#Carlo Bernari
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abatelunare · 3 months ago
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- Quando si è legati ad un carretto, bisogna trascinarlo per forza dove vuole il padrone. (Carlo Bernari, L'ombra del suicidio).
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Le quattro giornate di Napoli (1962, Nanni Loy)
15/05/2024
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bagnabraghe · 1 year ago
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La connotazione obliqua del realismo di "Tre operai" viene rilevata fin da subito da parte di critici e recensori
Come indicato da Borgese a partire dai primi anni Venti (“Tempo di edificare” è del ’23) l’obiettivo primario della nuova generazione di narratrici e narratori è quello di seguire l’esempio europeo e costruire, dando priorità al contenuto di realtà (da cui il cosiddetto contenutismo), un modo letterario inedito. Come si è notato, però, la scrittura restituisce a chi scrive una realtà…
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adrianomaini · 1 year ago
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La connotazione obliqua del realismo di "Tre operai" viene rilevata fin da subito da parte di critici e recensori
Come indicato da Borgese a partire dai primi anni Venti (“Tempo di edificare” è del ’23) l’obiettivo primario della nuova generazione di narratrici e narratori è quello di seguire l’esempio europeo e costruire, dando priorità al contenuto di realtà (da cui il cosiddetto contenutismo), un modo letterario inedito. Come si è notato, però, la scrittura restituisce a chi scrive una realtà…
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Nasce Festival di Letteratura Working Class
(di Paolo Petroni) (ANSA) – ROMA, 29 MAR – Nei periodi di crisi profonda, economica certamente, ma in genere anche politica e ideologica, nasce la necessità di affrontare più direttamente la realtà, per conoscerla, indagarla, trovarvi spunti per riflettere, cercare risposte per agire. E’ successo tra la fine degli anni ’30 del Novecento, quando esce ‘Tre operai’ di Carlo Bernari, e il dopoguerra…
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gregor-samsung · 5 years ago
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È sera e c'è in giro gran fermento per la dichiarazione di guerra. Gruppi di operai e di contadini girano la città scalmanati, gridando, non si sa bene che cosa. Abbasso la guerra, viva la guerra! Ed è lui che ha fatto dire quelle parole! È lui che le ha "inventate". Le strade sono sporche di sterco e di manifestini. I suoi manifestini: indosso ha ancora cinquanta foglietti di propaganda contro la guerra e due rivoltelle. Due rivoltelle, due, pensa. Il successo della sua propaganda lo ha intontito al punto da fargli commettere l'imprudenza di fermarsi agli angoli delle strade, nei crocevia, ove gli agenti inseguono e disperdono i dimostranti. Tutti i negozi hanno chiuso le saracinesche e le strade hanno acquistato un aspetto desolato. Teodoro è sicuro della sua propaganda, eppure non sa esattamente perché essi non debbano volere la guerra... E con le mani nervose assaggia l'impugnatura delle due rivoltelle, due, nelle tasche dei pantaloni. Ne estrarrebbe una e tirerebbe un colpo: i dimostranti guardano lui e gli si accodano; ed egli dispensa i manifestini che ha un po' per tutte le tasche. Un agente gli è alle spalle; un altro davanti a sandwich: hanno indovinato il suo pensiero o lo conoscono già per un "rivoltoso"? Teodoro ha il batticuore: hanno intuito quello che pensava? Per semplice misura prudenziale i due agenti lo conducono al Commissariato. Gli sequestrano le due rivoltelle ed i manifestini. Il Commissario non c'è e lo mettono in camera di sicurezza, addio. Vi rimane tre giorni, finché non giungono le sue carte da Napoli. Dopo un breve interrogatorio lo hanno spedito con un carrozzone alla Questura centrale, ove gli hanno preparato il foglio di via per il fronte, cosi impara. Imparerà a sparare e ad obbedire.
Carlo Bernari, Tre operai, A, Mondadori, 1966; pp. 92-93.
Nota: in esergo la dedica “A Cesare Zavattini / che di questo libro fu il primo editore nell’oscuro 1934”
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mayolfederico · 4 years ago
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tredici ottobre
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Terry Frost, Moonship, 1972
  Dio dai agli uomini
Dio dai all’uomo giallo una brezza tranquilla per il tempo della fioritura. Concedi ai suoi occhi ansiosi e socchiusi di occupare ogni terra e il sogno per ciò che verrà.
Dai agli uomini con gli occhi azzurri sedie girevoli per volteggiare sugli alti edifici. Consenti loro molte navi in mare, e sulla terra, soldati e poliziotti.
Per…
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vaginosibatterica · 3 years ago
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Faccio il punto.
Dall'inizio dell'anno sono entrate nella mia libreria: la graphic novel Sniff, Medea di Christa Wolf, Il diario intimo di Sally Mara, Sorvegliato dai fantasmi, Chilografia, Nascita e morte della massaia, Ragazzi Selvaggi, I Demoni, Notti al circo (9). Di questi ho comprato usati sei tomi.
