#Poeti cileni
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pier-carlo-universe · 2 days ago
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Restare in Silenzio: La Poesia che Invita alla Riflessività UniversaleUn'opera di Pablo Neruda sul valore del silenzio e della comprensione reciproca. Recensione di Alessandria today
Un momento di pausa per ritrovare l'essenza dell'esistenza
Un momento di pausa per ritrovare l’essenza dell’esistenza La poesia “Restare in Silenzio” di Pablo Neruda è un invito universale a fermarsi, ascoltare e riflettere. Il poeta propone un esercizio di silenzio collettivo, lontano dal caos e dall’aggressività, per riscoprire la connessione umana e la bellezza del vivere in armonia con il mondo naturale. Con immagini poetiche evocative, Neruda…
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mescal · 7 years ago
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1. Quando dubiti se agire, tra fare e non fare, scegli di fare. Se sbaglierai ti sarai fatto almeno una esperienza. 2. Ascolta di più il tuo intuito che la tua ragione. Le parole forgiano la realtà ma non sono la realtà. 3. Realizza un sogno di quando eri bambino. Per esempio, se volevi giocare e ti hanno reso adulto troppo in fretta, risparmia 500 euro e vai a giocare a un casinò fino a perderli. Se vinci, continua a giocare. Se continui a guadagnare, anche se sono milioni, continua a giocare finché perderai tutto. Non si tratta di guadagnare, ma di giocare senza finalità. 4. Non c'è tranquillità migliore che cominciare ad essere ciò che si è. Sin dall'infanzia veniamo proiettati in destini sconosciuti. Non siamo al mondo per realizzare i sogni dei nostri genitori, ma i nostri sogni. Se sei un cantante e non un avvocato come tuo padre, abbandona giurisprudenza e incidi un disco. 5. Oggi stesso smetti di criticare il tuo corpo. Accettalo com'è senza preoccuparti degli sguardi altrui. Non ti amano perché sei bella. Sei bella perché ti amano! 6. Una volta alla settimana insegna gratuitamente agli altri il poco o il tanto che sai. Ciò che dai agli altri lo dai a te stesso. Ciò che non dai agli altri lo neghi a te stesso. 7. Cerca nel giornale tutti i giorni una buona notizia. E' difficile trovarla. Però, in mezzo agli avvenimenti nefasti, ce n'è sempre una, anche se impercettibile. Si è scoperta una nuova razza di uccelli, le comete trasportano vita, o un bambino che è caduto dal quinto piano senza farsi male; che la figlia di un presidente tentò di suicidarsi nell'oceano e fu salvata da un operaio del quale si innamorò e si sposarono; che i giovani poeti cileni bombardarono, con 300.000 poesie scagliate da un elicottero, La Moneda, dove fu eliminato Allende, etc. 8. Se i tuoi genitori hanno abusato di te quando eri piccolo parla loro con calma, in un luogo neutrale che non sia il loro territorio, sviluppando quattro concetti: - Questo è ciò che mi avete fatto - Questo è ciò che ho sentito. - Questo è ciò che oggi a causa di quello che è successo sto soffrendo - E questa è la restituzione che chiedo! Il perdono senza restituzione non serve. 9. Anche se hai una famiglia numerosa, autorizzati ad avere un territorio personale dove nessuno può entrare senza il tuo permesso. 10. Smetti di definirti. Concediti tutte le possibilità di essere,cambia strada ogni volta che lo senti necessario.
Alejandro Jodorowsky
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pangeanews · 5 years ago
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“Un giorno, è il 1975, Belano dice che William Burroughs è morto…”. Due racconti di Roberto Bolaño che non avete mai letto
Gli inglesi adorano il genere letterario delle ‘ultime parole’. Esiste pure una collana della grandiosa Penguin Random House che ha per titolo Last interviews: interviste liminali a Dick, Borges, Bolaño. Chi più ne ha più ne metta. Ora che siamo rimasti senza Sepulveda, che il suo ricordo è un disegno nella caverna preistorica delle nostre elementari, ora che le sue storie di tigri non le leggeranno più le matrone cilene in attesa del Nirvana, mi viene da ripensare all’ultima intervista di Bolaño. Fu lapidario su Sepulveda: il barbone della mia generazione vincerà il Nobel e non mi nominerà nel suo discorso. Ironia al vetriolo che non è andata a segno.
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Riprendiamoci l’ultimo Bolaño che in questi tempi di quarantena è godibilissimo per il suo racconto Colonia Lindavista dove racconta di lui sedicenne che ascolta dal diaframma delle pareti di casa la vita dei vicini. E poi per un altro racconto strano, meno posato, non ingabbiato, Il vecchio della montagna. Un grande discorso sulla morte velato di ironica tristezza.
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Il primo racconto è dei primi del Duemila, pura memoria. Il secondo è di un due o tre anni prima, sembra lo scheletro spolpato dei Detective selvaggi. Il migliore tra i due è il secondo: Bolaño-Belano ricorda come l’amico Lima accolse negli anni Settanta la notizia della morte di Borroughs: la rifiutò.
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Per la storia, Borroughs muore nel 1997. Bolaño ha concluso i suoi Detective e proietta nel passato la morte di Borroughs per scardinarla. Lima nel racconto reagisce alla notizia dicendo che no, Borroughs non può essere morto. Però nel 1997 effettivamente Borroughs muore e Bolaño scrive il racconto aggiungendo che nemmeno Lima è morto dopo un incidente. Come fosse ancora con lui.
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La verità è che invece il suo amico di gioventù era morto in Messico investito da un pullman: per lui non è mai morto e il passato che Bolaño va a cercare riscoprendo poeti scomparsi nel deserto insieme ai suoi detective selvaggi è solo “un’impronta profonda e pulita che fende una pelle strana la cui pura contemplazione gli dà la nausea”.
