cavalli qui, altrettanti al signore di San Michel, altrettanti laggiù, lungo la Mosa: tutto questo, è come se fosse fatto, ormai.
J. – Tu non mi hai annunciato che Orléans sarà presa, Hauviette: mi hai detto soltanto che gli Inglesi metteranno sotto assedio Orléans. È sulla Loira, Orléans?
H. – Sì, mi hanno detto che sta sulla Loira.
J. – Dev’essere forte quella città.
H. – Dev’essere ben forte: quando si è soli del tutto a resistere a tutta la massa degli altri, bisogna pur arrendersi a un certo punto.
J. – (…)
H. – … E poi… forse andrà meglio…
J. – Come?
H. – … Non sai che cosa mi ha detto Mengette, stamattina?
J. – No…
H. – … Mi ha detto… che sembra… che alcuni… che dicono così… che… se gli Inglesi si prendono tutto forse andrà meglio…
J. – Come! Dicono così!
H. – Sì… Perché allora… se gli Inglesi si prendono tutto… non si combatterà più. Non si farà più questa guerra cattiva. Non ci sarà più battaglia; non ci sarà più la guerra. Non ci saranno soldati; non ci sarà sofferenza. Non ci sarà più sofferenza dei corpi; non ci sarà più sofferenza delle anime. Le case saranno salvate, e salve le chiese. Non ci saranno bambini che vanno piangendo affamati per strada. E noi finalmente potremo mietere le nostre messi.
Un silenzio. Jeanne alza le spalle.
H. – Lo sai, Jeannette, non sono io che lo dico: sono le persone che ti ho detto che Mengette mi ha detto.
Un silenzio.
J. – Senti un po’: tuo padre ha una casa, qui nel borgo?
H. – Cielo! Sì, come il tuo, come tutti.
J. – E la casa di tuo padre non è di Pietrone il conciatetti; né di Louis Vaslin che fa i carri; né di mio padre o mia.
H. – Cielo che no! Perché è del mio!
J. – Bene. Così è il regno: il regno è la casa del re; il regno è del re: non può essere degli Inglesi. È molto semplice.
H. – So bene che il regno è del signor Delfino. Ma non è tutto, avere il proprio buon diritto; ci sono delle volte che bisogna cedere alla forza.
J. – Non prima che si abbiano usate tutte le forze della guerra fino in fondo. Finché ci resti un uomo d’armi per dare un buon colpo di spada, finché ci resti un solo paesano per dare un buon colpo di falce, bisogna non cedere.
Traduzione italiana e cura di Daniele Gigli
*In copertina: Eugène Thirion, “Giovanna d’Arco sente le voci”, 1876
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“Nella vita cosa c’è di più emozionante di un incontro fatale?”. Su “Il segreto di Marie-Belle”, un noir dall’anima tenera e spietata. Elogio di Silvio Raffo come romanziere
L’amore che vince tutto. L’amore che protegge, accarezza, difende, viola, perde, uccide. Quali sono i confini dell’amore? Quando l’abbraccio dell’amante si trasforma, impercettibilmente, in una morsa soffocante? Secondo lo scrittore e poeta Silvio Raffo, l’amore è un intreccio così sapiente da costituire un’unica vita, “un gioco di ineluttabili corrispondenze”. Ho letto Il segreto di Marie-Belle (Elliot, 2019), “un noir puro dall’anima tenera e spietata”, lasciandomi dolcemente ingannare dalla finissima prosa della narratrice Aurelia, ormai anziana ospite di Villa Sorriso, che ripercorre in modo labirintico e cristallino ad un tempo, in una sorta di diario (il diario di un’ombra appunto), la sua vita al fianco della giovane e delicata Marie-Belle, “un fiore sbocciato nel deserto”. La bambina che “indossa un vestito di mussola blu dai bottoni d’argento, che ricorda la divisa di una collegiale primo Novecento. Una figurina di Degas. Seduta su una poltroncina di vimini, sta leggendo un libro illustrato. La copertina è dello stesso colore del suo abito; è un libro di una grandezza spropositata per una bambina così piccola”.