Mi sono stati regalati Zoo o lettere non d'amore, I fratelli Karamazov, L'educazione sentimentale, Don Chisciotte, MacBeth, una raccolta di racconti di Kipling, un libro di Stephen King. Poi (da Luca) La foresta nella notte, Auto da fé, un saggio su Vittorini, un saggio d'arte, la raccolta dei romanzi di Luigi di Ruscio.
Ho scambiato Siddharta, Ubik, una raccolta di racconti di Margaret Atwood, Il buio oltre la siepe, due libri di Dacia Maraini, Felicità e altri racconti della Mansfield, l'autobiografia di Caparezza, (...) e L'Isola di Arturo per avere: un romanzo russo, Il vecchio che leggeva romanzi d'amore, un giallo di Carlo Bernari, Cent'anni di solitudine, Le metamorfosi di Apuleio, un saggio sul suicidio, I detective selvaggi di Bolano, Amori Difficili.
Tra i libri già letti vorrei moltissimo: Fame di Hamsun Knut, Racconti sentimentali e satirici di Zoschenko, Jakob von Gunten, la nuova traduzione della saga del Signore degli anelli, Midori ragazza delle camelie, Il soccombente, forse L'ultimo degli Eltysev.
Vorrei anche Superwoobinda, Sogno Proibito di Alba de Cespedes, Sputiamo su Hegel e Risveglio di Primavera di Wedekind, che però dovrei cercare tra l'usato perché non più stampati.
I libri che vorrei che non ho ancora letto sono: un manuale sulla flora dei boschi delle Murge, "Dadaglobe Reconstructed" (e sarebbe proprio il momento perché in tedesco adesso costa solo venti euro - che io non parli tedesco è un dettaglio a margine), Cevengur di Platonov, Le Metamorfosi di Ovidio, Anestesia Locale di Gunter Grass (non disponibile) e un atlante sulle stelle non disponibile anche questo.
Mi sono accorta (gosh) di aver perso: La società della stanchezza, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (Einaudi).
Luca ha Picasso di Gertrude Stein.
Ho rubato: Tamburo di Latta.
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iltrombadore · 2 years ago
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FASCISMO, ANTIFASCISMO E COMUNISTI "TOGLIATTIANI" . UNA POLEMICA DEL 2005 CHE E’ SEMPRE ATTUALE
“Non è un delitto per nessuno essere stati fascisti a vent’ anni ed è tutt’ altro che una colpa avere scritto sulla rivista “Primato” di Giuseppe Bottai negli anni della guerra. Rasenta invece l’infamia chi oggi insinua il sospetto di razzismo antisemita su coloro che come Mario Alicata , Antonello Trombadori ,Renato Guttuso e Carlo Muscetta collaborarono a Primato e poi combatterono anche con le armi la guerra clandestina antitedesca a fianco di partigiani ebrei comunisti e antifascisti”.
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Così dice Duccio Trombadori , critico d’arte e figlio di Antonello , che fu dirigente del PCI e protagonista della Resistenza romana , indignato dalla “sottile campagna diffamatoria in corso da qualche anno” e culminata a suo dire nel recente libro “I Redenti” a firma di Mirella Serri , che ricostruisce la biografia di tanti intellettuali presenti prima nella rivista diretta dal gerarca fascista Giuseppe Bottai dal 1940 al 1943 , e poi protagonisti della vita culturale e politica nella Italia del dopoguerra da compagni di strada e da intellettuali militanti nel PCI di Togliatti.”Il libro della Serri -dice Trombadori- si basa su una premessa falsa e tendenziosa : che la rivista Primato fosse una ‘corazzata’ della campagna antisemita inaugurata con le leggi antiebraiche del 1938. Bottai porta la responsabilità incancellabile di avere firmato e sostenuto quelle leggi . Ma la storia dice che poi egli cambiò del tutto atteggiamento fino al colpo di stato del 25 Luglio che lo vide infamato successivamente come “traditore” e braccato da tedeschi e fascisti .
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Sulle pagine di Primato firmarono illustri personalità di origine ebraica , da Arrigo Benedetti a Carlo Bernari e Gianfranco Contini,per fare qualche nome : chi parla di antisemitismo non sa quel che dice o vuole imbrogliare le carte per macchiare la memoria degli uomini che hanno dato lustro alla cultura e alla politica di sinistra nella Italia repubblicana” . Ma la polemica di Duccio Trombadori si dirige anche contro la “compiacenza informativa” destinata al libro della Serri quasi fino al punto doloroso per lui di toccare “il ferreo rapporto di affinità e amicizia” con il direttore de “Il Foglio” , Giuliano Ferrara, perché durante la sua trasmissione “Otto e mezzo” sul canale televisivo “La 7” di Lunedì scorso non avrebbe praticamente mosso obiezioni al libro di Mirella Serri invitando l’autrice assieme a Bruno Vespa senza “ interlocutori capaci di smentire fandonie argutamente somministrate” . Così Trombadori ha inviato una lettera personale a Ferrara manifestandogli il suo disappunto : “Ho detto a Giuliano quello che penso . Non si può dare spazio alla insinuazione ripetuta . Già su “Il Foglio” - grazie a Giuliano - due anni fa avevo rimbeccato Paolo Mieli che lumeggiava presunte “responsabilità” di Alicata , Muscetta , Trombadori e Guttuso. Qualche settimana fa “Il Giornale” aveva opportunamente ospitato una mia netta stroncatura del libro di Mirella Serri .Perché Giuliano non se ne è accorto? Di fronte a certe manovre che annegano nella miseria del pettegolezzo ,alla fine chi tace acconsente ”.