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Per gioco romanzesco, non indicherò il nome vero del poeta morto giovane che si nasconde sotto il nome di Lima. Può bastare dire che per Bolaño era il migliore.
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Quando lessi i romanzi del cileno mi parve tutto una bella costruzione. Uno poteva anche ammirare la vita trasandata che gli aveva dato l’abbrivio per scrivere. Ma arrivare a capire che è sempre tutto dolorosamente vero, che ogni autore è sempre una figura che si allontana… questo è troppo carnale, troppo ‘troppo’ per non restare storditi. Adesso odio Bolaño perché mi ha fatto capire come continuano a morire i poeti.
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Il testo spagnolo per chi lo vuole è qui. In italiano non si trova perché Adelphi ha spezzato in tre volumi i suoi racconti escludendo le carte finali che invece gli spagnoli più saggiamente (e meno cinicamente) hanno messo in coda al volume unico di racconti. Il quale è fuori catalogo. Da fuori di testa, ho chiesto ad Andrea Giovannini di renderlo in italiano. (Andrea Bianchi)
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Il quartiere Lindavista
Quando arrivammo in Messico nel 1968, passammo i primi giorni a casa di un’amica di mia madre e poi affittammo un appartamento nel quartiere di Lindavista. Ho dimenticato il nome della strada, Aurora mi pare, ma magari mi sbaglio. A Blanes ho vissuto per alcuni anni in un appartamento in calle Aurora, per cui mi pare poco probabile aver vissuto anche in Messico in un’altra calle Aurora, anche se è vero che questo nome è abbastanza comune e che lo portano tante strade in tante città. La calle Aurora di Blanes, comunque, non superava i venti metri e si potrebbe dire che più che una strada era un vicolo. La calle Aurora di Lindavista, ammesso che si chiamasse davvero così, era una strada stretta ma grande, su almeno quattro isolati, e abbiamo vissuto lì per il primo anno del nostro lungo soggiorno in Messico.
La donna che ci affittò la casa si chiamava Eulalia Martínez. Era una vedova e aveva tre figlie e un figlio, viveva al piano terra dell’edificio, un edificio che mi sembrava normale allora, ma ora, nella memoria, mi appare come un miscuglio bizzarro e goffo, perché il secondo piano, a cui si accedeva salendo una scala all’aperto, e il terzo, a cui si accedeva da una piccola scala di metallo, erano stati tirati su molto più tardi e forse senza un permesso di costruzione. Le differenze erano evidenti: l’abitazione del primo piano aveva un soffitto alto, una certa pretesa, era brutta ma era stata costruita seguendo i piani di un architetto; il secondo e il terzo piano erano improvvisazioni frutto del gusto estetico di Doña Eulalia e del lavoro di un qualche muratore di fiducia. Dietro quel sovrappeso architettonico c’era un motivo non meramente venale. La padrona di casa aveva quattro figli e i quattro appartamenti dei due piani aggiuntivi erano stati costruiti per loro, in modo da rimanere vicini alla madre quando si fossero sposati.
Quando arrivammo noi, però, solo l’appartamento proprio sopra al nostro era occupato. Le tre figlie più grandi di Dona Eulalia erano nubili  e vivevano con la madre nella casa sottostante. Il figlio più giovane, Pepe, era l’unico che si era sposato e viveva sopra di noi con sua moglie, Lupita. Erano i nostri condomini più vicini in quel periodo.
Di Doña Eulalia poco altro posso dire. Era una donna volenterosa ed era stata fortunata nella vita e forse era più cattiva che buona. Conobbi a malapena le sue figlie. Erano, come si diceva a quel tempo, zitelle e vivevano quella condizione come meglio potevano, cioè male, o nella migliore delle ipotesi in quel modo rassegnato e cupo che via via lasciava tracce impercettibili nelle cose o nei ricordi delle cose, quelli che restano dopo, quando tutto è svanito. Si vedevano poco, o le vedevo poco io, vivevano di telenovele e parlavano male delle altre donne del vicinato, che incrociavano al negozio o nel buio corridoio in cui un’india scheletrica vendeva tortillas di mais.
Pepe e sua moglie, Lupita, era un’altra cosa.
Mia madre e mio padre, che allora avevano tre o quattro anni meno di quelli che ho io adesso, fecero quasi subito amicizia con loro. Io ero incuriosito da Pepe. Nel quartiere tutti i ragazzi della mia età lo chiamavano Pilota perché era un pilota dell’Aeronautica Messicana. Sua moglie si dedicava alle faccende di casa. Prima di sposare Pepe, aveva lavorato come segretaria o impiegata in un ufficio pubblico. Entrambi erano o cercavano di essere amichevoli e ospitali. A volte i miei genitori andavano a casa loro e passavano un po’ di tempo lì, ascoltando dischi e bevendo. I miei genitori erano più grandi di Pepe e Lupita, ma erano cileni e i cileni, allora, si consideravano il massimo della modernità, almeno in America Latina, e la differenza di età era cancellata dallo spirito francamente giovanile di cui facevano mostra i miei.
Qualche volta andai anche io a casa loro. Pepe aveva un salotto o living, come dicevamo noi, abbastanza moderno, e un giradischi che sembrava fosse appena stato acquistato, e sui muri e sulle credenze della sala da pranzo c’erano foto di lui e Lupita e foto degli aerei che pilotava, benché di questo, che era poi quello che mi interessava di più, preferiva non parlare, come se fosse costantemente vincolato da qualche segreto militare. Informazioni classificate, le chiamavano gli americani nei loro telefilm. Segreti militari dell’Aeronautica Messicana che, in fondo, non toglievano il sonno a nessuno, tranne che a Pepe, che aveva uno strano senso del dovere e della responsabilità.