*
Lo sguardo che ripercorre e attraversa le età della giovane Marie-Belle (le sue malinconie, i suoi timidi esordi di algida attrice, la seduzione delle droghe) non è mai volgare, ma materno, avvolto dalla tenerezza contemplativa di una nutrice, sempre presente, buona e carezzevole. Forse, troppo. “Tutto in lei, dall’ovale levigato alle movenze impeccabili, faceva in effetti pensare a un’opera d’arte più che a una persona. Della madre aveva la grazia provenzale, i lineamenti sottili e ben disegnati, le mani diafane e le lunghissime ciglia arcuate; del padre, che peraltro conobbi solo un mese dopo il mio ingresso alla villa, la fermezza dello sguardo, il colore dei capelli (quelli di Madame tendevano al castano ramato) e una certa freddezza di modi di ascendenza germanica”.
*
La splendida bambina, un fiocco azzurro tra i capelli, viene affidata alle cure educative, “protettive” di Aurelia, a Villa Protégée, da Madame Geneviève interessata più alle sue bambole che a sua figlia. O forse intenta a trasformare, a sua volta, la sua bambina in una bambola, una poupée. “È quasi sempre un giorno di pioggia, la sento picchiettare sul tetto, la vedo scrosciare alla finestra. Sollevo gli occhi dal mio lavoro a maglia – un golfino o uno scialle per Marie-Belle – e seguo i movimenti di Madame, cauti e precisi come quelli di un chirurgo. Sta sistemando i capelli o attaccando gli occhi alla sua creatura. Solo dopo un’attenta osservazione mi accorgo che in realtà non è una bambola né un automa la forma distesa sulla lettiga (sì, è proprio una lettiga d’ospedale il ripiano su cui lavora Madame con una Turmac bleu fra le labbra), ma è Marie-Belle in persona. È fasciata da una lamina d’amianto, una guaina luminescente, e sua madre la sta più o meno imbalsamando, la sta trasformando in una creatura meccanica”.
*
La soave sospensione che domina l’intero romanzo è solcata, scalfita da una catena di delitti inspiegabili, una serie di scomparse apparentemente naturali, un suicidio, un incidente automobilistico fatale dell’autista Werner, la morte improvvisa dell’Avvocato, il padre silenzioso di Marie-Belle, l’incendio doloso e mortale al piccolo Hotel di Château d’Aubonne in cui scompare il regista Max Cherubino. Non c’è spazio per la disperazione, né per la tragedia, perché il racconto intimistico prosegue nel tentativo di fare luce tra le ombre che diventano sempre più fitte e lunghe, mentre la memoria (“quella viscida ruffiana”) piano piano abbandona l’ormai vecchia e fedele Aurelia. “Nella vita cosa c’è di più emozionante di un incontro?” si domanda Silvio Raffo ad alta voce di fronte alla lieta folla di lettori accorsa per la presentazione del suo romanzo: “intendo un incontro fatale. Perché ci sono incontri nella vita, che sono in realtà affinità elettive, di cui solo in seguito scopriamo il perché, incontri che accomunano i destini. Un incontro deve cambiare la vita delle persone, lasciare uno stigma, un segno, il riconoscimento di un sortilegio che colpisce l’altra persona, come te”. Forse è questo il segno del vero amore? La soavità che nasconde l’ombra del male?
*
Certamente Raffo non è nuovo a sondare tra le pieghe riposte dei sortilegi, dei legami morbosi madre-figlio e del genere gothic novel. A partire da Lo Specchio attento (Studio Tesi, Pordenone, 1987, premiato dall’Inedito nel 1974), un romanzo intimista e visionario dove il giovane Giorgino, come Marie-Belle malato nello spirito, incontra una figura materna che lo introduce ad una vita parallela. Mentre Il Lago delle Sfingi (Marna, Barzanò, 1990) affiancava il mistero alla poesia, La Voce della Pietra (appena ripubblicato da Elliot, già edito da Il Saggiatore e finalista al Premio Strega e da cui è stato tratto il film omonimo di Eric Howell con Emilia Clarke) è un romanzo che forma con Il segreto di Marie-Belle un ideale dittico. Qui le voci narranti sono due, ma potrebbero essere “lo specchio attento” di un io lacerato. I due protagonisti Jakob e Verena si incontrano fatalmente, come Aurelia e la giovane Marie-Belle, per dare vita a un atroce destino.