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Nella lettera , Trombadori ricorda il legame che fin dagli anni dei Littoriali univa Alicata, Muscetta e Trombadori a Bruno Zevi ( “illustre ebreo campione del liberal - socialismo : perché Mirella Serri non ne chiede conto a Tullia sua moglie , tanto per avere testimonianze dirette ?” ) nonché la stretta amicizia e fratellanza di idee e sentimenti tra Giame Pintor - altro personaggio “incriminato” - e Misha Kamenetzky , alias Ugo Stille , finito poi negli USA per sfuggire alle leggi razziali . “ Ho ricordato inoltre -sostiene ancora Duccio Trombadori- i numerosi compagni ebrei arrestati con mio padre Antonello nel 1941 per avere manifestato contro la guerra all’università , nonché i compagni comunisti partigiani ebrei come Mario Fiorentini e Giorgio Formiggini che formarono dopo l’8 Settembre l’ossatura dei Gap romani . Che dire? Speravo che durante la trasmissione di Lunedì 14 Novembre ,con la Mirella Serri invitata accanto al conduttore neo-storico Bruno Vespa, ci sarebbe stato quanto meno un correttivo. E invece i due si sono misurati e spinti in esplicite illazioni “di razzismo e antisemitismo” riguardo ai collaboratori di Primato poi passati tra i dirigenti e intellettuali del PCI. Non hanno fatto nomi, guardacaso . Ma la vergogna e la falsità resta. E per questo la disinvoltura di Giuliano mi ha colpito e addolorato” .Appena avuta conoscenza della lettera di Trombadori Giuliano Ferrara ha però fatto subito pervenire all’amico una precisazione nella quale egli si dichiara più che dispiaciuto per avere improvvisamente ferito una “amicizia fraterna per me non incrinabile” ma che comunque da parte di Trombadori vi è stata una interpretazione “falsata da un momento di autentica emozione” . Nella lettera inviata a Trombadori Ferrara ha poi aggiunto quanto segue : ”Io il libro della Serri non l’ho letto. Non ho letto nemmeno la recensione che ne ha fatto il mio giornale . Se hai voglia di distruggerlo con gli stessi toni della intemerata che facesti a Paolo Mieli ,sono a disposizione. La mia generica posizione in argomento la conosci, ed è questa. I revisionisti defeliciani dicono che le compromissioni e le contiguità degli intellettuali italiani con il fascismo ,sulle quali è caduto per la abilità egemonica di Togliatti un sipario di ferro, dimostrano che la Repubblica è nata bacata . Ho sempre sostenuto , al contrario ,che quelle compromissioni dimostrano che “il fascismo non era poi così male” , non era cioè quel male che è stato rappresentato da certa retorica estranea primaditutto ai nostri genitori ,e a Togliatti stesso , buon analista del regime reazionario di massa e autorizzatore dell’appello ai fratelli in camicia nera e teorico del malinteso tra le generazioni nel dopoguerra . Il fascismo fu anche un orizzonte intrascendibile di cultura e di sensibilità ideologica compreso nel canone degli anni Trenta , al quale si sottrassero per motivi generazionali i dodici che non prestarono giuramento e poco più di quel numero . Può esserci una sfumatura di differenza da quello che tu pensi,ma è una sfumatura dentro una comune impostazione storicistica e non moralistica ,che condividiamo da sempre. Ti abbraccio,Giuliano”.
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giancarlonicoli · 4 years ago
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11 set 2020 11:07
FRANCO MARIA RICCI FOREVER – VITTORIO SGARBI: “NON DOVEVA MORIRE. ERA UN PEZZO, E FORSE IL PIÙ IMPORTANTE, DELLA MIA VITA DI SCRITTORE D'ARTE, ED ERA STATO RAGAZZO CON ME. GIOCANDO CON ME, E PIÙ DI ME, ALLA PROVOCAZIONE DELLA BELLEZZA” - LANGONE: “MI VIENE DA PIANGERE PERCHÉ ERA IL PIÙ GRANDE, IL PIÙ GRANDE PARMIGIANO VIVENTE, IL PIÙ GRANDE GRAFICO EDITORIALE (FMR FU DAVVERO LA PIÙ BELLA RIVISTA DEL MONDO), IL PIÙ GRANDE BODONIANO DEL PIANETA, IL PIÙ GRANDE COSTRUTTORE DI LABIRINTI, IL PIÙ GRANDE...”