Poco a poco, attraverso conversazioni ascoltate a cena o mentre studiavo, cominciai a farmi un’idea sulla vera situazione dei nostri vicini. Erano sposati da cinque anni e non avevano ancora avuto figli. Le visite dal ginecologo non mancavano. Secondo i medici, Lupita era perfettamente in grado di avere figli. Stessa cosa dicevano gli esami di Pepe. Il problema era mentale, avevano detto i dottori. La madre di Pepe, col passar degli anni e a non vedersi ancora nonna, cominciò a prendersela con Lupita. Questa, una volta confessò a mia madre che il problema era nella casa e nella vicinanza della suocera. Se si fossero trasferiti, diceva, non avrebbe tardato a rimanere incinta.
Penso che Lupita avesse ragione.
Ancora: Pepe e Lupita erano bassi di statura. Io, che all’epoca avevo sedici anni, ero più alto di Pepe. Quindi suppongo che Pepe non fosse più di un metro e sessantacinque e Lupita, al massimo, andava per il metro e cinquantotto. Pepe era scuro, con i capelli nerissimi e un’espressione pensierosa sul viso, come se fosse costantemente preoccupato per qualcosa. Ogni mattina andava al lavoro con l’uniforme di ufficiale dell’aeronautica. La sua rasatura era perfetta, tranne nei fine settimana, quando indossava felpa e jeans e non si radeva. Lupita aveva la pelle bianca, i capelli tinti di biondo, quasi sempre con la permanente, che si faceva dal parrucchiere o da sola, con una valigetta dove c’era tutto il necessario per i capelli di una donna e che Pepe le aveva riportato dagli Stati Uniti, e sorrideva quando salutava. A volte, dalla mia stanza, li sentivo fare l’amore. A quel tempo cominciai a scrivere con una certa regolarità e restavo alzato fino a tardi. La mia vita non mi sembrava niente di eccezionale. Ero insoddisfatto di tutto. E scrivevo fino alle due o tre del mattino ed era allora che, all’improvviso, cominciavano i gemiti al piano di sopra.
All’inizio mi pareva tutto normale. Se Pepe e Lupita volevano avere un figlio, dovevano scopare. Poi, però, cominciai a farmi alcune domande: perché iniziavano così tardi? Perché non sentivo voci prima che iniziassero i gemiti? Inutile dire che tutto quel che sapevo del sesso all’epoca l’avevo imparato dai film o leggendo riviste pornografiche. Ovvero, ne sapevo molto poco. Ma abbastanza per intuire che stava succedendo qualcosa di strano nell’appartamento al piano di sopra. Il rapporto sessuale di Pepe e Lupita mi appariva improvvisamente ornato di gesti incomprensibili, come se nell’appartamento di sopra si svolgessero scene di sadomasochismo, un sadomasochismo che non riuscivo a visualizzare completamente ed era regolato, più che da atti che dessero dolore e piacere, da movimenti teatrali che Pepe e Lupita mettevano in scena contro se stessi e che poco a poco li stavano stravolgendo.
Dal di fuori la cosa era appena percettibile. Sicché non tardai a giungere alla sciocca conclusione che io ero l’unico a sapere. Mia madre, che era in qualche modo amica di Lupita e destinataria delle sue confidenze, credeva che il trasloco avrebbe risolto tutti i problemi della coppia. Mio padre non aveva un’opinione. In realtà, appena arrivati in Messico, avevamo già i nostri problemi d’ogni giorno per preoccuparci dei misteri dei nostri vicini. Quando ricordo quel tempo vedo i miei genitori e mia sorella e poi me stesso, e tutto ciò che appare davanti ai miei occhi è d’una tragica desolazione.
A sei isolati da casa nostra c’era un supermercato Gigante dove la mia famiglia andava di sabato a fare acquisti per tutta la settimana. Me lo ricordo con tutti i dettagli. E anche che in quel periodo iniziai a frequentare una scuola superiore dell’Opus Dei, anche se a discolpa dei miei genitori devo dire che, in vita loro, avevano solo sentito parlare di questa istituzione. Anche a me ci volle più di un anno per scoprire in che posto infernale stavo studiando. Il mio insegnante di etica era un nazista dichiarato, ma la cosa divertente è che era un indigeno piccoletto del Chiapas, che aveva studiato con una borsa di studio in Italia, in fondo un tipo simpatico e stupido che i nazisti non avrebbero esitato a sterminare, e il mio insegnante di Logica credeva nella volontà eroica di José Antonio (molti anni dopo, in Spagna, mi ritrovai a vivere in una avenida José Antonio), ma la verità è che io, come i miei genitori, non mi accorgevo di nulla.
Gli unici interessanti erano Pepe e Lupita. E un amico di Pepe, in realtà l’unico amico di Pepe, un tipo biondo, il miglior pilota della sua classe, alto e magro che aveva avuto un incidente mentre pilotava il suo combattente e non poteva più volare. Quasi ogni fine settimana si presentava a casa e dopo aver salutato la madre e le sorelle di Pepe, che lo adoravano, andava a casa dell’amico e bevevano e guardavano la TV, mentre Lupita cucinava. Altre volte appariva durante la settimana e allora veniva vestito con l’uniforme, un’uniforme che trovo difficile da visualizzare, direi che era blu, ma probabilmente sbaglio, se chiudo gli occhi e provo a evocare Pepe e il suo amico biondo, li vedo con divise verdi, una verde chiaro, una bella divisa per due piloti, insieme a Lupita che è vestita con una gonna blu (quella sì blu) e una camicetta bianca.