*
Nel ricco ventaglio dei romanzi di Silvio Raffo troviamo una sorta di unicum narrativo, Virginio (Il Saggiatore, 1997) una favola magica dove vengono alla luce terribili segreti della Villa Le Crisalidi. Con Spiaggia Paradiso e I figli del Lothar, un altro ideale ensamble, Raffo riprende strane atmosfere tra fantasy metafisico e le allucinate note di Patricia Highsmith, con lo sfondo misterioso e denso di grazia crudele di una surreale Svizzera. L’amore è dunque spesso inganno, una morbosa liaison dangereuse? “Indubbiamente lo è – risponde l’autore – quell’indefinibile quelque chose de malheur, di cui parla Baudelaire come elemento inscindibile dalla Bellezza che ipnotizza”. Come si sopravvive? “La mia è la filosofia del As if, titolo che dà il nome a una mia lirica: bisogna vivere facendo sempre questa premessa, come se, fai finta che. ‘Forse Dio non esiste, e la battaglia/ che si combatte quotidianamente/ è già persa in partenza,/ quest’infelicità che ci travaglia/ è solo un fatuo gioco della mente’”.
Linda Terziroli
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“Mi auguro di vedere presto la fine di questo orrendo massacro”: Céline alla Grande Guerra. Una lettera, straziante, ai genitori
Céline fu un uomo dalle molte vite: direttore di piantagioni, membro di una commissione sanitaria della Società delle Nazioni, medico di periferia, scrittore, bohémien, infine “collaborazionista” e reprobo. Ma la prima vita, che lo segnò indelebilmente, fu quella vissuta dal giovane Maresciallo d’alloggio del 12° Corazzieri Louis Destouches, scagliato con il suo cavallo nell’inferno delle battaglie della Marna e delle Fiandre, nella Prima guerra mondiale.
Louis Destouches si arruola il 28 settembre 1912, con ferma triennale, nel 12° Régiment Cuirassiers di stanza a Rambouillet, nel dipartimento degli Yvelines (Île-de- France). Era un’unità scelta, con una lunga tradizione militare risalente al 1668: creata da Luigi XIV per suo figlio quale Régiment “Dauphin-Cavallerie”, assunse il suo nome definitivo nel 1791, dopo la Rivoluzione francese. Il reparto si distinse in numerose battaglie: dalle campagne del Re Sole alle guerre della Rivoluzione, subordinato all’Armata del Reno; da Austerlitz, Jena e Waterloo a Solferino, alla di- sastrosa guerra franco-prussiana del 1870-’71. I primi tempi del servizio ben difficilmente poterono ricordare al giovane Louis le antiche glorie, preso – come doveva essere, da buona recluta – a spalar letame, strigliare il pelo dei cavalli e centellinare i pochi spiccioli della diaria, vessato dalla disciplina di ferro dei sottufficiali in carriera, come ricorda lui stesso in Casse-Pipe! Dopo un anno da militare di truppa, è promosso Brigadiere il 5 agosto 1913, e quindi Maresciallo d’alloggio il 5 maggio 1914.
Il 31 luglio, a Saint-Germain, il Reggimento è mobilitato e il 2 agosto si assembra nella regione a sud di Commercy. Louis accoglierà la notizia della guerra con lo stesso entusiasmo patriottico di milioni di giovani in tutta Europa, come testimoniato da questa lettera ai genitori, scritta poco prima della partenza per il fronte, tanto diversa da Viaggio al termine della notte per stile e spirito: «Cari genitori, l’ordine di mobilitazione è arrivato, partiamo domani mattina alle 9 e 12 per Étain, nelle pianure della Voevre; non credo entreremo in azione prima di qualche giorno. […] È una sensazione unica che pochi possono vantarsi di aver provato. […] Ognuno è al suo posto, sicuro e tranquillo, tuttavia l’eccitazione dei primi momenti ha lasciato il posto a un silenzio di morte che è il segno di una brusca sorpresa. Quanto a me, farò il mio dovere sino in fondo, e se per fatalità non dovessi tornare… siate sicuri, per attenuare la vostra sofferenza, che muoio contento, ringraziandovi dal profondo del cuore. Vostro figlio».