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1 – Aveva fede nel Bello E nel bello trovò la Fede
Camillo Langone per “il Giornale”
Mi viene da piangere perché era il più grande, era il più grande parmigiano vivente, era il più grande grafico editoriale (FMR fu davvero la più bella rivista del mondo, i suoi cataloghi sono davvero, e tuttora, il massimo a cui un'artista possa aspirare), era il più grande bodoniano del pianeta, era il più grande costruttore di labirinti, era il più grande committente di architettura...
Sì, sono ipersensibile alla grandezza, sono un elitista, la morte è sempre una tragedia ma ben di rado produce una perdita di tali dimensioni. Ricci era un aristocratico in ogni senso, in senso stretto perché marchese e in senso lato perché di gusti sublimi. Se lo conoscevi diventavi monarchico, non ci potevi più credere alla democrazia, alla tirannia della quantità.
Tutto ciò che toccava diventava bello, non ho mai conosciuto qualcuno dal gusto più sicuro del suo e può sperimentarlo chiunque, minimamente sensibile, entri nel museo del Labirinto di Fontanellato. Un uomo del genere, nato e cresciuto nell'alta società di Parma quando la petite capitale ancora insegnava eleganze all'Italia, avrebbe potuto facilmente essere odioso, sprezzante, e invece era una persona dolcissima, lo ricordo quando venne qui sotto casa a portarmi il suo ultimo libro, una creatura cartacea perfetta a cui come sempre teneva tantissimo, e lo ricordo una delle ultime volte che lo vidi quando lo fotografai per la mia collezione di ritratti di maestri e lui, sommo esteta, fu subito disponibile a farsi trafiggere col telefonino da un fotografo evidentemente inetto come me...
Lo ricordo quando lo intervistai per il Giornale sull'argomento della fede, mi raccontò di quando da ragazzo andava in pellegrinaggio a piedi al santuario di Fontanellato e di come si rammaricasse di doverci tornare, ormai vecchio, in macchina, forzato dall'età e dai mutati costumi.
«I gesuiti mi hanno insegnato come si sta al mondo. Poi ognuno fa quello che vuole ma conoscere il bene e il male e saperli distinguere è alla base di tutto». Per i Greci il bene e il bello erano suppergiù la stessa cosa, Ricci era un antico greco redivivo e il bello oltre a distinguerlo perfettamente lo seppe diffondere e oltre a diffonderlo, col Labirinto di Fontanellato, lo seppe eternare.
2 – Addio al dandy ed editore nel labirinto dell'arte
Vittorio Sgarbi per “il Giornale”
Non avrei mai voluto scrivere questo articolo perché ci sono morti che appartengono a tutti, e muoiono talvolta nel momento sbagliato; ma te ne fai una ragione. Sono i morti pubblici, le persone note, gli scrittori, gli artisti. In molti casi la morte si manifesta di sorpresa, anche se la malattia l'annuncia, ma, pure in queste circostanze, Franco Maria Ricci non doveva morire.
Era un pezzo, e forse il più importante, della mia vita di scrittore d'arte, ed era stato ragazzo con me. Giocando con me, e più di me, alla provocazione della bellezza. Se dovessi indicare le persone che hanno (...) (...) rappresentato epoche della mia vita, lui è forse la più importante. Il primo fu mio zio Bruno Cavallini; il secondo Francesco Arcangeli, il mio professore all'università di Bologna; il terzo, parmigiano come Ricci, Mario Lanfranchi, sublime collezionista; il quarto Franco Maria Ricci; il quinto, per ragioni più umane che politiche, Silvio Berlusconi.
Probabilmente nell'Olimpo di Franco Maria Ricci la figura dominante è quella Jorge Luis Borges. E io devo a Ricci anche gli incontri con Borges, certo memorabili, a New York, a Parma, a Milano, a Palermo; con Calvino; con Manganelli; con Carlo Bernari; con Patrick Mauries; con André Chastel; con Francis Haskell; con Umberto Eco: un mondo di persone straordinarie che orbitavano intorno alla sua casa editrice nata intorno al 1965 per ristampare il Manuale tipografico bodoniano, e alla rivista FMR, fondata nel 1982, con il mio stabile contributo, orgoglioso e appassionato, per i primi 36 numeri che vogliono dire quattro anni di vita, di frequentazione quasi quotidiana.
Si andava allora alla casa editrice, in via Cino del Duca, a Milano, e nella meravigliosa casa di gusto prevalentemente déco, ma piena di oggetti e di libri distribuiti su quattro piani in via Giason del Majno. Quante notti, quante albe, quanti amori! Accolto come un fratello minore, non posso dire un figlio perché le nostre menti erano contemporanee, da lui e da Laura Casalis, la donna che è stata più di una moglie o di una compagna, ma una costola di lui. Le persone che sono state per me le più familiari, dopo i miei genitori.