A volte il biondo restava a cena. I miei genitori andavano a letto e di sopra la musica continuava. In casa mia ero l’unico a rimanere sveglio perché a quell’ora cominciavo a scrivere. E a modo suo il rumore che veniva dal piano superiore mi faceva compagnia. Verso le due del mattino le voci e la musica cessavano e si faceva uno strano silenzio in tutto l’edificio, non solo nell’appartamento di Pepe ma anche nel nostro e nella casa della madre di Pepe, che sosteneva gli altri piani e a quell’ora sembrava scricchiolare, come se i piani aggiunti le pesassero troppo. E allora sentivo solo il vento, il vento notturno di DF e i passi del biondo che si avvicinavano alla porta, seguiti dai passi di Pepe che lo accompagnava, e poi qualcuno scendeva le scale, gli stessi passi, ma sul nostro pianerottolo, e poi scendevano le scale fino al primo piano, e qualcuno apriva il cancello di ferro e poi i passi si perdevano lungo calle Aurora. Allora smettevo di scrivere (non ricordo cosa stessi scrivendo, qualcosa di brutto, senza dubbio, ma qualcosa di lungo e che mi teneva in sospeso) e tendevo l’orecchio ai rumori che non arrivavano dall’appartamento di Pepe, come se dopo che il biondo se ne era andato tutto là sopra, compresi Pepe e Lupita, si fosse improvvisamente congelato.
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Il vecchio della montagna 
Ci sono sempre coincidenze. Un giorno Belano incontra Lima e diventano amici. Entrambi vivono in Messico DF e la loro amicizia si rafforza, come di solito accade tra i giovani poeti, nel rifiuto di alcune norme, nell’affinità di determinate letture. Ho detto che sono giovani. Molto giovani, in realtà, e anche vigorosi, a modo loro, e credono nel potere curativo della letteratura. Recitano Omero e Frank O’Hara, Archiloco e John Giorno, e le loro vite corrono, anche se non lo sanno, sull’orlo dell’abisso. Un giorno, è il 1975, Belano dice che William Burroughs è morto e Lima, sentendolo, impallidisce e dice che non può essere, che Burroughs è vivo. Belano non insiste; Dice che crede che Burroughs sia morto ma probabilmente ha torto. Quando è morto? Dice Lima. Recentemente, penso, dice Belano sempre meno convinto, l’ho letto da qualche parte. A questo punto della storia c’è qualcosa che possiamo chiamare silenzio. O vuoto: un vuoto, in ogni caso, molto breve, ma che nella percezione di Belano continua misteriosamente fino alla fine del secolo.
Dopo due giorni ecco Lima con la notizia, questa volta irrefutabile, che Burroughs è vivo.
Passano gli anni. A volte, di tanto in tanto e senza sapere perché, Belano ricorda il giorno in cui annunciò arbitrariamente la morte di Burroughs. Era una giornata limpida, lui e Lima passeggiavano per Sullivan, venivano dalla casa di un amico e avevano il resto della giornata a loro disposizione. Forse stavano parlando dei beatnik. A un certo punto lui disse che Burroughs era morto e Lima impallidì e disse che non poteva essere. A volte Belano pensa di ricordare Lima che urlava. Non può essere. È impossibile. Ingiusto. Qualcosa del genere. E ricorda anche il dolore di Lima, come se gli stessero annunciando la morte di un parente molto caro, il dolore (sebbene la parola, Belano lo sappia, non è dolore) che svanì solo due giorni dopo, quando Lima seppe, in modo affidabile, che l’informazione era sbagliata. Qualcosa di quel giorno, tuttavia, qualcosa di impreciso, lascia una traccia di inquietudine in Belano. Di inquietudine e allegria. L’inquietudine è in realtà un travestimento della paura. E l’allegria? In generale, per suo conforto, Belano tende a pensare che dietro l’allegria si nasconda la nostalgia per la propria giovinezza, ma in realtà dietro l’allegria si nasconde la ferocia: uno spazio ridotto e buio in cui si muovono, bloccate e sovrapposte, alcune figure confuse e in azione permanente. Figure che si nutrono di violenza, figure che governano a malapena (o che governano con un’economia curiosa) la violenza. L’inquietudine che il ricordo di quel giorno gli provoca è, contrariamente a quanto dettato dal buon senso, volatile. E l’allegria è sotterranea, come una nave dalla perfetta geometria rettangolare che naviga lungo un solco.
A volte Belano osserva il solco.
Si inarca, si accovaccia, la sua spina dorsale ondeggia come il tronco di un albero nel mezzo di una tempesta, e guarda il solco: un’impronta profonda e pulita che fende una pelle strana la cui pura contemplazione gli dà la nausea. Gli anni passano. Gli anni vanno a ritroso. Nel 1975 Belano e Lima sono amici e camminano ogni giorno, incoscienti, sul bordo dell’abisso. Fino a quando un giorno lasciano il Messico. Lima parte per la Francia e Belano per la Spagna. Da lì le loro vite, finora unite, corrono in diverse direzioni. Lima percorre l’Europa e il Medio Oriente. Belano l’Europa e l’Africa. Entrambi si innamorano, entrambi cercano invano di trovare la felicità o farsi ammazzare. Belano, nel corso degli anni, si stabilisce in un paese sulle rive del Mediterraneo. Lima ritorna in Messico. Ritorna a DF.
Ma prima sono successe altre cose. Nel 1975 DF è una città splendente. Belano e Lima pubblicano le loro poesie su riviste, quasi sempre insieme, e danno letture pubbliche di poesia alla Casa del Lago. Nel 1976 entrambi sono conosciuti e temuti soprattutto da un establishment letterario che non li sopporta. Due formiche selvagge e suicide. Belano e Lima capeggiano un gruppo di poeti adolescenti che non rispettano nessuno. Assolutamente nessuno. Il potere stabilito della letteratura non lo perdona e Belano e Lima sono vietati per sempre. Questo succede nel 1976. Alla fine dell’anno, Lima, che è messicano, lascia il paese. Poco dopo, nel gennaio 1977, Belano, che è cileno, lo segue.
Questo è tutto. 1975. 1976. Due giovani condannati all’ergastolo. Europa. Un nuovo ciclo che inizia e che quando inizia li allontana dal bordo dell’abisso. E la separazione, perché anche se è vero che Belano e Lima si incontrano a Parigi e poi a Barcellona e poi in una stazione ferroviaria nel Rossiglione, alla fine le loro direzioni divergono e i loro corpi si allontanano, come due frecce che improvvisamente e fatalmente hanno acquistato traiettorie divergenti.