Il 12°, parte della 7a Divisione di Cavalleria, al comando del Colonnello Blacque-Belair condurrà numerose ricognizioni tra la Wöevre, la Mosa e le Argonne nell’agosto e nel settembre 1914: il terreno dove opererà, boscoso, con campi cintati da muretti a secco tagliati da fossi e canali, è inadatto all’impiego della cavalleria, men che meno quella pesante. La guerra del ’14 inizia a mostrarsi per quello che è: nessuna eroica carica di cavalieri, ma un cieco tritacarne. Le lettere che Louis scriverà a casa saranno di un tono ben differente; l’assurdità della guerra inizia a farsi sentire: «La lotta s’impegna formidabile mai ne ho visto e ne vedrò così tanto di orrore camminiamo in questo spettacolo quasi incoscienti per l’assuefazione al pericolo e soprattutto per la fatica schiacciante che subiamo da un mese davanti alla coscienza si para una specie di velo dormiamo appena tre ore per notte e marciamo quasi come automi mossi dalla volontà istintiva di vincere o morire nessuna nuova sul campo di battaglia quasi sulla stessa linea del fuoco da tre giorni i morti sono rimpiazzati continuamente dai vivi a tal punto che formano dei monticelli che bruciamo e in certi punti si può attraversare la Mosa a piè fermo sui corpi tedeschi di quelli che tentano di passare e che la nostra artiglieria inghiotte senza posa. La battaglia dà l’impressione di una vasta fornace dove s’inghiottono le forze vive delle due nazioni e dove la più rifornita delle due sarà la vincitrice».
A ottobre il Reggimento è inviato nelle Fiandre, partecipando a duri combattimenti assieme ad alcune unità di fanteria nel settore tra Ypres e Poelkapelle; il 25 ottobre, una domenica, quest’ultima località è battuta incessantemente dell’artiglieria e dalle mitragliatrici tedesche, tanto che sembra impossibile garantire con le staffette le comunicazioni tra il 125° e il 66° Reggimento di fanteria, che cercano di strappare Poelkapelle al nemico. È qui che il Maresciallo d’alloggio Destouches si fa avanti, offrendosi volontario per una missione quasi suicida. Louis riesce a condurre a termine il pericoloso compito, ma al ritorno, verso le sei, è ferito gravemente al braccio destro. Dopo essersi ricongiunto alla sua unità, data la mancanza di posti nelle ambulanze o nelle tende-ospedale per il gran numero di feriti e moribondi, deve raggiungere a piedi, camminando per sette chilometri, un ospedale da campo presso Ypres. Da lì è evacuato a Hazebrouck, dove viene operata la sua frattura al braccio. Successivamente, è ricoverato in degenza all’ospedale militare Val-de-Grâce a Parigi, dove subisce un secondo intervento chirurgico il 19 gennaio 1915. Dichiarato inabile al servizio per la ferita, viene riformato il 2 settembre 1915: così finisce il servizio attivo nell’Armée di Louis Destouches.
Per l’eroismo dimostrato sul campo viene citato all’ordine del giorno del Reggimento il 29 ottobre 1914, insignito della Medaglia Militare il 24 novembre e della Croce di Guerra con Stella d’Argento. «L’Illustré National» (n. 52, novembre 1915) dedicherà al fatto d’arme che lo vide protagonista una tavola a colori a tutta pagina in quarta di copertina: Céline la mostrerà sempre con orgoglio nell’eremo di Meudon, tanti anni e tante vite più tardi.