Ricci amava lo strano, il bizzarro, l'eccentrico, senza contrapporlo al classico e al tradizionale. Non avrebbe voluto essere altro che parmigiano. Bodoni era il padre di Franco Maria Ricci, si sono conosciuti e frequentati, scavalcando i secoli, e Ricci conosceva Bodoni meglio di Bodoni stesso, non era un grande architetto e designer dell'editoria di un'altra epoca, vivevano nello stesso tempo, e stamparne il manuale era sovrapporsi a Bodoni, coincidere con lui, continuare la sua impresa, tutta per altro presente nella più compiuta raccolta di edizioni bodoniane, con pubblicazioni talvolta non registrate neppure nella Biblioteca palatina.
Mentre ristampava il manuale, Ricci, grafico insuperabile (ricordiamo per Bompiani la collana «Pesanervi»), Ricci si comprava una Jaguar E, la macchina di Diabolik, che era parte della sua iconosfera dandy. E il dandismo, in lui, non era una debolezza, era una forza. E si manifestava anche nel gusto che lo ha reso il primo editore d'arte del nostro tempo e il fondatore della «rivista più bella del mondo».
Nella mente di Ricci, a fianco di Bodoni, c'erano Diderot e D'Alembert, gli enciclopedisti, così come enciclopedica era la sua curiosità e francese (essendo egli di Parma, figlio di Maria Luisa) il suo gusto. Essere nato nella città più elegante di Italia gli imponeva obblighi, cui ha sempre corrisposto. Ricci creava prototipi, edizioni numerate, riproduzioni impeccabili. Ha formato una generazione di fotografi, inviati a riprodurre opere, per renderle, nell'obiettivo finale, più belle del vero.
Memorabili e irripetibili le sue impaginazioni, e le sue attività di grafico. Negli anni della nostra collaborazione totale creò anche, e diede metodo, a un altro giovane astro, a fianco degli scrittori e commentatori, chiamati non a fare i critici d'arte, ma a raccontare le loro emozioni davanti alle opere d'arte: Massimo Listri.
Anche una fotografia è interpretazione, ma, nel caso di Ricci, nella piena fedeltà all'originale. Agiva in lui la suggestione del Pierre Menard autore del Chisciotte di Borges; e la sua curiosità, insieme alla sua voracità, gli consentivano di trarre vantaggio anche dai nostri capricci, che egli non intendeva contenere o lusingare. Dicevo: non voleva migliorarti. Amava le diversità e sopportava bene anche la malinconia dell'abbandono.
Una sola volta non ascoltai la sua preghiera di restare a lavorare per la rivista, in un'altra notte febbrile; e io partii per Roma per una ragione apparentemente futile. Fu in quel viaggio che trovai il San Domenico di Nicolò dell'Arca, l'opera più importante della mia collezione, che tra qualche settimana sarà esposta al Louvre. In questo episodio c'è la potenza della contraddizione e anche il gesto di sfida che, in diverso modo, ci caratterizzava. Mi feci perdonare lo smacco: amavamo, come nessuno più di noi, la scultura.
Gli segnalai l'assoluto capolavoro di Adolfo Wildt, Vir temporis acti, l'opera più importante della sua collezione, come in un mausoleo fortunatamente allestita nel santuario laico illuministico, che egli realizzò vicino a Fontanellato, a Masone, intorno all'idea borghesiana del labirinto. L'opus magnum della sua vita. Libri, collezioni, chiostri, cappella: il luogo della perfezione, progettato con l'architetto Bontempi.
Missione compiuta, dopo tanti monumenti editoriali, dopo i segni dell'uomo, Ricci aveva compiuto la sua impresa: Exegi monumentum aere perennius. E poteva dirsi postumo di se stesso. Nondimeno, nei suoi occhi, baluginava una luce sempre nuova e, negli ultimi anni, pur impedito dalla malattia, dal suo stesso aldilà mi telefonava con una frequenza insolita, come negli anni della nostra giovinezza. Faticavo a comprenderne le parole, e andavo a trovarlo al Labirinto, metafora del suo pensiero insoddisfatto.
Non pensava alla morte, pensava alla vita, in una ideale eredità di affetti. Probabilmente nel mio smodato vitalismo, nel mio non metter mai la testa a posto, sentiva una vibrazione di vita, che poteva consentirgli di continuare. Riprendendo, per esempio, la pubblicazione di FMR, tristemente interrotta. L'unico work in progress che poteva concepire, per la natura stessa progrediente di numero in numero, di una rivista. Non voleva arenarsi in una palude e neppure compiacersi dell'opera compiuta.
Quella scintilla, che vedeva accesa in me, poteva accendere il grande fuoco della conoscenza che egli sentiva, foscolianamente, come «calore di fiamma lontana». Mi parlava, ci guardavamo, c'era ansia, non disperazione, nei suoi occhi, c'era desiderio di continuare ad ardere. «Poca Favilla gran fiamma seconda».