E questo è tutto. 1977. 1978. 1979. E poi il 1980, e il decennio che segue, disastroso per l’America Latina.
In ogni caso, Belano e Lima hanno notizie reciproche di quando in quando. Soprattutto, Belano ha notizie di Lima. Quindi, una volta, sa che un autobus ha investito il suo amico, che si salva per miracolo. Lima esce dall’incidente con una claudicazione che si porterà dietro tutta la vita. Ne esce anche come una leggenda. O almeno è quel che pensa Belano, lontano da DF. A volte un amico di Belano che vive a Barcellona riceve visitatori dal Messico che portano notizie di Lima che l’amico di Belano comunica a quest’ultimo.
Roberto Bolaño   
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pangeanews · 6 years ago
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“Il poeta è un uomo pieno di dubbi, che si nutre dell’arte del sospetto, è un tipo scomodo”: dialogo con Rodrigo Arriagada-Zubieta, tra i grandi poeti cileni di oggi
La sensazione è quella, finalmente, di aver costruito un cafè in mezzo all’Atlantico, alla deriva dagli imperativi estetici e dai tromboni letterari. Finalmente, dico, oltre al consueto scambio di versi – con occhiolino complice: tu traduci una cosa a me e io una cosa te, cosa, nello specifico, che non mi riguarda – prima di tutto, una mitragliera di idee. Rodrigo Arriagada-Zubieta, cilena, classe 1982, è un poeta che esercita l’arte raffinata della critica. Anzi, della totale messa in questione delle questioni letterarie. Rodrigo è un poeta latinoamericano anomalo e dinamico: ha studiato – e insegna – in Cile, si è perfezionato a Barcellona, parla di Baudelaire e di Francis Bacon, discetta di Thomas S. Eliot e di Pasternak, scrive sulla Latin American Literature Review, che è un progetto organizzato dall’Università dell’Oklahoma, e su Buenos Aires Poetry, che è la più interessante testata di settore in Argentina. Quando gli parlo, ad esempio – e lui mi scrive in italiano le mail di circostanza, in spagnolo il resto – in questa specie di cafè del primo Novecento sopra l’oceano, incuranti dei continenti, mi sorprende questo suo concetto: “Mi interessano tutti quegli autori che hanno un atteggiamento di sospetto dinnanzi a qualsiasi stato prestabilito delle cose”. Lo specifica così: “mi interessano i poeti che nutrono il sospetto nei confronti del linguaggio stesso, il dubbio sul potere della poesia ma come correlato di un dubbio che scaturisce dai rapporti che si stabiliscono tra il linguaggio e l’esperienza”. Mi piace proprio la parola sospetto. Il sospetto impone un surplus dell’indagine, uno sguardo raddoppiato, delle mani decuplicate. Il poeta, in effetti, che sospetta di sé fino a desertificarsi, sospetta delle cose, cioè le adorna di sguardi, per amarle in un modo nuovo, nell’oro. Rodrigo Arriagada-Zubieta ha da poco pubblicato un libro lirico, Extrañeza – a cui ne è seguito un altro, Hotel Sitges – di cui si è parlato molto, come di una novità sperata – un poeta che pensa e non si limita e sentire – al di là del mondo. Per questo, costruendo il mio cafè su una zattera oceanica, ho invitato il poeta al dialogo.
Che cosa è per te la poesia, per quale ragione scrivi?
La poesia è una cosa assolutamente reale e, quindi, l’unica cosa che esiste, se paragonata alla mera inerzia meccanica del mondo della quale non resta alcuna traccia. La vita moderna è una mirabolante impresa di estinzione delle cose umane. Sono d’accordo con Walter Benjamin quando afferma che le contrapposizioni imposte all’individuo dalla modernità – in quanto a stimoli, impatti visivi e svuotamento della esperienza – sono talmente sproporzionate rispetto alle forze dell’uomo che questi potrebbe fuggire verso la sua morte. Da questo punto di vista e collocando la mia poesia in una modernità che reputo non esaurita, la mia ragione di scrivere rientra nella crisi della esperienza della nostra epoca, una diagnosi solitamente espressa in termini filosofici ma che è diventata l’intuizione generale che credo di avere nei confronti della esistenza: un’idea della vita come cancellatura, come bagliore, qualcosa che non accade mai nella realtà, qualcosa che non si riesce a conoscere mai e che, di conseguenza, deve essere rielaborata nel linguaggio. In questo senso, non credo di nutrire interesse nello scrivere. Tuttavia identifico una ossessione permanente per dare forma a certe immagini che mi tormentano e che richiedono una rielaborazione. È implacabile, da questa prospettiva, l’esempio della Recherche di Proust: insegna che la vita in sé non ha nessun significato, a meno che non gliene venga attribuito uno quando si crea una opera d’arte. La mia poesia verbalizza ciò che resta all’individuo nella sua intimità, quella intimità minacciata dalla logica transazionale delle relazioni umane, assolutamente priva, oggigiorno, di legami significativi. La mia poesia potrebbe benissimo essere identificata con un spazio privato, qualcosa che accade in testa, quasi unicamente nella solitudine di una stanza (da qui il mio interesse nei confronti di una pittura come quella di Hopper o della cinematografia di Lynch). Questo si spiega probabilmente col fatto che la vita per me non è niente altro che questo: qualcosa che accade in quello spazio intermedio tra ciò che sembra essere stato e ciò che persiste a guisa di ricordo tragicamente vago.
Sei uno studioso di letteratura e le tue poesie sono ricche di riferimenti letterari (a Pasternak e a Baudelaire, ad esempio): che importanza hanno i tuoi studi, le tue letture, per la tua poesia?