Andrea Lombardi
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Addì 15 settembre [1914] [In una calligrafia diversa:] Ricevuta il 18 settembre 1914
Cari Genitori,
ho ricevuto da Nantes tre delle vostre lettere. Non ci fermiamo da cinque giorni e così non ho potuto scrivervi. Il convoglio è stato sotto il fuoco quindici minuti, fortunatamente senza danni. La fatica e il cattivo tempo cominciano a far danni tra gli uomini e i cavalli, c’è già il 35% d’evacuati; a Rambouillet ci sono però due squadroni di Riservisti intatti, che non si sono mai mossi. A proposito, vorrei che papà andasse a Rambouillet per cercare di salvare le mie cose dallo sgombero, in particolare il mio abbigliamento, perché se tornassi non saprei cosa mettermi. Ciò che vedo è indescrivibile. Ieri, in particolare, ho visto sul bordo della strada i cadaveri di tre fanti che sono stati allievi d’ordinanza del 12° C[orazzier]i quando sono stato nominato sottufficiale. Ci sono villaggi a cui non ci si può avvicinare, tanto violento è l’odore che vi esce, non c’è un pozzo in cui non ci sia un cadavere.
Questa mattina siamo entrati per la prima volta in una città, Verdun, dopo quarantotto giorni passati negli avamposti. La gente usciva per assistere allo spettacolo poco banale d’una divisione che bivacca da trentadue giorni senza sosta e che ha viaggiato per più di tremila chilometri dalla sua partenza.
Mi auguro e ci auguriamo tutti di vedere presto la fine di quest’orrendo massacro, dove la vita umana non pesa molto nella grande bilancia. Fortunatamente, la stanchezza t’impedisce di pensare a tutti questi orrori con grande intensità; si va sempre avanti con una specie di casco sul cervello, non dormiamo mai più di due o tre ore, i dorsi dei cavalli sono così malandati che l’odore che si sparge è insopportabile quando si tolgono le coperte. Ma non è nulla, dato che riprendiamo l’offensiva, anche se si dovesse sopportare venti volte di più; ad averci ucciso è la lunga ritirata di fronte a questa marea selvaggia e soprattutto lungo la strada, di notte, le decine di villaggi che illuminavano l’orizzonte, villaggi che avevamo occupato il giorno prima e che altri avrebbero bruciato l’indomani, visto che fuggivamo davanti a loro.
Vorrei che tu facessi due o tre cose:
1. La mia tunica a Rambouillet.
2. Vedere la sig.ra Roux e ringraziarla.
3. Vedere il sig. o la sig.ra Lacloche, 29 rue Octave Feuillet, e avere notizie.
Inoltre, inviare un maglione per pacco postale – si può, anche due paia di calze, e poi dalle vostre lettere si sente un terribile nervosismo, è comprensibile, ma vi scongiuro di avere coraggio, ce ne vuole molto, anzi moltissimo, soprattutto per lottare contro il sonno, anche se sembra stupido, è una sofferenza più terribile di fame e freddo. Molti preferiscono andare venti giorni al fuoco per un’ora di sonno.
Se mi succedesse qualcosa, eh be’, sarò sulla stessa barca degli altri centomila che sono già stati fatti fuori. Lo sforzo principale, ora, sono arrivati alle porte di Parigi ma il colpo di reni è stato dato, la Germania è a terra, non resta che ucciderla, braccarla fino alla fine, fino a quando non ne resti neanche uno e, Dio mio, se ne rimangono per strada, saranno morti per qualcosa. Avranno fatto meglio che nel 1870 e la famosa e tanto bistrattata nuova generazione avrà dimostrato almeno di essere all’altezza delle precedenti.
Forza e, spero, a presto.
Vostro figlio affett[uosamente]
Destouches
Saluti a Bézard e alla sig.ra Carlier, alla sig.ra Forjonel. Ditemi se sapete di morti tra i nostri conoscenti. Sono preoccupato soprattutto per Henry Lacloche, mi hanno detto a Stenay che ci sono state vere ecatombi a Rossignol.
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L’articolo, in origine dal titolo “La guerra del corazziere Destouches. Lettere ai genitori”, e la lettera di Céline si pubblicano per gentile concessione di Andrea Lombardi, ed è tratto dal volume “Louis-Ferdinand Céline. Un profeta dell’Apocalisse. Scritti, interviste, lettere e testimonianze” (Bietti, 2018)
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