Temevo che non sarebbe arrivato a veder riaccendersi il fuoco, sentivo che me ne chiedeva con affetto e considerazione di prenderne il testimone, di farlo contro tutti e contro tutto, nelle difficoltà di poter riavere i diritti sulla «sua» testata. Preoccupazioni e prudenza trattenevano le persone a lui care, ma lui aveva un solo desiderio: buttarsi nel fuoco. È morto serenamente, salendo verso l'alto su una scala, come per avvicinarsi al Dio in cui credeva. È accaduto. Tocca a noi, ora, a Laura, a Edoardo, a me, per lui, e perché egli continui a vivere, ripartire. Riaccendere quel fuoco.
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abatelunare · 3 months ago
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- Debbo farlo aspettare? Oppure debbo dirgli di tornare? (Carlo Bernari, L'ombra del suicidio, Roma, Newton Compton, 1993).
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pangeanews · 5 years ago
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“Questo mostro misterioso che è il lettore…”. Gesualdo Bufalino, l’untore della letteratura italiana
A un certo punto quel libro che pare scritto sotto sotterfugio lunare, all’aureola di centinaia di candele – ragion per cui non può che essere ‘di culto’ – evolve in breviario estatico, in liturgia di ispirazioni argentate. “La morte: un esilio? un rimpatrio?”; “Com’è difficile, Dio”; “Qualunque cosa faccia, dovunque vada, un pensiero mi conforta: sono un uomo involontario, dunque sono un uomo innocente”; “Il mio cuore, come non mi somiglia più. Di un altro, ora: una persona tragica in cui non so riconoscermi, che ha usurpato i miei ricordi, alla cui invasione piangendo dico di no”. Fu lava e pestilenza, quello stile, aggiogato in un senza tempo, con l’arcangelo che ti chiude le narici fino a farti esplodere in coriandolo la pupilla.
*
Sbancò al Campiello quel libro, Diceria dell’untore, di manzoniana bellezza, il caos omaggiato in verbi, vincendo su una cinquina di esperti (Anna Banti, Tonino Guerra, Gian Piero Bona, Bino Sanminiatelli). Secondo l’agiografia di quell’esordiente a sessant’anni, riferita da Maria Corti nel tomo delle Opere Bompiani – d’altronde, una vita è faccenda di dicerie, fatture, fratture – Diceria s’abbozza nel 1950, termina nel 1971, viene pubblicata, dopo radiose reticenze, nel 1981. Secondo la diceria, quarant’anni fa Elvira Sellerio passa un libro fotografico, Comiso ieri, a Leonardo Sciascia: è meravigliata dall’introduzione, vergata con caravaggesco brio da Bufalino. Sciascia esplode: questo è uno scrittore speciale. Da lì comincia la lenta estorsione del romanzo e l’emersione del ‘personaggio’.
*
Poi, nel 1988, con Le menzogne della notte, capitò lo Strega, e capitolò il mito. Faccio il predatore di falene: in effetti quella edizione del premio non poteva andare ad altri (lampeggiava la modestia: Carlo Bernari, Giorgio Montefoschi, Giuliana Berlinguer, Brunello Vandano; Bufalino vinse con 159 preferenze, il secondo, la Berlinguer, si fermò a 58).
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Un monolite nero, una maceria stellare: per me quel libro primo, di origine letteraria dispari, è bellissimo, con frasi a lambire la conversione. “Poiché la seduzione del nulla era inutile, riluttando il cuore per tanti segni a farsene persuadere. E l’infelicità, col suo miele amaro, neppure essa mi serviva più”.
*
Dopo l’esordio, si scoprì scrittore di oltraggiosa bravura, dal talento fecondissimo: a quel punto, pubblicò quasi un libro all’anno. Più che L’amaro miele, la raccolta di poesie – notare l’analogia con il “suo miele amaro”: Bufalino non fa che dettare, liquefatta in diversi generi, un’opera sola – è adorabile Il malpensante, raccolta di petroglifi aforistici che dicono della natura – tra lince e certezza – di sguardo di Bufalino. Segno questo: “Signore, abbi pietà dei suicidi, risparmia loro l’immortalità”. E anche questo: “Buco nero, che metafora giusta per chi volle essere stella e non è più che un rimasuglio di luce, incapace di sortire e di propagarsi, sigillata per sempre a consumarsi di sé!”.
*
Tra le poesie, tramando questa, si chiama Svolta:
Venga l’autunno a dirci che siamo vivi, seduti sull’argine rosso a guardare l’acqua che se ne va. E tornino le pezze di turchino ai cancelli, i casti numi di gesso, le rose sdrucite, le vesti liete dei fidanzati, tutto rinnovi il tempo il suo mite apparecchio. Poiché, mentre l’aria rapisce nel suo sonno le foglie del sangue, e così piano mi tenta quest’esule sole la fronte, è bello qui fermarsi per dirti addio, mia giovinezza, mia giovinezza.