Quando affermo che la mia poesia è moderna, probabilmente penso a ciò che disse Paul Valéry nei confronti di Baudelaire. Per Valéry, Baudelaire non è il primo moderno, come molti ritengono, per aver realizzato una poesia ‘da città’, ma piuttosto per essere stato il primo ad associare la coscienza critica alla virtù della poesia. In questo senso credo che più che lo studio della letteratura legato alla mia attività di studioso, ciò che può essere stato determinante nella ideazione di un progetto poetico, è stata la mia attività di critico. La modernità di Baudelaire si oppose al Romanticismo a partire dalla lucidità, da certi calcoli che effettuava il poeta in base agli effetti che voleva provocare nel lettore. Questo fu ciò che più gli attrasse di Poe, la sua filosofia della composizione. Visto con lo sguardo di oggi, si può comprendere che con la sua presa di posizione Baudelaire volle sradicare dalla poesia il concetto di ispirazione. Lo stesso potremmo dire di un poeta come Thomas S. Eliot che integra le contraddizioni del suo tempo in una tecnica poetica necessariamente difficile che si astrae dagli effetti ipnotici dell’automatismo surrealista. In entrambi i casi, si tratta di demistificare sentimenti correnti e forme del linguaggio che riproducono quello che è. Nel mio caso specifico, non concepisco l’esistenza di un poeta senza la sua capacità di scrivere critica su altri poeti e di articolare un discorso sulla sua stessa poesia. Sono cileno, e nello stesso modo in cui Nicanor Parra ed Enrique Lihn dovettero battersi contro gli effetti ipnotici della poesia di Neruda, oggi penso che ci si debba battere contro la cattiva eredità di Parra, il suo mal compreso facilismo, ma soprattutto si devono evitare gli effetti ipnotici di poeti quali Zurita e Jodorowski che hanno praticato per anni ciò che ho denominato “una retorica dell’apparizione fantoccesca”. Occorre tornare alla scrittura e alla sua complessità. Ritengo che i grandi problemi del declino della poesia attuale in lingua spagnola – ed ecco la mia diagnosi – siano la mancanza di una riflessione che accompagni la prassi poetica, la scelta permanente di una espressione semplice e un certo discredito su cui è piombata l’intelligibilità limitata. La riflessione sulla poesia altrui – e qui mi rifaccio al vocabolo originale greco krinein – mi ha consentito di criticare, vale a dire, di separare ciò che è proprio del mio lavoro attraverso l’esperienza diretta con altre manifestazioni artistiche. In questo senso e relativamente ai riferimenti ad altri autori presenti nelle mie poesie, le allusioni a Baudelaire, a Lihn, a Pasternak, a Camus e ad alcuni pittori o registi come Godard costituiscono un grado di identificazione col modo di percepire il mondo e un interesse permanente per un tipo di arte che riflette sui propri mezzi di espressione. Questo cumulo di risonanze può effettivamente rendere più complessa la lettura delle mie opere ma non ho voluto rinunciare a una poesia oscura. Credo piuttosto in quella vecchia risorsa identificata già dai formalisti russi: lo straniamento della forma come possibile restituzione della esperienza. L’effetto è quello di ritardare la percezione affinché qualcuno possa vedere anziché semplicemente guardare, saturare la realtà di stranezza affinché si possa vedere, parafrasando Šklovskij.
Le ultime poesie di Rodrigo Arriagada-Zubieta sono pubblicate dalla rivista “Buenos Aires Poetry”
Che tipo di poesia preferisci leggere? Che rapporto hai con la poesia latinoamericana? Chi sono stati i tuoi maestri?
Mi interessano tutti quegli autori che hanno un atteggiamento di sospetto dinnanzi a qualsiasi stato prestabilito delle cose. Ho cominciato a nutrire interesse per la poesia ai 15 anni quando lessi il poeta cileno Enrique Lihn, probabilmente il poeta più influente delle attuali generazioni di poeti latinoamericani e quello che ha avuto un maggior influsso sulla mia scrittura. Ma non si tratta del sospetto – come si potrebbe pensare – sui poteri dell’originalità, un problema già affrontato da Borges e Nabokov, tanto per citare alcuni autori che fecero una letteratura della lettura. In questo senso non mi interessa la riscrittura come risorsa, né i procedimenti autoparodici acritici. Oggi alcuni autori latinoamericani scrivono come se Gérard Genette, Romand Barthes e Julia Kristeva fossero delle vere e proprie bibbie. È vero che la letteratura è permeata dal dialogo tra diversi testi ma questo dialogo non può diventare un metodo intenzionale a discapito della esperienza. Un atteggiamento di questo tipo, vale a dire, considerare il resto dei testi come “cadaveri” che possono essere rianimati a destra e a manca porta a una pratica infinitamente sterile di moltiplicazione di quanto già è stato scritto. Questo atteggiamento spiega come mai certi autori – sulla soglia dei 35 o 40 anni – hanno già pubblicato una trentina di libri o altri addirittura delle antologie, nonostante la ricezione della loro opera sia minuscola. Anche se non credo nella originalità come un valore, mi interessano i poeti che nutrono il sospetto nei confronti del linguaggio stesso, il dubbio sul potere della poesia ma come correlato di un dubbio che scaturisce dai rapporti che si stabiliscono tra il linguaggio e l’esperienza, più di ogni altra cosa. A mio avviso Pasternak, Lihn e Baudelaire compresero ben presto che lo status del poeta della modernità era quello di un personaggio scomodo e che al tempo stesso doveva scomodare. Mi interessa la riflessione metapoetica in quel senso che io definisco critico. Ma attenzione: non intendo critico nel senso di una poesia impegnata nei temi sociali, e qui sbagliarono a sufficienza i surrealisti quando confusero il mandato rimbaudiano di cambiare la vita con quello di cambiare il mondo. Si tratta di un atto critico nella misura in cui si fa carico della sua condizione di artificio e rispecchia – nella sua opacità – lo stesso dubbio da cui scaturisce, producendo un discorso pubblico che può spiegare il dilemma stesso. In questo senso i poeti che prediligo sono quelli come Montaigne che nutrono il sospetto che si possa arrivare a qualcosa di simile a una forma e si accontentano di propiziare l’infinità delle loro domande in un atteggiamento profondamente manierista, un periodo della storia dell’arte che ammiro profondamente.