*
A Taormina ho avuto il dono di dialogare, per quel tratto, con Cettina Caliò, poetessa. Tra i doni che mi ha fatto, in modo ingiustificato, un testo di trent’anni fa, connesso a una manifestazione, “Le maniere dello scrivere”, curata da Sergio Claudio Perroni. Il testo, Cur? Cui? Quis? Quomodo? Quis?, esito di un “wordshow-seminario”, è di Gesualdo Bufalino. Lo scrittore, con arguzia, ragiona sulle ragioni della sua scrittura e dialoga con il pubblico. Da lì ho tratto questi brani. (d.b.)
***
La memoria. “Il tema della memoria è, come s’intende, legato strettamente alla morte. Noi ricordiamo per non morire, lo smemorato è un morto, non è più nessuno. D’altronde, la morte è, secondo la sentenza di Seneca, perpetua: ‘moriamo ogni giorno’, la morte non è un futuro che ci minaccia ma un presente che ad ogni attimo conquista una porzione più ampia di noi. Più questo presente si fa passato, più cresce la morte dentro di noi. La memoria è la debole medicina che si oppone alle soprechierie della morte, è una protesi che tenta di sostituire la vita”.
L’amore. “Nella mia opera l’amore è visto generalmente come una commedia d’inganni, non nel senso di una frode maligna, ma come cinema di larve, una specie di sogno ininterrotto e creativo che somiglia al sentimento dell’arte. Con la differenza che non riguarda gli eletti, i vocati ma l’universale, essendo capace di suscitare anche nel più rozzo una fantasia di simulacri e miraggi”.
La malattia. “Virginia Woolf diceva che la malattia è un tema raro nell’universo del romanzo. Non è vero e sarebbe facile provarlo. Anzi direi ch’è il tema centrale d’ogni narrare. Ora la malattia può essere uno strumento di conoscenza, una pratica mistica, una degradazione carnale, una vanità”.
Dio. “Il tema religioso è uno dei temi portanti del mio mondo espressivo. Più che di tema religioso converrebbe forse parlare di un rapporto agonistico con la parola Dio, e con l’eventuale presenza, se non con la certissima assenza”.
L’anomalo. “Mi considero uno scrittore anomalo, per cui il rapporto con la mia opera è un po’ diverso da quello genitore-figlio dello scrittore comune. Per un motivo molto semplice, che appartiene alla mia biografia: per il fatto che io, il mio primo romanzo, La diceria dell’untore, l’ho scritto intorno agli anni ’50, poi l’ho tenuto nel cassetto, l’ho pubblicato nel 1981. Quindi questa convivenza col mio ‘figliolo’ si è protratta per decenni. Non solo. Ma addirittura sarebbe durata fino alla mia morte, se non fossero intervenuti degli elementi puramente fortuiti. Perché io sono diventato scrittore pubblico, da scrittore privato, per una serie di circostanze quasi obbligate alle quali ho dovuto piegarmi”.
Fra parola e silenzio. “Per me non c’è mai una edizione definitiva, ne varietur, e io soffro questa ambivalenza fra parola e silenzio, questa oscillazione fra logorrea e omertà, questo negarmi e offrirmi insieme… Ebbene, le mie opere, prima di pubblicarle, le considero semplici prove, prime stesure, che mi vengono poi strappate dalle mani della vita, continuando a vivere come creature imperfette”.
Il pubblico. “Questo mostro misterioso che è il lettore, questo pubblico sterminato e senza volto per metà mi spaventava, per metà mi disgustava. Avevo la paura che stampando – per fortuna questa paura mi è passata, visto che ho stampato tanto – sarei stato come uno specchio che si spezza in mille pezzi e che in ognuno dei frammenti mi sarei riflesso moltiplicato e deformato. Ancora oggi ricevo delle lettere in cui un’ammirazione si sposa con una totale incomprensione. Per cui io non so che cosa scegliere: se essere lusingato, divertito o furibondo per l’equivoco enorme e la perdita d’identità. Evidentemente sotto gli occhi del mio corrispondente è capitato un frammento di specchio assolutamente infedele. E questo mi mortifica abbastanza”.
La tana. “La tana come rifugio significa innanzitutto il bisogno di esser soli, ma anche il bisogno di proteggersi dalle intemperie della vita, dalle intemperie della socialità, perché la socialità ha due aspetti. Un aspetto positivo, quando conforta la nostra angoscia di essere soli, uno negativo quando ci stringe in una maglia, in un intreccio di rapporti sociali che può essere ed è spessissimo conflittuale”.
L'articolo “Questo mostro misterioso che è il lettore…”. Gesualdo Bufalino, l’untore della letteratura italiana proviene da Pangea.