In una tua poesia scrivi: “En lo que toca al amor/ todo está hecho de palabras”. Che cosa significa?
La poesia, secondo me, dice e installa, non credo che significhi. Il parlante di Extrañeza è un individuo che parla a se stesso e nel contempo non dialoga con nessuno. In quel andirivieni iscrive il suo proprio dubbio che emana dalla sua propria esperienza poetica. Il verso a cui alludi potrebbe essere collegato al momento in cui si scopre che l’esperienza amorosa può risultare insufficiente, se paragonata all’aspettativa che ha inculcato il concetto di amore nella sua formulazione più eccelsa, mi riferisco all’amore come idea formulata dalla Letteratura. In qualsiasi caso, l’idea a cui alludo si potrebbe identificare con il crollo del grande stile in poesia o con la messa in discussione della retorica. Questo lo troviamo in Musil, nell’opera L’uomo senza qualità, ed è qualcosa che in certo modo è andata perduta negli anni: l’organizzazione del linguaggio è coercitiva, non permette che la pluralità delle cose reali si manifesti nella sua totalità. In Extrañeza cerco di esprimere quanto possa essere indefinita e aperta l’esperienza nel momento in cui la riscrivo in una poesia; da questo non fugge un concetto così naturalizzato come l’amore. Il correlato stilistico di quel dubbio persistente potrebbe essere quello di un io volatile e privo di densità che ricostruisce se stesso a partire da episodi frammentari della sua vita. Forse è proprio questo il motivo per cui ho impiegato cinque anni a scrivere il libro, nonostante non sia particolarmente lungo. In un esercizio deliberato ho lasciato entrare il tempo nei versi, una sorte di sospetto nei confronti della mia stessa scrittura.
Come può la poesia intervenire nella storia, nel mondo? La poesia sembra sempre più impotente, oggi.
La poesia interviene nel mondo solamente nella misura in cui rende visibile la stessa possibilità di dire. In questo senso la poesia e il linguaggio – a partire da Baudelaire e poi con Rimbaud – devono affrontare l’ignoto. Questo significa addentrarsi fino in fondo e strappare la luce ad ogni epoca: questo voleva dire essere assolutamente moderno. La parola sarà più avanti dell’azione, disse Rimbaud, e in certo modo credo che quel mandato abbia raggiunto la sua totale pienezza con Mallarmé per cancellarsi – fatalmente- con Breton, che commise l’errore di confonderlo con l’imperativo marxista di “cambiare il mondo”. In quel modo la poesia cedette terreno alla politica. Su questo punto concordo con Gottfried Benn quando in un’intervista afferma che subordinare la funzione della poesia a quella di cambiare il mondo supporrebbe scrivere sul parlamento, interessarsi per le questioni municipali o per la vendita di terreni, per esempio. La poesia può insegnare all’umanità – parafrasando Benn – quanto segue: tu sei così e non sarai mai una altra; vivi così, hai vissuto così e vivrai così sempre. Si tratta, in definitiva, di accettare una sconfitta che si colloca in quel momento in cui la parola resta a tu per tu con la sua stessa lucidità: una sorta di sospensione del tempo, quella è l’ultima possibilità per la parola e, al tempo stesso, la causa del suo carattere non trascendente. Non ha nulla a che vedere con il progresso, bensì con il re-gresso all’esperienza di noi stessi e, in aggiunta, a quella di una umanità comune che non si riconosce ancora perché ha posticipato l’atto della lettura.
Perché la tua prima raccolta di poesia si intitola “Extrañeza”? E ora a cosa stai lavorando?
La Extrañeza è – come ha fatto notare un critico sulla mia opera – la capacità dell’individuo di vedersi da fuori, una sorte di estraneazione. La cosa strana che scopre il soggetto che parla nelle poesie è la percezione stessa, realizzare che essere se stessi non è altro che una disfatta dei sensi e un distacco continuo nei confronti di ciò che denominiamo – con molta leggerezza- mondo. C’è una sorta di cancellatura permanente nel soggetto che parla e che deve essere riempita attraverso referenti visivi o acustici che possano sorreggere le esperienze apparentemente vissute. Da qui si spiegano i riferimenti a diversi artisti quali Füssli, Bacon e Hopper; alla musica di gruppi musicali come i Pulp e i Depeche Mode; a film come Velluto blu, Tre colori. Film bianco, Nuovo Cinema Paradiso e I ponti di Madison Country. Questi sostegni di tipo culturale sono pensati per ravvivare in qualche modo l’esperienza, individualmente insignificante. Questi referenti sembrano essere l’unica cosa che accomuna l’uomo, gli specchi in cui ci riconosciamo a causa di una saturazione dell’inconscio. La poesia, credo, è un cammino per espurgare quelle risonanze e vivere con maggior leggerezza e minori ossessioni. In merito alla tua seconda domanda, ora sto ultimando Hotel Sitges, un insieme di poesie molto più metapoetiche che ho scritto quando ho vissuto in Catalogna e che saranno pubblicate a breve per i tipi di Buenos Aires Poetry.
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Lector
En lo que toca al amor todo está hecho de palabras, historias que deslumbran a lectores nocturnos con la inagotable fascinación de su apariencia En lo que hay de real nuestros cuerpos que nunca se comunican convierten esta danza erótica en algo que indeciblemente no es Estos cuerpos acuosos que se liquidan en la cama como una vertiente que llorara volviendo a su soledad natural La devoción por dicho estado de las cosas puede habernos hecho sufrir una historia de amor en lengua muerta un simulacro hecho de nada en el que tú eras la indiferente protagonista y yo el estúpido lector empedernido._
Lettore
In quanto all’amore tutto è fatto di parole, storie che abbagliano i lettori notturni con l’inesauribile incanto della sua apparenza. In quanto a ciò che è reale i nostri corpi che non comunicano mai fanno diventare questa danza erotica qualcosa che indicibilmente non è. Questi corpi acquosi che si liquidano nel letto come un versante che piove tornando alla loro solitudine naturale. La devozione per questo stato delle cose può averci fatto subire una storia d’amore in una lingua morta un simulacro fatto di nulla nel quale tu eri l’indifferente protagonista e io il tonto lettore incallito.
Rodrigo Arriagada-Zubieta
(il servizio è di Davide Brullo, la traduzione italiana di Mercedes Ariza)
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pangeanews · 7 years ago
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Vogliamo una poesia sulle prime pagine dei giornali
Mi scrivo con una giornalista che ora è a Ushuaia. A leggere l’Enciclopedia Britannica Ushuaia, masso perduto nella Terra del Fuoco, è la città più a Sud del mondo. Di fronte c’è un’isola che pare il bastione di Mordor. Oltre c’è un pezzo di oceano. Poi c’è l’Antartide, quella bianca previsione d’innocenza. Il primo ad abitare a Ushuaia, verso la fine dell’Ottocento, fu un missionario inglese. Cosa abbia visto lui è roba degna di un romanzo di Joseph Conrad. Nel 1884 ci mettono piede gli argentini. Che si dividono quel pezzo gelido di terra con i cileni. La giornalista si chiama Maria Soledad ed è di Buenos Aires. Le ho chiesto di scrivermi un reportage da Ushuaia. Ora è imbarcata su una nave della marina argentina. Mi ha inviato delle foto che ispirano al nitore, alla pulizia, che benedicono l’assenza. Acqua, pietra, cielo. Non c’è altro. In una mail la giornalista mi scrive. “Si può vivere senza politica, non si può vivere senza poesia”. Da questo lato del mondo, leggo Rainer Maria Rilke a un gruppo di studenti. Gli studenti capiscono poco. Capiscono che non importa capire. Trasecolano dallo stupore. Sono – letteralmente – trafitti. “Un dio può. Ma come, dimmi, come può/ un uomo seguirlo con la sua lira inadeguata?/ Il suo senso è la scissione”. Canto terzo dei Sonetti a Orfeo, venuti a Rilke nei primi mesi del 1922, in un momento di definitiva estasi. Gli studenti non capiscono ma capiscono una cosa fondamentale. Che è bello abitare quelle parole. Che quelle parole sono superiori a tutto ciò che hanno udito prima d’ora. Che sono altro dal solito, che quelle parole, finalmente, ti portano altrove. Tanto basta. La parola poetica ha il dono di sistemare le cose. Immediatamente, al suo cospetto, le cose necessarie risaltano, le altre restano sullo sfondo, sfuocate, sfondate. L’Italia, che ha fondato la poesia europea con Petrarca e che ha dato vita al poema più folgorante dell’umanità, grazie a Dante, snobba i suoi poeti. Li relega nell’indifferenza. Il poeta è uno sfigato, inutile alle sorti progressive del Paese. Alla peggio, la poesia va bene come attività ricreativa per sfogare le frustrazioni quotidiane di almeno metà dei cittadini. I poeti non scrivono sulle prime pagine dei quotidiani; le loro poesie non ci abbagliano nel tiggì della sera. Come mai? I poeti non sono nelle trasmissioni di prima serata. Perché? Perché la parola poetica crea sobbalzi, induce alla rivolta. La parola poetica, per sua natura, rompe le norme della grammatica, fugge dal carcere del vocabolario, ci precipita al di là delle convenzioni, degli slogan soporiferi, delle polemiche pestilenziali, del quieto vivere. La parola poetica ci deterge di enigmi, ci tartassa, non ci dà pace, ci costringe alla ribellione. Ustiona. Per questo non la vuole nessuno. Pensate se al posto del solito editoriale del solito strapagato trombone sulle colonne del Corriere della Sera ci fosse una poesia. La poesia di un autore vivente sul ‘tema del giorno’. Il poeta, se è un vero poeta, con la micidiale capacità di sintesi che ha, con la sua brama di assoluto – il poeta è un cecchino delle emozioni, mira subito al cuore delle cose – ci farebbe storcere lo sguardo, ci bloccherebbe a mezza gola il caffè, manderebbe all’aria il poltronificio dei giornalisti di mezza Italia, sbalordirebbe i piani della politica italidiota. Tutti gli occhi sarebbero per lui. Il poeta. Lo scemo, l’idiota, l’inutile, il poveraccio, quello che non sa nemmeno dirti da dove gli vengano le parole. Nel mondo anglofono esiste il ‘Poet Laureate’, il poeta ‘laureato’. Da noi i poeti non entrano nemmeno nelle università. Dare una carica ‘sociale’ al poeta non significa renderlo un arlecchino del potere. Al contrario, è il residuo di un pensiero sano. Il ‘potere’ sa che solo la parola del poeta può vincerlo. Perché è una parola che parla ai morti e si proietta verso chi nascerà tra diecimila anni: è una parola che viene dai remoti per essere incisa ai futuri. Per questo il potere, quando si installa, si preoccupa di sterminare i poeti. In Italia i poeti, silenti per natura, sotto i ponti, nei sottoscala, umili come il muschio luminosi come il cristallo, ci sono. Sono rari. Ma ci sono. Vogliamo i poeti in prima pagina. Vogliamo una poesia ad aprire il telegiornale della sera. Tutte le cose, così, senza alcuna spiegazione, occuperanno il posto a loro assegnato.
  Davide Brullo
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