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indie-eye · 6 years ago
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CG Entertainment pubblica il DVD di un raro film di Florestano Vancini uscito nel 1974. Interpretato da una splendida Lisa Gastoni, "Amore Amaro" è tratto dal romanzo breve di Carlo Bernari e si inserisce in quel percorso Vanciniano che racconta lo scambio complesso tra esperienza individuale, intesa come interpretazione della realtà e il modo in cui questa diventa incarnazione stessa del vissuto. Nella fotografia di Dario di Palma, il senso del risveglio da un sogno mai stato. La recensione https://ift.tt/2xx7HYG
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gregor-samsung · 6 years ago
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Dopo quegli incontri, che si ripetevano ormai ogni settimana, la soluzione più logica per tutti e due era quella di unirsi. Ma per l'una e per l'altro quella vita assieme fu una delusione. Marco, che aveva sperato di riscontrare in lei i caratteri della femminilità, non trovò che una donna fredda e devota, che lo faceva disperare dal momento egli credeva di volerle veramente bene. O glie ne avrebbe voluto di più, se ella si fosse mostrata più arrendevole? O forse meno arrendevole ma più innamorata?... Non sapeva neppure lui che cosa avrebbe dovuto dargli Anna perché in lui sorgesse l'amore che non sentiva.
Carlo Bernari, Tre operai, A. Mondadori, 1966; p.146.
[N.B.: in esergo la dedica “A Cesare Zavattini / che di questo libro fu il primo editore nell’oscuro 1934”]
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gregor-samsung · 7 years ago
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Il rione Cattori era formato da un gruppetto di palazzine e due palazzi grandi, costruiti quasi sulla spiaggia che si stendeva tra Torre Annunziata e Castellammare. Il vecchio Cattori, proprietario della fonderia che sorgeva poco più lontano, cominciò a costruire questo rione per farlo abitare dai suoi operai. Il progetto comprendeva la costruzione di un ospedale, di una infermeria, di uno spaccio cooperativo, e di un albergo che doveva fornire alloggio a tutti quelli che non avevano famiglia. Ma la morte di Cattori mise fine al progetto. Gli eredi erano gente votata a tutt’altri pensieri che non quello di assicurare agiatezza agli uomini abbrutiti dal duro lavoro e dalla vita isolata, e finirono per fittare queste casette per la villeggiatura dei signori che venivano nei mesi estivi. La plaga stepposa e arida, chiusa fra Castellammare e Torre, divenne così una colonia di piccoli borghesi che nelle sere di luna e nelle domeniche lunghe si riunivano in grosse comitive a sorbire bibite ghiacciate, a organizzare gite in barca e in automobile. Gli operai, per i quali erano state costruite quelle case, passavano sull’imbrunire il più lontano possibile da quella gente quasi per non vedere la loro vita meravigliosa. La domenica anche gli operai andavano al bagno, ma si riunivano tra loro e se ne stavano in disparte in qualche angolo della spiaggia, che non aveva fine; dove gli uomini e le cose, per la vista larga, si perdevano in una nebbiolina lucente che il caldo sollevava dalla rena. Le voci dei villeggianti si facevano eco di tenda in tenda e giungevano fino ai diseredati cariche di vapori, di colori e d’intatta felicità, e sembravano provenire da una terra ignota, dove tutto squilla di piacere e ogni cosa brilla, anche la spiaggia che, da quella parte, invece, appariva più sporca e triste. Il mare batteva quasi sempre su quel lato portandovi sbavature di alghe e di catrame, che seccandosi attiravano mosche, zanzare, nugoli di moscerini.
Carlo Bernari, Tre operai, A, Mondadori, 1966; pp. 171-72.
N.B.: in esergo la dedica “A Cesare Zavattini / che di questo libro fu il primo editore nell’oscuro 1934”
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gregor-samsung · 8 years ago
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Quasi tutta la popolazione operaia indigena e quella nomade fu accolta nei due stabilimenti. Dai paesi vicini accorsero braccianti e mandriani in cerca di lavoro. Il pecoraio lasciò le greggi sui monti alla moglie e al figlio che sapeva appena balbettare alle bestie jú e se ne venne "in città" sicché sulla spiaggia si videro spuntare sempre nuove baracche, in una fila che sembrava non avere mai fine. La maestranza venuta da altre città ad iniziare i nuovi operai era generalmente guardata male. Faceva la figura di intrusa e di sanguisuga. Gli uomini non ancora addestrati al lavoro si meravigliavano di quella materia grigia e marrone, che estraevano dalla loro terra: non sapevano rendersi conto a cosa servisse quella roba, di cui in altri tempi non avevano sospettato neppure l'esistenza. Credevano di fare un lavoro inutile, e pensavano che quelle fabbriche dovessero fallire. Ma presto s'accorsero che quella materia grigia e marrone si trasformava in metalli in una delle due fabbriche, e in acidi e solfati nell'altra; e interi vagoni di questa materia grigia e marrone partivano ogni giorno, diretti chissà dove. Con gli anni e con l'estendersi della produzione, alla competenza di quegli uomini si aggiunse lo scontento. Ed essi si riunivano nelle sere d'estate, tra le baracche e il mare squallido, e parlavano della loro situazione, delle loro paghe.
Carlo Bernari, Tre operai, A, Mondadori, 1966; pp. 97-98.
N.B.: in esergo la dedica “A Cesare Zavattini / che di questo libro fu il primo editore nell’oscuro 1934”
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